Maria Paola Forlani
E’ in corso presso la Collezione Peggy Guggenheim sino al 5 febbraio un’ampia antologica della scultrice francese Germane Richier (1902-59); la mostra si compone di una sessantina di opere tra sculture, piccoli gessi, disegni e litografie ed è curata da Luca Massimo Barbero. E’ certamente una riscoperta, se si considera che l’ultima retrospettiva dell’artista, a Saint Paul, risale al 1966. Germane Richier era molto amata da Peggy, che acquistò già nel 1960 una delle sue opere migliori, di impronta surrealista, <<Tauromachia>> del 1954, che figura nel giardino della Collezione. Il percorso inizia dai busti in bronzo (materiale prediletto dall’autrice) comprensivi di un <<Cristo>> del 1931 e di <<Régodias>> del 1938: si tratta di un figurativo classico, secondo l’impostazione ricevuta dal maestro Emile-Antoine Bourdelle. Per quanto riguarda il <<Busto di Cristo>>, questo venne realizzato dalla Richier in occasione della grande esposizione dal titolo “La Passione di Cristo nell’arte francese”, organizzata nel 1934 a Parigi, al Musée de la sculture comparée del Trocadéro e alla Sainte-Chapelle. Come nelle rappresentazioni religiose della Passione, questo busto ha la testa inclinata di lato. I capelli divisi da una scriminatura al centro sono segnati, come anche la barba, da strie incise con forza. La corona di spine non viene rappresentata se non attraverso una serie di sporgenze laterali sulla sommità del capo che intendono piuttosto suggerire la presenza. Il frammento di legno grezzo sul quale è collocata l’opera vuole forse evocare la croce. In questi anni a Parigi, dove si era trasferita nel 1926, la Richier frequentava Marino Marini, suo grande amico, Campigli e Giacometti. La svolta verso un’arte d’avanguardia avviene durante la seconda guerra mondiale: esule a Zurigo contatta Arp, Le Corbusier e Wotruba, optando per uno stile espressionista. Le figure di questo periodo, quali <<Il diavolo>> del 1950, o <<Griffu>> del 1952 sono scavate ed esili come quelle di Giacometti, ma avvolte da una ragnatela, uno schermo protettivo, che assume il significato di una difesa dall’aggressività dell’ambiente esterno. Di grande fascino è <<il Pipistrello>> del 1946 in cui Germane Richier decide di adattare la tecnica della stoppa intrisa nel gesso per realizzare le ali di quest’opera. La membrana di tessuto fissata all’armatura a vista delle ali esprime già un’idea di apertura di vita. Il corpo antropomorfo dell’opera è realizzato in creta, integrando elementi vegetali, solo nel 1956 l’opera verrà fusa in bronzo dorato che con tutto il suo splendore appare nella mostra veneziana. L’originalità di Richier e della sua anticipazione personale al clima materico e poetico dell’Informale è colto immediatamente dal pubblico e dalla critica. L’originalità dei suoi personaggi, la nascita di nuove creazioni come <<L’Homme-forêt (L’uomo-foresta, 1945), costituiscono un mondo plastico immerso nella natura, emerso dalla trasformazione della materia. Queste creazioni la rappresentano al suo ritorno a Parigi nell’ottobre del 1946 dove la precede la fama acquisita in Svizzera. La sua celebrità ha raggiunto l’internazionalità e le sue opere sembrano viaggiare senza sosta verso importanti musei e fondazioni artistiche. Nel 1947 lavora a uno dei suoi capolavori, <<L’Orage (Il Temporale>>, che completerà nel 1948, con il modello Tardone, di cui realizza anche il busto. Inventerà molto attorno a questo modello utilizzandolo per altre opere: <<L’Aquila>> nel 1948, <<L’Ogre (L’Orco)>> l’anno successivo, ma anche <<L’Hydre (L’Idra)>> e <<Le Pentacle (Il pentacolo)>> nel 1954. Lo ritrarrà per il dorso in <<La Montagne (La Montagna)>> nel 1955-56. Nel 1948 parteciperà alla Biennale di Venezia nel Padiglione francese in compagnia di artisti come Braque, Roult, Chagall e Maillol. Nel 1951 esplode uno scandalo relativo a una sua scultura di tema religioso <<Le Christ d’Assy (il Cristo di Assy)>>, 1950) che genera, per le sue straordinarie soluzioni formali, concepite come impossibili dal conservatorismo della Chiesa, delle controversi furiose. La scultura diviene oggetto per un dibattito interno alla Chiesa e a due differenti “fazioni” religiose. La critica internazionale appoggia Richier riconoscendone l’originalità e decretandone la sua grandezza come artista nella scultura contemporanea. L’anno successivo la Biennale di Venezia le dedicherà una personale al padiglione francese. E’ un momento centrale della consacrazione della scultrice, scelta come delegata delle nuove generazioni, e rara rappresentante femminile in un campo dominato da accademici o da uomini di chiara fama. In quell’occasione la Galleria d’Arte Moderna di Roma acquisterà la scultura di Richer intitolata <<L’Ogre (l’Orco, 1949)>>. La sua ricerca sarà sempre più rivolta in direzione surrealista, in una sorta d’ibridazione quasi Kafkiana tra l’uomo e l’insetto (<<Formica>> del 1953), a testimonianza di un profondo disagio esistenziale. Sorprendente è, nelle sale della mostra alla Peggy Guggenheim collection, l’intera attività ” grafica” di Germane Richier, sviluppatasi nel corso di più di dieci anni. L’interpretazione personale delle molte tecniche di stampa (incisioni su rame), così poco conosciute, restituiscono risultati inediti e sorprendenti. Germane Richier morirà il 31 luglio 1959 in una clinica di Montpellier. Così si concluderà questa vita troppo breve, intensa e creativa nel momento in cui l’artista godeva di una consacrazione mondiale e in cui ancora avrebbe voluto “sconvolgere la sua scultura”.
Iolanda Leccese
E’ in corso presso la Collezione Peggy Guggenheim sino al 5 febbraio un’ampia antologica della scultrice francese Germane Richier (1902-59); la mostra si compone di una sessantina di opere tra sculture, piccoli gessi, disegni e litografie ed è curata da Luca Massimo Barbero. E’ certamente una riscoperta, se si considera che l’ultima retrospettiva dell’artista, a Saint Paul, risale al 1966. Germane Richier era molto amata da Peggy, che acquistò già nel 1960 una delle sue opere migliori, di impronta surrealista, <<Tauromachia>> del 1954, che figura nel giardino della Collezione. Il percorso inizia dai busti in bronzo (materiale prediletto dall’autrice) comprensivi di un <<Cristo>> del 1931 e di <<Régodias>> del 1938: si tratta di un figurativo classico, secondo l’impostazione ricevuta dal maestro Emile-Antoine Bourdelle. Per quanto riguarda il <<Busto di Cristo>>, questo venne realizzato dalla Richier in occasione della grande esposizione dal titolo “La Passione di Cristo nell’arte francese”, organizzata nel 1934 a Parigi, al Musée de la sculture comparée del Trocadéro e alla Sainte-Chapelle. Come nelle rappresentazioni religiose della Passione, questo busto ha la testa inclinata di lato. I capelli divisi da una scriminatura al centro sono segnati, come anche la barba, da strie incise con forza. La corona di spine non viene rappresentata se non attraverso una serie di sporgenze laterali sulla sommità del capo che intendono piuttosto suggerire la presenza. Il frammento di legno grezzo sul quale è collocata l’opera vuole forse evocare la croce. In questi anni a Parigi, dove si era trasferita nel 1926, la Richier frequentava Marino Marini, suo grande amico, Campigli e Giacometti. La svolta verso un’arte d’avanguardia avviene durante la seconda guerra mondiale: esule a Zurigo contatta Arp, Le Corbusier e Wotruba, optando per uno stile espressionista. Le figure di questo periodo, quali <<Il diavolo>> del 1950, o <<Griffu>> del 1952 sono scavate ed esili come quelle di Giacometti, ma avvolte da una ragnatela, uno schermo protettivo, che assume il significato di una difesa dall’aggressività dell’ambiente esterno. Di grande fascino è <<il Pipistrello>> del 1946 in cui Germane Richier decide di adattare la tecnica della stoppa intrisa nel gesso per realizzare le ali di quest’opera. La membrana di tessuto fissata all’armatura a vista delle ali esprime già un’idea di apertura di vita. Il corpo antropomorfo dell’opera è realizzato in creta, integrando elementi vegetali, solo nel 1956 l’opera verrà fusa in bronzo dorato che con tutto il suo splendore appare nella mostra veneziana. L’originalità di Richier e della sua anticipazione personale al clima materico e poetico dell’Informale è colto immediatamente dal pubblico e dalla critica. L’originalità dei suoi personaggi, la nascita di nuove creazioni come <<L’Homme-forêt (L’uomo-foresta, 1945), costituiscono un mondo plastico immerso nella natura, emerso dalla trasformazione della materia. Queste creazioni la rappresentano al suo ritorno a Parigi nell’ottobre del 1946 dove la precede la fama acquisita in Svizzera. La sua celebrità ha raggiunto l’internazionalità e le sue opere sembrano viaggiare senza sosta verso importanti musei e fondazioni artistiche. Nel 1947 lavora a uno dei suoi capolavori, <<L’Orage (Il Temporale>>, che completerà nel 1948, con il modello Tardone, di cui realizza anche il busto. Inventerà molto attorno a questo modello utilizzandolo per altre opere: <<L’Aquila>> nel 1948, <<L’Ogre (L’Orco)>> l’anno successivo, ma anche <<L’Hydre (L’Idra)>> e <<Le Pentacle (Il pentacolo)>> nel 1954. Lo ritrarrà per il dorso in <<La Montagne (La Montagna)>> nel 1955-56. Nel 1948 parteciperà alla Biennale di Venezia nel Padiglione francese in compagnia di artisti come Braque, Roult, Chagall e Maillol. Nel 1951 esplode uno scandalo relativo a una sua scultura di tema religioso <<Le Christ d’Assy (il Cristo di Assy)>>, 1950) che genera, per le sue straordinarie soluzioni formali, concepite come impossibili dal conservatorismo della Chiesa, delle controversi furiose. La scultura diviene oggetto per un dibattito interno alla Chiesa e a due differenti “fazioni” religiose. La critica internazionale appoggia Richier riconoscendone l’originalità e decretandone la sua grandezza come artista nella scultura contemporanea. L’anno successivo la Biennale di Venezia le dedicherà una personale al padiglione francese. E’ un momento centrale della consacrazione della scultrice, scelta come delegata delle nuove generazioni, e rara rappresentante femminile in un campo dominato da accademici o da uomini di chiara fama. In quell’occasione la Galleria d’Arte Moderna di Roma acquisterà la scultura di Richer intitolata <<L’Ogre (l’Orco, 1949)>>. La sua ricerca sarà sempre più rivolta in direzione surrealista, in una sorta d’ibridazione quasi Kafkiana tra l’uomo e l’insetto (<<Formica>> del 1953), a testimonianza di un profondo disagio esistenziale. Sorprendente è, nelle sale della mostra alla Peggy Guggenheim collection, l’intera attività ” grafica” di Germane Richier, sviluppatasi nel corso di più di dieci anni. L’interpretazione personale delle molte tecniche di stampa (incisioni su rame), così poco conosciute, restituiscono risultati inediti e sorprendenti. Germane Richier morirà il 31 luglio 1959 in una clinica di Montpellier. Così si concluderà questa vita troppo breve, intensa e creativa nel momento in cui l’artista godeva di una consacrazione mondiale e in cui ancora avrebbe voluto “sconvolgere la sua scultura”.
Arianna Di Genova
L’ombra come doppio, luogo della produzione fantastica e “isola” felice dell’identità. Sotto la sua protezione, l’alone misterioso che sparge intorno ad ognuno di noi, vivono storie e passioni. È lì che paure, non detti, miraggi e visioni, come spiega nel suo testo in catalogo Lea Vergine, curatrice della mostra al Palazzo delle Papesse dal titolo D’ombra, finiscono per essere proiettati, diventano accadimenti, scure percezioni di mondi altri.
