di Donata Glori
Una bella domenica delle palme quella di domenica 16 marzo.
Tanta gente, ragazzi, famiglie per lo più, che passeggiava; qualcuno, dopo essere stato a Messa nella propria parrocchia, aveva in mano un piccolo ramo di ulivo, segno di pace, di attenzione, da riporre a casa in un vasetto oppure scambiare negli incontri.
Bella l’ottica dello scambio, concreta e simbolica, come quella della manifestazione Mani nella città che il circolo La Merlettaia, insieme ad artisti, amici e passanti, ha inscenato nella zona pedonale di corso Vittorio Emanuele.
Mani, mani che uscivano da un telone bianco, mani che si scambiavano strette, piccoli oggetti, doni, parole. Mani che dipingevano per esprimere il desiderio e la necessità di amare e fare qualcosa per la nostra città. Quella stessa città da cui, spesso, i nostri ragazzi si allontanano per non farvi ritorno, pensando: “a Foggia? giammai!”
Mi causa sempre tristezza ascoltare queste parole, non tanto per il fatto che i ragazzi operino scelte, per bisogno o desiderio, che li allontanano – il mondo è per fortuna tanto grande da ospitare migranti di ogni genere. Mi intristisce il disprezzo per il proprio luogo d’origine, per gli spazi e le relazioni frequentati, gli stessi che hanno permesso loro di crescere e di essere quel che sono, nel bene e nel male. I luoghi non sono separati dalle persone e le persone sono intessute dei luoghi che li hanno ospitati, è un artificio pensarli separati: lo spazio prende senso e bellezza dalle persone che lo abitano.
Lo spazio e le relazioni prendono colore, insieme
All’interno della performance di domenica, uno spazio era dedicato ai bambini: due grandi piantine della città da sottoporre al loro sguardo incuriosito. Da guardare per imparare a conoscere, per giocarci e intervenire.
Il laboratorio è stato pensato con Gerardo De Feo che si occupa di didattica dell’arte con i più piccoli. Lui ama sostenere che Foggia è una città d’arte e, studiando fuori, ha scoperto quanta ricchezza storica e relazionale possiede la nostra gente e il nostro territorio.
Insieme abbiamo esortato genitori e adulti accompagnatori a tracciare, su fogli da sovrapporre alle piantine il perimetro di un quartiere, di un giardino, di una zona significativa per sé, ma da passare ai figli e ai più piccoli in generale: una zona da salvare, da amare, oppure una zona sgradevole, degradata, da curare e da affidare, da immaginare differente, più a misura di ognuno. Per esempio a misura di bambino.
Sulle vie tracciate dagli adulti i bambini, tanti quelli che si sono alternati, hanno tracciato desideri, possibilità di utilizzo: fiori e alberi, cavalli nello spazio dell’ex-ippodromo, recinti nei giardini per i propri cani e gatti, piste ciclabili e, a dimostrazione che i bambini sanno essere anche molto realistici, la panchina per il nonno che usa il bastone e ha bisogno di fermarsi ogni tanto o per la mamma che “così mi può guardare mentre gioco e riposarsi un po'”, un palazzo per chi casa decente non ha; come la bambina, forse ucraina, che accompagnata dalla mamma, ha voluto disegnare un bel palazzo altissimo con vicino un piccolo albero; e poi hanno disegnato gente, tanta gente, la propria famiglia ma anche il gruppo di amici.
Nuove occasioni per esercitare la vita sotto il segno della creatività e dell’alleanza
La nostra non è certo una città a misura di bambino. I bambini sono al centro della vita di tutte le famiglie, li si riempie di cose, gli si organizza il tempo, le amicizie sono programmate e quindi quelle che gli adulti scelgono per loro perché più adatte o più comode. Gli spazi sono quelli già strutturati, per la danza, lo sport, il divertimento, chiusi.
Insomma percorsi fisici e relazionali già stabiliti. Senza sorprese e senza stupore.
Domenica i bambini erano felici di stare gomito a gomito con altri bambini sconosciuti, felici di stare sdraiati a terra – nello stupore mio e loro: le mamme non se ne lamentavano troppo-; nessun
problema a cedere un po’ di posto, a scambiarsi fogli e colori, a spiegare cosa occorreva fare.
Ad approfittare dell’antico gioco della campana che gli artisti Rosy Daniello e Piero Cimino avevano allestito poco più avanti e che adulti dalla memoria lunga spiegavano ai più piccoli.
Lo spazio delle relazioni
Della serietà dei bambini già so, grazie al mio mestiere di maestra, ma quella degli adulti mi ha stupito moltissimo.
Solo all’ultimo momento io e Gerardo avevamo deciso di far tracciare agli adulti i segni da passare ai più piccoli. È stata un’ottima scelta, si sono aperte delle belle discussioni, tutti coloro che si fermavano erano interessati ed incuriositi, hanno posto domande, “Perché siete qui? Che senso ha?” “Mi spieghi, cosa devo fare?” Tutti si sono messi seriamente a eseguire il compito che gli era stato assegnato: passare ai propri figli una piazza, una strada, un giardino, un quartiere da prendere in carico.
Quello che è venuto fuori in forma più o meno simbolica, più o meno visibile, è una sorta di spazio abitato dalle relazioni. Abbiamo avuto la partecipazione attiva di molti e appeso ad un cespuglio i disegni dei bambini; qualcuno ha procurato delle mollette e ad un cordicella abbiamo fissato altri disegni, nuovi punti di vista offerti allo sguardo dei passanti attenti.
Vivere è rompere un guscio dopo l’altro
Solo un signore anziano si è lamentato dell’occupazione del luogo pubblico, diceva di non poter passare, ha alzato la voce in nome del diritto a passare al centro della zona pedonale; carino un giovane uomo, papà di tre bimbi spalmati a terra a disegnare un mondo nuovo, che lo ha preso per il braccio e, guidandolo, gli ha fatto notare che bastava fare due passi in più, girare intorno ai bambini, per passare tranquillamente. Un bel gesto quello del papà di accompagnare l’altro quasi per mano per fargli notare percorsi che non riusciva a vedere. Deve essere un buon papà.
A volte è così difficile, scegliere percorsi diversi da quelli abitudinari. Occorre lo sguardo di un altro. Si è sempre in tempo per crescere.
Belle le discussioni tra padri, madri e bambini, ascoltate a sprazzi “Perché questa piazza? Che te ne importa? Non ci andiamo mai…” “Già, però ci giocavo da piccola; tua nonna, cioè mia madre, abitava lì” “Perché non mi ci hai mai portato?” “Hai ragione, non ho avuto tempo.” “Mi ci porti?” “Sì, ti ci porto domani.”
Così sono i luoghi della città, occorre amarli, tenervi dei ricordi, raccontarli e mettersi in ascolto, andare a far loro visita ogni tanto perché non intristiscano e muoiano. Guardarli da nuove prospettive: le cose viste dal basso, a volte, possono essere piuttosto interessanti.
A volte, come quando si ama, si vedono cose che sono invisibili agli occhi.
Donata Glori
Patrizia Dogliani
Gerta Pohorylle, in arte più conosciuta come Gerda Taro, giovane donna, fotografa antifascista, morta in Spagna, sul fronte di Brunete, a soli 27 anni, il 25 luglio 1937. Ma soprattutto, per i più, la compagna, la moglie, l’amante di Robert Capa. Ovvero di André Friedmann, in arte e per tutta la vita Robert Capa, considerato uno, se non il più importante fotoreporter di guerra della metà del XX secolo. Per quasi sessant’anni l’opera di Gerda è stata oscurata, o forse ancor peggio confusa, con quella di Capa. Finalmente la ricerca di una studiosa tedesca, Irme Schaber, rende giustizia a Gerda, prima con una biografia apparsa in Germania nel 1995 e poi con la cura di una mostra fotografica, e del relativo catalogo, che si è chiusa il 6 gennaio all’International Center of Phography di New York. La biografia ha avuto una traduzione francese e più recentemente una bella edizione italiana, voluta con determinatezza e con passione da un gruppo romano di fotografe e di storiche della fotografia, riunitosi nell’associazione «Gerdaphoto» (Irme Schber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, traduzione di Elena Doria e prefazione di Elisabetta Bini, DeriveApprodi, pp. 263 e ricco inserto fotografico, euro 18).
Da Lipsia a Parigi
Sino al libro di Schaber, sapevano poco di Gerda anche coloro che avevano studiato la storia della fotografia negli anni dei Fronti popolari e della Guerra civile spagnole. Gerda Taro era conosciuta essenzialmente attraverso alcune sue foto pubblicate sui primi grandi rotocalchi degli anni Trenta: i francesi «Vu» e «Regards», il nascente americano «Life». Si sapeva di lei grazie alle cronache del tempo che avevano giudicato le esequie parigine e le successive commemorazioni pubbliche della Taro sino al 1938 come tra le più forti e toccanti cerimonie politiche del Fronte popolare. I più informati la credevano una esule tedesca di origini ebraiche, analogamente a Capa, d’origine ebraico-ungherese. Era sì nata sì a Stoccarda nell’agosto 1910, ed era vissuta a Lipsia, ma in realtà la sua famiglia proveniva da quell’area della Galizia che era passata dopo la Grande guerra alla Polonia dando alla famiglia Pohorylle una cittadinanza polacca.
La prima grande qualità del libro è di ricostruire la vita ma soprattutto la complessa epoca di Gerda in quattro grandi affreschi. Il primo è composto dalle origini e dalla rete familiare ebraico mitteleuropea dei Pohorylle, la loro cultura cosmopolita e nel contempo piccolo-borghese, e l’adozione della Germania weimariana come società moderna, ricca di opportunità per tutti coloro dediti al commercio e agli affari. Secondo affresco, la scoperta dell’impegno politico a Lipsia tra circoli giovanili filocomunisti negli anni chiave 1932-33. Terzo grande affresco, la Parigi tra il 1933 e il 1936. Gerta vi arriva nell’autunno 1933, fuggendo alla Germania oramai nazificata, non solo per motivi politici e razziali ma anche alla ricerca di nuove opportunità ed esperienze, con un bagaglio povero ma essenziale per chi come giovane e soprattutto come donna si muoveva in quei tempi: conoscenze linguistiche e una rete di contatti che si allarga nei mesi successivi ai circoli dell’emigrazione antifascista soprattutto tedesca nella capitale francese.
Gerda non fu mai una militante professionista, al servizio di un partito, la politica era da lei vissuta con passione insieme ad amori, incontri, letture, viaggi, in una situazione di grande precarietà e spesso di fame sofferta con la leggerezza di chi aveva vent’anni. La sua vita cambiò nel settembre 1934 quando incontrò André. Irme Schaber mostra con chiarezza che Friedmann-Capa non fu il solo amore e forse neanche il «grande amore» di Gerda, anche se successivamente Capa dichiarò che Gerda era stata il grande amore della sua vita e quindi di riflesso si fa di lui l’«assoluto amore» di lei. Nacque però un sodalizio amoroso, amicale e soprattutto professionale. Gerta diventa Gerda, André si trasforma in Robert. Quest’ultimo trasmette a Gerda le sue conoscenze professionali di fotografo e Gerda mette al servizio di Capa le sue capacità imprenditoriali e le sue conoscenze linguistiche e diviene ben presto anch’essa una fotoreporter.
Gli scatti dal fronte spagnolo
Vivono insieme la Parigi del Fronte popolare trionfante alle elezioni del maggio 36. Ma soprattutto, insieme ad altri giovani fotografi fuggiti al fascismo, come Chim, Namuth e Reisner, vivono la guerra di Spagna.
La Spagna incide profondamente sulla loro esperienza umana e soprattutto modifica la loro professione, perché il mercato delle immagini cambia radicalmente dal luglio 1936. La guerra civile spagnola proietta l’immagine cinematografica e fotografica in una dimensione nuova, politica, propagandistica, di mercato internazionale dominata oramai da grandi testate giornalistiche e da agenzie di stampa. Basta una foto, l’essere sul luogo e al momento giusto, avere coraggio, per fare la fortuna di un fotografo, come accade a Capa con il Miliziano che cade.
Perché Gerda fu dimenticata nel secondo dopoguerra? Nell’ultima parte del volume l’autrice cerca di dare una risposta. Il ricordo familiare scompare: la famiglia Pohorylle, rifugiatasi in Serbia, viene sterminata all’inizio della guerra, la tomba di Gerda creata da Alberto Giacometti al cimitero di Père-Lachaise distrutta durante l’occupazione tedesca. Ma soprattutto diviene difficile l’individuazione di molte foto scattate da Taro: «Per scarsa conoscenza e burocratismo, interessi commerciali e ignoranza, le fotografie che inequivocabilmente portavano il timbro Photo Taro divennero foto di Capa», scrive Schaber, a causa di interventi successivi da parte di agenzie di stampa e persino dell’indipendente Magnum. La sua vita poi fu mitizzata con errori biografici grossolani nella Repubblica democratica tedesca nel tentativo di crearne un modello eroico di combattente comunista per la gioventù comunista.
Il libro di Schaber che viene presentato in questi giorni a Roma e a Bologna è quindi importante perché ci restituisce un profilo di donna e di artista; a volte le indagine introspettive e psicologiche dell’autrice sono un po’ ingenue e forzate, ma il suo tentativo di individuare i soggetti, la messa a fuoco, lo stile, i luoghi delle immagini, l’occhio in definitiva di Gerda, è apprezzabile e rende il volume un bel libro di storia e di fotografia, e in definita rende giustizia alla Taro, e ad altre fotogiornaliste di guerra che l’hanno seguita, come l’associazione «Gerdaphoto» ha fortemente voluto in questi mesi.
uivocabilmente portavano il timbro Photo Taro divennero foto di Capa», scrive Schaber, a causa di interventi successivi da parte di agenzie di stampa e persino dell’indipendente Magnum. La sua vita poi fu mitizzata con errori biografici grossolani nella Repubblica democratica tedesca nel tentativo di crearne un modello eroico di combattente comunista per la gioventù comunista.
Il libro di Schaber che viene presentato in questi giorni a Roma e a Bologna è quindi importante perché ci restituisce un profilo di donna e di artista; a volte le indagine introspettive e psicologiche dell’autrice sono un po’ ingenue e forzate, ma il suo tentativo di individuare i soggetti, la messa a fuoco, lo stile, i luoghi delle immagini, l’occhio in definitiva di Gerda, è apprezzabile e rende il volume un bel libro di storia e di fotografia, e in definita rende giustizia alla Taro, e ad altre fotogiornaliste di guerra che l’hanno seguita, come l’associazione «Gerdaphoto» ha fortemente voluto in questi mesi.
“The Moving Images of Tracey Moffatt” di Catherine Summerhayes (352 pagine, 716 illustrazioni, euro 62), appena pubblicata da Charta e presentata a New York, è la prima monografia che esplora in profondità l’opera filmica dell’artista australiana (con radici aborigene), celebre come fotografa che rivisita gli stereotipi della famiglia o anche dell’immaginario anni 50, che da anni vive nella Grande Mela. Il volume, ricco di immagini disegnate dall’artista stessa, include anche le sue riflessioni, le descrizioni del lavoro e gli storyboards. L’autrice del testo critico scrive sullo sperimentalismo che attraversa i film di Moffatt e poi si inoltra nella poetica dei film non solo dal punto di vista delle arti visive, ma come un particolare genere di arte performativa che la pone accanto all’artista messicana Frida Kahlo e alla regista surrealista americana Maya Deren.
