Donne maltrattate, scappate di casa! Intervista a Marisa Guarneri
Pat Carra
18 Aprile 2020
di Pat Carra
Durante la
quarantena, le donne maltrattate sono chiuse tra le mura domestiche.
Facciamo il punto con
Marisa
Guarneri,
tra le fondatrici e presidente onoraria di
Cadmi,
Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, il primo
centro antiviolenza italiano aperto nel 1986. Cadmi fa parte
dell’Associazione nazionale
D.i.Re,
donne in rete contro la violenza.
Come
stanno affrontando l’emergenza i centri antiviolenza?
Fanno
quello che hanno fatto sempre: accolgono le donne, se le donne si
fanno sentire. Con il vincolo della segretezza e dell’anonimato non
puoi chiamarle tu, peggioreresti la situazione; puoi dare
suggerimenti, come gli avvisi “chiama quando vai fare la spesa,
quando porti fuori il cane…”.
Ci
si chiede come fanno a uscire di casa, a sfuggire al controllo dei
maltrattanti.
Dipende
da che tipo di relazione c’è: se gli uomini hanno la percezione
che appena girano l’angolo spariscono, non le fanno neanche uscire.
Ma se invece c’è una quotidianità tipo “vado a fare la spesa…
faccio fare il giro al bambino”, può darsi che ci riesca. Quelle
che sono state abituate a cercare di non scatenare le liti, perché
va sempre a finire male per loro, faranno in modo di tenere la
situazione più tranquilla possibile.
Da
una statistica della rete D.i.Re emerge che sono calate le chiamate
da nuovi contatti e aumentate le chiamate dai vecchi contatti,
soprattutto al nord.
Chiamano
quelle che hanno già sperimentato cosa vuol dire essere sostenute e
appena possono ci riprovano. Ma è difficile, devono trovare il
momento giusto e saranno ipercontrollate. Probabilmente al sud
telefonano meno anche in situazioni normali, mentre il rapporto che
c’è con i centri del nord è molto forte. Se esiste un rapporto di
fiducia, come credo sia con in Lombardia, telefonano al centro per un
consiglio, un aiuto psicologico; poi ognuna ha una relazione
particolare con una consulente d’accoglienza che magari la segue da
tempo.
Cosa
fanno le istituzioni?
Una
cosa che mi ha colpito moltissimo è che in nessuna dichiarazione, in
nessun discorso fatto da sindaci o governatori o presidente della
repubblica, nessuno abbia messo in priorità questa situazione delle
donne, che sono doppiamente recluse. Ne hanno parlato in parlamento
in una
question
time,
ma nessun risultato, solo qualche spot. Mi fa incazzare: non c’è
la priorità delle donne maltrattate, la diventa solo quando fa
notizia e in questo momento fanno notizia i morti, quindi… Ci
voleva da subito una presa di posizione più netta, più forte.
Proviamo a immaginare cosa potrebbero fare nel futuro immediato.
Se fossi nei panni del sindaco di Milano, mi metterei d’accordo con la prefettura e i corpi di polizia, andrei a spulciare le denunce, specialmente quelle ripetute: ogni posto di polizia ne ha e non saranno certo diecimila. Occorre avere sotto gli occhi la mappa delle situazioni. In genere, le donne che vengono ammazzate sono quelle che hanno denunciato di più. Andrei a fare un salto nelle case, la polizia o qualcuno che abbia il ruolo per poterlo fare, anche un’assistente sociale. Se la donna vuole, la porterei via. Da subito, adesso, invece di stare a menarsela sul perché e il per come. Lo sappiamo tutte benissimo com’è la situazione. Più vai avanti e più si fa tesa.
Non
ti sembrerebbe una forzatura della volontà delle donne il fatto di
mandare le forze dell’ordine a casa? Cambierebbe l’approccio, la
pratica fin qui seguita dai centri antiviolenza.
Questa
è un’emergenza. È vero che devono scegliere sempre e prima di
tutto le donne, ma come fanno in questo momento? Cambierei approccio
solo in questo particolare frangente. Deve arrivare la segnalazione
di priorità! Invece chi lo sta dicendo che le donne sono in
pericolo? Solo i centri antiviolenza.
Questo
punto di vista è tuo o è condiviso con la rete D.i.Re?
In
questo momento è mio, la rete dei centri non penso che possa dire
ufficialmente una cosa del genere. Ma quasi quasi… Direi alle
donne: “Venite fuori di casa come potete, mettetevi davanti a
Palazzo Marino, entrate dentro e state lì finché non vi vengono a
prendere per portarvi altrove”. Non credo che in questo momento una
metodologia dell’accoglienza possa valere e bastare nello stesso
modo di sempre. Farei un passo in più.
Uscite
alla spicciolata a una a una e bussate alla porta di Palazzo Marino.
E a quella di Regione Lombardia?
Certo
che no, in Regione Lombardia non vi aprono neanche la porta!
È
un appello che farei alle donne e al Comune di Milano: venite fuori
perché qui c’è rapporto con le istituzioni un po’ diverso. Le
donne dei centri e degli ambiti di aiuto poi si muovono. Parlo di
Milano perché la conosco. I centri antiviolenza potrebbero riuscire
a dare una spinta e dire “Venite fuori e vi veniamo a prendere” e
anche avvisare il Comune: “Noi daremo questo messaggio”. Potrebbe
essere una presa di posizione meno blanda, perché in questa
emergenza c’è troppo la menata di stare alle regole. Va bene stare
alle regole, ma morta per morta, esco e non torno più! Questa regola
di stare in casa che tu mi dai, a me peggiora la vita.
Una
sorta di disobbedienza civile. Il tuo è un appello per un cambio di
strategia.
“Scappa
di casa e non tornare” può essere il messaggio dei centri
antiviolenza, che sono più che autorizzati a inviarlo, che devono
rischiare. Il sistema della sicurezza che abbiamo introiettato in
questa emergenza, è una morte. Come se in nome di una sicurezza
superiore fosse saltata la libertà di dire “Se quello che mi dici
non è giusto, io non lo faccio”, che è stato sempre il modo di
contestare le leggi non condivise. Un tale sistema delle regole sta
diventando ridicolo: con tutto quello che sta venendo a galla in
Regione Lombardia, a cominciare dalle morti nelle RSA – che sotto
sotto è un “chi se ne frega degli anziani” – come fai a dargli
credito? Ci sono terribili effetti collaterali, ci sono le donne che
rischiano la vita.
Alle istituzioni ripeto: “Entrate nelle
case che sapete in pericolo, ma affrettatevi, prima di tutto
mentalmente”.
(Erbacce, 18 aprile 2020)