Il tema proposto in questa rassegna – prossima tappa al Man di nuoro – è piuttosto ambizioso e di non semplice trattazione: come “gestire” l’ombra nell’arte contemporanea? Solo con un’assenza che racconta per ellisse? La scelta è caduta su una suggestione: quella tendenza ad una realtà popolata di fantasmi, rimozioni e incantesimi luminosi che rimanda a volte alle lanterne magiche, altre all’impossibilità di definizione esatta di un universo oggettivo. Ombra come finzione, dunque o, meglio, come indizio svaporato fra ciò che si vede e ciò che si intuisce. Entrando alle Papesse di Siena, si viene subito accolti dall’installazione di Ann Hamilton, un vestito da derviscio rotante che “vola” nello spazio, privo di qualsiasi corpo che lo indossi. È una dichiarazione di intenti che non lascia dubbi: la partita fra ombra e luce, tangibilità e sparizione, verrà giocata, da qui in poi, in una dimensione intima, a tratti malinconici. Seguendo principalmente due linee teoriche: l’ombra temporale, fisica e quella dell’apparenza delle cose. A rinforzare la prima impressione interviene anche la scelta di un’artista come la praghese Jana Sterbak (vive e lavora in Canada) e della sua corazza telecomandata, simulacro di un corpo che non c’è più ma che ha abitato quello spazio, privo però di ogni controllo razionale e completamente affidato agli automatismi della tecnologia.
La mostra, con il suo allestimento labirintico, fa perdere ogni punto di riferimento e immerge lo spettatore in un ambiente “umbratile” che invita ad esplorazioni interiori, viaggi negli inferi, coraggiosi itinerari verso il nulla e l’immateriale. A guidarci, ci sono le fotografie ritratto di Francesca Woodman, clonazioni di identità improvvisate da sagome nere ma anche il trompe-l’oeil di Gino De Dominicis, artista che ha sempre sottolineato la mancanza degli oggetti nei suoi quadri, lasciando solo impronte.
L’evanescenza che si solidifica in una azione tanto da divenire un loop – l’uomo/silhouette che batte sui tasti – è invece il soggetto del video Typist di William Wegman con il conseguente disagio che si prova a visitare le sale di un museo in compagnia di un fantasma silenzioso ma molto affaccendato.
Ironia, memoria, ricordi, biblioteche digitali stipate in una sorta di caverna platonica delle idee: è la materia psichica che emana dall’installazione di Gary Hill, I Believe It Is an Image in Light of the Other. Prelude ad inquietanti sdoppiamenti di personalità questa full immersion al buio totale, alla scoperta di tesori perduti, pagine e scritture segrete. Per Christian Boltanski è stata allestita una vera e propria cripta: è lì che si sprigionano le figurine di Candles, tremolanti acrobati impegnati in danze tribali intorno al fuoco.
Il mondo sottosopra è la firma “ombrosa” di Fiona Tan che divide l’immagine in due, rovesciandola e facendo trasmigrare la stessa sostanza – cioè l’aria – in entrambe. Così anche l’anglopalestinese Mona Hatoum che non parte da terra ma dal soffitto. In una stanza dai toni infantili, troneggia una lampada che fa giochi di luci e di ombre. S’inanellano sulle mura cornicette di stelline, molto natalizie, intervallate però da soldati con mitra. Sagome di guerra rincorrono i sonni dei bambini, ingoiando la Storia recente in un vortice di tensione.
Gigliola Foschi
Una mostra con artisti che non sono né cinesi, né italiani e neppure tedeschi, francesi o americani, ma portatori di una cultura duplice o addirittura molteplice, perché nati in paesi diversi da quelli in cui vivono e lavorano. È Wherever We Go – Ovunque andiamo: Arte, identità, culture in transito (Spazio Oberdan, Milano, fino al 28 gennaio) curata da Gabi Scardi e da Hou Hanru che, in sintonia con gli artisti in mostra, è a sua volta un globe-trotter nato in Cina ma residente a Parigi. Si tratta di autori provenienti da ogni parte del mondo emigrati a volte per scelta a volte per necessità, ma sempre sospesi tra due o più mondi come accade ormai a milioni di persone. Ma in che modo le loro opere affrontano tale condizione di sradicamento? Ne discutiamo con la curatrice Gabi Scardi, critico d’arte che anche in un’altra recente mostra, Less – Strategie alternative dell’abitare (aprile-giugno 2006, PAC di Milano), ha dimostrato come gli artisti possano riflettere in modo profondo e impegnato sulle problematiche più significative della contemporaneità.
Questi artisti cosmopoliti che cosa ci dicono su identità e multiculturalismo? Si avverte in essi nostalgia delle origini perdute o tendono a sottolineare la piena integrazione nel nuovo mondo in cui vivono?
«Dalle opere di molti artisti si capisce che per loro l’identità non si presenta più come un possesso stabile, statico, acquisito una volta per tutte, bensì come un processo in continua crescita, un movimento fatto di confronti, scambi, incontri tra culture. “Le tigri per essere tali non hanno bisogno di proclamare la propria tigritudine”, sostiene lo scrittore nigeriano Wole Soyinka. Allo stesso modo questi artisti non affermano né sottolineano la loro identità: semplicemente la vivono sfuggendo a ogni semplificazione e definizione. Sospesi tra due o più mondi avvertono la necessità di far convivere nelle loro opere visioni diverse del mondo, mantenendo aperto un dialogo continuo e vitale sia col presente sia con le memorie e i miti del loro paese d’origine. Invece di farsi portatori di una logica oppositiva e assertiva – la mia identità contro la tua – s’impegnano ad accettare la complessità del mondo in cui vivono, e ci rivelano che, a partire dalle esperienze vissute, un’identica domanda può ottenere risposte molteplici e anche contraddittorie».
Ad esempio?
«Potrei citare Maja Bajevic e Danica Dakic. Entrambe cresciute a Sarajevo, ma ora residenti la prima a Parigi e la seconda a Düsseldorf, propongono un’opera a quattro mani in cui in bosniaco ci spiegano perché amano Sarajevo, mentre in francese e in tedesco ripetono le stesse frasi dicendo esattamente il contrario. Migrare, per loro, ha infatti significato dover cambiare se stesse, interrogarsi da un nuovo punto di vista sul loro paese d’origine e viverlo come un luogo non più unico, mitico, intoccabile. Tale sguardo critico, “da fuori”, non significa però che si debba perdere il legame con la propria terra. Come spiega la stessa Bajevic, si può “imparare ad apprezzarne non l’immagine mitizzata ma il rovescio della medaglia, i piccoli misfatti, le debolezze della tanto amata ’casa’ propria”. Il loro enunciare “io odio Sarajevo…”, subito dopo aver detto “Io amo Sarajevo…”, diventa il segno di un costante legame con la loro città, non più acritico ma accompagnato dalla capacità di vederne anche i difetti».
Al multiculturalismo come rigida coesistenza di universi impermeabili questi artisti oppongono il transculturalismo, Tale condizione si rivela come possibilità di apertura al nuovo, o determina tensioni tra memoria e nuova identità, passato e presente?
«Acquisire un’identità plurima significa sentirsi ovunque al proprio posto ma anche un po’ estranei al luogo in cui ci si trova a vivere. Tale posizione “periferica”, non pacificata, genera inquietudine, spinge a riflettere su di sé, a mettersi in gioco, e proprio per questo si rivela “feconda”. In una video-performance H.H. Lim, nato in Malaysia e residente a Roma, ad esempio, mostra se stesso mentre cerca di rimanere tenacemente in equilibrio su un pallone, e in questo modo ci comunica tutta la difficoltà di trovare una stabilità interiore in un mondo sempre più incerto e mutevole. Altri autori sottolineano di più, quasi sempre con leggerezza e senza malinconiche nostalgie, il loro bisogno di preservare qualcosa delle loro radici, proprio per avere poi la forza di affrontare nuove realtà. La cinese Shen Yuan, ovunque si rechi in viaggio, visita per prima cosa le Chinatown del posto; poi riproduce le mappe di tali Chinatown realizzando patchwork di tessuti con cui fodera dei materassi elastici, concepiti per invogliare i bambini a saltarci sopra. Ludici e divertenti i suoi “Trampolin” ci invitano a giocare, ma anche a comprendere come solo a partire dall’accettazione delle proprie origini sia possibile spiccare un salto verso nuove esperienze aperte al dialogo con gli altri».
Molti artisti «migranti» vivono una condizione di esilio, come Adel Abdessemed, fuggito in Francia da un’Algeria lacerata dal conflitto civile. In che modo questi artisti si pongono di fronte alle tragedie del nostro tempo?
«Diversi artisti presenti in mostra riflettono sulle ingiustizie e i drammi della globalizzazione, mai però in modo piattamente esplicito o polemico. C’è chi riesce a criticare le dinamiche del potere globale con atteggiamento ironico e velatamente surreale, come il cinese e parigino Huang Yong-Ping con la sua scultura di un mastino napoletano che lascia dietro di sé un getto di urina simile al profilo degli Stati Uniti. C’è chi ci obbliga con uno “stratagemma” a vedere realtà dalle quali distogliamo gli occhi, come Ni Haifeng, cinese ma residente ad Amsterdam: in un’umile scatola di cartone posta a terra egli pone due piccoli video che narrano storie di homeless; e così per vedere l’opera, siamo costretti ad abbassarci ponendoci in una situazione di inusuale prossimità rispetto a vicende umane che di solito rimuoviamo. Mentre Keren Amiran ( israeliano ma londinese di adozione), ha creato un video poetico che ha per protagonista una donna filippina reclusa nella casa della sua datrice di lavoro per paura di essere espulsa dal paese in cui è entrata clandestinamente; unico interlocutore a cui poter confidare paure e memorie è una tartaruga: sorta di alter ego costretto come lei a rifugiarsi dentro di sé, a nascondersi dietro una corazza difensiva».
Adrian Paci ha raccontato che in Albania, le informazioni sull’arte si fermavano all’impressionismo. Con l’arrivo in Occidente molti di questi artisti hanno potuto conoscere il linguaggio contemporaneo dove coesistono video, fotografie, pittura e installazioni. Se ne sono impadroniti con facilità? E qualcuno ha poi recuperato le forme artistiche del paese d’origine?
«Tutti gli artisti in mostra rivelano di aver fatto proprio fino in fondo il linguaggio contemporaneo ed evitano ogni esotismo culturale. Nei loro lavori non c’è nulla di pittoresco, nessun colore locale, niente di etnico. Più che recuperare le forme artistiche dei paesi d’origine, rielaborano le storie, i riti e le memorie della terra da cui provengono. Adrian Paci inscena ad esempio il proprio funerale secondo gli antichi rituali albanesi; ma, alla fine del canto sofferto della lamentatrice, lui si alza e se ne va. Ci racconta cioè il dolore delle partenze e dei lutti, ma anche il bisogno di trovare il coraggio e la speranza di aprirsi a una nuova vita. Uno dei pochi autori che in apparenza sembra recuperare i simboli religiosi della sua terra è l’algerino Adel Abdessemed; ma lui li accoglie per metterli in discussione, per scompaginarli in un frenetico filmato d’animazione, dove i simboli islamici si tramutano vorticosamente in arabeschi, in simboli ebraici, in motivi geometrici, il tutto senza soluzione di continuità. Con questa sua opera dal titolo graffiante, God Is Design, egli ci conduce provocatoriamente in un mondo dove i simbolismi religiosi e culturali si trasformano in una caotica e inafferrabile ragnatela di codici, e nulla sembra stare più al proprio posto».
Lina Sotis
Oggi alle 11 in città non ci sarà né un collezionista né un critico d’ arte: saranno tutti a Varese. Una lunga fila di amanti e conoscitori dell’ arte si è messa in macchina, stamattina, per festeggiare una donazione che abbellirà Milano e potrà essere ammirata da tutti. La presentazione avviene a Villa Panza, a Varese, perché in questo giro di capolavori è coinvolto il Fai, il fondo per l’ ambiente italiano. È una bellissima storia che ha per protagoniste due donne forti: Giulia Maria Crespi, presidente del Fai, e Claudia Gianferrari, erede della storica galleria fondata dal padre Ettore nel ‘ 36 e considerata la vatessa del ‘ 900. Claudia è stata gravemente ammalata, ma ha superato con coraggio il suo male. Durante la malattia ha però pensato a dare un futuro migliore alla sua strepitosa collezione che comprende tutti i grandi artisti del ‘ 900. La collezione di Claudia andrà, anche come sua testimonianza, a Villa Necchi Campiglio, in via Mozart, che ora è senza arredi. Oggi a Varese saranno presentati collezione e progetto di due donne unite dallo stesso amore per il bello e dall’ importanza della sua protezione. Che donne!