Fiorella Minervino
Una rosa candida che ingentilisce la capigliatura a riccioli e suggerisce il nome (Rosalba), il volto dall’incarnato chiaro, i grandi occhi che guardano diritti l’osservatore, la bocca serrata, una fossetta nel mento, l’abbigliamento con giubbone da artista, la mano che punta il pennello sopra un dipinto raffigurante un’altra giovane donna: è il primo dei numerosi autoritratti che Rosalba Carriera dipinse a pastello, in questo caso su commissione del principe Ferdinando de’ Medici. Si tratta in realtà d’una sorta di manifesto programmatico, un biglietto da visita, per illustrare la professione di donna pittrice nonché miniaturista nel ‘700, a Venezia, mentre ritrae la sorella Giovanna, sua collaboratrice.
La mostra luminosa e stimolante, che viene inaugurata oggi, si snoda attraverso 40 pastelli e 15 miniature, celebrando alla Fondazione Giorgio Cini, per le cure di Giuseppe Pavanello, i 250 anni dalla scomparsa di quella che il titolo dell’esposizione definisce «prima pittrice de l’Europa». Tale fu e venne riconosciuta già nel 1705 da Christian Cole, inglese appassionato d’arte, per l’eccellenza e la perspicacia nel cogliere l’anima del modello, con un’immediatezza che solo l’uso magistrale d’una tecnica veloce e capace di regalare sorprendenti effetti e sfumature come il pastello poteva garantire: tanto che la sua fama attraversò le maggiori corti europee e ogni personaggio di rango di passaggio a Venezia richiedeva una sua opera.
Ma già la Serenissima le offrì dame e gentiluomini in quantità, e la prima parte dell’esposizione è una galleria di squisite dame dai gioielli fiabeschi, perle a profusione, diamanti, stupefacenti mazzi di fiori nelle generose scollature, intriche di pizzi e trine, mantelli multicolori orlati di visone per nobildonne fiere e autorevoli come la splendida Elisabetta Algarotti Dandolo, sicura della propria avvenenza e del proprio ruolo nella società veneta. Meno altere appaiono altre dame tuttora anonime, mentre vera punta di diamante è il Ritratto di Henry Fiennes Clinton, nono conte di Lincoln e secondo duca di Newcastle, splendido giovane dagli incredibili virtuosismi nei ricami, nel volto superbo, che di passaggio a Venezia – pare con Horace Walpole – venne immortalato con efficacia e naturalezza.
Lord inglesi e principi dell’Impero si contendevano le opere della Carriera; esemplare il Ritratto di Clemente Augusto di Baviera, Principe elettore di Colonia (prestato dal torinese Palazzo Madama), con cappamagna e un gioco di luce sulla pelliccia che rende mobile l’intera superficie. Prelati, uomini in armature, il mirabile Ritratto di Gentiluomo del Poldi Pezzoli di Milano fanno a gara con le immagini delle Principesse d’Este, colte nella loro magnificenza.
Se le corti europee reclamavano la presenza di Rosalba, lei preferiva Venezia, si spinse a Modena, Vienna, Parigi. Nella patria di Watteau rimase un anno, dal 1720, dipingendo diverse opere. Con il pittore francese fu un rapporto di dare e avere: per quanto sia riconosciuto che Watteau debba non poco alla Carriera, è però chiaro che i pastelli creati dalla pittrice dopo la sosta in Francia sono più vaporosi, delicati, graziosi, quasi sfatti nelle forme, «alla Watteau». Né mancano l’attività religiosa, con la graziosa Madonna, e l’allegorica, con effigi di Diana, raffigurazioni delle stagioni e dei quattro elementi.
Prima rassegna a livello europeo dedicata alla Carriera, la mostra per la prima volta pone a confronto l’attività della miniatura, da cui prese le mosse l’artista, con la stesura e la tecnica del pastello. Sicché è possibile verificare quanto la grandezza dell’artista trovi l’origine pure nei minuscoli ritratti in miniatura prediletti da taluni, in quella società dell’Ancien Régime che dei bei modi, del conversare, del viaggiare nei Grand Tour faceva una civiltà e un ideale.
Da oggi alla Fondazione Cini
55 opere di Rosalba Carriera (tra pastellie miniature) della pittrice, inmostra da oggi al 28 ottobre aVenezia, Palazzo Cini.
Orario: tutti i giorni 10-13,15-18, chiuso il lunedì.
La rassegna, curata da Giuseppe Pavanello, è corre data da un catalogo edito da Marsilio.
Per informazioni: 041-2710230 arte@cini.it
Rosalba Carriera nacque il 7 ottobre 1675 a Venezia, dove morì il 15 aprile1757.
Susanna Legrenzi
La nonna che corre in moto con il boyfriend, il rito del bagno turco, l’incontro tra madri e figlie. Negli Stati Uniti il binomio arte e femminismo va in mostra da New York a Los Angeles. Obiettivo: sovvertire le regole di un gioco che relega sotto il 5 per cento la presenza delle donne nei musei.
La geometria dei tavoli – evidente, il rimando – è quello di un triangolo equilatero. In tessuto bianco, apparecchiato per trentanove con piatti in ceramica dall’altrettanto evidente ispirazione anatomica, rende omaggio a quelle donne che hanno lasciato un segno nella storia, da Saffo a Isabella d’Este, a Emily Dickinson.
A realizzarlo con l’aiuto di quattrocento volontarie è stata Judy Chicago, una delle artiste più celebri e impegnate degli anni Settanta. Quando The Dinner party, titolo dell’opera, fu esposto per la prima volta al Moma di San Francisco era il 1979. All’epoca – nonostante la folla di curiosi – i critici lo bollarono come pura pornografia, mentre (i più puritani) membri del Congresso lo considerarono un affronto alla modestia e alle virtù delle americane. Oggi, a circa 30 anni di distanza, la grande abbuffata femminista – che il settimanale Newsweek ha classificato fra le non molte altre opere che hanno avuto effetti sconvolgenti nella storia dell’arte – è tornata in mostra a New York.
A ospitarla è il Brooklyn Museum, dove è stata inaugurato uno spazio di 8 mila metri quadri, dedicato alla consacrazione del potere rosa: l’Elisabeth Sackler Center for Feminist Art, che prende il nome da Elisabeth Sackler, prodiga collestionista d’arte, nonché figlia di Arthur, uno dei maggiori “benefattori” del Metropolitan Museum. L’evento ha registrato grande successo.
Alla vicenda, il mensile statunitense Art news ha dedicato una copertina, sottolineando il grande ritorno del femminismo, quanto meno quello applicato all’arte. Ma non è solo il Brooklyn Museum a viaggiare in questa direzione. Da New York a Los Angeles, il nuovo corso ha coinvolto molte altre importanti istituzioni artistiche, dal Moca al Moma, dove una due giorni in rosa ha riunito questa primavera centinaia di incanutite pantere nere.
Tra loro, la nota curatrice Maura Reilly: “Finalmente ci stiamo infiltrando, per usare un termine militare, anche nelle stanze del comando”.
La sfida? Ridiscutere le regole di un gioco reputato ancora sessista. Lo confermano i numeri denunciati dallo storico movimento delle Guerrilla Girl che anni addietro – lanciando lo slogan “Le donne devono essere nude per entrare al Met?” – calcolò che la percentuale di artiste esposte al Metropolitan Museum non superava il 5 per cento, mentre l’85 per cento dei nudi in mostra ritraeva corpi femminili. Era il 1989. Col tempo poco nulla è cambiato. Sempre al Met, la presenza delle artiste si è inbissata al 3 per cento, mentre lo scorso autunno il Village Voice notava che solo il 26 per cento delle grandi mostre mewyorkesi di stagione era dedicato alle donne.
Basterà, adesso, un calendario capitanato nei prossimi mesi dal tour di due grandi mostre al femminile come Global Feminisms e Wack! Art and the Feminist Revolution a rimettere in discussione i recinti stretti di un ghetto? Quando Judy Chicago mise in scena The Dinner Party spiegò: “Con quest’opera abbiamo voluto mettere fine al ciclo di omissioni che hanno escluso le donne dalla storia”. Oggi Marina Abramovic dice: “Quando vedo mostre femministe – mi spiace dirlo – penso sempre che le opere non siano buone. L’arte è buona o cattiva, non importa chi al fa”. Tesi sposata dalla gallerista Barbara Gladstone che, senza lasciarsi sfiorare da logiche di parte, ha in scuderia artiste di punta come Shirin Neshat e Sharon Lockhart. Ma anche mostre come Documenta dove – senza dover ricorrere alle quote rosa – tra gli artisti più acclamati ci sono due signore: Zoe Leonard e Louise Lawler, due voci impegnate. Nel mondo dell’arte.
Stefano Chiodi
«Proteggimi da ciò che voglio». Ecco una massima veramente adeguata all’epoca dell’impero pubblicitario e del godimento obbligato. Lampeggiante da un grande billboard elettronico su Times Square a New York, mimetizzata tra miriadi di altri messaggi, l’aveva scritta vent’anni fa con lungimiranza profetica Jenny Holzer, l’artista che con più rigore ha esplorato negli ultimi trent’anni gli usi e le perversioni del linguaggio nel mondo contemporaneo. Le sue serie più famose, come Truisms (1977-79), Survival (1983-85), Laments (1989), si presentano invariabilmente sotto forma di proliferanti collezioni di frasi contraddittorie, di affermazioni definitive, perentorie quanto immotivate, che passano in rassegna luoghi comuni della quotidianità, passioni convenzionali («Gli uomini non ti proteggono più»), collezionano affermazioni ambigue o arbitrarie («Le parole tendono a essere inadeguate», «La decadenza può essere un fine in se stessa»), e si inoltrano nei sotterranei della frustrazione, della solitudine, dell’odio.
Per presentarle, Holzer impiega mezzi molto diversi e spesso sorprendenti, dalle insegne elettroniche che l’hanno resa famosa, alle lastre di pietra incisa, alle affissioni stradali, sino alle proiezioni di diapositive scorrevoli che il pubblico italiano ha potuto conoscere negli scorsi mesi in due diverse installazioni a scala urbana presentate a Napoli e Milano. Come un poema composto di frammenti, il lavoro di Jenny Holzer riflette entropicamente la contraddittorietà, l’opacità dell’esperienza contemporanea, con il suo carico di ingiunzioni e morbidi obblighi, di torpore morale e sovreccitazione autoritaria. All’indomani dell’11 settembre 2001 il lavoro dell’artista si è fatto più apertamente politico, come testimoniano i lavori presentati alla Biennale di Venezia, una serie di grandi tele su cui sono riprodotti documenti e mappe relative all’invasione del Iraq e alle politiche adottate dagli Stati Uniti nei confronti dei «nemici combattenti». A fine maggio, a Roma, Jenny Holzer ha presentato in quattro diverse location altrettante proiezioni basate su poesie di autori contemporanei, tra cui gli italiani Antonella Anedda, Paolo Bertolani, Patrizia Cavalli, Franca Grisoni, Rosanna Guerrini, Jolanda Insana, oltre a Yehuda Amichai, Elizabeth Bishop, Henri Cole, Mahmoud Darwish e Wislawa Szymborska.
Nei suoi testi si ritrovano spesso strategie di manipolazione tipiche del linguaggio dei media: sensazionalismo, sfruttamento delle emozioni, offuscamento delle responsabilità, come accade ad esempio in una delle sue serie più note, gli «Inflammatory Essays». Possiamo dire che la strumentalizzazione del linguaggio sia una delle preoccupazioni centrali nel suo percorso?
Per preparare quel lavoro avevo letto cose diversissime, da testi di denuncia a esempi di propaganda di varie epoche, cercando di guardare all’intero spettro di possibilità, dai manifesti utopici ai peggiori esempi di manipolazione. Mettere insieme esempi così conflittuali è necessario per mostrare come il linguaggio possa essere impiegato indifferentemente per fini giusti e spaventosi, e come sia difficile orientarsi tra una molteplicità di punti di vista in competizione. Vorrei anche che gli spettatori siano portati a riflettere sul rapporto tra intenzioni e conseguenze reali, ai bagni di sangue inevitabili quando le parole vengono riversate nel laboratorio umano.
Un elemento ricorrente nelle sue opere degli ultimi anni sono i testi poetici proiettati a grande scala in spazi urbani, come è avvenuto nel centro di Roma e prima a Milano e Napoli. È una scelta in controtendenza rispetto ai suoi lavori precedenti, dove il valore letterario aveva poca o nessuna importanza?
Anzitutto mi interessa che il pubblico osservi liberamente i materiali che propongo: non mi piacciono le prediche e i testi che scelgo non spiegano il senso della vita, non risolvono problemi. Credo poi che la scelta delle poesia sia la conseguenza di aver incontrato Henri Cole qualche anno fa a Berlino; è a lui che debbo la mia tardiva educazione poetica.
C’è stato in questo senso un cambio di direzione da opere come «Truisms» e «Survival», composte di slogan e affermazioni che sembravano dettate da una voce anonima, plurale, a quelle più recenti che utilizzano la poesia? Proiettare dei versi ha contribuito a modificare la sua visione, il modo con cui pensa e realizza il suo lavoro?
Per un certo numero di anni ho scritto tutti i testi delle mie opere; potevano sembrare di mani diverse, ma in effetti mi appartenevano interamente. Poi ho iniziato a usare scritti di altri autori, ad esempio quando per ricordare persone uccise o esiliate ho usato i loro testi piuttosto che scriverli al loro posto. Ho pensato fosse giusto che persone ridotte al silenzio fossero ricordate dalle loro stesse parole. Più di recente ho introdotto la poesia nelle mie proiezioni a scala urbana perché mi sembra particolarmente appropriata per quest’uso.
Che differenza esiste tra lavorare nello spazio pubblico rispetto a esporre in un museo? Quali sono le conseguenze sulla scelta dei testi e sulla presentazione del lavoro?
Dipende. A Milano, pochi mesi fa, ho proiettato all’interno dell’Hangar Bicocca una serie di documenti appena desecretati sulle politiche statunitensi nel Medioriente, sul trattamento dei detenuti a Guantánamo, gli stessi che avevo proiettato in precedenza sulle facciate di due biblioteche universitarie a New York e Washington così che gli studenti potessero leggerli. In altre parole è spesso il contesto a decidere. In generale preferisco proiettare la poesia all’esterno, come a piazza del Plebiscito a Napoli, perché è più immediatamente suggestiva e riesce a catturare i passanti che altrimenti non si fermerebbero a leggere. All’interno, dove i visitatori sono meno distratti, tendo a esporre i documenti, che ovviamente richiedono maggiore impegno per essere decifrati.
Quando un testo poetico è proiettato su una facciata larga cinquanta metri non cambiano ovviamente solo le condizioni di lettura ma anche il modo con cui i versi vengono intesi. È del resto una lezione, questa della fisicità della lettera, che la poesia da Mallarmé a oggi ha venuto ben presente. In che modo l’aspetto tangibile del testo influisce sulla lettura, sull’interpretazione del suo lavoro?
