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Due sopravvissute alla tragedia di Bhopal, messe per la prima volta a confronto col mondo fuori di casa, hanno imparato molto. E sono diventate due vere leader nazionali.
La marcia su New Delhi organizzata da Rashida e Champa Devi (750 chilometri a piedi) è stata ripetuta due volte dalle donne di Bhopal, tutte e due le volte con successo. E il lavoro comune delle due signore, una hindu e l’altra mussulmana, ha evitato gravi disordini nel periodo più drammatico degli scontri fra comunità religiose in India.
di Marina Forti


Per Rashida Bee, la notte in cui esplose lo stabilimento della Union Carbide segna uno spartiacque personale: «Prima, non ero mai uscita di casa». Viveva a Jaiprakash Nagar, una grande borgata operaia che sta proprio di fronte ai cancelli della fabbrica, e suo marito faceva il sarto. Quella notte però nello stabilimento qualcosa andò storto, i macchinari si surriscaldarono e una cisterna esplose, lasciando uscire 40 tonnellate di un gas letale: isocianato di metile con cianuro idrogeno, mono metil-ammine e altre sostanze, ma questo si seppe solo parecchi giorni più tardi. Quella notte tutti furono presi di sorpresa. Portata dal vento, la nuvola di gas investì in pieno proprio Jaiprakash Nagar e gli altri poverissimi quartieri che costeggiano la fabbrica a nord: mezzo milione di persone la respirarono. Fu uno dei peggiori incidenti industriali della storia umana, migliaia di persone morirono soffocate quella stessa notte: 1.600, disse il governo – forse 6.000, sostengono le organizzazioni che da allora si occupano delle vittime e dei sopravvissuti. Molti di più sono morti in modo lento nei mesi e anni seguenti, di tumore ai polmoni e di altre malattie: il bilancio sfiora ormai le 20mila vittime. Ormai il nome di Bhopal, capitale dello stato del Madhya Pradesh, India centrale, sta all’industria chimica come quello di Hiroshima sta all’olocausto atomico.

 

Rashida Bee è sopravvissuta a quella notte, sia pure con problemi respiratori e alla vista, ma la gas tragedy ha lasciato suo marito incapace di lavorare. «D’improvviso, non avevamo più un reddito. Tutti gli uomini della famiglia erano malati, nessuno guadagnava». Sei dei suoi parenti sono in seguito morti di tumori provocati dal gas. Dunque, a lei non è rimasta scelta: ha dovuto cercare qualcosa da fare per vivere. «Così sono uscita. Avevo saputo che c’era qualche possibilità nei programmi di riabilitazione del governo». Già, i programmi di «riabilitazione economica, sociale e ambientale»: programmi di formazione professionale per qualche centinaio di persone dei quartieri investiti dalla tragedia – per lo più donne rimaste sole a mandare avanti la famiglia.

 

Quaderni per vivere

 

Rashida Bee, che aveva allora 28 anni, si è ritrovata con un centinaio di donne in un corso di formazione-lavoro di cartoleria. «Avevano preso un centinaio di donne, metà hindu e metà musulmane. Lavoravamo, il governo commercializzava i nostri quaderni, avevamo un piccolo stipendio», racconta. «Finché il governo ha detto che ormai potevamo cercarci un lavoro. Ma chi ci avrebbe dato lavoro? D’altra parte noi continuavamo a produrre. Insomma, abbiamo protestato».

 

Ormai era il 1986 e Rashida Bee si è trovata a organizzare un sindacato di lavoratrici.

 

E’ allora che Rashida ha incontrato Champa Devi Shukla, come lei operaia alla fabbrica di cartoleria. Nella gas tragedy Champa Devi aveva perso il marito e anche la sua stessa salute. Insieme – una musulmana, l’altra hindu – sono riuscite a organizzare le loro colleghe, donne di famiglie poverissime, spesso analfabete (come Rashida Bee), sempre vissute ai margini della vita pubblica: oggi Rashida Bee e Champa Devi Shukla, 48 anni e 52 rispettivamente, sono la presidente e la segretaria del Bhopal Gas Pedit Mahila Stationery Karmchari Sangh, nome complicato che significa «Unione delle lavoratrici di cartoleria vittime del gas». Le ho incontrate nella sede che il loro sindacato condivide con altre organizzazioni popolari, un minuscolo bungalow in una zona popolare di Bhopal, una domenica pomeriggio di gennaio: stavano preparando i cartelli e provando le canzoni che avrebbero cantato al Social forum mondiale di Mumbai, dove si preparavano ad andare con una numerosa delegazione. Tramite (e interprete) dell’incontro è Satinath Sarangi, attivista e fondatore della Sambhavna Clinic – una straordinaria esperienza di medicina popolare nata all’ombra della Union Carbide (vedi il manifesto del 3 giugno).