Circa trentacinque incisioni e una ventina di disegni e dipinti costituiscono il nucleo di un’esposizione che la veneziana Ca’ Pesaro dedica a Carol Rama. Prendendo avvio dalla serie “Le Parche”, acqueforti che raffigurano inquietanti figure di donne – realizzate tra il 1944 e il 1947 ed esposte per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1948 – il percorso espositivo della mostra (che resterà aperta fino al 29 ottobre) giunge fino all’incisione più recente, “Le Amiche”, testimoniando in modo efficace gli esiti della produzione incisoria dell’artista torinese, una attività che corrisponde ai due periodi figurativi dell’artista: le serie realizzate negli anni ’40 e quelle dal 1993 a oggi. Dopo un intervallo di quasi mezzo secolo Carol ha infatti ripreso a incidere producendo acqueforti, acquetinte e vernici molli, spesso rielaborate a mano, a smalto e acquerello. Queste incisioni costituiscono un repertorio dei motivi ricorrenti nella sua produzione figurativa, come rivela la selezione presente in mostra: ginocchia, mani, piedi, organi sessuali, ma anche le dentature della “Mucca pazza”, le lingue rosse delle “Malelingue” o i provocatori “Cadeau”.
IMMAGINI DELL’UGANDA A ROMA
Portare all’attenzione pubblica la difficile situazione del nord Uganda è lo scopo della mostra fotografica di Mauro Fermariello “Gulu, Uganda”, che si apre domani a Roma presso il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali. L’esposizione, aperta fino al primo ottobre, racconta il presente dell’Uganda dove la cessazione delle ostilità, avvenuta quest’anno, lascia sperare nella fine di una guerra ventennale che Jan Egeland, sottosegretario Onu per le emergenze umanitarie, ha definito “uno dei peggiori disastri umanitari del mondo”. Resta però il dramma dell’oltre milione e mezzo di persone, l’ottanta per cento della popolazione, rinchiuse nei cosiddetti “campi protetti”, e la distruzione di villaggi e infrastrutture causata dal conflitto. All’interno del progetto “Un libro per un libro”, i ricavati della vendita del catalogo serviranno per acquistare libri destinati a una biblioteca per i bambini di Gulu.
Tanya Reinhart*
È l’offensiva di Israele a Gaza che ha scatenato la nuova guerra in Libano. Da quando, nel 2000, si era ritirato dal Libano, gli Hezbollah avevano accuratamente evitato di scontrarsi con l’esercito israeliano in territorio di Israele (limitandosi a confronti nell’area di Shaba in Libano, che lo Stato ebraico continua a occupare). Il momento scelto dai guerriglieri sciiti per il primo attacco, e la retorica successiva, indica che la loro intenzione era ridurre la pressione sui palestinesi aprendo un nuovo fronte. La loro azione dunque può essere vista come il primo atto militare di solidarietà con i palestinesi nel mondo arabo. Qualunque cosa si pensi di ciò che hanno fatto gli Hezbollah, è importante capire la natura della guerra di Israele contro i palestinesi a Gaza.
L’offensiva delle forze armate israeliane nella Striscia non riguarda il soldato lì prigioniero. L’esercito preparava un attacco da mesi e premeva per passare all’azione, con lo scopo di distruggere l’infrastruttura di Hamas e il suo governo. Perciò ha avviato l’escalation l’8 giugno, quando ha assassinato Abu Samhadana, membro del governo di Hamas, e ha intensificato i cannoneggiamenti sui civili nella Striscia di Gaza. Già il 12 giugno il governo aveva autorizzato un’azione più ampia, rinviata però a causa delle reazioni internazionali suscitate dall’uccisione di civili palestinesi nei bombardamenti aerei del giorno seguente. Il rapimento del soldato è servito a «togliere la sicura»: l’operazione è cominciata il 28 giugno con la distruzione di infrastrutture a Gaza e la detenzione in massa della dirigenza di Hamas in Cisgiordania, altra cosa che era stata pianificata con settimane di anticipo.
Nel discorso pubblico israeliano, Israele ha messo fine all’occupazione di Gaza quando ha evacuato i suoi coloni dalla Striscia, e il comportamento dei palestinesi sarebbe dunque «da ingrati». Ma nulla è più lontano dalla realtà di questa descrizione. Nei fatti, come era previsto dal Piano di Disimpegno, Gaza è rimasta sotto il totale controllo militare israeliano, dall’esterno. Israele ha impedito l’indipendenza economica della Striscia, e non ha mai applicato neppure una delle clausole degli accordi sui valichi di frontiera del novembre 2005. Ha semplicemente sostituito la costosa occupazione di Gaza con un’occupazione più economica, che dal suo punto di vista lo esenta dalla responsabilità dell’occupante a garantire la sopravvivenza del milione e mezzo di residenti della Striscia, come dettato dalla quarta Convenzione di Ginevra.
Israele non ha bisogno di questo pezzo di terra, uno dei più densamente popolati al mondo e sprovvisto di risorse naturali. Il problema è che non può lasciar andare Gaza se vuole mantenere la Cisgiordania. Un terzo dei palestinesi sotto occupazione vive nella Striscia di Gaza. Se liberi, diverranno il centro della lotta di liberazione palestinese, con libero accesso al mondo arabo e a quello occidentale. Per controllare la Cisgiordania, Israele ha bisogno del pieno controllo di Gaza. E la nuova forma di sottomissione che ha ideato è trasformare l’intera Striscia in un campo di prigionia isolato dal mondo. Persone occupate e assediate, con nulla in cui sperare, e nessun mezzo alternativo di lotta politica, cercheranno sempre di combattere il loro oppressore. I palestinesi prigionieri a Gaza hanno trovato un modo per disturbare la vita degli israeliani nelle vicinanze della Striscia lanciando missili artigianali Qassam contro le città israeliane che circondano la Striscia. Questi razzi rudimentali non hanno la precisione necessaria a colpire un obiettivo, e di rado hanno fatto vittime israeliane; causano però danni fisici e psicologici e disturbano la vita dei quartieri israeliani su cui si abbattono. Agli occhi di molti palestinesi, i Qassam sono una risposta alla guerra che Israele ha dichiarato loro. Come ha detto uno studente di Gaza al New York Times, «Perché dobbiamo essere solo noi a vivere nella paura? Con questi missili anche Israele ha paura. Dobbiamo vivere in pace insieme, o vivere insieme nella paura» (Nyt, 9 luglio 2006).
L’esercito più potente del Medio Oriente non ha risposte militari a questi razzi fatti in casa. Una risposta possibile è quella che Hamas ha sempre proposto, e il suo premier Haniyeh ha ripetuto questa settimana: un cessate il fuoco complessivo. Nei 17 mesi trascorsi da quando ha annunciato la decisione di abbandonare la lotta armata a favore della lotta politica, e dichiarato un cessate-il-fuoco unilaterale (tahdiya, calma), Hamas non ha preso parte al lancio dei Qassam, salvo sotto grave provocazione israeliana come nell’escalation di giugno. Hamas però continua a lottare contro l’occupazione di Gaza e Cisgiordania. Dal punto di vista di Israele, il risultato delle elezioni palestinesi è un disastro, perché per la prima volta hanno dei dirigenti che insistono nel rappresentare gli interessi palestinesi invece di limitarsi a collaborare con le richieste israeliane. Poiché finire l’occupazione è la cosa che Israele non vuole considerare, l’opzione seguita dall’esercito è spezzare i palestinesi con una forza devastante. Devono essere affamati, bombardati, terrorizzati con ordigni assordanti per mesi, finché capiranno che ribellarsi è futile e accettare la prigione a vita è la loro unica speranza di vita. Il loro sistema politico eletto, istituzioni e polizia vanno distrutte. Per Israele, Gaza dovrebbe essere governata da gangs che collaborano con i secondini della prigione.
L’esercito israeliano ha sete di guerra. Non si lascerà fermare da preoccupazioni per i soldati rapiti. Dal 2002 i militari sostengono che anche a Gaza è necessaria un’operazione tipo lo «Scudo difensivo» di Jenin. Esattamente un anno fa, il 15 luglio (prima del Disimpegno da Gaza), l’esercito aveva concentrato le forze sul confine della Striscia per procedere a un’offensiva di quel tipo a Gaza. Gli Stati uniti però opposero il veto. Il segretario di stato Usa Rice arrivò per una visita d’emergenza descritta come acrimoniosa e tempestosa, e l’esercito fu costretto a ritirarsi. Ora finalmente il suo momento è arrivato. Con l’islamofobia nell’amministrazione Bush giunta all’acme, sembra che gli Usa siano pronti ad autorizzare l’operazione, a condizione che non provochi l’indignazione globale con attacchi troppo pubblicizzati ai civili (sulla posizione attuale dell’amministrazione Usa vedi Ori Nir, «Us Seen Backing Israeli Moves to Topple Hamas», The Forward, 7 luglio 2006, www.forward.com/articles/8063).
Ricevuto il via libera alla sua offensiva, l’unica preoccupazione dell’esercito è l’immagine pubblica. Fishman ha riferito martedì scorso che per l’esercito «ciò che rischia di far deragliare questo imponente sforzo militare e diplomatico» sono le notizie di crisi umanitarie a Gaza. Perciò, avrà cura di lasciar entrare del cibo a Gaza. E’ necessario nutrire i palestinesi perché sia possibile continuare indisturbati a ucciderli.
* Docente di linguistica alle università di Tel Aviv e di Utrecht, ha pubblicato per Marco Tropea «Distruggere la Palestina».
La giovane artista afroamericana, in mostra al Metropolitan Museum di New York, affronta con le sue silhouettes nere storie come la devastazione dell’uragano Katrina a New Orleans e la tratta degli schiavi
Alessandro Cassin
«Questa mostra non è semplicemente su New Orleans o Katrina o i disastri causati dall’acqua. È un tentativo di capire il discorrere inconscio che si mette in moto quando parliamo di questi eventi», scrive Kara Walker sul pannello introduttivo alla sua mostra al Metropolitan Museum (fino al 30 luglio). In contemporanea a una deludente Biennale dell’arte americana al Whitney Museum, ecco una rassegna capace di stabilire rapporti allusivi e profondi tra l’arte contemporanea e la realtà.
L’ignobile spettacolo di depravazione e ingiustizie razziali messo a nudo dall’uragano Katrina, è il punto di partenza della riflessione della Walker che ha voluto evidenziare le interconnessioni tra acqua, etnia e povertà nella storia americana. Da qui il titolo, After the Deluge. Con grande intelligenza Walker non commenta la cronaca: nessuna opera è stata realizzata dopo la devastazione di New Orleans. Al contrario, la mostra riflette un atteggiamento mentale, uno sdegno privato e una contestualizzazione del disastro. A soli 36 anni, Kara Walker è la più giovane artista a ricevere l’onore di una personale al Metropolitan Museum. Più noto per le mummie egizie e i vasi greci, il museo ha ora un dipartimento di arte moderna e contemporanea. Il curatore, Gary Tinterow, un anno fa ebbe la lungimiranza di offrire carta bianca a Walker per una mostra in cui esporre il proprio lavoro assieme a pezzi di ogni epoca e provenienza, da scegliere nella vasta collezione del museo.
L’opera di Kara Walker, oggi contesa dai principali musei del mondo, occupa un posto a sé nel panorama contemporaneo. Si tratta di un continuo confronto tra il dato storico (la storia del conflitto razziale negli Usa nel periodo precedente alla guerra civile) e l’invenzione narrativa. Il tutto eseguito resuscitando lo «stencil», una tecnica settecentesca che consiste nelle creazioni di silhouettes monocromatiche. Lo stencil è un richiamo cosciente al passatempo delle mogli dei proprietari delle piantagioni e costituisce un punto d’incontro tra storia, arti minori e vita quotidiana. Il suo insistere sul problema razziale e sulle complesse ramificazioni sessuali non ha nulla di vittimistico. L’eredità dello schiavismo, sembra volerci indicare, è che siamo tutte vittime. Non a caso ogni personaggio, schiavo o padrone, è rappresentato in nero, di fatto eliminando l’aspetto esteriore della differenza razziale.
