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Mi chiamo Stefano Ciccone e faccio parte di un gruppo (e di una fragile rete nazionale) di uomini che tentano di riflettere sulla propria identità sessuata e sottoporre a critica modelli e culture del maschile.
Laura Colombo mi ha segnalato questo spazio di confronto e mi ha proposto di intervenire, cosa che faccio volentieri anche perché mi/ci farebbe piacere trovare canali di comunicazione anche con la vostra esperienza che è ovviamente uno dei punti di riferimento con cui ci interessa misurarci/interloquire/ configgere/ascoltare.
L’incontro promosso nell’ambito del Social Forum di Firenze proponeva nel titolo un’interlocuzione tra donne e uomini a partire dal reciproco riconoscimento di parzialità anziché solo dalla condivisione di obiettivi politici comuni. In effetti la discussione che c’è stata ha lasciato anche me un po’ perplesso e forse preoccupato.
Il tema posto era “donne e uomini un conflitto necessario per un futuro comune” ed intervenendo ho cercato di domandarmi come potevo collocarmi in questo “conflitto necessario”.
Se questo conflitto si gioca sulla differenza salariale o sugli spazi nella politica (come molti interventi hanno riproposto) ciò che possiamo fare come uomini impegnati politicamente su obiettivi di giustizia, equità e solidarietà, è appunto “solidarizzare” con giuste rivendicazioni di spazi e diritti delle donne come di altri “soggetti deboli” o discriminati. E’ una prospettiva per me ormai sterile e che non corrisponde più al mondo che conosco, ai miei desideri, alle relazioni con le donne che ho costruito. Non solo perché sento come riduttiva la rappresentazione delle donne come “soggetto debole” a favore del quale rivendicare un riequilibrio ma perché mi propone un terreno “troppo facile” che mi chiede (e mi offre) solo una disponibilità a “cedere” spazi e rinunciare a privilegi.
Non si tratta, ovviamente di non riconoscere le disparità che ancora segnano l’organizzazione sociale, l’accesso al potere, ai saperi, alla cittadinanza ma di andare oltre. Criticando alla radice le forme del potere, dei saperi, della cittadinanza.
Il “conflitto necessario” tra donne e uomini è per me non occasione di rinuncia volontaristica a quelli che sono stati definiti i dividendi del patriarcato e di cui ho certamente goduto nella mia esperienza, ma occasione per una ricerca di libertà e di una diversa ricchezza della mia vita che proprio l’accesso a quei dividendi sento aver impoverito come un’eredità in parte inservibile in parte avvelenata.
Ho partecipato a quell’incontro perché non era scontato proporre quel tema in un movimento in cui, a fronte di molte dichiarazioni di radicalità e disobbedienza, si ripropongono forme e linguaggi subalterni ad una cultura segnata da un immaginario virile e bellicista. Abbiamo già tentato di aprire un dibattito e un conflitto nel movimento dei movimenti dalla manifestazione di Genova in poi partendo dall’immagine della specularità degli schieramenti, dei linguaggi, (degli scudi) che in piazza riproducevano emblematicamente un deficit di alterità. Ma credo sia importante riprendere anche qui questa riflessione. Se è vero infatti che un ordine si è rotto e che appare inservibile per conferire senso alla mia vita e a quella di tanti uomini, è anche vero che questo stesso universo simbolico patriarcale oggi dimostra una sua grande vitalità (se volete regressiva), una rinascente capacità di seduzione sugli uomini di ogni latitudine geografica e culturale. Si insidia ovunque, anche nelle culture e nelle forme politiche che si vogliono antagoniste e radicali. Offre opportunità di identità e di senso di fronte alla crisi degli stati nazionali, le lotte di uscita dal colonialismo, la crisi della politica.
Ma, appunto, anche chi si pone come “anti-sistema” sembra subire la seduzione di modelli identitari non riducibili al maschile ma che la lettura critica della maschilità mi fa vedere in modo più chiaro, direi più stridente.
E forse in questo ha pesato una insufficiente capacità di comunicazione che emerse già in occasione di genova. Ci sembra significativo che proprio Luisa Muraro, dopo avere riaffermato la forza di una “politica prima” costruita nelle relazioni quotidiane, abbia scelto, a proposito di quanto avvenuto a Genova, di aggiungere queste parole: “Molto di quello che ho scritto qui, io e altre meglio di me, lo sapevamo da prima. Anche la mossa dell’avversario era prevedibile da prima, almeno da parte di chi ha una storia come la mia, che comincia negli anni Sessanta e si e’ sviluppata nei movimenti non organizzati. Ma non abbiamo parlato, non siamo intervenute. Saremmo state ascoltate? Non lo so, ma valeva la pena esporsi a questa prova e, forse, si doveva”.
Ho scelto, con altri, di pormi “lontano dai militari e da chi li imita” seguendo percorsi paralleli di critica della politica e delle sue forme, dei rischi di subalternità alle culture dominanti ed ai modelli gerarchia che anche movimenti antagonisti rischiano di riprodurre anziché di sovvertirne le regole. Ma il fatto per me nuovo è stato di farlo in quanto uomo, ed affermando la valenza politica di questa collocazione. Si tratta non di una scelta “moderata” ma al contrario che ricerca ed esprime al massimo la conflittualità, che non la riduce allo schieramento tra fronti ma nel legge le potenzialità nelle relazioni, nei linguaggi, nella quotidianità. Non un di meno ma un di più di critica dell’esistente.
Il nodo credo sia proprio in quel nesso tra radicalità e memoria che oggi il movimento dei movimenti ha davanti a sé. Negli interventi che si sono succeduti credo sia emersa una contraddizione: una domanda di radicalità che non trova parole per dirsi e non riesce a riconoscersi nelle parole prodotte dalle culture critiche, e al tempo stesso la diffidenza verso la politica delle donne vista come rischio di deriva intellettualistica o accademica che porta rifugiarsi in certezze (penso alle giovani ragazze inglesi e tedesche o del nord europa che reiteravano la loro collocazione radicale, antagonista, antiliberista, anticapitalistica) che fungano da antidoto a questa “fuoriuscita dal conflitto”. Il dibattito tra le italiane presenti è stato certamente quello più avanzato ma al tempo stesso poco capace di comunicare ad altre esperienze e, credo, troppo segnato dalla valutazione del passato e dalla collocazione rispetto ad esso.
I femminismi sono stati e sono anche un’esperienza diffusa, radicata e concreta di critica della politica. Oggi che la politica torna nelle piazze e torna ad acquisire una dimensione “di massa” mi pare abbia bisogno di questa radicalità.