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Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 9 febbraio 2020, La differenza sessuale alla prova del presente 


di Stefania Ferrando


Le parole “differenza sessuale” sono diventate impronunciabili nel contesto in cui lavoro da alcuni anni (l’università francese). Anche la parola “donne”, soprattutto se riferita a sé (per dire, ad esempio “sono una donna”, “siamo tra donne”) è usata con molte cautele e imbarazzi. Quando si impiegano queste parole, accade così di essere richiamate all’ordine e accusate di usare termini non scientifici, legati a lotte politiche sorpassate, ma anche parole violente o escludenti. Le volte in cui è capitato a me di essere richiamata all’ordine, il richiamo non è venuto dalla collega trans né dagli studenti che lottano perché l’università accetti il loro nuovo nome e non quello dei documenti ufficiali. Il richiamo all’ordine è invece venuto da alcuni uomini, intellettuali radicali, o da donne che ne hanno fatto uno strumento in strategie di potere e di carriera. E secondo me è l’esperienza di molte, nell’università.

Si impone così un linguaggio senza “differenza” e che di fatto rende sempre più difficile dare un senso libero e politicamente potente alla parola “donne”. Eppure quel che vedo nelle pratiche di ricerca e insegnamento, parla un altro linguaggio: l’università è un luogo in cui ci sono tante studentesse e ricercatrici che possono prendersi autorità e esercitare libertà. Alcuni giorni fa sono stata a un seminario organizzato da alcune colleghe antropologhe che, per studiare la mafia, hanno dovuto trasformare il modo di pensare il rapporto tra corpo e politica e anche di vivere il proprio corpo di ricercatrici (si chiedevano ad esempio come fare in modo che quel che si avverte, visceralmente, quando si vede un morto ammazzato per strada possa tradursi nel linguaggio dell’antropologia). Hanno introdotto pratiche di insegnamento e di ricerca innovative e si vedeva che tra loro circolava autorità e libertà, e quindi intelligenza e felicità, e che traevano forza da questa collaborazione. E si vedeva, io vedevo, che questa libertà, autorità e intelligenza aveva a che fare con il loro modo di essere donne, di far giocare liberamente la loro differenza in quel luogo, tra loro e con noi. E nelle loro parole qualcosa di tutto questo traspariva, ma è restato sui bordi del linguaggio. Non si riusciva proprio a dire che sono delle donne che pensano insieme con libertà e che, facendo leva su questa relazione, trasformano la loro disciplina.

È importante dirlo o basta fare quel che si fa?

Nelle pagine in cui riflette sull’eredità senza testamento, Hannah Arendt parla dei “tesori” delle rivoluzioni moderne: la libertà e la felicità, che si incontrano e si praticano nei momenti di grande intensità politica e trasformano le relazioni con gli altri e la soggettività di ciascuno. Aggiunge però che la storia politica moderna è la storia di tesori perduti: tesori che emergono, brillano e poi scompaiono. Dopo un po’ quella libertà e quella felicità non si sa più che cosa siano. E così Arendt conclude: se perdiamo questi tesori è perché non sappiamo dare loro un nome. Con il trasformarsi delle esperienze, rinunciamo ai nomi che ci consentono di dire quel che è prezioso per noi, di riconoscerlo, di indicarlo ad altri, di rilanciarlo. Oppure irrigidiamo questi nomi, ne facciamo un guscio vuoto perché distaccato dalla vita concreta e dalle sue avventure.

Il recente incontro di Via Dogana dedicato alla questione della differenza aveva come titolo: La differenza sessuale alla prova del presente. Ecco, per me è questa la prova del presente: la prova per la rivoluzione femminista è non perdere i nomi che ci consentono di dire l’esperienza e la libertà, le trasformazioni di sé e del mondo. Non cancellare, nel linguaggio della ricerca e della politica, le parole che dicono la libertà e le invenzioni di donne. Ne va proprio del tesoro di questa libertà, del suo brillare per sé e per il mondo.