Per After the Deluge, l’artista afroamericana di origine californiana, ha creato una sequenza di immagini e brevi testi aforistici. Le sue silhouettes in bianco e nero si alternano a stencil e paper cuts del ‘700-‘800, pitture a olio, e a un oggetto etnografico del Congo. Sebbene la mostra è concepita come una «installazione narrativa» alcuni pezzi hanno un maggiore peso specifico. Tra questi General Defeat, gouaches e paper cut di Walker stessa, le silhouettes del francese Auguste Edouart, e Gulf Stream di Winslow Homer, che ritrae un naufrago nero nel mare in tempesta. «Ho cercato di far luce sulle rappresentazioni visive della vita dei neri, in particolare, e sull’effetto su di esse di forze esterne come il mare, la tratta degli schiavi e l’incapacità di erigere barriere», dice l’artista. Walker ripercorre il ruolo dell’acqua nella storia dei neri d’America a partire dalla traversata transoceanica nelle navi degli schiavi, fino all’uragano Katrina. Sebbene «politica» la sua è un’arte senza dogmi. L’ironia e la provocazione sostituiscono ogni certezza. Il suo è un discorso ellittico e allusivo. Il New York Times arriva a sostenere che l’uragano Katrina è per Kara Walker ciò che le guerre napoleoniche sono state per Goya. La forza di queste silhouette bidimensionali, consiste nel dar voce all’indicibile. Miles Davis sosteneva che «se i bianchi potessero leggere i pensieri dei neri ne sarebbero terrorizzati». Kara Walker dà voce a questi pensieri con un linguaggio fatto di cut outs, ritagli di giornale, disegni, lanterne magiche e caricature. Che l’artista abbia raggiunto maturità e fama internazionale non è un mistero. Al momento è in corso anche una sua personale a Chelsea, presso la Sikkema Jenkins Gallery, il cui pezzo forte è «8 Possible Beginnigs…», un video di 16 minuti in cui l’artista anima le sue silhouettes. Inoltre, Walker è stata inclusa nella collettiva Dark, in corso al Bojmans-van Beuningen Museum di Rotterdam.
Omaggio pesarese all’artista che disegna e filma, narrando storie della nostra società
Silvia Veroli – Pesaro
I film animati di Ursula Ferrara, già disegnatrice di fumetti porno, lo sono perché lei, da vent’anni, oltre a scriverli, disegnarli e filmarli, ci mette l’anima e la materia. Li produce letteralmente perché sono lavori indipendenti, ma anche perché li fabbrica sporcandosi le mani. L’artista artigiana fiorentina ha esordito a Bellaria nell’86 vincendo quell’edizione e quella dell’88; la Settimana della critica dell’ultimo Festival di Cannes ha voluto il suo News, e Pesaro, in un ufficioso anticipo di Mostra del Nuovo Cinema 2006, gli ha dedicato una retrospettiva filmica completa, accompagnata da una mostra di quadri, ospitati allo 0.75 di Palazzo Gradari.
Alla rassegna pesarese Ursula è arrivata come avrebbe fatto Mary Poppins, al primo cambio di vento e con una magica valigia dell’attore da cui ha tirato fuori oltre ai bozzetti e ai lucidi dei suoi lavori (a svelare come è che funziona l’alchimia che da un semplice tratto di matita grassa porta a un film) certi libriccioli didattici di sua invenzione per provare a fabbricare storyboard animate, a beneficio dei ragazzi dell’Istituto d’arte di Urbino presenti in sala.
I film animati di Ursula Ferrara durano una manciata di minuti l’uno, richiedono ventiquattro tavole per ogni secondo di girato, e, nei venti anni di produzione hanno visto una disciplinata evoluzione di tecniche e stili, condotta con costanza e coerenza rispettosamente a tempo con lo scorrere delle stagioni emotive dell’autrice.
La nascita della figlia ha accelerato, oltre la vita vera, il ritmo dell’azione cinematografica e ha reso il segno più impressionista: è evidente in Come persone allegro e frenetico travelling teso all’infinito e scandito dalle note di Recuordos de Alhambra. Col tempo le tavole si sono fatte più grandi, i pennarelli sui lucidi (un incanto quelli Folli del film d’esordio, tutto una capriola di corpi avvinghiati) hanno lasciato il posto alle matite su acetato.
Nel ’97, con Quasi niente, le ombreggiature morbide del bianco nero si sono accese di tutti i colori della tavolozza. Col disegno e il montaggio è cambiata la musica, elemento preziosissimo in questi film: all’inizio erano le note perfette prese in prestito a Brassen o Jim Morrison, poi sono diventate la colonna sonora del quotidiano, la musica familiare di sbadigli, sgocciolii di rubinetti, brontolii da macchinetta del caffè, riprodotta dalla stessa Ursula Ferrara che, se decidesse, malauguratamente, di abbandonare l’arte visiva, avrebbe pronta una brillante carriera da rumorista.
C’è un filo rosso che lega i film, pure a volte tanto diversi tra loro, ed è un eterno femmineo fertile e consolatorio da cui tutte le storie cominciano e dove spesso approdano. In Cinque stanze, Amore asimmetrico (una ghirlanda di citazioni pittoriche: Escher, Picasso, Chagall…) e persino nel verdissimo Partita (che sarebbe un’ottima sigla per Germania 2006) le donne la fanno da padrone con topless da ballerine cretesi, grandi occhi bizantini, abbracci di gambe aperte, parti di uova fatali, chiome come maree, accoppiamenti giudiziosi e gioiose suzioni di tutte le parti di corpi felici.
Una certa innocente corporeità si ritrova anche nell’ultimo film, presentato a Cannes, il più drammatico e lacerato di quelli di Ursula Ferrara. News è una rassegna stampa internazionale di notizie fastidiose, un tg animato fatto dalla giustapposizione di ritagli di giornale, disegni, olii, polaroid, frammenti di gusci d’uovo, scampoli di stoffa, così spietato e onesto che andrebbe fatto vedere ai bambini.
Si parla di infibulazione, foreste pluviali, prostituzione, obesità, banca mondiale, fame, malasanità, in pochi istanti centrifugati e, miracolosamente, si riesce a capire tutto.
Una complicità che diede vita ad alcuni lavori a quattro mani.
Ester Coen
Muse furtive, silenziose vestali, eleganti compagne: una lunga teoria di donne ingiustamente oscurate dalle trame di una storia, per tradizione costruita intorno a figure maschili autorevoli e forti. E questa in parte anche la storia di una coppia il cui nome ha impresso un segno profondo in mezzo secolo di vicende artistiche, dagli inizi rivoluzionari del dadaismo fino a “certe ” ricerche astratte e formali degli anni sessanta: Arp è il nome che unisce Jaean- o Hans- a Sophie Taeuber: Nell’interessante mostra proposta dal Museo Correr sino al 16 Luglio e organizzata dai Musei Civici Veneziani in collaborazione con le tre Fondazioni per la tutela delle opere dei due artisti – Jean & Sophie Arp Dada e oltre, per la cura di Elena de Càrdenas Malagodi e Stefano Cecchetto – si può afferrare il senso vero e la sottile complicità di due vite parallele, di un lavoro che si intreccia anche oltre la fisicità dell’esistenza: Quando Jaen incontra Sophie a Zurigo alla fine del 1915, proprio alla vigilia del leggendario febbraio che vide improvvisamente confluire nel Cabaret Voltaire
molteplici e composite energie artistiche in un’esplosiva miscela di idee e personaggi, la sua personalità è già del tutto
formata. Ha partecipato in Svizzera e Francia, alle appassionate battaglie, alla nascita e alla crescita delle storiche avanguardie del primo novecento, ha esposto insieme a Matisse , Signac, van Dongen, ha conosciuto i più grandi artisti del momento da Kandinsky a Max Ernst, a Picasso, ai Delaunay, a Modigliani. In un clima di ribellione, nell’alternanza di uno sguardo che fluttua tra figurazioni cariche, rinforzate da un solido segno plastico, e un’essenzialità rigorosa che sposta le sue linee verso luoghi di più concreta astrazione, Arp insegue tuttavia le proprie emozioni.
Così le stesse, originali tecniche dell’avanguardia provocano logiche diverse da quelle che le hanno generate. E i collage, costruiti per giustapposizione all’intero di un ordine razionale, chiudono l’idea di casualità in uno schema divenuto incoerente rispetto al sistema di origine. In questa curiosa ambivalenza si ritrova lo spirito di un artista all’inseguimento di un formale anonimato, singolare se messa a confronto con le fragorose e scomposte dichiarazioni del gruppo dadaista, ferocemente avverso ad ogni azione estetica. È questo, allora , il terreno sul quale si incontrano le personalità di Jean e Sophie. Più stravagante ed eccentrico lui, più isolata e rigorosa lei, immersa in minuziose analisi compositive sui ritmi cromatici da trasporre con inconsueta sensibilità alle arti meno nobili, ai manufatti artigianali, alle stoffe e agli arredi. “Abolimmo nel nostro lavoro” ricorderà Jaen Arp, alcuni anni dopo la morte della moglie ,”quando non era il risultato del gioco e del buon gusto. Anche la personalità ci sembrava un peso inopportuno e inutile, dal momento che si era sviluppato in un mondo che consideravamo ormai morto e pietrificato. Fu allora che nacquero costruzioni rigorose quanto impersonali, fatte di superfici e colori, fuori da qualsiasi azzardo.” Fu allora che tra i due artisti si stabilì quella complicità che, pur dando vita a opere a quattro mani, voleva prima di tutto dare vita a una collaborazione spontanea, decisa a scoprire, la nascosta, quasi segreta affinità tra l’estrema riduzione formale dell’una e la più eterogenea visione dell’altro. Le sale del Correr documentano con estrema chiarezza i passaggi essenziali di questi intrecci, grazie al sapiente allestimento di Daniela Ferretti, che con forte risalto allinea l’estrema purezza di un mondo al passo con cadenze e armonie, con euritmie e consonanze, con accordi e corrispondenze.
Ecco i primi Reliéfs di Jaean mostrati tra i severi accostamenti tonali e schematiche costruzioni elementari e le marionette di Sophie snodarsi in un fantasioso movimento meccanico, come ad accendere di colori allegri ed attentamente declinati le inflessibili strutture geometriche. Ecco ancora il progetto per l’Aubette o per la Galerie Goemans: assonometrie, piante, disegni architettonici per interni e per esterni in un unico accordo integrato di spazi e arredi, dove Sophie – come scrive Sergio Polano – appare “lucida interprete novecentesca dell’ipotesi di integrare le arti”. Tentativo che l’aveva spinta a cercare nell’appoggio di Van Doesburg quella visione ideale teorizzata dall’artista olandese nella musicale elevazione di linee e piani orientati verso il compimento di un puro equilibrio visivo. Forma rigida, elementare, sobria, severa, ferma quella di Sophie, curva, naturale, metamorfica, voluttuosa, quella complementare di Jean. Come se la dolcezza dei profili di sculture e rilievi sgorgasse dalla naturalezza e spontaneità della sua anima lirica, aggettivo che Lorenza Trucchi – nel catalogo edito da Marsilio – così giustamente attribuisce alla personalità dell’artista: E nella messa in scena silente della ricreata sala della Biennale del 1954 si dispongono misteriosamente nello spazio tutte le suggestioni e gli incanti di quelle concreazioni, di quei ritagli, di quelle forma turgide e insieme scarnificate, stelle che si trasformano in fiori, offerte alla memoria della delicata anima di Sphie.
Chiara Gatti
Altro che donne fragili e disperate casalinghe: Quelle protagoniste della mostra che inaugura alla Triennale sono dei veri mastini, capaci di dare punti ai colleghi maschi sia sul piano dell’arte sia su quello della vita quotidiana. E visto che la rassegna costituisce il più importante evento collaterale del Salone del Mobile, la vita quotidiana – o meglio, quella domestica – rappresenta proprio il tema centrale su cui sono state chiamate a confrontarsi trentacinque autrici contemporanee, italiane e straniere, più o meno note.
Ideata da Luigi Settembrini e curata da un’altra signora dell’arte, la storica e mercante Claudia Gian Ferrari, la rassegna ironizza sul ruolo della donna come “angelo del focolare”, nel senso che la casa, più che accudirla, tende di norma a incendiarla: Chiamatela psicosi del nido o intolleranza alle quattro mura, fatto sta che nessuna di queste trentacinque dark lady in potenza sembra guardare con nostalgia all’antico calore del tinello, interpretando purtroppo gli spazi dell’abitare come una gabbia scomoda e ostile.