Quando una poesia viene proiettata molti fattori entrano in gioco, dall’atmosfera notturna, se c’è pioggia o bel tempo ad esempio, allo stesso edificio su cui avviene la proiezione. La storia, la forma dell’architettura contribuisce a creare una certa atmosfera, un certo tipo di risposta. Posso immaginare in anticipo l’effetto che otterrò da un certo edificio o da una certa città, ma è un po’ come per il teatro, non si può mai sapere finché non si va in scena. La grande scala crea una straordinaria differenza così come i materiali, il luogo, il pubblico, e quindi il colore, il tipo di carattere e il ritmo della proiezione. Sono tutte variabili che vanno prese in considerazione. Ho imparato che le proiezioni devono essere piuttosto lente, non solo perché così è più facile leggere i testi, ma per creare un effetto solenne, un ritmo processionale che trasmette la serietà appropriata per gli argomenti spesso tragici che vengono affrontati nei testi.
In alcune sue installazioni che utilizzano insegne elettroniche – penso in particolare alla mostra al Guggenheim di New York nel 1990 – a tratti il flusso di parole cessava del tutto. Poi, improvvisamente, i testi cominciavano di nuovo a rincorrersi nello spazio. Il ritmo e la velocità del testo sono gli altri elementi che lei utilizza per connettersi all’architettura e al movimento casuale dello spettatore?
Sì. A volte cerco di calibrare il ritmo e la presentazione sul contenuto, in altre cerco esattamente il contrario, in modo da ottenere dei ritmi interessanti per il pubblico. Alla Dia Foundation di New York, molti anni fa, dopo aver lavorato per giorni su un lavoro mi resi conto che l’ambiente sarebbe dovuto a un certo momento diventare completamente buio, così da creare un effetto di sperdimento e anche un po’ di timore a causa dell’oscurità. Quindi tutti le luci si sarebbero riaccese e il testo avrebbe ricominciato a scorrere. In altre occasioni, come al Guggenheim, c’era una varietà di ritmi in modo tale il pubblico non si addormentasse. In altre ancora, come alla National Galerie di Berlino, avevo cercato un effetto di compressione e espansione dello spazio lavorando sul ritmo e la dimensione dei Led applicati alle travi del soffitto.
I luoghi che hanno ospitato i suoi lavori a Roma si trovano tutti nel centro storico della città. Perché li ha scelti? A causa della loro visibilità, del loro prestigio? Perché erano quelli più facilmente disponibili?
A Roma ho scelto quattro diversi luoghi e come sempre in ogni scelta c’è una combinazione tra ciò che si desidera e ciò che è possibile ottenere. Tutti sono stati scelti perché dotati di una facile visibilità e accessibilità. Mi piace che le mie proiezioni avvengano in luoghi dove c’è un pubblico occasionale, non informato in precedenza. E quindi aver scelto il centro della città risponde a questa logica.
Sono senz’altro luoghi straordinari. Ma forse sarebbe stato interessante anche allontanarsi dal centro storico, dalla sua stratificazione, dalla sua bellezza in qualche modo.
A volte però è interessante osservare il contrasto tra l’intensità drammatica delle poesie e la bellezza formale dell’architettura.
Qual è il suo rapporto con la traduzione? Come reagisce quando vede un testo su cui ha lavorato in inglese proiettato in italiano, francese o tedesco?
La traduzione è obbligatoria se si lavora nello spazio pubblico, una sua mancanza sarebbe stupida e poco rispettosa degli spettatori. Ma la traduzione è anche qualcosa di misterioso che ha il potere di cambiare le cose. E non solo a causa delle parole diverse, ma perché fa apparire le differenze tra le culture.
Tra i suoi lavori «storici» con le insegne elettroniche e le proiezioni più recenti avverto non solo un cambiamento visivo, ma soprattutto un mutamento di tono. Mentre le prime risultano dirette, aggressive, a volte sembrano intimazioni espresse ad alta voce, le proiezioni posseggono una tonalità più intima, un’inflessione affettivamente carica, quasi quella di una voce materna che bisbiglia nell’orecchio dello spettatore. È una sensazione giustificata?
Le insegne elettroniche sono certamente aggressive, anche se viste in mezzo a molte altre non posseggono probabilmente un carattere così pungente. La mia intenzione era fornire informazioni in conflitto tra loro così che gli spettatori potessero sceglierne alcune e tralasciarne altre, a loro piacimento. Ma d’altro canto lei ha ragione, le proiezioni comunicano una sensazione del tutto diversa. E questo perché si tratta di luce bianca che scorre lentamente, una soluzione molto adatta alla poesia e forse anche a quanto volevo realizzare, anche con le insegne, e cioè porgere, offrire qualcosa dicendo «ecco, fatene ciò che volete».
Rispetto al passato in che direzione si muove il suo lavoro attuale?
I temi sono sempre gli stessi ma sono interessata a sperimentare altri modi di presentazione, come le proiezioni. Mi piace avere oggi a disposizione un’intera gamma di voci da utilizzare. Quanto cerco di affrontare il tema della guerra posso mostrare ciò che pensa un poeta israeliano, quel che prova un palestinese riguardo alla perdita della sua casa o cosa ha pensato e sentito Wislawa Szymborska nella Polonia all’indomani della seconda guerra mondiale. È qualcosa di inestimabile.
E in termini più strettamente espressivi come si è manifestato questo mutamento?
Gli aspetti formali sono importanti perché è attraverso di essi che i materiali si rendono accessibili; oggi ho più fiducia nella mia abilità di presentare e ordinare le cose, di individuare il medium più adeguato, di trovare il luogo giusto, di quanto ne abbia in quella di scrivere testi. Usando gli scritti di altri autori sono libera di fare ciò che mi riesce più naturale.
La definirebbe la conquista di una diversa maturità?
Sono sempre meno interessata a sapere chi sono e sempre più curiosa degli altri.
Gianfranco Capitta
Pensa con i sensi, senti con la mente. La suggestiva epigrafe dell’esposizione della Biennale arte potrebbe felicemente sposarsi con la performance presentata da Marina Abramovic al festival della danza, ma fuori da superati confini di genere artistico. In realtà il lavoro, quasi un’installazione, è costruito e messo in opera da una dozzina di allievi dell’artista di Belgrado, riuniti sotto la sigla di Indipendent performance group. Giovani e di paesi diversi, si esibiscono in contemporanea nello stesso luogo, secondo una modalità sperimentata anche altrove, ad esempio un paio d’anni fa a Avignone. Diversi anche per approcci estetici, sotto il comune denominatore di un titolo, The erotic body, ingannatore. Generosa come la si conosce, Abramovic si è riservata un ruolo di concertatore dell’evento.
L’ingresso mette subito alla prova. Una ragazzona prosperosa attende immobile dentro una garitta vetrata, porgendo le labbra da un foro per un bacio. E viene in mente naturalmente un’altra indimenticabile prova di ingresso, in una lontana performance dell’Abramovic anni 70, con gli spettatori costretti a varcare la soglia delimitata dai corpi nudi di Marina e Ulaj. Qui tutto è più raddolcito, più disincantato, lo spirito del tempo è meno crudo. Ma anche più opaco. Si batte il proprio nome su una vecchia macchina da scrivere, verrà utile più avanti. Ci si comincia a aggirare nei vasti spazi del teatro alle Tese, in fondo all’Arsenale, non lontano dalle sale in cui Giuseppe Penone mette in mostra le sue «sculture di linfa», tronchi centenari di larici rivestiti di pelli animali, travi scavate e riempite di resina – c’è quasi un rispecchiamento fra questi due diversi modi di guardare al vivente. Ecco una giovane donna incerta in mezzo a una distesa ordinata di scarpe di ogni tipo, prima di sceglierne un paio troppo grande per lei, con cui inscena la gelida passerella dei suoi «passi d’amore». Ecco un’impari coppia che si scambia strani baci su un letto, lui mingherlino, lei decisamente più florida. Un corpo che nella distanza sembra ridotto al solo torso, come una frammentaria statua dell’antichità classica. Un ragazzo fa un training di sopravvivenza su un materassino gonfiabile dall’inequivoca forma fallica. Una ragazza orientale porta in giro con un moto lentissimo una attonita nudità. Un’altra fa una sorta di danza del ventre con una lama fissata al bacino che taglia le pareti di carta del cubo in cui agisce. Un’altra ancora scrive con la parte bassa del corpo il nome degli spettatori, lettera per lettera. Non ci sono percorsi prestabiliti. Non c’è un tempo, perché non c’è rappresentazione. Ci si può muovere o fermare a guardare. Lasciarsi conquistare dai momenti in cui con più forza l’azione investe il pubblico con l’intensità della presenza fisica dei performer. Come quella che incessantemente sbuccia barbabietole, con le mani che si vanno colorando del colore del sangue.
Quel che manca, ed è assenza troppo fragorosa per non essere pensata, è proprio il corpo erotico. Lo dice già la staticità della situazione, inconciliabile con i moti del sentimento erotico. C’è piuttosto in gioco una decostruzione dell’eros che ne lascia scoperte le facce giocosa e funerea. Non è un caso che l’immagine finale, usciti da lì, sia quella di una Ofelia che dondola immobile sull’acqua nel bacino delle Gaggiandre, circondata dai fiori. Corpo sottratto al desiderio.
Un’intervista con la studiosa americana Griselda Pollock, a Roma per una conferenza che si terrà oggi presso la Casa internazionale delle donne. «Ogni artista lavora su un doppio asse di posizionamento, geopolitico e storico-famigliare. In tale intersezione si trova la specificità della sua opera»
Arianna Di Genova
Griselda Pollock è giunta a Roma dall’università di Leeds per tenere una conferenza presso la Casa internazionale delle donne. Autrice di testi ormai classici (tra cui, Old Mistresses, Framing Femminism: Art and the Women’s Movements 1970-1985, Vision and Difference) e di monografie su Modigliani, Berthe Morisot, Bracha Ettinger, Eva Hesse, incentrerà oggi la sua «lecture» sull’opera della pittrice berlinese Charlotte Salomon (morta ad Auschwitz a 26 anni, nel 1943), analizzandola in parallelo con Van Gogh. L’incontro con Pollock è stato organizzato da Paola Di Cori (tra i relatori, Patrizia Veroli, coordina Francesca Koch) nel contesto di un progetto di ricerca sulla vita quotidiana voluto dall’università della Sapienza e Clotilde Pontecorvo. «Lavoro sulla storia, il trauma, la trasformazione – spiega Griselda Pollock – Non voglio produrre giudizi ma resistere alla creazione di star e celebrities, anche in arte».
Lei ha esplorato i confini dello spazio pubblico e la dimensione del «privato». Alcune artiste contemporanee hanno spostato l’accento su quest’ultimo per raccontare il mondo. Cosa ne pensa?
Gli antropologi hanno sostenuto che la separazione fra cultura e natura è stata ridisegnata nelle simboliche divisioni uomo/donna. Nella Grecia antica oikos (casa) veniva distinta dalla polis e solo chi era fuori dalla casa, libero di costruirsi una vita e di sostenere la quotidianità attraverso il lavoro, poteva avere diritto a una cittadinanza. Nei periodi successivi, molto è cambiato e gli spazi privati della regalità e dell’aristocrazia – le corti – sono diventati i veri centri del potere. Le rivoluzioni moderne hanno rovesciato l’ancient régime delle monarchie assolute e reclamato una sfera pubblica per il potere borghese.
Si è così creata una nuova sfera pubblica, soggetta a una divisione costruita dalla borghesia, attraverso il concetto di gender. Le donne furono confinate negli spazi domestici mentre gli uomini vennero identificati con la politica, economica e, dunque, con il potere. Durante l’Impressionismo, ci fu ancora un cambiamento: l’intimità venne rivalutata dagli artisti, sia uomini che donne. Tuttavia, furono solo i primi a potersi muovere nella città e a sperimentare la libertà dello sguardo e la sessualità. Ho così teorizzato l’esperienza urbana ottocentesca in termini di uno scambio sessuale interclassista che escludeva le donne borghesi dai luoghi chiave della modernità, come i bordelli o i templi del divertimento. L’idea della donna pubblica era associata ad una trasgressione e ad una mancanza di rispettabilità. Poi, i processi di modernizzazione le hanno inserite negli spazi pubblici come lavoratrici e le pressioni dell’ideologia, attraverso altri tipi di visibilità della donna in pubblicità e nei media, hanno alterato le pratiche di genere e il rapporto con la città. Ma l’ideologia non è crollata. Quando le donne esplorano le condizioni che hanno determinato le loro vite e identità, finiscono per esaminare le divisioni dello spazio fra pubblico e privato. Continuano a studiare il significato di intimità che può declinarsi in sessualità, relazioni parentali, violenza domestica e, naturalmente, nel corpo. L’analisi femminista identifica le strutture e le ideologie di «gender» in cui – e contro cui – il pensiero di intellettuali e artiste pratica le sue teorie critiche.
Esiste un’arte post-femminista?
Come dice una splendida cartolina di Jackie Fleming: «Sarò post-femminista in un post-patriarcato». Il post-femminismo è una delusione creata dai media per licenziare il femminismo stesso e il suo lavoro critico, suggerendo che non c’è più bisogno di una lotta politica contro l’oppressione delle donne. La delusione si attua con la compiacenza di molte intellettuali occidentali che scambiano le loro piccole vittorie per un reale cambiamento delle strutture profonde del potere e dell’ineguaglianza. C’è ancora molto da fare. Nei nostri paesi, ora che i traffici sessuali sono una delle più orribili cicatrici dell’Europa occidentale nell’era postcomunista, nessuno deve essere compiacente. È un equivoco credere che l’obiettivo del pensiero femminista sia soltanto la liberazione sessuale. Molte artiste si comportano come ragazzacce e questo fenomeno viene definito post-femminismo. È infantile e non prende in considerazione le ragioni complesse delle teorie visuali e culturali femministe, così come il lavoro di molte artiste che riconoscono il corpo come un territorio, fortemente contestato, di potere e desiderio. Ciò che in arte viene etichettato come post-femminismo non ha capito la posta in gioco del pensiero critico di rappresentazione e sessualità.
Quale impatto ha avuto la globalizzazione sulla cultura femminista e le sue rappresentazioni artistiche?
Il femminismo è un fenomeno internazionale fin dal XIX secolo. I movimenti femministi sono apparsi nel mondo non grazie alla globalizzazione ma come risultato delle culture dei singoli paesi nel momento in cui si sono incontrate con la modernità e si sono liberate dai sistemi oppressivi. Abbiamo visto la nascita di vibranti comunità femministe nell’Europa dell’est dopo il 1989, ma anche in Giappone, Corea, Filippine e Thailandia. Nei paesi africani ci sono movimenti molto forti che seguono strade differenti da quelle euroamericane. Globalizzazione, però, può significare che il mondo euroamericano acquisisca una consapevolezza rispetto ai tanti femminismi che si possono produrre, anche nel campo artistico. Non amo l’idea di mostre collettive dove i curatori prendono esempi da diverse parti del mondo senza capirne il contesto. Così, ho proposto un modello basato su generazioni e geografie per poter scrivere una storia dell’arte post-coloniale. Ogni artista donna lavora su un doppio asse di posizionamento, quello geopolitico e quello storico-famigliare. In questa intersezione di tratti personali e culturali si trova la specificità della sua produzione.
