Ebrei sordi alla tragedia
21 Novembre 2012
Stefano Sarfati Nahmad
Per capire quanto lontane e marce siano le origini della tragedia di Gaza che si rinnova in questi giorni, dopo quella terrificante del dicembre 2008-gennaio 2009, basti pensare allo slogan sionista più famoso, utilizzato dallo scrittore inglese ebreo Israel Zangwill in un articolo del 1901: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra».
Sulle motivazioni che hanno portato alla creazione dello stato ebraico in Palestina si può discutere finché si vuole, ma è difficile discutere sul fatto che una cosa nata male – nata su un’ingiustizia storica – stia andando avanti sempre peggio.
Nell’agosto del 2005 l’allora primo ministro Ariel Sharon aveva avuto l’idea di ritirarsi dalla Striscia di Gaza (si chiamava operazione Mano Fraterna) probabilmente con l’intento di renderla un luogo invivibile e spingere gli abitanti ad andarsene, per poi affrontare la Cisgiordania, con una strategia ad hoc: creazione di oltre 200 insediamenti, di un’imponente rete stradale per collegarli, l’edificazione del famoso muro, massiccio ricorso al carcere amministrativo, furto delle risorse idriche, in modo da rendere la vita impossibile ai palestinesi e ridurli in bantustans.
La mia impressione è che queste strategie non abbiano fatto i conti con la forza, la tenacia, l’attaccamento alla propria terra di questo eroico popolo che ancora resiste. Ma quel che oggi provo è un urlo di rabbia e di dolore, nel vedere i miei correligionari in Europa, negli stati Uniti, e in Israele, essere così ciecamente e sordamente indifferenti alla tragedia del popolo palestinese: una parte di esso scacciata dalla propria terra nel 1947, l’altra messa sotto occupazione nel 1967 e da allora vittima di costante oppressione col fine malcelato di scacciarli definitivamente. Tranne piccolissime eccezioni, gli ebrei continuano a essere come paralizzati dalla trappola dell’identità e dal ricatto del vittimismo; tranne sparuti gruppuscoli di pacifisti, gli israeliani sono favorevoli a bombardare la striscia di Gaza; tranne rare voci gli ebrei americani, quelli che davvero potrebbero influenzare la politica del potente alleato di Israele, sono indifferenti.
La nota di speranza è che oggi il mondo sembra un po’ cambiato, come Ali Rashid ha scritto domenica sul Manifesto, e le rivolte in Egitto e in altri paesi del Mediterraneo hanno mutato il quadro politico. Me lo auguro, oltre che per la giusta causa palestinese, perché la miglior garanzia del benessere degli ebrei è il benessere dei palestinesi.