Basti pensare alla stanza di Paola Pivi, milanese, classe 1971, fatta di pareti lattiginose, decorate da migliaia di cerchietti che mandano in tilt la vista, costringendo alla fuga. Oppure al pavimento in legno di un’altra giovanissima italiana, Sarah Ciracì, fracassato dal raid di due gigantesche trivelle. O, ancora, allo zerbino di chiodi, simile al letto di un fachiro, inciso sarcasticamente dalla libanese Mona Hatoum con la scritta Welcome. Più che di angeli stiamo parlando, insomma, di diavolesse scatenate, che invitano – è il caso di Angela Bulloch – a sedersi su enormi divani, così morbidi da non potersi più alzare o che invogliano, come l’americana Pae White, a entrare in camere da letto che, a guardarci bene, sono tappezzate di occhi e sguardi un po’ morbosi. Una bella favola amara e generazionale dunque, dove non manca la presenza di super-donne come Marina Abramovic, che in abito da sera, pulisce i pavimenti prima di andarsene per sempre, la cantante americana Patti Smith con la sua “Stanza dell’anima”, e la poetessa Patrizia Valduga che recita, in video, versi su un amore perduto: “Un bisogno d’amore che ti ingloba / il bisogno d’amore bella roba”.
Accanto a un lavoro inedito di Vanessa Beecrof, che ha imbottito una casa-container con un esercito di domestiche di colore, la mostra ospita l’intervento di tre attrici: Luciana Lettizzetto, caustica interprete dei rapporti tra uomo, donna e faccende domestiche, Maria Cassi, col suo galateo mordace, e Irene Papas che non ha perso un’unghia del suo fascino greco e ha dedicato una stanza alla regina virago Teodora, che salvò l’Impero di Bisanzio e di se stessa diceva: “Nei miei pensieri fiumi di ghiaccio, gelide acque circondano il mio cuore”. Fra angeli e demoni la mostra è intensa e antidemagogica, da non perdere per farsi un’idea sull’energia delle ultime ricerche estetiche al femminile.
Giosetta Fioroni con Franco Marcoaldi e Mario Brunello stasera all’Officina Arte al Borghetto di Roma
Emanuele Trevi
Animalia è il titolo della nuova mostra di Giosetta Fioroni che si inaugura stasera all’Officina Arte al Borghetto di Roma. Il colpo d’occhio che attende il visitatore, anche abituato all’estro multiforme e imprevedibile dell’artista, è dei più intensi e sorprendenti. Disposti in un grande rettangolo, immobili ma partecipi del gioco di luci creato per loro da Pasquale Mari, quaranta cani in terracotta policroma mostrano il profilo, tutti intenti a qualcosa che sembra avere catturato la loro attenzione. Chi conosce i cani, sa bene che questa immobilità e capacità di attenzione sono in loro connesse non tanto alla vista, come accade negli uomini, ma all’olfatto. Prima di seguire una pista, il cane la annusa, immobile, decidendo il da farsi. Questa attitudine “riflessiva” è, per l’uomo che la osserva, di per sé arcana, perché poi le decisioni prese raramente corrispondono alle nostre gerarchie e alle nostre aspettative. Anche nel più severo cane pastore o da guardia persiste un certo gusto per le occupazioni frivole, ai limiti del gratuito. E non parliamo dei nostri oziosi, nevrotici, viziati cani d’appartamento. D’altra parte, questa costitutiva frivolezza non mette nessun cane al riparo da un vita emotiva intensa fino alla disperazione, con dolori e angosce inenarrabili. Nell’ultimo film di Jim Jarmush, Jessica Lange interpreta il ruolo di una psicoterapeuta per cani, e la cosa non è poi così assurda. Giosetta Fioroni ha dunque catturato un momento e un aspetto preciso dell’esistenza canina, replicato in tutti gli esemplari modellati. Così facendo, ha reso un omaggio non solo a questi animali, ma all’olfatto, il senso più lontano e divergente da ogni tipo di arte plastica. Ma perché, allora, quel plurale neutro così generico, Animalia, se si tratta di cani? Bisogna avvicinarsi a questa specie di grande bassorilievo per capirlo. Quella che da lontano ci sembrava solo la forma di un cane modellata di profilo, ci si rivela una specie di scrigno, o di specchio, dove trovano dimora innumerevoli altre forme animali. Nel corpo di un setter dorme una nidiata di porcellini appena nati; in quello di un bracco dal profilo mite si rincorrono tre conigli rosa… Il corpo di altri cani è letteralmente saturo di mani umane, col palmo aperto, come a rappresentare una sete inestinguibile di carezze, tanto violenta da trasformare chi ne prova il desiderio nel suo stesso oggetto. È totale l’identità di vedute con un poeta ormai da molti anni complice di tanti esperimenti con Giosetta Fioroni, Franco Marcoaldi, che ha dato in questi giorni alle stampe un suo bestiario intitolato Animali in versi (Einaudi, pp.95, euro 11,00). Anche la zoologia poetica di Marcoaldi, come quella plastica della Fioroni, ammette al suo centro un regime d’esistenza metamorfico, dove ogni singolo animale tanto è unico e irripetibile quanto vale per tutti gli altri: umani compresi che abbiano a che fare con loro. Basta dormirci assieme, dice Marcoaldi nella poesia più bella della sua raccolta, per capire che “la metamorfosi è possibile,/ che uomo e gatto e cane sono/ entità volatili e cangianti”.
Una strada difficile da percorrere, sia in terracotta che in versi, quella intrapresa dalla Fioroni e Marcoaldi. Perché, di fronte agli animali, non si può che tenere i piedi in due staffe, sfidando tutte le contraddizioni: e il senso della totale alterità deve trovare il modo di convivere con quello dell’identificazione, senza elidersi a vicenda. Solo così, realizzando una felice coincidenza degli opposti, l’animale prende forma.
di Alison Abbot (traduzione di Sylvie Coyaud)
In Lumen de Lumine, il video di sei minuti che Ken McMullen ha girato nel tunnel di un acceleratore di particelle in disuso, al Centro Europeo per la Ricerca Nucleare di Ginevra, una danzatrice fa ruotare sopra la propria testa una lampadina, lasciandone scorrere via via il filo: dapprima è lei a controllare il moto della lampadina, ma poi il filo s’allunga e la situazione si ribalta: è quel moto a trasferirsi nel corpo di lei che oscilla ritmicamente per mantenere l’equilibrio. Unica fonte luminosa nella caverna sotterranea, quando ha la lampada alle spalle, la danzatrice passa dalla luce al buio. Alla fine tira a sé il filo e la luce si spegne.
Il 9 febbraio, durante l’anteprima di quella che è considerata la più grande installazione artistica mai realizzata in Europa, quella figura solitaria in un abito rosso cadmio è stata proietta in loop per tutta la notte sul muro, alto 50 metri e lungo 80, della centrale nucleare di Torness, vicino ad Edimburgo. È la versione rimasterizzata di un filmato realizzato per la mostra Signatures of the Invisible seguita a un incontro tra fisici del Cenr e artisti europei nel 2000. Da Londra era anda in Cina, in Giappone e negli Stati Uniti, mentre in Europa era sostata tra l’altro a Roma, nel complesso del Vittoriano.
Quando la lampadina si spegne, la danzatrice sussurra “Sein oder nicht sein, das ist die Frange” (si sente in alcuni punti nei pressi della centrale).
In tedesco perché l’incipit del soliloquio di Amleto allude agli scienziati
Tedeschi che hanno sviluppato la teoria quantistica. La sequenza coreografica. Così semplice all’apparenza, rispecchia gli elementi contraddittori del mondo quantistico nel quale non è possibile conoscere con esattezza la posizione e un’altra proprietà delle particelle subatomiche.
Quella figura di donna danza nella luce o nell’oscurità? È vestita di rosso o di nero? Oni volta la risposta è, né l’uno né l’altro ed entrambi perché la realtà ne è la somma. Quanto alla centrale di Torness, ricorda che la fissione dell’atomo può servire il bene e il male, altra dualità.
Il promotore dell’installazione, l’impresario scozzese Ricky Demarco, spera di trovare uno sponsor e di mantenerla in funzione un anno intero per un pubblico potenziale di 16 milioni di persone. Tanti sono i passeggeri che usano il collegamento ferroviario tra Londra ed Edimburgo, ai quali si possono aggiungere gli automobilisti in transito su una grande strada, a poche centinaia di metri dalla centrale. Gli spettatori non vedranno mai due volte la stessa immagine. Non solo il suo nitore cambierà con le condizioni meteorologiche e la luce naturale, ma l’immagine stessa dipenderà dal moto di chi la guarda, un riferimento alla teoria della relatività di Einstein in cui lunghezza e tempo cambiano in funzione della velocità.
Dal movimento “Atoms for Peace” nel secondo dopoguerra, l’energia nucleare non aveva mai più avuto una simile occasione di “pubbliche relazioni”. Né McMullen, un artista e cineasta britannico che negli anni Settanta ha lavorato con Joseph Beuys, poteva prevedere che la sua installazione sarebbe capitata nel bel mezzo di polemiche sulla necessità o meno di costruire nuove centrali. Il suo scopo non è direttamente politico: nasce da un interesse personale per la fisica delle alte energie. È iniziato negli anni Novanta, quando lui aveva conosciuto Maurice Jacob, uno dei massimi teorici del Cerne ne era diventato amico. La loro liason intellettuale divampò in una passione che per McMullen culmina ora nello spettacolo di Torness:
Insieme a Jacob, nel frattempo aveva portato al Cern per due settimane un gruppo di famosi artisti europei per metterli di fronte all’astrazione estrema della fisica delle particelle, ai laboratori attrezzati con tecnologie da era spaziale, nuovi materiali e un’ennesima potenza di calcolo: Gli artisti passarono una parte del tempo a esplorare le installazioni sperimentali e l’altra in seminari e lezioni, per imparare – da intellettuali che sono la loro immagine speculare nel mondo della scienza – qualcosa sulle forme invisibili che costituiscono il nostro universo quotidiano. Uno si essi preferì stare in cima a un serbatoio d’acqua per ammirare le Alpi al di là dei laboratori, McMullen invece si concentrò sul gioco delle menti che avveniva al loro interno.
Delle varie opere generate da quell’incontro, Lumen de Lumine è forse la più potente, va oltre l’etica per intrecciare molteplici piani. “non ho mai avuto l’intenzione di descrivere o illustrare quanto ho capito di fisica, ma di riflettere su quanto ho imparato, sulla natura della luce , per esempio, e della meccanica quantistica”, dice McMullen. Si è accorto che alla centrale di Torness la sua opera assumeva dimensioni che al Cern non avrebbe potuto immaginare. Basti pensare al videoproiettore high-tec, dotato di un proprio generatore, sistemato in una tenuta agricola. “Dal campo di un contadino proietta immagini su una delle strutture industriali più avanzate che ci siano” dice. “È la falce e martello dell’età contemporanea”.
A Londra, Dublino e Stoccolma, tre mostre ospitano le opere di Hilma af Klint, la pittrice e teosofa svedese che, esplorando incessantemente l’energia e i processi della vita, giunse all’astrattismo prima di Kupka, Mondrian, Malevic e Kandinski
Giannina Mura
Il mondo non era ancora pronto per i suoi dipinti, perciò la pittrice svedese Hilma af Klint (1862-1944) predispose nel suo testamento che venissero mostrati al pubblico solo vent’anni dopo la sua morte. Ne passeranno invece quarantadue. Nel 1986, a Los Angeles, in occasione della grande mostra The spiritual in art – Abstract painting 1890-1985, la sua “opera segreta” sorprende tutti, tanto più che, totalmente estranea alle avanguardie storiche, l’artista giunge all’astrattismo prima di Kupka, Mondrian, Malevic e Kandinski. I suoi dipinti vengono pure avvicinati all’espressionismo americano degli anni Sessanta e chi li contempla oggi – per esempio nelle tre mostre a lei dedicate in corso al Camden Arts Centre di Londra, all’Irish Museum of Modern Art di Dublino e al Moderna Museet di Stoccolma – li può facilmente associare a certe correnti della pittura contemporanea. Pioniera per caso? Non proprio. Nulla è fortuito nel suo rigoroso percorso artistico. Ben lontana dall’art pour l’art, prendendo le mosse da un eclettico universo esoterico, Hilma af Klint concepisce una visionaria strada tutta per sé verso una pittura che coniuga regole geometriche e ricerca metafisica, così da farsi medium di un ordine altro: “trasmettere i messaggi dal mondo spirituale all’umanità di luce”.