Lei afferma che ci sono molte storie dell’arte…
L’idea delle storie dell’arte è anticonvenzionale. Suggerisce che esistono molte storie, qualcuna non scritta. Diversi sono i centri e i punti di vista. Non possiamo creare una «master narrative» ma dobbiamo renderci conto che siamo costantemente impegnati a ripensare il passato, a rivederlo mentre siamo modificati dal nostro presente, dalle nostre storie e dallo sviluppo di nuovi pensieri che queste storie producono.
La sua conferenza è incentrata su Charlotte Salomon, uccisa giovanissima dai nazisti.
Fra le artiste che ha studiato più a fondo c’è anche Eva Hesse, altra individualità con una storia tragica…
Già nel mio libro Old Mistresses: Women, Art and Ideology (1981), parlavo della sua produzione. Nel 2002 il mio centro di ricerca venne ospitato ad una conferenza dalla Tate, in concomitanza con la retrospettiva londinese dell’artista. A noi interessava affrontare la questione della sua esperienza storica, il trauma dell’olocausto e del post-olocausto. E superare la dicotomia fra la biografia di una personalità sofferente, morta tragicamente e un nuovo formalismo che esclude ogni riferimento al suo essere ebrea e donna. L’opera di Hesse, invece, cresce proprio sulla questione del sopravvivere al trauma, l’arte come mezzo per vivere e non morire.
Incontro con Lara Baladi, artista di confine che nelle sue opere mette al centro figure femminili. Libanese, vive oggi al Cairo. “Il mio lavoro è strettamente connesso alla mia esperienza personale. Mi interessa la mitologia, la spiritualità, tutto quanto unisce le culture invece di separarle”
Manuela De Leonardis
Le sue eroine si chiamano Bambarella (giocosa interpretazione della creatura di Roger Vadim), Super Arossa, Zobirak, Sirena, Maria, Teta, ma anche Mario (per via del doppio che è in ognuno, come insegna Jung)… Donne di ogni ambiente e cultura che esplorano il complesso universo femminile: seduzione, coraggio, aggressività, intelligenza, conoscenza, accondiscendenza. Per Lara Baladi (Beirut 1969, vive al Cairo) tutto parte dal fascino della mitologia. Oriente e occidente perdono i confini nelle sue opere fotografiche, installazioni e video, dove evocazioni fiabesche e oniriche non perdono mai di vista le contraddizioni del reale. Emblematiche, in particolare, due opere in mostra alla Galleria Brancolini Grimaldi di Roma, che ospita la prima personale italiana dell’artista (alcuni suoi lavori fotografici erano stati esposti in questa stessa sede circa un anno fa, in occasione della collettiva Personae & Scenarios). In una stanza – occupa due pareti- il grande arazzo Oum el Dounia (“madre della terra”), fatto realizzare in Belgio sul modello dell’omonima opera fotografica commissionata dalla Fondation Cartier Pour l’Art Contemporain di Parigi nel 2000. Nella location senza tempo del deserto (quello libico nella realtà) si colloca questa sintesi suprema di visione positiva popolata di personaggi stravaganti, dove l’azzurro del cielo non esita a diventare mare. “È una specie di racconto morale su come il mondo occidentale vede il deserto”, spiega Baladi. L’ispirazione è Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, reinterpretata in chiave orientalista. Presenti anche gli stereotipi della cultura egiziana (perché Oum el Dounia è anche l’appellativo per eccellenza dell’Egitto). La sfinge, prima di tutto – insieme alla Croce del Nilo- fotografata dalle riproduzioni approssimative su papiro, ghiotto souvenir per turisti. Come pure una cartolina originale degli anni Venti dei fotografi viaggiatori Lehnert & Landrock, che al Cairo aprirono quella libreria che ancora esiste in Sherif Street. Poi c’è la dama dei Cuori che qui è un beduino, la sirena, l’uomo-conchiglia con il fez che fuma la shisha, il coniglio che – come nella favola- simboleggia la fertilità, ma anche il tempo… “Parecchi personaggi sono colti nel sonno, come la stessa Alice sotto le palme: c’è l’ambivalenza del non sapere esattamente se si è vissuto un sogno o la realtà. Un altro riferimento presente nel lavoro è la creazione del mondo, quando il terzo giorno acqua e terra vengono separate. Ecco perché ci sono i pesci nel cielo”.
Piuttosto sovraffollata la foto di Sandouk el Dounia (la scatola del mondo), un grande collage del 2001 in cui volti e corpi femminili sono presi qui e là da tutti i media, dai cartoon alla televisione, passando per il cinema e i videogames. Immagini avvolte nell’oscurità che riflettono lo stato d’animo di un momento difficile, vissuto in prima persona dall’autrice. Una sorta di caos individuale e allo stesso tempo metropolitano, perché si tratta di personaggi che vivono tra Parigi, Cairo, Londra e New York. Tutti questi incastri femminili – aspetti conflittuali con cui ogni donna si deve confrontare nella ricerca di se stessa- vanno però a convogliare in un punto focale, rappresentato iconograficamente da un’anziana signora – il personaggio Teti (in arabo vuol dire nonna e, anche nella realtà, si tratta della nonna di Lara Baladi)- che fa la linguaccia. Teti è vestita in maniera eccentrica e ha il sorriso sulle labbra, rappresenta il raggiungimento della serenità, il placarsi di ogni confitto interno, la forza dell’ironia.
Ti sei laureata a Londra, nel 1990, in economia internazionale, quando hai capito che avresti voluto fare l’artista?
Penso di aver sempre avuto un interesse per l’arte fin da bambina. Un interesse che manifestavo suonando il pianoforte o nel modo di costruire i miei giochi, non certo in maniera più formale. È stato a New York, durante una vacanza nel periodo in cui ero studentessa universitaria, che ho iniziato a fotografare in modo del tutto casuale. La madre di un mio amico, fotografa, mi ha dato i primi rudimenti e mi ha portata anche a vedere una mostra fotografica di Mappethorpe. Fu un vero shock, è così che ho scoperto la fotografia. A New York ho fotografato molto, perché ero attratta dalla città. Tornata a Londra, parallelamente al mio corso universitario ne ho seguito uno di fotografia. Il mio interesse per l’economia è calato mentre è aumentato quello per la fotografia, finché una volta conseguita la laurea sapevo che non non sarei mai stata economista.
Lavori da sempre sul tema della donna…
Sono una donna alla ricerca di me stessa. Penso che il mio lavoro sia strettamente connesso con l’esperienza personale. Non mi considero una femminista, esploro semplicemente il mondo delle donne. Certo, non è facile la mia posizione di artista donna in una società maschilista come quella egiziana, ma il mio intento non è quello di denuncia. Sono più interessata alla spiritualità, alla mitologia, a tutto ciò che unisce le culture più che separarle, come in Caleidoscopio, un’opera che è un mix di mondo occidentale e mondo arabo, cristianesimo, islam, buddismo.
A proposito di esperienza personale, sei nata a Beirut e vivi al Cairo, ma hai vissuto anche a Parigi e Londra…
La mia famiglia è siriano-libanese. Emigrarono in Egitto alla fine del XIX secolo, ma dopo la rivoluzione di Nasser del 1952, si trasferirono prima in Iraq poi in Libano, dove sono nata. Con lo scoppio della guerra ci siamo nuovamente trasferiti al Cairo, dove nel frattempo, morto Nasser, nel 1970 era stato eletto Sadat presidente dell’Egitto. Ma a quell’epoca il paese era ancora molto chiuso, non offriva molte possibilità e miei genitori decisero di trasferirsi a Parigi. Avevo otto anni, perciò a Parigi ho fatto le scuole secondarie, per continuare gli studi a Londra, alla Richmond University. Da lì sono tornata a Parigi, dove ho vissuto per altri sette anni, sentendo però sempre il bisogno di tornare al Cairo. Ci tornavo ogni tre mesi per fotografare, finché nel 1997 ho deciso di viverci stabilmente. Erano vent’anni che avevo smesso di parlare arabo. A Parigi, pur avendoci vissuto parecchio non mi sono mai sentita integrata, né tanto meno a Londra. Avevo bisogno di tornare alle origini.
In questi ultimi dieci anni l’Egitto è cambiato molto. Prima era tra i paesi più aperti all’occidente, ora è sempre più coinvolto nell’integralismo…
Penso che, attualmente, sia una tendenza generale un pò ovunque nel mondo il fatto che ci siano molti più governi di destra che nel passato. Tanto più che l’Egitto è un paese povero e sovrappopolato in cui la vita è già di per sé difficile. La religione è l’ultima speranza.
Accennavi al fatto che essere artista donna in una società maschilista come quella egiziana non sia affatto facile…
È difficile comunque, sia per un uomo che per una donna, ma certo per una donna lo è ancora di più. In teoria ho la libertà di fare quello che voglio, nel contempo però ci sono molte pressioni. Parecchi artisti uomini, poi, sono gelosi del mio lavoro, del mio successo. Vivere al Cairo richiede molte energie, quello che mi disturba di più è l’inquinamento, però è una città incredibile, unica, un vero mix di realtà che è impossibile trovare altrove. Ha qualcosa di magico, la storia, la gente, i colori… In questo momento però sono un pò stanca di viverci, dieci anni sono abbastanza. Chissà…
Il tuo linguaggio artistico si esprime prevalentemente attraverso il racconto onirico, tra fiaba e incubo. Non hai mai pensato ad altri modi?
Non uso solo questo linguaggio. La mia provenienza è la fotografia documentaria, ma per me il reportage è limitato, non c’è spazio per l’immaginazione. La realtà è molteplice, spesso infatti ricorro proprio al collage, perché una sola immagine non mi basta per rendere un’idea. Il collage implica qualcosa di infinito. Ultimamente, in Pakistan, ho iniziato un lavoro di reportage sui camion coloratissimi che ho visto sulla strada Karachi-Lahore. È molto pericoloso viaggiare in Pakistan, perciò per allontanare la sfortuna e avere la protezione divina tutti i camion vengono dipinti con motivi iconografici del paradiso. Mi hanno incuriosito soprattutto per come viene interpretato il tema del paradiso nella tradizione popolare, gli archetipi simbolici e mitologici. Da queste immagini penso di trarre spunto per successive elaborazioni.
I tuoi lavori sembrano essere work in progress, da quello precedente trai sempre spunto per qualcosa di nuovo…
Sì, sono tutti collegati tra loro. È un pò come le matrioske, in ognuna ne trovi sempre un’altra. Ho iniziato, infatti, a fare un archivio fotografico, perché ho tantissime immagini che poi riutilizzo per nuovi lavori. È come un alfabeto dove le lettere sono sempre quelle, ma vengono rimescolare e combinate fra loro in modo diverso.
il manifesto – 14 aprile 2007
In mostra fino al 10 giungo, alla galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, «Family Monument», il work in progress dell’artista britannica Gillian Wearing
Teresa Macrì
La questione della famiglia così pateticamente dibattuta dai nostri parlamentari viene riaperta dall’ironia concettuale della britannica Gillian Wearing che, paradossalmente, nel costruire la sua mostra in progress, ha lanciato una sorta di sondaggio creativo sull’idea di famiglia trentina. La mostra Family Monument inaugurata il 24 marzo (e aperta fino al 10 giugno) alla galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, curata da Fabio Cavallucci e da Cristina Natalicchio, sarà suggellata da una scultura pubblica, una famiglia appunto. Wearing (Birmingham 1963) insignita del Turner Prize nel 1997 è soprattutto una acclamata artista della cosiddetta YBas.
La YBas (Young Britsh artists), si ricorderà, fu quel gruppo di bad boys and girls consacrati dall’epocale Sensation nel 1997, mostra che allora scandalizzò una parte di quel bacchettonismo (ancora vivo) nell’art system, non tanto per la mucca sezionata e conservata in formalina da Damien Hirst quanto per il loro comportamento politically uncorrect dedito a un narcisismo (di ciò furono accusati) da star (cover su magazine, frequentazioni di stadi di calcio e concerti rock piuttosto che di stazionamenti nei noiosi post-vernissage) e annichilito dall’imponenza del marketing confezionato dal ricco Charles Saatchi, fino ad allora desueta per il mondo artistico. Molti giurarono che quella fragorosa Sensation sarebbe stata una bolla di sapone. Oggi, a dieci anni di distanza, la persistenza del lavoro di molti YBas dimostra esattamente il contrario. La mostra, architettata sensazionalmente, sembra dimostrare le stesse radicate fondamenta che possiede l’architettura di Frank Gehry.
Ritornando a Wearing, che solitamente lavora interagendo col contesto in cui opera e soprattutto intesse una rete di relazioni interpersonali sviluppando quello che è un work in progress, come nel caso della mostra di Trento, sembra qui porsi un interrogativo. Esiste una idea, un concetto, uno standard di famiglia? Esiste una norma? Esiste una identità della famiglia? Appunto. Sarebbero i quesiti che i nostri impareggiabili parlamentari dovrebbero porsi nell’era post-industriale anche se, probabilmente, è più l’idea artificiosa e illusoria da spot del Mulino Bianco che li guida nel leggiferare. Ed è proprio quello standard da «famiglia-Mulino Bianco» che Wearing distrugge, concettualmente e oggettivamente. Poiché il suo lavoro è una presa diretta di ciò che è riuscita a captare nelle interviste realizzate a Trento, a passanti anonimi, di classe, generazione e idee differenti. Non solo, Wearing ha animato la costruzione della mostra attraverso dei cartoncini lasciati nelle sale della Galleria Civica e utilizzabili da tutti i fruitori per lasciare le proprie idee familiari oltre ad aver indetto una sorta di concorso pubblico, attraverso degli annunci sui giornali locali, con i quali la comunità cittadina è stata invitata ad autorappresentarsi. Una famiglia trentina sarà scelta e immolata. Gillian Wearing dunque non compare assolutamente nella disquisizione ancora in corso, se non come regista di una messa in scena che ha come protagonisti la città aperta di Trento e i suoi abitanti. Così le video-interviste che vengono presentate in mostra non ci stupiscono affatto per la banalità del quotidiano che vagheggiano. L’idea generale che si evince, anche se differenziata da situazioni personali e sociali, è che esiste una idealizzazione della famiglia e che in essa si racchiude il sogno dell’italiano, poiché la statistica trentina non differirebbe affatto da una medesima condotta in Calabria e in Puglia. C’è un’idea consolatoria e anche sostitutiva della famiglia che implica un’insoddisfazione di fondo, forse di frustrazione sociale, lavorativa, economica che, in tempi di crisi ideologica, risarcisce il vuoto apparente. In fondo l’insopportabile spot del Mulino Bianco non è illusivo? In quale famiglia si perde tutto quel tempo, appena alzati, per sedersi su tavole imbandite, insieme a bimbi saltellanti, per sgranocchiare le famose merendine sature di grassi e di carboidrati?
