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Le attuali leggi sul diritto d’autore favoriscono l’esproprio privato di un bene comune. Una tragedia simile alle recinzioni delle terre agli albori della rivoluzione industriale
Arturo di Corinto

Aristotele, Cartesio, Spinoza, Locke, Kant, Heidegger, Foucalt, Lyotard, Dennett e altri ancora. Generazioni di filosofi si sono arrovellati sul tema della conoscenza ed essa, la conoscenza, così presente e così sfuggente è da sempre il tema centrale di tutta la riflessione filosofica. Chi ne ha indagato la natura, chi lo statuto, chi l’organizzazione, l’ha fatto da prospettive differenti. Oggi però la principale domanda circa la natura della conoscenza riguarda la sua proprietà. Specchio dei tempi, di un’epoca in cui le idee diventano merce. La conoscenza è sì incorporata nelle macchine, nel management, nell’intelligenza operaia ed è inestricabilmente legata alla storia della tecnica e della scienza, ma nell’epoca della riproducibilità digitale la conoscenza è sempre più codificata, oggettivata su un supporto elettronico e quindi duplicata, scambiata e venduta a gran velocità. Così per la conoscenza tecnico-scientifica, così per quella trasmessa oralmente sui metodi di coltivazione tradizionale, così per il «sapere tacito» elaborato dalla forza-lavoro nella grande manifattura, così per il sapere sociale diventato linfa vitale nella «new economy». Un bene di tutti che diventa dunque di proprietà di chi se ne appropria; e poco importa se ogni scoperta, ogni invenzione, ogni oggetto che la incorpora è il frutto del lascito di generazioni di coltivatori, artigiani, operai, scienziati e pensatori che lì l’avevano lasciata a disposizione di tutti a fronte di un tozzo di pane, di un apprendistato, di un premio, di una borsa con tre denari.

 

L’appropriazione privata della conoscenza è una tragedia che Stefano Rodotà paragona alla tragedia dei commons, cioè a quando le terre comuni furono divise e recintate e una nuova parola divenne tristemente nota: enclosures, lotti di terra privatizzati e recintati non più nella disponibilità di tutti.

 

La conoscenza, commons in senso pieno, sta quindi conoscendo una simile fase di appropriazione privata e di recinzione. Col filo spinato? No, attraverso brevetti e copyright che, nati per tutelare la fatica dell’ingengo umano, dell’artista, del musicista, dello scrittore, dell’inventore, sono branditi come una clava da multinazionali senza pudore che dal suo uso commerciale vogliono solo profittare.

 

Ebbene sì ecco il paradosso. La tutela della proprietà intellettuale pensata per proteggere il creatore dell’epoca di Gutenberg e incentivare la costosa stampa dei manoscritti, adesso, attraverso la riproducibili in quantità infinita a costo prossimo allo zero, protegge la volontà delle imprese di farne del business in ogni suo aspetto.

 

Lo stesso accade per i brevetti il cui campo di applicazione si estende ben oltre il diritto allo sfruttamento commerciale di un processo innovativo ed entra in contrasto con il bene pubblico. Come è stato possibile? Come è possibile che il patrimonio genetico di tutti i finlandesi sia diventato proprietà di una multinazionale del farmaco? Come è possibile che ogni volta che stanno per scadere i diritti della Walt Disney su Mickey Mouse il congresso americano allunga i tempi di decadenza del copyright sull’opera? E come è possibile che l’Italia accetti di riproporre in salsa tartufata il famigerato Dmca (Digital millennium copyright act) alla European Union Copyright Directive che irrigidisce a dismisura la tutela del copyright e introduce il consumo a tempo dei prodotti della cultura? (www.softwarelibero.it)

 

Domande che rimarrebbero senza risposta se non si parte dal fatto che l’economia delle idee, quelle di cui parlava Adam Smith è diventato il terreno di scontro citato dal Tocqueville che viaggiava nella giovane America: «lo scontro del futuro sarà sulla proprietà».

 

E questo perche? Nell’economia dell’abbondanza, le idee, al pari delle zucchine, seguono la legge del mercato: più ce ne sono, meno costano. E se costano di meno, come le zucchine, i margini di profitto di chi le vende si abbassano, perciò meglio mandarne un po’ al macero o conservarle in frigo aspettando migliori corsi di borsa. L’obiettivo è chiaro: creare scarsità di risorse/idee/conoscenza, limitarne la diffusione e distribuirla col contagocce.

 

Poco importa se questo produce un danno all’«economia della conoscenza», che potrebbe risollevare le sorti dell’economia mondiale e della democrazia, tanto nel ricco Nord che nel povero Sud del pianeta.

 

Che cosa c’entra la conoscenza con l’economia e la democrazia? Quando si parla di conoscenza, si parla di libera circolazione di informazioni, prodotte da un processo creativo e cumulativo, «sociale» in senso pieno, autopoietico all’interno di comunità di interessi oppure organizzato dai centri di produzione del sapere e attivato da investimenti in ricerca e in formazione, spesso di carattere pubblico. Quando si parla di conoscenza, si parla di intelligenza collettiva incorporata nel software, materia prima di ogni produzione tecnologicamente avanzata e di tutta l’industria dell’immateriale; quando si parla di conoscenza, si parla di metodi formativi, di distance education, ad esempio, e si parla di metodi curativi, cioè della cura per il cancro e l’Aids; si parla di metodi agricoli e commerciali, cioè di sussistenza e sovranità alimentare. Si parla perciò di brevetti. Brevetti sugli «alfabeti della conoscenza», alfabeti, cioè unità codificate di conoscenza, rese in una forma, soggette a una regola che le rende comprensibili «decodificabili», e trasferibili dal contesto in cui nascono e le dislocano lontano nello spazio e nel tempo. È così che un metodo di cura sperimentato in Africa, viaggia sul treno della rete verso l’Europa, dove diventa farmaco da rivendere agli stessi che ne sono stati la cavia. E a caro prezzo.

 

Controproposte? Impedire l’estensione del copyright sui prodotti culturali e impedire la brevettazione delle idee incorporate nel software e nei metodi sanitari, formativi, agricoli; impedire che la scoperta di una sequenza genetica sia considerata un’invenzione e così trattata e commercializzata, riportandola nel suo dominio naturale: quello pubblico, ancora garanzia di qualità e di accesso per tutti: scienziati, curiosi, ricercatori. Come? Adattando il copyleft, pensato per il software, per la protezione del vivente. Una sorta di General Public License (www.gpl.org) per il codice sorgente degli organismi, il Dna, ma non solo. Il passaggio successivo è invece quello di creare database pubblici di dati genetici (sequenze geniche, interazioni proteiche, ecc.) secondo l’idea di alcuni bioinformatici (http://bioinformatics.org) ed epistemologi (www.e-laser.org). La logica del copyleft, il ribaltamento, del diritto d’autore, garantirebbe cosi il libero accesso al sapere scientifico.

 

E sul lato del copyright? Si potrebbe diminuire il «tempo di vita» del diritto d’autore e chiedere una «microtassa» annuale per rinnovarne la titolarità e ottenere che l’opera torni nel pubblico dominio se non viene pagata (www.creativecommons.org). Il passo successivo? Creare archivi aperti a cominciare dalle pubblicazioni scientifiche, per mettere in circolo più idee e più conoscenza (http://eprints.rclis.org).

 

In questo modo il copyright tornerebbe ad avere il significato originario di «diritto di copia» e l’equo utilizzo, il fair use, liberamente dispiegarsi per il progresso di tutti.