Del resto, per lei l’astrattismo non esclude definitivamente la figurazione, alla radice della sua pratica artistica sin da giovanissima. Decisa a guadagnarsi da vivere come ritrattista e paesaggista, segue infatti i rinomati corsi di Kerstin Cardon e, dopo l’istituto d’arte, si iscrive nel 1882 all’accademia di Belle Arti di Stoccolma, dove incontra Anna Cassel, l’amica di una vita. Diplomata nel 1887, ottiene uno studio nello stesso palazzo del Blanch’s Art Salon (importante centro dell’arte moderna svedese, dove espone anche Munch) e intraprende l’attività di pittrice figurativa con un certo successo. Lavora inoltre come disegnatrice all’Istituto di Veterinaria, collaborando anche a diversi periodici come illustratrice.
Intanto, aderisce alla teosofia di Helena P. Blavatsky e tiene sedute spiritiche regolari insieme ad Anna Cassel e ad altre tre amiche (si autoproclamano de Fem, le cinque), dando vita a una forma occulta di autocoscienza e di singolare sperimentazione artistica. Le donne si riuniscono ogni settimana per ricevere gli insegnamenti di diversi spiriti guida, i cui messaggi trasmessi da Hilma, la medium principale, vengono registrati a partire dal 1892, attraverso la scrittura e il disegno automatico che, se anticipano gli esperimenti surrealisti (cadavre exquis), prefigurano soprattutto l’astrattismo a venire della pittrice. Ogni seduta è documentata da più di centoventi album, oggi conservati dalla Fondazione Hilma af Klint di Stoccolma.
Proprio in una di queste sedute, nel 1904, l’artista si vede proporre il compito di eseguire “dipinti sul piano astrale” al fine di rappresentare l’invisibile e l’eterno per la creazione di un tempio futuro. Nonostante il difficile periodo iniziatico che le viene prospettato (“Diventerai cieca, dovrai negare te stessa per piegare il tuo orgoglio. Barcollerai quando la tua debolezza sarà messa alla prova. Diventerai una voce potente, ma prima sarai ridotta in polvere”), Hilma accetta: sa di essere scelta perché affine alle antiche vestali, e si impegna ad abbandonare la pittura figurativa per dedicare un anno di lavoro ai “dipinti per il Tempio”.
Dal novembre 1906 fino all’aprile 1908 si consacra, quindi, all’incarico trascendente: “Dipingevo direttamente sulla tela senza disegni preliminari, con grande forza. Non immaginavo l’esito finale, eppure lavoravo alacremente e sicura di me, senza modificare una sola pennellata”. Completa così centoundici dipinti. Verde, giallo e blu dominano la prima serie cui dà il nome di “WU”: W per materia, U per spirito, intimamente connessi nella sua concezione del mondo. Lavorando quattro ore al giorno, impiega sei giorni per ogni dipinto. Gli spiriti guida, afferma, le impongono di non mostrarli a nessuno e le danno sette mesi per ultimare la missione. Alla vigilia di Natale completa dieci grandi quadri (328×240 cm) che presentano, come la serie WU, forme di arabeschi disposti su un fondo di colore uniforme in tensione estetica, con o senza elementi testuali, a evocare l’essenza delle quattro età umane.
Nella primavera del 1908 realizza la serie WUS, o Sic transit gloria mundi, e incontra Rudolf Steiner. Il padre dell’antroposofia visita il suo studio a Stoccolma e, senza altri commenti, le predice che i suoi dipinti, troppo avanti nel tempo, saranno compresi solo cinquant’anni più tardi. Forse per questo Hilma decide di non mostrare la sua opera al pubblico e, per vivere, riprende la pittura rittrattista fino al 1912, quando gli spiriti guida si manifestano di nuovo, stavolta però come immagini interiori. Torna perciò a dipingere “per il Tempio” fino al 1915, sostenuta dalle amiche che registrano le sue esperienze durante l’esecuzione. In questo periodo produce la serie “SUW”, che rappresenta cigni in bianco e nero in rapporto speculare. Una simmetria emblematica della dualità terrena alla ricerca dell’unità, fonte di evoluzione e di armonia, filo rosso di tutta la sua opera, che esplora incessantemente l’energia e i processi della vita. Conclude con la serie “UW” (nel dipinto Duvan N.1 del gruppo 9, la spirale che attraversa la forma circolare sembra la doppia elica del Dna scoperta solo nel 1953) dove il tema dell’amore assume forma cosmica.
Più razionale che sentimentale, di questo intenso periodo l’artista nota: “Tutta la differenza sta nell’impegnarsi in un primo tempo, nella grazia e nella sofferenza, con poteri parzialmente sconosciuti per giungere con il loro aiuto alla conoscenza di sé, e poi, una volta ottenuto il livello di autoconoscenza necessario, intraprendere lo studio da sé. Adesso so di essere, in verità, un atomo nell’universo suscettibile di infinite possibilità di sviluppo. Possibilità che voglio gradualmente rivelare”.
Mirando con precisione matematica alla rappresentazione dell’invisibile, spesso con l’ausilio della “geometria divina” (triangoli, cerchi, quadrati), dipinto dopo dipinto Hilma af Klint elabora così un complesso sistema visivo in cui ogni opera, intitolata e numerata in ordine progressivo, costituisce un gruppo, anch’esso numerato e intitolato, a formare un’ulteriore serie. Benché, sin dal 1905, l’artista abbia progettato l’edificio per i suoi dipinti – una struttura a spirale che li avrebbe esposti al pubblico in ordine sequenziale verso il centro – lo studio a due piani costruito tra il 1916 e 1917 nell’isola di Munsö (dove trascorreva le estati con le amiche del gruppo de Fem sin dal 1912) presenta un’architettura normale, e solo rare persone potranno contemplarvi “l’opera segreta”. Ma la sua inclassificabile sperimentazione artistica non si ferma a questa grande “avventura della mente” e prosegue per tutta la vita senza rivendicare altra appartenenza che a se stessa.
Alla sua morte, lascia al nipote Erik af Klint più di mille dipinti e disegni, nonché centoventiquattro manoscritti in cui descrive la sua pratica artistica e spirituale, attività integranti della sua personale cosmologia basata sulla scienza moderna (la serie dell’atomo cui lavora nel 1917 è ispirata dalla teoria della relatività di Albert Einstein), la teosofia, l’antroposofia, il cristianesimo. Sebbene per lei le religioni altro non siano che molteplici itinerari verso l’unità: “Dio non è un essere ma una forza – dice – non una creatura ma l’eternità, non qualcosa che ha forma, bensì vita che assume forme infinite”.
Mettendo in opera un’originale mappa energetica d’introspezione dell’infinito, Hilma af Klint accede con sincretismo metafisico a parti remote di sé, e dell’archetipo collettivo, per restituirle al mondo con la sua arte. E, visto il moltiplicarsi delle mostre a lei dedicate attualmente, il mondo parrebbe finalmente pronto ad accoglierla. Che “l’umanità di luce” cui i suoi spiriti guida destinavano i messaggi, cento anni fa, sia proprio la nostra? Di certo, in quest’epoca di plumbei oscurantismi, i suoi dipinti illuminano dal vivo la nostra natura umana.
Chiara Gatti
Su una pianura dei Balcani, sotto un´acqua scrosciante, in mezzo alle pietre e al fango si consuma un rito ancestrale a metà strada fra un sabba erotico e una danza della pioggia . Mentre dodici donne si strizzano i seni e agitano al vento la vagina, i loro compagni, nudi come lombrichi, copulano con la terra come se fosse un´amata da fecondare. È un antico rito propiziatorio contadino quello scelto per un video ad alto tasso di turbamento, protagonista da giovedì, negli spazi dell´Hangar Bicocca, di una mostra ideata da Art for The World e dedicata alla madre putativa della performance mondiale.Lei è Marina Abramovic, sessant´anni, serba di Belgrado, che negli anni Settanta ha esordito nel campo della body art ed è diventata famosa con una serie di lavori in cui ha utilizzato il proprio corpo come strumento di ricerca, esposto spesso ad esperimenti estremi. Stando immobile per ore su un blocco di ghiaccio o con un pitone sulla testa. Oppure permettendo al pubblico di utilizzarla come fosse un oggetto e di farle qualsiasi cosa o, ancora, restando cinque giorni in cima a una montagna di ossa da spolpare, cantando filastrocche slave e mondando ogni brandello di corpo in segno di lutto, all´indomani della tragedia nella ex Jugoslavia. Una performance, quest´ultima, intitolata Balkan Baroque, che le valse il Leone d´Oro come migliore artista alla Biennale di Venezia del 1997 e che sarà riproposta in mostra accanto al suo nuovo lavoro shock, Balkan Erotic Epic, e ad altre cinque video installazioni realizzate fra il 2001 e il 2003. Marina Abramovic, che cos´è una performance?”È una trasmissione di energia. È un modo per l´artista di condividere le proprie emozioni col pubblico, chiamato a partecipare all´azione messa in scena, soffrendo quando l´autore soffre, interagendo col suo corpo o reagendo istintivamente a qualsiasi cosa accada. Il pubblico è protagonista dell´opera. E se non reagisce significa che l´opera non funziona”. Talvolta il suo pubblico ha reagito superando i limiti?”Studiare i limiti fa parte della mia ricerca. Anche se può essere rischioso. Anni fa, a Napoli preparai 72 oggetti che i visitatori potevano utilizzare su di me a loro piacimento. Fu terrificante. Una persona mi puntò addirittura una pistola alla tempia. Lì ho capito che testando i propri limiti si scoprono quelli degli altri”. Tutte esperienze spaventose?”Non sempre, a Bologna nel ´77 fu divertente. All´epoca lavoravo con l´artista tedesco Ulay. Ci mettemmo nudi all´ingresso della galleria. La gente faceva fatica a passare senza toccarci. Abbassava gli occhi e chiedeva scusa. Poi sono arrivati i carabinieri e si infuriarono perché, ovviamente, non avevamo con noi i passaporti”. Come reagirà il pubblico alla provocazione del suo ultimo video erotico?”Non è una provocazione. Non inseguo il facile senso dello scandalo. Con Balkan Erotic Epic intendo dimostrare che l´erotismo non coincide necessariamente con la volgarità. Per preparare il lavoro ho studiato su antichi manoscritti dedicati a riti pagani. Ho rappresentato quel rapporto viscerale fra l´uomo e la natura che fa parte della nostra cultura fin dal medioevo”. Gli attori non erano professionisti. Come ha fatto a dirigerli?”All´inizio è stato problematico. Le donne non avevano mai fatto nulla di simile. Per loro era difficile mostrare la propria vagina davanti alla macchina da presa. Così, durante le prove, sembrava tutto grottesco. Le ragazze e le donne più anziane si tiravano su le gonne a metà e ridacchiavano. Poi, chissà come, abbiamo cominciato a girare. E io mi sono accorta che più erano stanche, più erano inzuppate di pioggia e più cadevano nel fango, tanto più la cosa diventava credibile e… primitiva”. A quale video, presentato in Bicocca, è particolarmente legata?”The Hero, dedicato a mio padre, eroe della resistenza jugoslava, che ha combattuto con i partigiani di Tito contro le forze di occupazione tedesche. Durante questa performance rimasi per ora immobile su un cavallo reggendo una bandiera bianca, simbolo della resa”. Ci sono anche lavori particolarmente amari.”Count on Us, per esempio, è una performance dove ironizzo sulla storia di una scuola intitolata alle Nazioni Unite cui un compositore jugoslavo dedicò un inno infarcito di promesse di aiuti che non sono mai state mantenute. Qui interpreto uno scheletro che dirige un coro di bambini che cantano parole di una speranza. Accanto a loro, altri due bambini intonano come angeli motivi di un amore struggente, mentre sullo schermo di fronte io tengo in mano un tubo al neon e sto in mezzo a due bobine di rame. Le bobine rilasciano nello spazio oltre 35.000 volt di elettricità che passa attraverso il mio corpo e illumina il neon senza bisogno di cavi. Ecco cosa intendo quando dico che la performance è una trasmissione d´energia. Questa installazione-video dovrebbe trasmettere i ricordi del passato e gli interrogativi sul futuro”.Hangar Bicocca, a cura di Adelina von Fürstenberg, 20 gennaio-23 aprile, inaugurazione 19 gennaio ore 19. Sponsor: Capitalia, Fondazione Siemens, Pirelli RE, Morgan Stanley. Mar-dom 11-19, gio. 14.30-20. Info 335.7978214. Catalogo Skira.