Wearing, dunque, non fa che ripercorrere il disincanto con cui gli intervistati edificano attraverso sogni e desideri, in parte smentiti dalla realtà tangibile, l’idea di famiglia, intesa come una specie di gigantesca ala che protegge dalle contraddizioni dell’esistente. Poiché esiste un dark side of family, confermato dalla cronaca quotidiana. Basterebbe guardarsi attorno per scoprire che l’idea di famiglia, così come viene celebrata, è irrimediabilmente oscillante in una epoca in cui i rapporti sociali, comportamentali e economici sono cambiati radicalmente. I soggetti sociali sono ben altri, così come alterate sono le aspirazioni individuali. Non si tratta più di rapporti di minoranze bensì di moltitudini ibridate e in continua trasformazione e di soggettività che si sono emancipate verso nuove forme di convivenza. La mostra di Wearing giunge semmai a una verifica che è, in ultimo, il suo fine: scoprire e riscoprire gli strati stereotipati dell’essere umano. Quegli strati che sono cementati da una comunicazione manipolatoria e da una fabbrica mass-mediatica anestetizzante: reality show, gossip, talk-show e pubblicità mirata al total think. Da questo martellamento non può che regnare sovrana la stereotipizzazione del mondo. Le video-interviste di Wearing alludono a una realtà paradossale e il suo iper-realistico monumento che sarà immolato a giugno in Piazza Dante, funzionerà come uno specchio strabico di tali paradossi.
Viva la family allora, ma la sua!
Una mostra al museo di Los Angeles, l’apertura di un centro al Brooklyn museum, un convegno sold out al MoMa di New York.
La critica e le istituzioni si accorgono delle artiste e di un lavoro che prosegue dagli anni 70. Ma i dubbi sull’operazione
Miriam Tola
Il 2007 potrebbe essere ricordato come l’anno della scoperta dell’arte femminista da parte delle maggiori istituzioni artistiche statunitensi. Improvvisamente, sembra che giganti del calibro del Museum of modern art di New York si siano svegliati da un lungo sonno e abbiano finalmente aperto le porte alle artiste coinvolte in uno dei più importanti movimenti del ventesimo (e ventunesimo) secolo.
Tre eventi potrebbero far pensare che sia così. Numero uno: a fine gennaio il MoMa, storicamente piuttosto ostile al femminismo, ospita una conferenza dal titolo promettente: The feminist future: theory and practice in the visual arts . La due giorni è animata da storiche dell’arte, curatrici e artiste tra cui Marina Abramovic, Coco Fusco e alcune Guerrilla Girls. Già a fine novembre 2006 il simposio registrava il tutto esaurito, segno inequivocabile di un vuoto, o meglio, una voragine culturale, scavata da trenta anni di scarso interesse. La spinta per riempirla è venuta, pare, dalla facoltosa Sarah Peter che ha messo sul piatto generose donazioni a sostegno dell’arte delle donne.
Evento numero due: il 4 marzo il Museum of contemporary art di Los Angeles (Moca) inaugura Wack! Art and the feminist revolution . Frutto del lavoro quasi decennale della curatrice Connie Butler, la mostra include le opere di 120 artiste realizzate tra fine anni Sessanta e anni Settanta, durante il boom del movimento delle donne americano. La lista di nomi comprende pioniere come Judy Chicago, Valie Export, Carolee Scheemann e Chantal Akerman e, ancora una volta, Marina Abramovic che ha sempre rifiutato l’etichetta di “artista femminista”: “Quando vedo mostre femministe – mi dispiace dirlo – penso sempre che le opere non sono buone. L’arte è buona o cattiva, non importa chi la fa. Le politiche femministe sono molto più interessanti”.
“Il movimento dell’arte femminista è simile all’arte gotica, è qualcosa che nominiamo guardando al passato ma non era un movimento omogeneo” sostiene la storica dell’arte Gail Levin. Così le quattordici sezioni tematiche di Wack! coprono orientamenti femministi in stridente contrasto, da “Goddess”, raccolta di lavori ispirati all’associazione tra femminile e materno, a “Gender performance” che ammicca alla decostruzione di sesso e genere teorizzata da Judith Butler. Wack! rimarrà a Los Angeles fino al 16 luglio. Poi partità per un tour che toccherà Washington e, a inizio 2008, il P.S.1 di Long Island City, New York.
L’evento numero tre è l’apertura del Center for feminist art presso il Brooklyn museum, ambizioso progetto reso possibile dal finanziamento di Elizabeth A. Sackler da cui prende il nome. Il Sackler Center è la casa di una delle opere chiave dell’arte femminista, “The Dinner Party”, creato nell’arco di quattro anni (1975/1979) da centinaia di volontarie supervisionate da Judy Chicago. “Fu creato – spiega – per mettere fine al ciclo di omissioni che hanno escluso le donne dalla storia”. Il cuore dell’opera, ricchissimo ensemble di ceramiche, ricami e arazzi, è un tavolo – un enorme triangolo equilatero – formato da trentanove posti con teli ricamati e piatti dalle forme vaginali, ognuno intitolato a figure femminili immensamente influenti, da Saffo a Virginia Woolf, passando per l’abolizionista afro-americana Sojourner Truth.
Come ha scritto la critica Phoebe Hoban su ArtNews , “per Chicago l’installazione permanente di “The Dinner Party” è una saga arrivata alla fine. E in qualche modo è anche un paradigma della riconsiderazione dell’importanza dell’arte femminista”. Nel 1979, quando l’opera fu messa in mostra per la prima volta a San Francisco, ebbe un impatto culturale considerevole. Poi, lentamente, mentre l’America degli anni Ottanta diventava teatro del backlash contro il femminismo, fu dimenticata fino a finire in soffitta.
Nelle stanze accanto, Maura Reilly e Linda Nochlin hanno curato l’allestimento di “Global feminisms”, panorama sui femminismi contemporanei che presenta ottanta artiste under 40 provenienti da cinquanta paesi. “Lo stesso termine “femminismo” si è espanso, trasformato e aperto a nuove espressioni. Non è un dogma ma una pratica flessibile e legata al contesto”, spiega Linda Nochlin che nel 1976 fece da apripista organizzando a Los Angeles la mostra Women artists: 1550-1950 .
Al Brooklyn museum, oltre ai nomi più quotati sul mercato (l’immancabile Pipilotti Rist, tanto per citarne uno), spiccano le silhouette di scene di tortura disegnate su carta da parati dall’iraniana Parastou Forouhar, e “Looking for a husband with a E.U. passport” della serba Tanja Ostojic, esplorazione in prima persona del mercato delle spose per corrispondenza. Il video della palestinese Emily Jacir, immagini rubate del percorso quotidiano attraverso un checkpoint, si lega a quello dell’israeliana Sigalit Landau che, sullo sfondo di una spiaggia, riprende un corpo nudo, ferito da un hula hoop fatto di filo spinato. L’artista lesbica americana Catherine Opie è ritratta mentre allatta suo figlio, mentre Michèle Magema della Repubblica democratica del Congo accosta simboli nazionali a immagini di gruppi di donne impegnate in danze tradizionali di fronte al dittatore Mobutu Sese Seko.
Nella selezione, dominata da fotografia e video, si nota l’assenza di performance e nuovi media. A parte rare eccezioni, la mostra raramente spiazza o sorprende. Sembra che molte artiste si accontentino di giocare con codici e temi immediatamente riconoscibili come femministi o femminili senza troppo affondare i denti nella contemporaneità. Nonostante buona parte delle opere siano state realizzate dopo il 2001, poche o nessuna offrono prospettive radicali sul mondo nell’era della guerra globale. In una mostra chiamata “Global feminisms”, mancano i nuovi femminismi impegnati nel cambiamento sociale. Sfugge quel senso di connessione, di scambio e networking implicato nel termine “global”.
Alcune sono convinte che il tris di eventi sia accaduto non per caso. Phoebe Hoban scrive: “La generazione di donne politicizzate degli anni Settanta ora sono 40/50enni e molte di loro, come Reilly, occupano posizioni di potere in grandi istituzioni culturali”. Maura Reilly conferma: “Finalmente ci stiamo infiltrando, per usare un termine militare, nelle istituzioni più importanti. Il fatto che qualcosa sia successo al MoMa è un colpo grosso. E il Sackler, nel suo genere, è il primo spazio al mondo dedicato al femminismo. Tutto ciò merita grande attenzione”. Vero. Tuttavia se si guarda alla presenza delle donne nel mondo (e nel mercato) dell’arte sembra quasi che il femminismo sia ancora di là da venire. Nel 1989 le Guerrilla Girls calcolarono che meno del 5% dei lavori in mostra al Metropolitan museum erano firmati da donne, ma l’85% dei nudi in mostra ritraevano corpi femminili. Queste cifre diventarono il tema di un celebre manifesto del gruppo, lanciato con lo slogan: “Le donne devono essere nude per entrare al Met?”. Sedici anni dopo il gruppo ha scoperto che le donne al Metropolitan sono diminuite a meno del 3%. Nel settembre 2006 Jerry Saltz notava sul Village Voice che solo il 23% dei 297 show personali in programma per l’autunno nelle gallerie di New York, l’epicentro del mercato, erano dedicati ad artiste.
Di fronte alle celebrazioni per la “rinascita” o la “riscoperta” del femminismo nell’arte, Coco Fusco, performer e docente di visual art alla Columbia University, è caustica: “Ci sono due mostre che si tengono nello stesso momento e due importanti donatrici che con il loro denaro hanno costretto i musei ad organizzare degli eventi. Credo, che in realtà ci sia poco sostegno per l’arte femminista. Pochi collezionisti la comprano. La mia idea è che le mostre e le conferenze di quest’anno hanno più a che fare con l’istituzionalizzazione dell’arte degli anni Settanta che con un cambiamento radicale. La discussione sull’arte e politiche femministe dovranno essere sviluppate altrove”. Nei prossimi mesi, e anni, vedremo se istituzioni come il Sackler Center sapranno e vorranno ritagliarsi un ruolo in questa discussione.
Arianna Di Genova
«Non posso udire la parola fuga/senza un balzo del sangue,/una improvvisa attesa, una disposizione al volo!» (Emily Dickinson).
La «piccola favola» sulla liberazione e la possibilità di sganciarsi dalla pesantezza del corpo per attraversare un’infilata di stanze (della propria infanzia, della memoria collettiva e dei sogni futuri) l’artista Valentina Berardinone ha scelto di raccontarla – quasi sottovoce – prendendo in prestito le parole della poetessa americana. Così, con una grafia, leggera tracciata a matita, «segna» sulle pagine/pareti una serie di indicazioni utili all’«escape», regalando a chi sfoglia il suo libro, alcuni passaggi segreti, porte socchiuse, squarci di spazio dove si intuisce un giardino di rose che attende chi esce all’aperto, lasciandosi coraggiosamente dietro le spalle il labirinto di passioni claustrofobiche. Il raffinato libro d’artista A flying attitude accompagna la mostra di Berardinone alla Galleria Milano (via Manin 13) dove alcune canne in bambù sostengono lembi di stoffa colorata e teli trasparenti, frammenti di un percorso dell’anima in cerca di libertà. Quelle pareti appena toccate dalla pittura sembrano interrompere la loro recinzione domestica dissolvendosi in un ritmo armonico di pieni e vuoti, assecondando il volo nomadico di un uccello che l’artista immagina preso al laccio e messo in gabbia ma poi liberato grazie all’incantesimo di uno spartito musicale, contrappunto sonoro, visivo e tattile, che «cuce» insieme un nuovo racconto.
Intervista e dialogo con Anna di Salvo
A cura di Loredana Aldegheri e Alvise Pettoello
“Città Felice” è il nome dell’Associazione che hai fondato. Qual è la sua origine?
Sono attiva nel pensiero e nella pratica politica della donne sin dagli anni ’70. Nel 1993 ho fondato a Catania insieme ad altre donne “Città Felice”, un’associazione che sin dall’inizio ha messo al centro dei propri desideri, della propria cura e della propria creatività la città in quasi tutti i suoi aspetti: relazioni, convivenze, architetture, arte, spazi, viabilità, economia, spiritualità, salute, istruzione, legalità ecc. La città è stata così letta e segnata attraverso il pensiero e le pratiche politiche della differenza sessuale con iniziative e interventi che nel corso degli anni hanno modificato il modo tradizionale di guardare la città e il suo governo in direzione di nuova idea di Catania e in direzione di una nuova visione della civiltà ripensata alla luce delle relazioni messe in atto con donne e tra donne e uomini.
La Città Felice ha fatto nascere il movimento della rete delle “Città Vicine”. Quale ne è stato il contesto?
Nell’aprile del ’98 abbiamo organizzato a Catania un convegno intitolato “Oltre Catania” al quale abbiamo invitato Clara Jourdan della Libreria delle donne di Milano perché ci desse dei consigli sul modo più giusto di procedere, Franca Fortunato di Catanzaro, donne del gruppo Kore di Messina e della biblioteca delle donne U.D.I. di Palermo con le quali volevamo ragionare in merito alla possibilità di creare, sulla base delle relazioni già esistenti, una rete di scambi e di elaborazioni tra città rese simbolicamente vicine dall’amore condiviso per i luoghi nel loro divenire e per la politica delle relazioni. Da allora i rapporti si sono infittiti, e nell’estate del 2000 a Scoglitti in Sicilia, durante l’incontro stanziale “Politica con vista”, è nata la rete delle Città Vicine che annovera tra le sue fondatrici anche donne di Roma e alcune donne del gruppo “La Merlettaia” di Foggia. In seguito anche Bologna, Verona, Firenze, Mestre, Spinea, Chioggia e altre città sono entrate a far parte della rete. La scommessa politica delle Città Vicine è stata ed è quella che sempre più città facciano crescere la rete e sviluppino tra loro analisi e progetti, superando quel senso di appartenenza che a volte ci tiene ancorate/i esclusivamente a quel che accade nelle rispettive realtà e che provoca un senso di estraneità e disinteresse per quel che avviene nelle altre città. Si è così creato un intreccio di relazioni tra donne e uomini di luoghi diversi che ha dato maggiore spazio, visibilità e respiro alla politica e ha fatto sì che si promuovessero scambi d’esperienze, approfondimenti, elaborazioni e convegni. Molte le questioni sulle quali le Città Vicine hanno voluto mettersi in gioco in questi anni, lo hanno fatto ad esempio in merito alla bellezza delle relazioni e della convivenza, alla partecipazione e al governo della città, alla riqualificazione di architetture, spazi e arredi urbani, al nesso tra arte e politica, al lavoro di cura e accoglienza dei nuovi migranti, alle relazioni di differenza nel contesto urbano, alle esperienze e alle idee per una nuova economia, ecc. Nel corso delle vacanze-politiche organizzate per molte estati di seguito dalle Città Vicine ora in Sicilia ora in Calabria sono state realizzate, tenendo conto dello spirito e dei materiali del luogo, delle performance e installazioni artistiche. Queste opere hanno preso vita grazie al coinvolgimento di ogni partecipante e agli stimoli che giungevano da parte di quelle che da tempo ci eravamo messe in gioco nella politica esperendo pratiche creative e adoperando di frequente il linguaggio visivo, come a parte me, Donatella Franchi, Luciana Talozzi, Katia Ricci e altre/i.
Che valore date alle pratiche espressive e creative per favorire una migliore convivenza in città?