 

Rashida Bee racconta una storia di battaglie tenaci. La prima battaglia, quella per il posto di lavoro e per un vero salario, è culminata nel 1989 in una marcia a New Delhi, la capitale dell’Unione indiana, distante 750 chilometri da Bhopal. Ci sono andate tutte le cento operaie della cartoleria, con 25 bambini; hanno presentato al primo ministro la loro piattaforma – salario, condizioni di lavoro. Sono tornate vittoriose, il posto di lavoro era assicurato. Certo, la storia non era finita lì. Rashida Bee parla di una causa vinta presso il tribunale del lavoro di Bhopal nel settembre 2002. Sorride: spiega che fino a prima della tragedia molte di loro non erano mai andate in un ufficio pubblico, non sapevano neppure dove stesse il palazzo del governo o la residenza del chief minister, il capo del governo del Madhya Pradesh – non si erano mai spinte nella graziosa zona sulla collina che domina i due laghetti di Bhopal, tra giardini e residenze ufficiali. «Gli uomini dopo un paio d’anni hanno rinunciato a battagliare. Loro no. Loro sono ormai quelle che gestiscono gli affari della famiglia, guadagnano, vanno a visitare cliniche, tribunali, uffici», nota con ammirazione Satinath Sarangi.

 

Ritorno a New Delhi

 

Il punto è che il lavoro e il salario erano solo parte del problema. Nel 2002 le «donne della cartoleria» sono tornate a New Delhi, dove hanno organizzato uno sciopero della fame durato 19 giorni, questa volta con una piattaforma più ampia. Chiedevano l’estradizione in India di Warren Anderson, amministratore delegato della Union Carbide all’epoca dela tragedia, perché fosse processato a Bhopal (la realtà è che il governo indiano, parte civile in rappresentanza delle vittime, aveva accettato nel 1989 un patteggiamento extragiudiziario con l’azienda chimica americana, che ha versato 470 milioni di dollari di risarcimento e chiuso così la sua responsabilità).

 

Chiedevano anche e soprattutto un monitoraggio e cure sanitarie a lungo termine per i sopravvissuti, che continuano a soffrire di tumori, tubercolosi, febbri, difetti riproduttivi. Sostegno economico e sociale per i sopravvissuti che non sono più in grado di lavorare: perché a Bhopal le vittime ufficialmente riconosciute hanno ricevuto (parecchi anni dopo l’incidente, tra il `95 e il `96) circa 15mila rupie, suppergiù 400 dollari di allora: ma è stato un pagamento una tantum. Chiedevano infine la bonifica completa del sito dello stabilimento: nella carcassa arrugginita della vecchia Union Carbide, restano tonnellate di residui tossici che filtrano nel terreno e nelle falde idriche.

 

In altri termini, il sindacato delle «sopravvissute del gas» ha posto dei problemi che riguardano il bene comune di tutta la comunità – è per questo che il mese scorso Rashida Bee e Champa Devi hanno ricevuto il premio Goldman, il riconoscimento che la fondazione Goldman di San Francisco dà ogni anno a attivisti e leader di battaglie ambientali e sociali in tutto il mondo.

 

Raccontano tutto questo, Rashida Bee e Champa Devi, mentre ritagliano degli strani poncho neri su cui sono disegnati polmoni gialli – li porteranno in corteo a Mumbai. Ci spiegano anche che spesso si sono trovate a essere un punto di riferimento per la loro comunità, soprattutto quando in India sono cresciute tensioni tra comunità religiose. Ricordano i riots di Bombay (era il `93), quando sembrava che anche le povere borgate operaie e gli slum di Bhopal dovessero infiammarsi: allora loro, una hindu e una musulmana, sono uscite insieme tenendosi per mano, e con loro le altre lavoratrici, e hanno girato per il quartiere facendo appelli alla concordia. E quella volta il pericolo è stato sventato.

 

«Cosa ho perso con il purdah»

 

Rashida Bee insiste. «Prima non sapevo nulla su come i problemi ambientali rovinano la salute delle donne e anche dei bambini non ancora nati. Ora so queste cose. E siamo noi che andiamo in giro a dirlo alle altre». Soprattutto, dice, «quando sono stata costretta a uscire di casa, dopo la tragedia, ho capito cosa avevo perso a stare in purdah», il regime di segregazione osservato dalle famiglie musulmane più tradizionali, con le donne sempre chiuse in casa. «Ho capito che le donne possono fare cose importanti fuori casa. Quando noi parliamo e facciamo sentire la nostra voce, anche l’impensabile diventa vero. Così ora quando discuto ho un argomento pratico contro la tradizione di tenere le donne chiuse in casa».