Ma che cosa porta a cancellare queste parole, oggi? Prima ho scritto che si incontrano spesso dei richiami all’ordine, a un ordine di rapporti di potere che cancella la differenza per riprodurre se stesso. Ma se fosse solo questo sarebbe relativamente semplice. Insomma, si tratterebbe di un conflitto, magari duro, ma in cui si lotterebbe con chiarezza interiore.

C’è però qualcosa che accade anche in sé, una resistenza o una censura che si avverte nel proprio modo di parlare e pensare. Questa cancellazione della differenza che trasforma il linguaggio e il pensiero è il problema importante che ha posto Traudel Sattler nel suo intervento introduttivo, quando ha parlato della politologa Antje Schrupp, che in passato ha contribuito a far conoscere il pensiero della differenza in Germania, ma che ora ha pubblicato un libro in cui non parla più di “madri” ma di “persone gestanti”.

Per spiegare meglio che cosa è, secondo me, questa resistenza interiore al libero significare della differenza, racconto un episodio. Un’amica faceva parte di un collettivo di donne, studentesse per lo più, ecologiste e femministe, che in quel momento stavano progettando di partecipare a una grande manifestazione a sud di Berlino, per il blocco di una miniera. Una di loro propone uno slogan “Clitoridi per il clima”, che piace alle altre: dalla penetrazione della terra e del corpo delle donne alla potenza della libertà femminista. Ma una ragazza si rabbuia: lo slogan è violento per le donne trans, che non possono riconoscersi in questo messaggio – dice. Cala un silenzio imbarazzato e confuso e poi ne discutono. La mia amica è spaesata, qualcosa le sfugge: tra loro, nel gruppo, non c’è una donna trans e la ragazza che ha sollevato l’obiezione non parte da uno scambio o da una discussione con una donna trans. Quando esplicita le sue ragioni, dice che teme in generale degli attacchi esterni e di prendere la posizione dell’“oppressore”. La discussione fa perdere di slancio alla creatività del gruppo, e alla fine decidono di usare semplicemente il simbolo femminista queer. L’accaduto lascia strascichi e insoddisfazioni, che portano alcune ragazze del gruppo a cercare scambi altrove. Ed è così che le ho incontrate.

Di questo racconto, mi colpisce che la presa in conto dell’altra, la donna trans la cui obiezione è anticipata, sia in realtà un evitamento della relazione e del conflitto reali, in carne e ossa e in presenza, con le mediazioni politiche e simboliche che il conflitto non distruttivo rende possibili e anzi necessarie. Nelle parole e nel gesto di quella ragazza c’è una colpa della differenza, la differenza d’essere una donna libera, che si cancella cancellando tutte le altre. Ma perché lei e il gruppo di ragazze alla fine accettano la cancellazione delle loro parole con un simbolo tanto inclusivo quanto vuoto?

Se penso a situazioni simili in cui mi sono trovata direttamente, mi vengono in mente due osservazioni.

La prima è che la differenza sessuale non è una differenza rassicurante, che assegna a un gruppo compatto (donne /uomini; donne/donne trans) e fa tornare i conti con sé stesse. La differenza non è “tra” è “in”, come scrive Luisa Muraro.Attraversa ciascuna, impedisce di fare uno con sé stesse, di soddisfarsi di sé e delle cose che si posseggono, di funzionare come un ingranaggio ben oliato nel sistema sociale. È una sfasatura in sé stesse, che è tanto l’apertura da cui spuntano invenzioni, desideri e relazioni, quanto la crepa da cui risalgono angosce e ombre. Così, la colpa della differenza è anche la colpa rispetto all’imperativo sociale della prestazione, del bastarsi a se stessi, contenendo o cancellando quel che di inquietante o trasformativo può venire dall’altra e da sé, in modo da non perdere l’efficacia soggettiva richiesta nei rapporti sociali e nel lavoro.