Io sono una “figlia d’arte”. Mia madre era pittrice e anche mio nonno e il mio bisnonno lo erano. Mi sono accostata quindi sin dall’inizio della mia vita all’arte e al “pensiero creativo” in maniera fluida e naturale e ho appreso e amato il linguaggio dell’arte per trasmissione materna. In seguito ho raffinato questa vocazione con studi a indirizzo artistico conseguendo vari titoli, ma soprattutto insegnando arte applicata e storia dell’arte per oltre 40 anni a ragazze e ragazzi. Sin dagli inizi della mia pratica femminista, ho trovato naturale intrecciare e fare coincidere l’espressione politica con quella artistica, dando vita a opere, analisi, mostre e iniziative che mi hanno fatto capire come la politica possa essere resa fertile dalla creatività e viceversa. Da oltre 20 anni porto avanti una ricerca sulla vita e sull’operato di alcune artiste che va dal medioevo sino ai nostri giorni, soffermandomi e approfondendo soprattutto due aspetti della loro espressione. Il primo riferito al senso dell’importanza che queste artiste hanno voluto dare e riconoscere alla presenza e alla relazione con altre donne per la loro vita e per la loro produzione artistica (madri, sorelle, maestre, amiche), il secondo riferito alla ricaduta che il senso di civiltà esperita e tramandata per secoli da queste artiste attraverso il loro modo di esprimersi ha avuto sulle città. Le città figurativamente sono state scelte di frequente dalle artiste come scene nelle quali ambientare le loro opere e dalle quali ricavare ispirazione grazie alla complessità dei tanti volti che le compongono. Per fare un esempio, basti osservare l’opera medioevale che nella propria iconografia comprende la badessa Hitda nel gesto di donare il libro dei vangeli a S. Valpurga mentre la città si staglia sullo sfondo con le sue belle torri merlate (quanto detto si trova da me espresso con parole e immagini nel libro “cambia il mondo cambia la storia” a cura di Marirì Martinengo e Marina Santini, e nel CD-Rom “Tra memoria e progetto” realizzato dalla storica dell’arte Mariella Pasinati). Credo che l’aver praticato da sempre il linguaggio dell’arte abbia contribuito a farmi acquisire chiavi di lettura, angolazioni e prospettive nuove per vedere le cose che mi stanno intorno in maniera multiforme e abbiano dato maggiore intensità al mio intuito e alla mia sensibilità. Mi capita spesso infatti di tradurre mentalmente in immagini (non sempre figurative), il senso delle cose che accadono, per lo più sono le dinamiche relazionali che stimolano e sollecitano la mia fantasia che vive grazie alla vita delle relazioni. Questa produzione di immagini che a volte rimangono depositate in forma di pensiero nella mia mente, non sono una posposizione visiva di un fatto o di un ragionamento, a volte mi sono suggerite da sensazioni o intuizioni che anticipano quello che poi diventerà pensiero razionale. Quando qualcosa sollecita la mia sfera percettiva, vuol dire che la realizzazione concreta dell’opera sta iniziando a prendere corpo; la sua evoluzione reale avverrà però man mano che l’idea primigenia sarà arricchita dagli apporti di altre/i con cui mi trovo in relazione, condivido progetti e scambio esperienze.
Catania, la città in cui vivo, è una città tristemente segnata dall’arroganza e dal potere, dalla violenza e dalla mafia, è una città però molto bella che io amo, contornata da un magnifico paesaggio, ricca di memorie storiche e artistiche di incredibile prestigio. Camminando per il suo centro storico o per i suoi dintorni non è difficile imbattersi in vestigia del passato che fanno riferimento al periodo preistorico, siculo, greco, romano, bizantino, romanico, gotico, barocco, neoclassico, liberty ecc. Sono certa che tutta questa bellezza di cui le/i cittadini fruiscono, non può che orientare spiritualmente verso il bene e che parli alle donne e agli uomini di Catania infondendo loro pace e armonia.
Come ti hanno parlato le opere e le immagini artistiche della tua città?
Da ragazza percorrendo per motivi di studio le zone più artistiche di Catania, mi capitava spesso di fermarmi per disegnare le statue di sante, dee e figure allegoriche femminili che adornano in gran numero le facciate delle chiese, dei teatri, dei palazzi e che connotano con immagini di donne anche le fontane e gli ingressi dei parchi e dei luoghi pubblici. Nel corso degli anni mi sono chiesta come fare per dare risalto al senso profondo che secondo me queste figure emanavano, avvolgendo la città con un alone di spiritualità e compostezza. Ho chiesto a mia figlia Pamela, che è una brava fotografa, di realizzare una mostra che comunicasse attraverso le immagini la positività che quelle statue esprimevano attraverso le posizioni dei loro corpi, i gesti delle loro mani e l’ espressione dei loro volti. Quella manifestazione artistica, in tutto il suo iter, ha avuto come conseguenza positiva quella di infondere in me una consapevolezza nuova che ha dato l’avvio alla messa in essere della pratica visiva dell’ “arte di città”, durante la quale ho compreso che si può intervenire sulle opere del passato individuando in queste, significati diversi da quelli dati precedentemente (di questo ho parlato nel quaderno di Via Dogana “Matrice” a cura di Donatella Franchi).
Frequentemente noi di Città Felice affermiamo a Catania i nostri desideri e le nostre idee in merito alla città, come quando ad esempio qualche tempo fa ci siamo espresse con analisi, documenti, studi, incontri, installazioni e performance insieme a donne e uomini impegnate/i politicamente in altre associazioni, comitati e gruppi cittadini, disapprovando il tentativo da parte dell’amministrazione comunale di abbattere oltre 40 palazzi in stile neoclassico e liberty a causa del raddoppio del binario della linea ferroviaria Catania-Siracusa che avrebbe dovuto attraversare sotto terra il centro storico della città. O quando abbiamo riflettuto insieme agli abitanti di alcune delle piazze più belle e centrali di Catania, dove avrebbero dovuto avere luogo delle operazioni di sventramento del suolo pubblico da parte di privati per costruire dei parcheggi sotterranei, in merito agli effetti devastanti che quei progetti insensati avrebbero potuto provocare. In tutto questo lavorio, quello che cerchiamo maggiormente di significare è che le iniziative di Città Felice non sono solamente interventi di carattere sociale, ma azioni che hanno alle spalle una lunga pratica di relazioni e di scambi con altre/i che vogliono il bene della città e che si impegnano a dare nuovo senso alla qualità all’abitare e nuove definizioni al concetto di pubblico, intendendo questo come “pubblico-domestico”, cioè lo spazio di tutti segnato dall’esperienza e dalla competenza femminile. Altro aspetto di grande rilevanza è a nostro avviso l’aver cercato di fare capire con le nostre elaborazioni e le nostre pratiche artistiche che le opere e i luoghi di riferimento storico, artistico, culturale della città sono componenti importanti per mantenere salda la memoria e il senso di affezione e di radicamento ai luoghi da parte di chi li abita. Non si può stravolgere la città, svilire e offendere architetture e spazi prestigiosi per favorire l’interesse di pochi e certe speculazioni economiche che spesso, oltre a cambiare in peggio il volto della città, minano anche la stabilità e la serenità delle e dei cittadini. Chi si pone al governo delle città, crede il più delle volte di essere entrato in possesso dei beni comuni e pensa di poterne fare ciò che vuole, senza ascoltare il desiderio delle e degli abitanti che sono i veri depositari del patrimonio cittadino e mostrano quasi sempre di essere gli unici a voler salvare dalla barbarie il luogo dove vivono.
Ci fai qualche esempio di “espressioni artistiche” che hanno provocato presa di coscienza nel tuo territorio?
Penso sia fondamentale imparare a vedere, riconoscere e preservare la bellezza più o meno manifesta dei rispettivi contesti in cui si vive perché da questo si può trarre la forza per affrontare il negativo che spesso ci circonda. La ricerca della bellezza nelle relazioni e nelle forme estetiche intorno a noi crea e determina bellezza interiore e stimola gesti e pensieri positivi. Faccio qualche esempio del modo di procedere in maniera artistico-politica che metto in essere insieme ad altre/i con Città Felice in città. L’installazione “Segni di un discorso amorevole”, realizzata in piazza Federico di Svevia durante una delle tante iniziative promosse in quel contesto (in cui si trova peraltro la nostra sede politica), è stata creata in occasione della paventata distruzione dei palazzi antichi. Era composta da parti murarie di case abbattute che avevamo raccolto nei cassonetti dove si gettano i materiali di risulta. La maggior parte di questi brandelli di muri mostravano le tracce dei vecchi materiali e delle veccie tecniche di costruzione adoperate un tempo e i decori scelti da chi aveva abitato case che ora non c’erano più. Ciò che volevamo esprimere e significare con quell’operazione era che anche quando vengono abbattuti, i palazzi e le case mantengono nelle loro parti la storia, la memoria e lo spirito di ciò che li ha pervasi prima di venire distrutti. Case e palazzi sono stati quindi guardati da noi con rispetto e amore rinnovati, in quanto strutture architettoniche che oltre a mostrarsi nella loro dimensione estetica, rappresentano spazi accoglienti segnati da storie di donne, di uomini e di creature piccole. Sono state soprattutto le donne quelle che lavorando, gioendo e soffrendo nelle case hanno messo in forma secolo dopo secolo una civiltà di segno femminile scandita dal tempo domestico. Con Città Felice di solito allestiamo performance e installazioni in spazi aperti cittadini quali piazze, strade e luoghi pubblici affinché chiunque possa partecipare alla loro realizzazione e al contempo viverle anche come frutto delle propria creatività. L’incontro con l’esperienza artistica regala alla donna o all’uomo che ne prendono parte, un bagaglio di emozioni e di sensazioni che il più delle volte non sono traducibili in parole, non sono similmente riscontrabili nell’una o nell’altro ma sono invece facilmente interscambiabili. Ritengo che proprio in questo risieda il di più della scommessa politica e artistica che pratichiamo in città, cioè nel sentire o esprimere nuovi sensi e nuove percezioni in merito alla comprensione e alla visione delle cose che riguardano l’essere e il divenire della città.
Sui problemi impellenti del presente i linguaggi artistici come arrivano?
Ci tengo a dire che quasi mai una performance o un’istallazione possono essere riproposte in maniera analoga. Esiste infatti un’unicità del tutto particolare che caratterizza ogni opera nelle diverse fasi del suo divenire sino alla completa realizzazione. E’ difficile infatti ricreare le stesse condizioni materiali e spirituali e far rivivere lo stesso contesto. C’è un dato ineluttabile nell’impossibilità di riprodurre questo tipo di opere, quello cioè che le installazioni e le performance non si propongono quasi mai come oggetti effimeri e mercificabili ma si prestano ad essere fruite come creazioni dal forte impatto visivo e dal grande potenziale trasformativo. Persino le riproduzioni fotografiche, se non riescono a testimoniare l’intera essenza dell’opera nelle sue componenti d’arte e di politica, rischiano di testimoniare soltanto la realizzazione di un oggetto senz’anima oppure di un feticcio. Aggiungo inoltre che le opere significative continueranno a esprimere e perpetuare bellezza nel tempo se la loro essenza continuerà a vivere nell’anima di chi ne ha saputo trarre arricchimento per il suo modo di essere e di pensare. Un’altra installazione che ha avuto come tema il valore dell’acqua per la vita del mondo, è stata realizzata da noi nella piazza del duomo di Catania in occasione di una delle tante manifestazioni che hanno avuto luogo nel dicembre 2006 in tutt’Italia per affermare che l’acqua è un bene di tutti e che non può essere sprecata né privatizzata. Abbiamo pensato un’istallazione composta da un telo di plastica leggerissimo posto davanti alla cascata d’acqua che cade come un lenzuolo nel contesto di una fontana barocca della piazza alimentata dal fiume Amenano, che diversi secoli fa ha subito la costrizione da parte degli architetti dell’epoca a scorrere sotto terra e a essere utilizzato solo per alcune funzioni civiche. Mi è sembrato di vedere un’analogia tra la privatizzazione dell’acqua che oggi sta accadendo e quella costrizione avvenuta nel ‘700 ai danni del fiume Amenano. Il telo di plastica posto davanti alla cascata d’acqua avrebbe dovuto allertare le/i cittadini che qualcosa di grave ci stava capitando in merito alla mercificazione e allo spreco del bene comune più prezioso. Così abbiamo chiamato l’installazione “Acqua come miraggio” ottenendo riscontri interessanti, anche imprevisti, sia dal punto di vista del coinvolgimento di altre e di altri che dal punto di vista artistico. Molte donne e uomini venivano a chiederci infatti perché avevamo nascosto ai loro occhi l’acqua della fontana, così noi potevamo dialogare con loro in merito al problema. Dal punto di vista artistico è accaduto che la luce, col passare delle ore si spostava e diveniva più intensa, regalando all’acqua che cadeva dietro lo strato di plastica dei bagliori diversi. L’installazione che inizialmente poteva apparire come un’opera statica, ha acquistato un sapore dinamico, facendo sì che la luce e l’acqua in trasparenza e in movimento, divenissero le vere protagoniste di tutta l’operazione artistica.
Racconta, racconta…
Una performance a me molto cara e penso ricca di significato, è quella che abbiamo chiamata “Il tessuto colorato delle relazioni”. Con Città Felice organizziamo ogni primavera una manifestazione nella piazza dove sorge il castello progettato da Federico secondo di Svevia insieme all’architetto Riccardo Da Lentini e finito di realizzare nel 1223. La manifestazione non ha mai avuto un carattere rivendicativo ma si è distinta nel tempo come un occasione felice d’incontro e di scambi d’esperienze durante la quale dare corpo e visibilità alle relazioni tessute da noi con le donne e gli uomini che abitano il quartiere e con altre/i di associazioni, comitati spontanei, sindacati, ecc. come noi amanti della città. Per significare i rapporti che ci uniscono da tempo, ci siamo legati insieme donne e uomini, fino a formare una rete, con delle fasce di stoffa di colori diversi. Mentre ognuna/o si legava con un’altra/o spiegava ad alta voce perché lo stava facendo e cosa si aspettava da quel legame. Quello è stato veramente un evento emozionante e intenso di cui tutte quelle e quelli che c’eravamo conserviamo ancora dentro di noi il senso profondo. Altro rilevante momento artistico è stato costituito dall’aver pensata e realizzata “La montagna di sale e di memoria”, un’installazione creata inserendo in una montagnola di sale degli oggetti che testimoniavano le attività artigianali che un tempo si svolgevano nel territorio adiacente alla piazza Federico di Svevia. Gli oggetti che si facevano spazio tra i grani di sale (un tempo nella zona si lavorava il sale marino che veniva poi confezionato in sacchetti), erano remi per le barche, pezzi di ferro e di legno forgiati artisticamente, antichi telai, matasse di seta, attrezzi da calzolaio, sacchi di juta. L’opera voleva avere il compito di ridare vita e riportare alla memoria tutta una costellazione di antichi mestieri che lì oggi nessuno pratica più. Questa cultura al presente è scomparsa e attività più remunerative hanno preso il posto di quelle artigianali. Nella zona si sono moltiplicati come funghi degli esercizi commerciali (spesso si assiste anche a iniziative spontanee organizzate da ambulanti) dove si consumano cibi caratteristici come ad esempio carni o altre pietanze arrostite che oltre a involgarire quello storico contesto (alla corte di Federico secondo di Svevia partecipavano artisti, matematici e poeti come Cielo D’Alcamo che contribuirono alla nascita della lingua “vulgaris”), ne mettono a rischio la sicurezza e l’integrità.