Al Marmottan di Parigi, una retrospettiva dedicata a Camille Claudel, sorella di Paul, la cui riscoperta in Italia si deve al film di Nuytten interpretato da Isabelle Adjani
Giannina Mura
“Io traggo le mie opere esclusivamente da me stessa, avendo fin troppe idee anziché non abbastanza”, così Camille Claudel risponde nel 1899 a un critico che, alla vista della sua Clotho, l’accusa di aver plagiato un’opera di Rodin. La scultura a partire da sé è infatti il segno originale della grande artista francese (1864-1943), la cui scomparsa civile nel 1913, internata in un manicomio dalla famiglia, coincide via via con la scomparsa delle sue opere nelle riserve dei musei. Resuscitata dopo quasi settant’anni dalla letterattura e dal cinema (e poi mostre, teatro, danza, fumetto…) non cessa di affascinare e interessare un pubblico crescente. La sua riscoperta in Italia si deve all’omonimo film coprodotto e interpretato da Isabelle Adjani nel 1988 (regia di Bruno Nuytten), di cui fu consulente storica Reine-Marie Paris, pronipote dell’artista, che da più di un ventennio si consacra a quel che ritiene un “dovere di riparazione verso una donna che ha sofferto su una strada senza gioia, senza gloria, come se avesse avuto un debito da pagare, un’espiazione, quasi, al genio dell’arte”, attraverso pubblicazioni diverse e costituendo un’importante collezione di opere della scultrice che alimenta le sempre più numerose mostre a lei dedicate nel mondo intero. Collezione oggi al centro della retrospettiva Camille Claudel allestita dal museo Marmottan di Parigi fino al 31 gennaio. Comprendente la maggior parte delle sculture e dei disegni dell’artista inventariate fino ad oggi, il percorso espositivo segue un andamento cronologico in 77 opere (in bronzo soprattutto), da cui emerge una scultura piena di vita, la cui forza e purezza non sfugge ai principali critici dell’epoca che la considerano da subito un’artista senza pari, “ammirevole produttrice di capolavori”.
Fiera e sicura del suo genio, sin dal 1877 Camille prende lezioni di scultura e nel 1881 convince il padre a trasferire la famiglia a Parigi per proseguire la sua formazione. S’iscrive quindi all’accademia Colarossi e divide uno studio con due artiste inglesi, ove nel 1883 darà loro lezioni Rodin, che poi l’assumerà come praticante. Camille scolpisce, tra gli altri, gli elementi più delicati di La Porte de l’Enfer e Les bourgeois de Calais cui Rodin dà il tocco finale. Lei non ha ancora vent’anni, lui ventiquattro di più e tra loro prende corpo un legame appassionato che per più di un decennio alimenterà l’energia creativa dell’uno e dell’altra.
Sul tema della coppia, che Rodin affronta per la prima volta, Camille realizza una delle sue sculture più note, Sacountala, che le vale la mention honorable al Salon del 1888. Ispirata da una leggenda indiana sul ritrovamento nel Nirvana di Shakuntala e del suo sposo separati da un incantesimo, la scultura prende il nome di L’abandon nella versione in bronzo del 1905 qui esposta. Simbolo del trionfo dell’amore assoluto sull’avversità, l’opera cominciata nell’autunno del 1886 è la prima in cui traspare la forza sensuale della sua unione con Rodin, con cui si riconcilia proprio alla fine del 1886. Avvenimento fondante anche per lo scultore che in seguito realizza le Baiser e L’éternelle idole.
Ma l’opera che impone Camille Claudel tra i primi scultori francesi di fine secolo è La valse, di cui sono esposti otto esemplari realizzati tra il 1885 e il 1905, che celebra l’essenza dell’amore fisico ed esprime con audacia la potenza del desiderio femminile che l’esperisce, libera dai cascami pudibondi del tempo. Una libertà che non sfugge all’ispettore delle Belle Arti che chiamerà Rodin a chiedere alla scultrice di coprire le nudità, lei in un primo tempo rifiuterà, per poi provvedere col sorprendente drapeggio sul corpo femminile, la cui posizione anticipa il movimento delle sculture successive. Protese obliquamente nello spazio le sue donne evocano i precari equilibri della libertà femminile instabilmente proiettata nello spazio pubblico di allora.
Un’esigenza che si ritrova nel busto de La petite chatelaine, di cui sono qui esposte quattro versioni realizzate tra il 1893 e il 1895, con esiti talmente virtuosi che alla loro vista Rodin affermerà di aver ricevuto “il pugno dell’emulazione”. Pure, la scultrice lascia lo scultore nel 1893 e non lavorerà più per lui, dedicandosi esclusivamente alla sua opera personale. Emblematiche di questa svolta, e senza equivalenti nella scultura moderna, le magnifiche composizioni di Les causeses (1896) e La Vague (1897) danno vita a un’inedita dimensione sculturale di assoluta perfezione plastica e intensa grazia e poesia. In La Vague, inoltre, l’ombra dell’onda coprendo la figurina centrale, sembra già preannunciare lo tsunami psichico e sociale che abattendosi su di lei, più tardi la spazzerà via dal mondo.
Fatalità prevista forse da Clotho (1893), la “filatrice” che srotola il filo della vita (qui esposta nella versione calva), che con le Dieu envolé (1894) e L’implorante (1898), la cui figura femminile in ginocchio si protende nel vuoto verso un dio dileguatosi, prepara L’age mûr (1898) che, prendendo le mosse dal vissuto dell’artista, esprime con forza l’essenza stessa della condizione umana. Se è facile vedervi Camille prostrata che tenta invano di trattenere Rodin avviluppato dal mantello della vecchia Rose, la compagna ufficiale dello scultore, sono altrettanto evidenti l’allegoria della vecchiaia che strappa la vita dalla giovinezza per condurla alla morte e lo strappo lacerante del genio artistico da Camille per mano di un destino spietato.
Morice lancia l’allarme sul Mercure de France, nel 1905: “Non c’è nulla di più ingiusto del destino di questa donna davvero eroica. Non ha mai smesso di lavorare e il suo percorso ostinato è attestato da opere tra le più straordinarie che annoveri la scultura contemporanea. Eppure resta povera, e la sua produzione è compromessa per le condizioni precarie della sua vita”. Manifeste nelle composizioni ridotte della donna sola davanti a un cammino di Profonde Pensée (1898) e Rêve au coin du feu (1899), solitudine e precarietà alimentano in lei un crescente malessere che la spinge, sin dal 1906, a distruggere a martellate le sue sculture dell’anno, per poi chiamare un carrettiere a inumare i resti di quel che lei chiama “un vero e proprio sacrificio umano”, e sparire per mesi senza lasciare recapito.
Eppure, nel 1906, scrive ancora a Eugène Blot, che nel 1905 e 1907 le consacra due mostre nella sua galleria: “Datemi il globo terrestre e un po’ di soldi e vedrete cosa ne farò!”. Ma i mezzi sempre più scarsi e un delirio di persecuzione sempre più accentuato finiranno per farle perdere la testa. Di nuovo, l’arte anticipa la vita con Persée et la Gorgone (qui esposta la riduzione in bronzo del 1905): Perseo armato di uno specchio brandisce la testa della Gorgone, autoritratto della scultrice. Colui che uccide senza guardare prefigura l’assassinio civile di Camille da parte della famiglia che, dopo averla rinchiusa in manicomio, non volle più vederla. Paul Claudel proprio in quest’opera rinviene “un’immagine del rimorso” che lo attanaglierà dopo la morte della sorella: “Amaro il rimpianto di averla così a lungo abbandonata”, scriverà lui che, nei trent’anni della sua reclusione psichiatrica, si reca da lei di rado. Non parteciperà ai funerali, e i resti della scultrice saranno dispersi in una fossa comune. Di Camille sopravvive oggi la singolare opera uscita finalmente dall’oblio. E non è poco.
Arianna Di Genova
L’ultima performance dell’artista guatemalteca.
Ha passato dieci giorni chiusa in una stanza, nello spazio culturale Plateau, nel 19/mo arrondissement di Parigi: “Era la mia personale interpretazione del coprifuoco”, ha spiegato Regina Josè Galindo: L’artista guatemalteca di 32 anni è conosciuta per le sue performance particolarmente estreme, con le quali vuole denunciare le condizioni delle donne nel suo paese. Vincitrice del Leone d’oro alla 51/a Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (dove aveva esposto una passeggiata insanguinata in video, una ricostruzione dell’imene ma anche una serie di frustate su se stessa) Galindo ha affermato in un’intervista concessa al quotidiano Liberation di essersi già avvicinata altre volte al tema della segregazione “ma mai in modo così estremo”. A spingere l’artista a chiudersi in una stanza senza comunicazioni con l’esterno per dieci giorni è stata la ricerca della risposta alla domanda “cosa succede in un essere umano che si vede privato della sua libertà?”. “I primi giorni – ha racconta- mi sono dovuta abituare allo spazio, alla noia, a non sapere che ora fosse, all’assenza di sonno e al dover pensare ai meccanismi per cercare di stancare il più possibile il mio corpo: Mi dicevo che, per essere liberi, abbiamo bisogno degli altri”. Galindo ha inscenato anche un suicidio artistico: in questa stanza mi sono impiccata, poi sono svenuta: La mancanza di ossigeno poi mi ha svegliata” L’idea della performance le è venuta in Italia. “Ero là quando sono scoppiate le sommosse nelle banlieues francesi, e ho potuto constatare come il governo abbia reagito utilizzando l’arma della paura”, Regina Josè Galindo ha sempre dato l’interpretazione dell’arte come un qualcosa di martirizzante, un pugno nello stomaco del visitatore: alla Biennale di Venezia aveva registrato i 256 colpi di frusta che si era inflitta durante cinque giorni, in memoria delle donne assassinate in Guatemala tra gennaio e giungo 2005. In un’altra sua performance si era fatta impacchettare in un sacco di immondizia e fatta gettare dentro la discarica pubblica
Pier Paolo Pancotto
Tra le note positive e le altrettante incertezze che hanno costellato la Biennale di Venezia una piacevole sorpresa è stata la proposta della Fondazione Levi che ha ospitato contemporaneamente le quattro partecipazioni nazionali di Afghanistan, Iran, Turchia, Ucraina. Che, al di là dell’evidente significato culturale e politico che la presenza alla rassegna dei singoli Paesi ha costituito in sé, è risultata nel suo complesso come una delle iniziative più riuscite nell’ambito dell’intera Biennale poiché ha raccolto realtà artistiche che, pur mantenendo una propria specifica individualità (ben definita anche sotto il profilo logistico: le quattro mostre erano accuratamente dislocate in zone separate), erano integrate perfettamente tra loro sotto il profilo espositivo essendo esse accomunate da una serie di rimandi e di aspetti – intellettuali ed estetici – piuttosto speciali e per certi versi inattesi.
Tra gli elementi che accomunavano le presenze in mostra – e che più hanno colpito il visitatore – c’era una forte «componente femminile». Donne sono Mandana Moghaddam (Teheran, 1962) e Bita Fayyazi Azad (Teheran, 1962), chiamate a rappresentare l’Iran, e Lida Abdul (Kabul, 1973), dell’Afghanistan. A tematiche femminili – soprattutto alla condizione civile e professionale della donna nelle rispettive società d’appartenenza – si rivolgevano i lavori delle stesse Moghaddam (Chel Gis – Quaranta trecce, ispirato ad un antico mito iraniano il progetto si compone di un blocco di cemento tenuto al soffitto da capelli femminili intrecciati) e Azad (Kismet – Destino: cinquanta statue di neonati in alluminio sovrastano quella di una donna dal ventre luminoso a celebrare la maternità e i tanti risvolti emotivi, spesso contrastanti, che la coinvolgono) e quello dell’afgano Rahim Walizada (Bagalan, 1963). Quest’ultimo, Le studentesse di Faizabad, si presentava come un assieme di superfici in lana o cotone colorate naturalmente secondo le tecniche più antiche; Walizada, chiamando alcune donne a tessere nel proprio laboratorio o incaricando altre – impossibilitate a fare altrimenti per ragioni familiari o sociali – a realizzare in casa propria dei lavori a telaio, contribuisce in qualche modo a renderle più autonome. La stessa Faizabad citata nel titolo è sinonimo di libertà: il suo nome, infatti, corrisponde a quello di un piccolo paese a nord dell’Afghanistan ove anche durante il regime talebano la locale Università concedeva alle donne, pur tra una estrema povertà e mille disagi, l’iscrizione al corso di medicina.