Ecco la seconda osservazione: l’inclusione che anticipa l’altra e la sua obiezione mi fa pensare al “falso universale” di cui parla Irigaray per descrivere l’inclusione patriarcale delle donne nello stato liberale moderno. L’integrazione in un “comune” che è svuotato di senso perché non si costituisce attraverso il rapporto, né a partire dalle esperienze e desideri di chi vi è integrato. E quindi di fatto continua a far valere una parzialità, maschile, cioè delle mediazioni esistenti e subite dalle donne e non trasformate dal pensiero né dalle pratiche di chi si trova in relazione. Anche nell’episodio riferito nel racconto c’è una cancellazione dell’esperienza e delle mediazioni, per le donne che sono lì, ma anche per chi è anticipata nelle sue domande e obiezioni.

Quando Irigaray ne parla, l’integrazione delle donne si fa nell’universalismo liberale patriarcale, in uno stato che include rendendo tutte e tutti dei cittadini neutri e neutralizzati politicamente (è un tema che ritorna nelle sue opere, ma penso particolarmente a Sessi e genealogie).

Ma oggi? In quale falso universale ci si include, oggi, quando si cancella la differenza, includendo anche le altre? Chiara Zamboni parla giustamente di un “ritorno del tutto nuovo e imprevisto – post-patriarcale – al neutro” (nell’introduzione al libro da lei curato, La carta coperta, Moretti&Vitali 2019, p. 10). E, nel suo testo per Via Dogana, La differenza sessuale alla prova del presente, Chiara lo spiega a partire dal rapporto particolare che ha con il linguaggio chi sostiene il superamento del genere: il linguaggio, i nomi e le distinzioni sono pensati e vissuti come una gabbia, un’imposizione che opprime, sottrae libertà e nega la singolarità. Non si tratta quindi dell’inclusione nel modello maschile presentato come modello universale (il Cittadino, lo Scienziato…), ma dell’assorbimento di sé e degli altri in uno spazio simbolico che si vorrebbe il più possibile indifferenziato.

In questo nuovo ritorno al neutro, io vedo anche questo: è così difficile pensare di avere qualcosa in comune con le altre e con gli altri, che si immagina di trovare qualcosa di comune in questo punto estremo di negazione della differenza, nella cancellazione della storia che ci ha fatte e che siamo, delle parole che ci accompagnano e che ci segnano. Come se questa negazione fosse l’unica condizione per pensare un mondo comune, anche se vuoto.

Ed è qui che, secondo me, si gioca la scommessa del femminismo oggi.

Innanzitutto penso alla pratica del partire da sé, del non cedere sull’esperienza, per fare leva su ciò che non si riesce a dire né a essere se si sta nell’indifferenziato. Il che vuol dire anche non cedere sulle pratiche politiche di confronto e di conflitto con chi l’accetta, cioè con chi riconosce la propria parzialità senza richiudersi su di essa. È questo che rende possibile aprire uno spazio comune, reale.

Ma c’è anche un’altra sfida, per me: che le pratiche di libertà delle donne (come le nuove pratiche di ricerca delle colleghe antropologhe di cui parlavo all’inizio) non siano un’oasi nel deserto, come direbbe Arendt, ma che diano avvio a una trasformazione del mondo intero (dell’università e del sapere, in questo caso). È un bisogno profondo che avverto: sentire che le invenzioni delle donne non sono uno spazio isolato di cui godono alcune quando tutto il resto va in rovina, perché non c’è più modo di pensare insieme agli altri un mondo nuovo e migliore. È questa, per me, la scommessa: mostrare che il libero significare della differenza è la risorsa per pensare una vita collettiva più libera e più giusta, per rendere possibile un altro lavoro e un’altra politica per tutti. È così che io ritrovo il tesoro della rivoluzione femminista.


(www.libreriadelledonne.it, #VD3, 25 febbraio 2020)