Sono stranieri i nuovi ambulanti?
Per lo più si tratta degli stessi catanesi che allestiscono col consenso dell’amministrazione comunale dei barbecue in luoghi angusti o in alcuni gazebo che spuntano improvvisamente lungo le strade adiacenti alla piazza. Chi ha consentito e favorito il fiorire di queste attività la cui origine risulta poco chiara, lo ha fatto in base a precedenti accordi elettorali stipulati con una certa fascia di cittadini, in barba al mantenimento della cultura e della civiltà dei rapporti virtuosi già esistenti in quel luogo. Questa uniformità di esercizi sorti improvvisamente nella piazza Federico di Svevia e dintorni mi ha fatto pensare a quanto detto dall’economista americana Jane Jacobs negli anni’60 nel suo libro” Vita e morte delle grandi città” in riferimento alla necessità che affinchè un quartiere o un luogo si mantengano vitali, occorre che in essi si sviluppino attività lavorative diversificate, perché così facendo si verranno sempre più a creare dinamismo e fertilità di idee. Un’unica tipologia di presenze che vivono gli spazi o di attività che vi si sviluppano, impedisce il formarsi di un tessuto connettivo fantasioso e anticipa il declino di quel luogo. In merito a queste analisi, quale destino è riservato allora alla piazza Federico di Svevia e ai suoi abitanti, se proprio accanto al museo civico e in ogni suo più piccolo spazio, sono state impiantate attività commerciali finalizzate alla vendita e al consumo di carni arrostite?
Le vostre pratiche si ispirano ad artisti/e significativi?
Come ho già detto, sin dal 2000 ogni anno in primavera organizziamo una festa in questa piazza all’interno della quale allestiamo un’edicola del baratto dove ognuna/a porta qualcosa da scambiare: cibi, oggetti, vestiti, libri, ecc. Attorno all’edicola del baratto prendono vita di solito narrazioni spontanee, dibattiti, mostre e spettacoli. Un’altra installazione che ha preso forma recentemente in piazza in riferimento al nostro cresciuto interesse per forme nuove d’economia è stata chiamata “Portiamo al mercato i nostri sentimenti”. L’interesse per l’economia ci è stato sollecitato grazie alla relazione con Loredana Aldegheri e Maria Teresa Giacomazzi e ai rapporti istaurati con giovani donne e uomini della M.A.G. di Verona che ci hanno fatto capire che l’economia attraversa trasversalmente molte delle cose che facciamo e che è una materia facile da approcciare e non una disciplina complicatissima che riguarda solo i pochi addetti ai lavori. Per costruire quell’installazione abbiamo procurato delle strutture metalliche simili a quelle che vengono adoperate dai fruttivendoli per esporre i loro prodotti. Ma dentro alle cassette di legno non c’erano frutta o verdure ma oggetti, immagini, produzioni, libri, foto, simboli, cose care facenti parte della memoria personale di tutte/i coloro che avevamo contribuito alla realizzazione di quell’opera. Io ad esempio ho portato riproduzioni e immagini delle opere delle mie artiste predilette, libri di Virginia Woolf, Carla Lonzi, Luce Irigaray, e di altre pensatrici che nel corso della mia vita hanno costituito l’alimento fertile che mi ha consentito di procedere nel mio percorso politico e creativo. Il significato che l’installazione voleva esprimere era quello che le donne amiamo conservare l’interezza della nostra vita che mettiamo in gioco sempre, in ogni cosa che facciamo, senza separare, parcellizzare o lasciare a casa una parte della nostra esperienza. Portiamo con noi e facciamo agire le competenze acquisite giorno dopo giorno sia quando operiamo nei posti di lavoro, sia quando portiamo a termine le nostre attività quotidiane e domestiche.
Nel corso dei miei studi ho individuato alcune artiste che guardano con interesse “la città” in merito ai suoi molteplici aspetti e che da questa traggono ispirazione per le loro opere. Queste sono attente soprattutto a quanto avviene nelle grandi città, nelle megalopoli dove per molti versi la dimensione della cura, della convivenza, dello scambio tra culture diverse e degli spazi condivisi, tanto cara alle donne, rischia di dissolversi nel nulla. Per portare qualche esempio in merito a questo modo di creare che da un senso maggiore all’operato artistico da parte di donne, voglio riferirmi all’opera dell’artista inglese Lucy Orta, dell’iraniana Shirin Neshat, della coreana Kim Sooja e della spagnola Elena Del Rivero, le quali pur essendo andate a vivere lontano dai loro paesi d’origine, non hanno mai tralasciato di significare nelle loro opere la cultura dalla quale provengono. Grazie alle connotazioni etniche che le opere di queste artiste recano in sé, è avvenuto uno scambio tra culture diverse che potremmo definire “l’arte delle donne viaggianti”. Basti pensare ai fagotti di seta orientale contenenti gli oggetti necessari a chi sta per affrontare un lungo viaggio, i cosiddetti “bottari” che Kim Sooja ammassa l’uno sull’altro su dei camioncini che percorreranno chilometri e chilometri. O gli originali “paludamenti” creati da Lucy Horta, gli strani abiti che al bisogno si trasformano ora in tende da campeggio, ora in sacchi a pelo oppure in rifugi momentanei dove ripararsi la notte quando in città non si trova da dormire. Elena Del Rivero, nota per le sue installazioni che riproducono nidi d’uccello capaci di contenere corpi umani, ha saputo trovare dopo l’attacco alle torri gemelle di New York (città dove ha sede la sua casa-studio semidistrutta dall’attentato), schegge di bellezza anche in mezzo a tutto quel disastro. Ha infatto sparso, fotografandole, un numero infinito di perle in mezzo ai calcinacci del suo studio devastato dall’attentato, per significare che l’opera dell’artista avrebbe avuto seguito e con essa la speranza di costruire giorno dopo giorno la pace e la civiltà.
Shirin Neshat realizza in Iran dei video molto interessanti che hanno fatto il giro del mondo; in essi hanno grande risalto le immagini di donne iraniane che indossano abiti tradizionali e realizzano delle composizioni di grande effetto attraverso il modo di disporre i loro corpi. I volti, le mani e i corpi delle donne inoltre nelle opere della Neshat rappresentano molto spesso le superfici giuste dove tracciare in lingua iraniana la storia e il segno di un popolo.
Dialogo
Damiano Formaggio:
Secondo me Verona ha bisogno di questo tipo di approcci, anche per svelare lati nascosti, Verona è una città molto bella, artistica, ma in maniera molto convenzionale, si tende sempre a vedere le stesse cose. Avrebbe bisogno di installazioni che la facciano riflettere anche su altri luoghi e altri quartieri.
Anna di Salvo. Occorre capire qual è l’ordine simbolico di riferimento tramite il quale vengono regolate le cose in città. Molte volte si tratta di un ordine rigoroso che non lascia spazio alla libertà e alla creatività, imponendo dei dictat uguali per tutti. L’eccessivo controllo per il mantenimento dei sistemi predefiniti non sempre dà la possibilità di mettersi in ascolto delle proprie emozioni e dei propri desideri. Quando l’autenticità, la spontaneità e l’affettività vengono represse, l’infelicità e l’apatia prendono il sopravvento.
Maria Teresa Giacomazzi:
Mi è piaciuto il tuo incipit, prima l’immagine e poi il pensiero. Pensando anche al nostro giornale che è pensiero che viene dalla narrazione, capisco che essa rimanda più all’immagine che al pensiero astratto. E’ un’affermazione che sento vera e molto forte,anche rispetto alla mia cultura che mi porta a esprimermi più per pensieri che per immagini. Io non ho cultura in questo senso e nonostante questo le cose che ci hai raccontato mi hanno colpito. Pensando al nostro giornale, proporre immagini credo sia un passaggio molto forte.
Anna di Salvo.
Per dare maggiore senso alle immagini occorre avere delle chiavi di lettura diverse della realtà. Molto conta la percezione del contesto in cui ci si muove e le relazioni istaurate con le e gli abitanti di quel contesto.
Ad esempio nel vecchio quartiere di S. Berillo di Catania devastato dalla speculazione edilizia negli anni ’50 e adibito per quel poco che ne è rimasto allo sfruttamento della prostituzione e allo spaccio di droghe, abbiamo cercato di cambiare l’immagine negativa che si aveva del quartiere, lavorando nel territorio insieme con il comitato “Babilonia”. Sono state organizzate in quel contesto insieme alle poche donne e agli uomini che lo abitano, delle serate di poesia e sono state installate delle opere pittoriche realizzate da artiste sulle porte murate di antiche case dove si praticava la prostituzione, per significare come la ricerca della bellezza è possibile in ogni luogo soprattutto quando il senso della bellezza alberga dentro di noi.
Elena Mariuz:
E’ bello parlare di immagini, però quando guardiamo un posto, la cosa che mi piace di più, che è poi quella che vivo e che mi attraversa, come dicevi tu, è l’atmosfera in genere fatta di immagini ma anche di odori, per me l’odore è l’aria propria. Pensavo al discorso del telo che hai fatto, probabilmente dando sempre più parola a quest’opera, si entra nello specifico dell’acqua dispersa di qua e di là. Penso anche a chi ha visto questo telo e ha voluto strapparlo, deve aver vissuto un impatto emotivo e forte. Dopo ci sarà stata una riflessione, e quindi mi piacerebbe, dal momento che abbiamo fatto un numero sul pensiero che andava a problemizzare anche l’evento sul Mantegna che è diventato un discorso consumistico e non più introspettivo e di vita … Ma sarebbe bello dedicare, magari in linea con il giornale, uno spazio alla poesia che dà voce alle emozioni. Per voi a Catania avere quegli odori è un elemento negativo. Però in una città come Verona che è una città così patinata, un discorso del genere mi darebbe un’emozione positiva per la diversità.
Anna di Salvo:
Quando voi venite nelle nostre città vi innamorate del colore e della spontaneità che trovate, noi donne di Città Felice invece, pur riconoscendo il valore della nostra tradizione ci preoccupiamo che gli atteggiamenti incivili possano aumentare a causa della povertà, dell’ignoranza e dell’esercizio del potere da parte di pochi. E’ per questo che cerchiamo di rendere agente il più possibile in città l’opera e il sapere femminile.
il manifesto – 28 Febbraio 2007
Tradotti i saggi della critica americana raccolti nel volume titolato per Fazi l'”Originalità dell’avanguardia”. Una domanda torna insistente a informare la sua verve polemica: come raccontare altrimenti il Modernismo?
Riccardo Venturi
Prima scena, treno Cambridge(Massachusset)-New York, fine anni ’60. “Scusi, lei è Rosalind Krauss?” – domanda un lettore di Artforum, la rivista in cui la critica americana scriveva regolarmente. Per poi aggiungere: “mi aspettavo che avesse almeno quarant’anni”. C’era, in quelle parole, non tanto un complimento sulla maturità intellettuale dell’autrice, non ancora trentenne, quanto l’effetto perverso causato dal gergo del maestro di lei, Clement Greenberg, il critico americano più influente della seconda metà del XX secolo. Seconda scena, Harvard University, estate 1970: in un contesto in cui nessuno si occupava del XX secolo, Rosalind Krauss tiene una lezione sul cubismo, soffermandosi sulle case in collina a Horta de Ebro, dipinte da Picasso nel 1909. Più osserva la diapositiva più si rende conto che la sua interpretazione, tutta cocentrata sulla conquista della superficie del piano pittorico, non funziona. Era una lettura dettata dalla lezione di Greenberg, appunto, ma non le tornava più. Per la prima volta, la Krauss si andava accorgendo della quantità smisurata di spazio contenuta in quel paesaggio. Le sue parole le tornano indietro come talmente scollate dall’esperienza visiva che, rivolgendosi ai suoi studenti, confessa: “quanto ho detto negli ultimi venti minuti è falso”. E promette di riprendere la questione nella lezione successiva.
Durante il fine settimana consulta un suo stimato collega il quale, a vedersi presentare l’immagine cubista, sciorina quanto Greenberg aveva fissato nell’imperituro saggio sul collage, gettando Rosalind Krauss nello sconforto: “Fermati, aspetta un attimo. Greenberg l’ho letto anch’io. Ora voglio che tu guardi qui”. Non sappiamo cosa raccontò ai suoi studenti il lunedì successivo, di certo le ci vollero più di dieci anni per maturare un distacco dalla tradizione modernista e dal gruppo dei “Greenberbergs”, come li aveva soprannominati l’artista americano Donald Judd. Quel distacco trovò compimento nei lavori riuniti in un libro titolato L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, ora tradotto per Fazi (a cura e con una prefazione di Elio Grazioli, pp. 358, con un corredo iconografico più ricco dell’edizione originale) che raccoglie i saggi di Rosalind Krauss pubblicati tra il 1973 e il 1983. Considerati i precedenti, non sorprenderà che l’autrice sembri infervorarsi tanto più quanto meglio intravede un bersaglio polemico, configurabile come l’ennesimo rituale di uccisione del padre, la cui voce non le sembra mai abbastanza tacitata. Del resto, il modello della Krauss è senza dubbio assimilabile a quello dell’agone, come dimostra, tra tanti esempi, il tono velenoso del saggio “Sinceramente sua”, una stroncatura della retrospettiva dedicata a Rodin dalla National Gallery of Art di Washington, nel 1981. Ma questa conflittualità finisce spesso per ritorcersi contro di lei, se è vero che ogni suo libro rilancia una nuova sfida e che queste sfide si risolvono in implicite polemiche con i risultati precedentemente acquisiti.