Anche Lida Abdul ha tentato, a sua volta, di dare un’immagine diversa dell’Afghanistan e i suoi video pongono l’accento sulla ricchezza culturale del Paese più che sul dolore ed il senso di distruzione ai quali il suo nome viene normalmente associato. Una donna era protagonista del raffinato video del turco Hussein Chalayan (Nicosia, 1970), La presenza-assenza ove – in un clima che in altre circostanze si sarebbe detto di «realismo magico» – una fanciulla viene colta a svolgere azioni semplici e quotidiane esaltandone così la bellezza più intima e meno banale sottolineata da un abbigliamento del tutto essenziale e al di là delle mode, richiamando così anche altri aspetti del multiforme impegno creativo di Chalayan. E una componente femminile era, seppure indirettamente, evocata nell’allestimento proposto dall’ucraino Mykola Babak (nato a Voronyntsi, Cherkasy) il quale con I tuoi figli, Ucraina parla della propria terra. Per far questo raccoglie un gruppo di scatti fotografici vecchi e nuovi raffiguranti bambini partecipi di alcuni momenti fondamentali della loro esistenza, dal battesimo al funerale; le foto sono inquadrate in cornici e tessuti artigianali a comporre un’immaginaria iconostasi mentre anche altri elementi richiamano all’infanzia (e dunque alla maternità): suoni in sottofondo e bambole di pezza colorata, come quella con la quale la nonna (altra figura che riconduce alla maternità) spaventava l’artista da bambino. In una sala successiva Babak proietta le immagini girate a Kiev nel 2004 durante una manifestazione: i bambini di ieri sono gli adulti di oggi e al bianco-nero delle impressioni fotografiche si è sostituito il colore della pellicola cinematografica.
Le nuove vestali Alle Scuderie Aldobrandini di Frascati, «Altre Lilith», trentasei artiste internazionali in un percorso che mette in scena ibridazioni e identità multiple. Da Orlan a Manzelli
Il percorso Bambine demoniache, ritratti dark, carcasse di animali. Un universo alla rovescia raccontato da serie fotografiche, pennelli, sculture, opere digitali fra biogenetica e memoria privata
Arianna di Genova
Trentasei artiste in mostra per raccontare la prismatica identità femminile, tra ibridazioni del corpo e morphing «mentale». Nelle Scuderie Aldobrandini di Frascati – fino al 27 novembre – si potrà camminare fra i sogni e gli incubi delle autrici selezionate dalle due curatrici della manifestazione, Rosetta Gozzini e Gabriella Serusi (catalogo Gangemi editore). Il titolo suggerisce la notte popolata da Altre Lilith e chiama in campo le vestali dell’arte del terzo millennio (così recita invece il sottotitolo). E in scena va soprattutto il «body» nelle sue metamorfosi, puzzle impazzito tra tecnologia e epidermide. L’architettura fantastica è il concetto chiave per reinterpretare l’identità nel XXI° secolo e le artiste sono maestre eccelse nel prodursi disinvoltamente in questo spostamento continuo. Il viaggio all’interno della de-territorializzazione parte dai simulacri degli abiti, tutine-rifugio, materiali post atomici «cuciti» da Lucy Orta (Birmingham, 1966) per approdare poi alle mutazioni digitali di Orlan, un tempo paladina delle sculture carnali incise sul suo stesso corpo e oggi icona ibridata con antichi totem. Il cyberbody si fa mediatico, l’apparenza prende il posto della realtà chirurgica e lo schermo quello del tavolo operatorio.
La mostra di Frascati si propone dunque di essre una mappatura in soggettiva delle trasformazioni possibili: adattamenti a stereotipi femminili, domesticità che diventano selvagge, animalesche presenze che frugano in angosce inconsce. La strategia artistica fa cortocircuito con la biogenetica: gli sdoppiamenti di Janieta Eyre, teatrali fantasmi esistenziali, indicano la nuova strada della contemporaneità. Londinese, sceglie il travestimento per entrare in contatto con le «maschere» di eroine e principesse che assumono i tratti bestiali di presenze demoniache, inquietanti «errori» di natura. Anche Floria Sigismondi (Pescara, 1965) scardina il mondo dell’autobiografia e si ritrae come strega malefica accompagnata da un perfido gatto/cane di misteriosa provenienza, raccontando con quell’immagine la favola dark dell’insondabilità materna.
Le bambine della sudafricana Nicky Hoberman, piccole fanciulle dalle teste smisurate, gli occhi felini e criniere inverosimili, sono più simili ad animali pronti all’aggressione che a dolci figurine dell’infanzia. La crudeltà del loro atavico sguardo, quello scomparire di ogni tratto di umanità, rimanda alle donne dipinte da Margherita Manzelli. Potrebbero essere le sorelle maggiori, cresciute troppo in fretta, delle bambine non addomesticate di Hoberman.
Decostruire ogni cliché attraverso l’inafferabilità di una forma-corpo, rendendo nomade e «liquida» la personalità dei soggetti, è allora l’arma vincente per queste artiste che, pur nella loro diversità, esplorano la memoria, la nostalgia, l’aberrazione, la biopolitica, la transitorietà (nelle adolescenti sorridenti e già svanite di Yumi Karasumaru). La bulgara Gemisheva imprigiona il corpo in vestiti surreali. In Out of Myself , una sposa imbrattata del sangue che cola da una carcassa animale, lancia uno sguardo penetrante allo spettatore che si sente voyeur fuori posto, testimone di una qualche tragedia storica narrata solo per ellisse. La turca Sukran Moral mostra una donna incinta, corpo mutante/doppio per eccellenza e la ribattezza come Cristo, mimando con le braccia la croce del martirio. C’è anche Bülbul, volto di ragazza (è l’artista medesima) ingabbiato, con un’acconciatura di uccellini non più abili al volo, bestiole ormai impagliate. La napoletana Donatella Di Cicco (classe 1971) invece preferisce sconnettere, nelle sue foto, una serie di azioni quotidiane, tutte compiute da donne, in stazioni ferroviarie abbandonate o supermercati in disuso. Atmosfere apocalittiche, da day-after, che parlano del ritratto di una generazione costretta a fare i conti ogni giorno con l’assoluta precarietà del proprio mondo.
Scorranese Roberta
Il loro dio aveva larghe spalle taurine, un manto splendente e la forza di un elefante. Era un dio potente e animale quello che, diecimila anni fa, i primi abitanti di questo cuore indiano dipinsero sulle grotte. Lo stesso dio che, da secoli, le donne dell’ altopiano di Hazaribagh, India del Nord, continuano a dipingere sulle pareti delle case. In forma di elefanti e pavoni, serpenti e volatili colorati. Più che un monito, una preghiera: che nessuno ci porti via la casa e le radici. Ma, nell’ India dello sviluppo economico, ai miracoli non crede più nessuno. Nemmeno dio. O forse no. A crederci sono le donne della Tribal Women’ s Artists Cooperative (Twac) di Hazaribagh, nello stato di Jharkhand, che girano il mondo diffondendo la cultura e le tradizioni tribali. E così, anche al Festival di Udine “Vicino/lontano”, dipingeranno sui muri animali fantastici e segni propiziatori. Coloreranno case e pannelli con polvere e acqua, cantando nenie. Daranno voce a quel dio rupestre che ha resistito per anni e che ora rischia di soccombere per far posto a “progetti di sviluppo”. “Con le nostre opere – dice Juliet Imam, una delle Twac – facciamo parlare secoli di storia”. Quella degli Adivasi, abitanti originari dell’ India. Detti anche pre-ariani, fate voi, comunque sono l’ otto per cento dell’ intera popolazione. Ovvero, più di ottanta milioni. In questo angolo d’ India ai confini col Bengala occidentale, gli Adivasi hanno le sembianze delle bellissime donne di lingua Oraon, ornate di bronzo e stoffe. O dei maschi Santhal, pasciuti e bellicosi. Quando giunsero qui, gli inglesi allevati nelle scuole vittoriane si impressionarono non solo per i sacrifici umani degli indigeni, ma anche per una sorta di loro simbiosi mistica con la natura. Le donne Koya, dalla pelle color castagno, paiono un’ appendice della foresta, come partorite dagli alberi; le ragazze Munda hanno movenze feline mutuate dalle tigri; le tribù Kondh della vicina Orissa coltivano credenze licantropiche. “Un popolo – dice Bulu Imam, a capo dell’ Intach, associazione per la difesa del patrimonio locale – che da sempre trova la sua identità nella terra”. Un’ identità oggi a rischio. Già, perché qui non ci sono solo foreste, tigri e fiori rari: il sottosuolo è ricco di minerali e di carbone. Indispensabili all’ economia di uno Stato che si prefigge di agganciare presto la Cina nella corsa alla supremazia economica mondiale.Qui non c’ è stato bisogno di spiegarglielo con il linguaggio burocratico. Questi uomini dalla pelle raggrinzita dal sole e dal Cheroot (il sigaro birmano), queste donne brune e serie l’ hanno capito con il naso, così come intuiscono l’ arrivo dei monsoni: dovranno lasciare le loro case per far posto alle operazioni di scavo. Dovranno trasferirsi nelle periferie cittadine perché la loro foresta è indispensabile. Al governo. “Essere indiani è una vita istintiva”, ha scritto il premio Nobel V.S. Naipaul. E queste donne e questi uomini hanno uno strano rapporto con la parola, ridotta alla sua origine funzionale. Preferiscono agire, muoversi. Combattere o pregare, come antichi guerrieri. E le donne pregano a modo loro, rivolgendosi a quella divinità sconosciuta che si portano dentro da sempre e che, solo di recente, la grotta di Hazaribagh ha restituito: un dio dalle spalle taurine e dalla potenza animale. “Ecco allora il senso della Tribal Women’ s Artists Cooperative – dice Bulu Imam -. Con il progetto “Johar!” (il loro saluto) le artiste continuano la tradizione delle donne indigene di dipingere le case, riproducendo, inconsapevolmente, un’ antica pittura muraria che hanno scoperto solo negli anni Novanta”. Simile a quella di Lascaux, in Dordogna, questa pittura rappresenta scene di vita e figure antropomorfe. Putli Ganju è nata nella giungla di Saheda. Sin da piccola ha imparato a decorare le pareti fangose della sua casa: si polverizzano le pietre, si estrae il colore, si prepara il doppio intonaco, nero e poi bianco. Si passa infine alla pittura o al graffito: pavoni, serpenti, elefanti. Si insuffla vita alla casa. È come se la millenaria tradizione animistica si trasferisse alle pareti. Una benedizione pagana che promette l’ inviolabilità del territorio domestico. “Tradizione – dice Juliet Imam – che scandisce fasi precise della vita”. Già. Come ci mostreranno a Udine, la pittura femminile muraria accompagna le festività del Sohrai (ottobre-novembre, periodo del raccolto) e Khovar (tra febbraio e giugno, periodo dei matrimoni). Fertilità, vita. Come nei fiori di Philomina Imam: abile tessitrice, i motivi floreali e che riproduce sembrano obbedire a un’ orchestra nascosta. Nelle foto di Robert Wallis, Mario Popham e Daniela Bezzi scorrono vite che si aggrappano ai simboli per non scomparire nel presente. E così, in questa provincia di mondo dove si fronteggiano le religioni cristiana e induista, islamica e animista, la fede più autentica sembra nascere da questi disegni primitivi. Liturgie rupestri che rispondono ad un istinto primordiale: la difesa di radici, casa, origini. Qui, dove il sistema delle “caste” non è mai arrivato e dove l’ istinto omicida dei felini viene percepito come una forza divina, “la casa” è quella che l’ anglo indiano Salman Rushdie definisce come “gli occhi chiusi di una vita protetta”.