Da Lampedusa, “Porta della vita”
1 Ottobre 2011
Franca Fortunato
Quest’estate, dal 20 al 27 agosto, otto donne della rete de “Le Città Vicine”, provenienti da Mestre, Verona, Catania e Catanzaro, donne legate politicamente dall’amore per i luoghi e le città, abbiamo scelto l’isola di Lampedusa per la nostra annuale vacanza politica, spinte dal desiderio di conoscere questo lembo di terra, reso tristemente famoso quest’inverno dall'”emergenza” degli immigrati tunisini, e desiderose di incontrare chi ci vive e lavora per amore di questa terra. La bellezza paesaggistica e ambientale di Lampedusa è ciò che ci ha colpite da subito. Un mare limpido e azzurro, bianche spiagge, scogliere a strapiombo sul mare, un terreno arido e spoglio, tramonti mozzafiato, ci hanno fatto innamorare di questa che, tradizionalmente, è l’isola “della vita”, non solo per la tanta umanità dolente che vi approda da sempre, con la speranza di poter andare altrove e trovare una vita migliore per sé e i propri figli, ma anche per le tartarughe marine, specie protetta, che vi approdano sulla spiaggia per nidificare. Durante la nostra vacanza, gli sbarchi di immigrate/i continuavano, eppure non ci è mai capitato di incontrare per l’isola qualcuna/o di loro, né ci è stato concesso di avvicinarci al Centro di identificazione ed espulsione, difeso dal ferro spinato e guardato a vista dalle forze dell’ordine. L’unica traccia del loro passaggio, alcuni barconi, ammassati sul porto e sorvegliati da due militari. La stessa popolazione evitava di parlare degli sbarchi. Che cosa era dunque successo su quell’isola? Per capirlo abbiamo incontrato, grazie alla mediazione di Giusy Milazzo, responsabile della Cgil di Catania, in vacanza con noi, la responsabile della Legambiente Giusy Nicolini. Lei ci ha fatto capire come a Lampedusa, nei tre mesi dell’emergenza, è stato “massacrato” un modello di accoglienza, “una vocazione naturale” di “isola di accoglienza”, “terra che ti salva la vita”, “ponte del Mediterraneo”, ed è stata trasformata in “isola carcere”. Nei mesi dell’emergenza, infatti, il Ministro Maroni e il sindaco di Lampedusa, De Rubeis, denunciato, come il suo collega di Treviso, per istigazione al razzismo, hanno scelto deliberatamente di abbandonare quella gente alla fame e al freddo, per creare il sovraffollamento e fare scoppiare il “caso Lampedusa”. Non è vero che l’isola non era in grado di gestire gli arrivi. In tutta la fase dell’emergenza sono passati 24/25 mila migranti (non più di quelli del 2008), in un’isola che ogni anno è in grado di accogliere oltre 120/130 mila turisti nella sola stagione estiva. Gran parte della popolazione, più donne che uomini, da parte sua, ha fatto quello che poteva. “C’era chi dava loro da mangiare, chi faceva fare a qualcuno la doccia a casa, chi, con coraggio, distribuiva cibo, medicine, abiti e soprattutto scarpe, visto che quelle in donazione erano di pezza con il teschio bianco su sfondo nero e viceversa”. Non è vero che gli albergatori hanno avuto un danno, anzi per molti la presenza delle forze dell’ordine è stato un business. Se il turismo estivo, per coloro che hanno la seconda casa, abusiva, ha avuto qualche calo, è per via della crisi economica e non per gli immigrati. Giusy, dopo averci parlato del problema dello smaltimento dei rifiuti e dei liquami, della necessità di distruggere i barconi, chiudendo le discariche, nocive all’ambiente e alla salute, ci ha lasciate dicendo: “Se Lampedusa rimane per i migranti una meta di passaggio, l’impatto si può gestire e controllare, se i governanti invece continueranno a creare situazioni di squilibrio ne vedremo delle belle”. E delle belle ne abbiamo viste a settembre, con gli immigrati, più uomini che donne, in rivolta, che hanno incendiato il Centro, divenuto luogo di detenzione per adulti e minori, e sono stati, tra le minacce del sindaco, trasferiti agli arresti domiciliari sulle navi, in attesa di conoscere il loro destino. Giusy ci ha fatto capire il senso della lotta che lei, la sua amica Paola e altre donne e uomini portano avanti a Lampedusa. Lottano perché l’isola resti “porta della vita”, come un giovane migrante tunisino nel 2009, le disse al suo approdo.