Studiosa rigorosa quanto felicemente asistematica, Rosalind Krauss sembra adottare un metodo differente per ogni argomento, periodo o opera che affronta: dal formalismo al post-strutturalismo; dalla lezione di Greenberg a quella di Barthes e di Foucault; dai prestiti presi da Saussure e Greimas a quelli mutuati da Benjamin, Derrida, Lacan, Bataille. Gli stessi francesi hanno reagito stupefatti al modo in cui gli studiosi americani si sono riappropriati o, meglio, hanno costruito, una loro “french theory”, e di certo nel campo della critica d’arte – come ha sostenuto David Carrier nel suo Rosalind Krauss and American Philosophical Art Criticism (Westoport, 2002) – nessuno meglio di Rosalind Krauss incarna la parabola statunitense. Ma è anche vero che la sua instancabile e ossessiva revisione metodologica le permette, in realtà, di opporre alla vulgata modernista applicata a un corpus scelto di opere delle letture ben altrimenti originali. O meglio, è la centralità inaggirabile delle opere a permetterlo: i modelli teorici sono funzionali alle opere, vengono “utilizzati” piuttosto che “tematizzati”. Infatti, la preoccupazione principale di Rosalind Krauss non è mai quella di accordarsi alla linguistica strutturale, o di praticare una semiotica del linguaggio visivo, o una critica agli orientamenti essenzialisti ed evoluzionisti. Non le interessa testare la tenuta degli impianti teorici o la coerenza dei sistemi, perché quel che per lei conta, invece, è restare fedele alle proprie intuizioni; e L’originalità dell’avanguardia è appunto un libro fatto delle intuizioni straordinarie di una critica militante. Osservare l’abilità di Rosalind Krauss nel trasformare un pretesto in occasione critica è un piacere che vale da solo la lettura, una lettura alla quale si rivela, insistita, la domanda che percorre tutta la sua attività di critica: come raccontare una storia dell’arte alternativa al Modernismo? O meglio, come raccontare il Modernismo altrimenti? È a questo scopo che Rosalind Krauss ricorre a nuove narrazioni: legge la scultura in Gonzalez attraverso le opere di Anthony Caro e di David Smith, guarda a Rodin attraverso Richard Serra, coglie l’aspetto maniacale di Sol Le Witt piuttosto che quello razionale, parte da Manet per arrivare a Dubuffet piuttosto che a Pollock. Quanto a Pollock, la sua analisi lo libera dalle letture iconologiche e getta un ponte verso i Piss paintings di Warhol, verso Eva Hesse, verso Cindy Sherman. O, ancora, identifica il Modernismo con la figura della griglia, abborda la fotografia e la questione relativa alla perdita di senso dell’originale, affronta la scultura degli anni ’60-’70 nel cui campo espanso, o nella cui nuova sintassi, si perdono i confini netti di ciascun medium.
Quella di Rosalind Krauss è, in definitiva, una ricerca interna alla disciplina della storia dell’arte che resiste ai visual studies e alle loro pretese di abbattere il confine tra le opere d’arte e il mondo sterminato delle immagini. Se la distinzione tra avanguardia e kitsch è venuta meno, i referenti della Krauss restano “alti”, gravitanti nel mondo delle istituzioni newyorchesi, mentre per quel che riguarda gli artisti italiani è noto che le sue osservazioni cadono spesso a sproposito. Nonostante risalga al 1985, l’Originalità dell’avanguardia resta attuale, anche se rivela esperienze artistiche irrigidite nelle foucaultiane “pratiche discorsive”, nella ricerca di una struttura logica del processo storico, e soprattutto se si ostina a dichiarare morto l’autore, un principio, all’epoca, intonato come un mantra.
“Konstfeminism”, una mostra itinerante, giunta alla sua ultima tappa a Göteborg, ricostruisce il percorso dell’arte femminista in Svezia dagli anni 60 a oggi. Fra le opere, anche “God giving birth” di Monica Sjöö, considerato blasfemo e segnalato alla squadra antipornografia di Scotland Yard nel 1973 a Londra
Giannina Mura
L’irruzione delle donne nella scena artistica degli anni ’70 ha radicalmente trasformato il mondo dell’arte svedese, sviluppando nuovi orientamenti che influenzano profondamente l’arte contemporanea. Lo dimostra l’esposizione Konstfeminism che, con più di 100 artiste, ricostruisce il percorso dell’arte femminista in Svezia dalla metà degli anni ’60 a oggi, evidenziandone la dirompente creatività e innovazione. Istigata dalla critica e storica dell’arte Barbro Werkmäster, prodotta da tre importanti istituzioni nazionali: la Riksutställingar e la Liljevalchs Konsthall di Stoccolma, e la Dunkers Kulturhus di Helsingborg, la mostra, in tour dall’autunno 2005, è giunta alla sua ultima tappa al Konstmuseum di Göteborg, dove sarà visibile fino al 22 aprile prossimo.
Il titolo, traducibile come “arte del femminismo”, designa “un’arte che illumina, critica, promuove, trasforma e agisce in un contesto femminista”. Ma non necessariamente realizzata da femministe dichiarate né esclusivamente da donne, vista la presenza di alcuni artisti. Un’arte che, affrontando i temi delle ingiustizie strutturali inerenti a sesso, genere e sessualità, con molteplici motivi, contenuti, forme, materiali, tecniche, azioni, si configura come un vero e proprio sistema dalle molteplici strategie, attivate a più livelli.
Fondando la loro pratica sull’esperienza femminile, le autrici degli anni ’70 rivendicano per la donna un ruolo inedito nell’arte: quella di soggetto e non oggetto. Impegno sociale e coscienza politica anticapitalista caratterizzano la loro estetica. Talune infiltrano il mondo dell’arte per instillarvi temi e contenuti che lo criticano. Altre, sperimentano nuovi spazi e metodi espressivi: dalla trasformazione di alcune abilità, come la creatività tessile, in arte tout court, a performances e happenings passando per video, film, fotografie, fumetti, satira. Attive nel movimento femminista, ecologista e pacifista, molte vi contribuiscono creando manifesti, cartoline, simboli e striscioni, come Helga Henschen che appartiene al gruppo Kvinnor for fred (donne per la pace) sin dalla sua fondazione nel 1979. Tutte, attraverso sovversive strategie di riappropriazione e valorizzazione, rendono politico il privato mettendo al centro della loro arte la vita delle donne, e contribuiscono così a ridefinire l’identità femminile.
La sorellanza tra artiste, storiche, e critiche alimenta, inoltre, una feconda rete di relazioni che abbraccia diverse generazioni. Determinante, ad esempio, l’influenza dell’artista modernista Siri Derkert su Monica Sjöö che fu sua assistente nel 1967. Trasferitasi a Bristol, Sjöö forma un gruppo con cui nel 1971 elabora il primo Woman Art Manifesto: “Nei nostri quadri vogliamo dare espressione ai bisogni reali delle donne, ai sentimenti ed esperienze di chi lotta per liberarsi dall’oppressione – finanziaria, materiale e psicologica. Per questo basiamo le nostre immagini sulla nostra personale e universale esperienza. Abbiamo capito che è necessario lavorare figurativamente, perché: come si fa a esprimere il parto, la sorellanza, il lavoro, la sessualità, la lotta, con linee, cerchi e triangoli?”
L’interazione tra le istanze delle singole artiste e la forza del movimento dà luogo per tutto il decennio a importanti mostre personali e collettive di cui Konstfeminism riespone le opere principali. Come il dipinto God giving birth di Monica Sjöö, presentato per la prima volta nel 1973 a Londra nella mostra Five Women Artists – Images of Womanpower alla Swiss Cottage Library, organizzata dalla stessa artista.
Il quadro, ispirato dalla sua esperienza del parto e dalle sue ricerche sulle antiche divinità femminili, suscitò grande scalpore. Considerato blasfemo dai religiosi, fu anche segnalato alla squadra antipornografia di Scotland Yard. Lo scandalo fu tale che la direttrice della biblioteca spostò la sua scrivania nella galleria allo scopo di proteggerlo degli attacchi, e dichiarò al Guardian che lo avrebbe difeso con la vita!
Nello stesso anno, a Göteborg, le artiste Benedicte Bergmann, Monica Englund, Ulla Hammarsten Mc Faul e Annbritt Ryde con un’antropologa, un’etnologa e un’infermiera organizzarono la mostra Livegen-eget liv, che suscitò grande eco per la sua multidisciplinarietà. Includeva infatti pittura, arte tessile (uno dei campi in cui più si espresse l’innovazione artistica) e fotografia, completata da dibattiti serali e dalle pièces teatrali di Susanne Osten e Margareta Garpe.
I temi? Sessualità, mestruazioni, menopausa, identità, doppio lavoro, miti e stereotipi, e una gioiosa valorizzazione della “donnità”. Come sottolinea l’artista Barbro Andréen nel catalogo: “La novità del nostro movimento era che non eravamo solo contro, ma anche pro. Dicevamo sì a migliaia di cose: le immagini positive erano tante. Nacque così un nuovo concetto: la cultura delle donne”.
Se gli anni ’70 sono quelli del collettivo, gli anni 80 sono quelli del backlash e dell’individualismo. Ma anche quelli della fertile connessione tra pratica artistica ed elaborazione teorica. La nozione di “sguardo maschile” della teoria filmica femminista diventa uno strumento d’investigazione per molte artiste, come Annika von Hausswolff che con la sua opera contribuisce solidamente all’analisi della politica della rappresentazione (esemplare la serie fotografica Back to Nature, che rimette in discussione la raffigurazione mediatica della vittima, e lo scontato rapporto donna-natura).
La sovversione dei codici dell’immagine mediatica e della storia dell’arte è altrettanto importante. Analizzando i quadri che hanno edificato la rappresentazione dell’artista e della donna, Annica Karlsson Rixon si riappropria delle figura retoriche della storia o della pubblicità e agisce con forza decostruttiva dall’interno dell’immagine, come in Untitled I-VI (1990-91), la serie fotografica del suo debutto, dove ai pallidi nudi femminili sovrappone un cadavere animale, provocando un sensato cortocircuito tra attrazione e repulsione.
“L’idea di genere” marginale nella scena artistica degli anni ’70, comincia a diffondersi nei ’90 sino a diventare integrante della scena contemporanea. E se l’idea che in entrambi i sessi albergano caratteristiche maschili e femminili attraversa i quattro decenni, è solo con l’avvento della queer theory che la normatività dei due sessi comincia a scardinarsi diffusamente.
I classici attributi del femminile vengono disinnescati da artiste come Pernilla Zetterman e Karolina Holmlund, aderenti delle Riot Grrls. O come Elisabeth Ohlson Wallin, che reinterpreta la mascolinità nella sua serie fotografica Könskrigare, ritraendo diverse “guerriere del genere” dall’aspetto e dal comportamento ambiguamente maschile.
O, ancora, Catti Brandelius che, autoproclamatasi Miss Universum, canta, balla, scrive poesie, tiene conferenze. I suoi dissacranti videoclip hanno per set il suo appartamento in un palazzo popolare, il supermercato, o la periferia. Lontana anni luce dall’universo glamour, la sua Miss Universum occupa il campo visivo promuovendo valori autonomi e sfidando le norme vigenti sulla femminilità.
Ma se Konstfeminism mostra le grandi conquiste delle artiste svedesi in quasi quattro decenni, espone anche i problemi irrisolti. Come le questioni del potere e delle relazioni di potere: fulcro delle preoccupazioni delle artiste del 2000. Per affrontarle, molte si richiamano alle strategie degli anni 70. La sorellanza torna in primo piano, con i recenti Sisterskapets aar, l’anno della sorellanza, documentario di 9 ore di Sonia Hedstrand e Aasa Elzén, i ritratti delle giovani anarco-femministe di Ulrika Minami Wärmlings, e le storie di donne di Petra Trygg.
Respingendo la nozione mercantile dell’opera d’arte, numerose artiste creano o intervengono in spazi pubblici, come le High Heel Sisters che, criticando il potere, reinventano le regole del gioco sociale. In Never too much, ad esempio, rovesciano l’ordine dello strip-tease: leggendo testi di Gertrude Stein, Judith Butler e Julia Kristeva, cominciano la performance nude, montano sul palcoscenico e si vestono. In Att gaa Samman Over ett Torg, invitano le donne presenti a comminare con loro per un’ora nella piazza Sergel di Stoccolma, incitandole a sentirsene proprietarie.
E proprio la rivendicazione dello spazio, artistico e mentale, appare oggi cruciale. Nonostante in Svezia le donne siano alla testa di quattro accademie o dipartimenti d’arte su cinque, costituiscano la maggioranza degli studenti e la metà del corpo insegnante, la metà degli artisti professionali e il potere nel mondo dell’arte resta ancora saldamente in mano agli uomini. Come sottolinea l’artista Katrine Helmersson nel catalogo: “I confini di quanto ci è permesso sono piuttosto limitati. La sessualità femminile è discreditata, come molto del nostro lavoro. Una volta che sei consapevole di questo, devi aguzzare la tua abilità per formulare quello che ritieni importante. C’è una guerra tra gli uomini e le donne. Non la noti finché non provochi l’ordine stabilito. E allora, improvvisamente, la vedi”.
“Non ci sono spazi neutrali, ma solo zone di guerra e di occupazione “, reiterano le artiste Johanna Gustafsson, Malin Arnell, Line S Karlström, Fia-Stina Sandlund, e la produttrice Anna Linder che, incontratesi nel 2005 durante l’allestimento di Konstfeminism, hanno fondato l’associazione Ja! per farvi fronte, e sostenere le artiste che con le loro pratiche contribuiscono alla fine del patriarcato. La strategia? Una “redivisione strutturale dell’accesso ai finanziamenti, al tempo e allo spazio nel mondo dell’arte”. Lo strumento iniziale, presentato come una performance all’apertura della mostra, è un “contratto di parità” che impegni le istituzioni culturali a praticare l’uguaglianza fra i sessi nelle attività espositive, nell’acquisto delle opere e nel reclutamento del personale. E, in caso contrario, a versare una penalità all’associazione per un fondo di sostegno alle artiste discriminate. Ma nessuna delle istituzioni sollecitate, incluse le organizzatrici della mostra, l’ha sinora voluto firmare. Le artiste però non demordono: lo scorso febbraio al vernissage della mostra di Göteborg hanno rivolto un appello alla ministra della cultura, Lena Adelsohn Liljeroth, affinché le regole della parità siano applicate al mondo dell’arte come in altri settori. Intanto, il dibattito resta aperto.
di E.D.D.
Con i suoi 15.000 metri quadrati di superficie espositiva, l’Hangar Bicocca, spazio ex industriale felicemente convertito alla sperimentazione artistica, in una nazione consapevole dell’importanza anche economica della cultura e in una città come Milano che non ha ancora un museo d’arte contemporanea, sarebbe già stato trasformato in un’istituzione di primo piano.
Stabilimento industriale appartenuto al Gruppo Ansaldo e dedicato alla produzione di bobine per i motori elettrici dei treni, oggi l’Hangar potrebbe rappresentare per l’Italia ciò che all’estero sono state esperienze come il Zkm di Karlsruhe, il Dia Becon fuori New York o la Tate Modern di Londra: conversioni di ex spazi industriali in realtà museali di grande successo grazie ai ripensamenti architettonici di grande impatto e ad un’offerta espositiva ragionata e diversificata.
A mancare, come spesso accade nel nostro paese è la volontà politica, che lascia volentieri l’iniziativa agli investitori privati: Nel capoluogo lombardo, infatti, tralasciando la Triennale oggi al centro dell’interesse dopo un anno di oblio – ch4e però si dedica soprattutto al design e all’architettura – le uniche realtà interessanti per le arti visive sono rappresentate dalle gallerie e da istituzioni legate al mondo della moda come la fondazione Prada e la Fondazione Nicola Trussardi ormai attive da diversi anni, mentre proprio lo spazio dell’Hangar, potrebbe ambire a trasformarsi nel luogo istituzionale del contemporaneo: si sta cercando di realizzare una Fondazione che, con fondi pubblici e privati, possa permettere a questa realtà, adatta alle esigenze installative delle ricerche più recenti, di perdere la connotazione originaria, legata a un solo gruppo imprenditoriale (Pirelli) per divenire un luogo di comunicazione e produzione artistica, interessante per tutta la collettività.
Dopo aver inaugurato nell’autunno del 2004 con il lavoro monumentale di Anselm Kiefer intitolato 17 palazzi celesti che ora è diventato parte della collezione permanente, all’Hangar Bicocca la programmazione è proseguita con due personali, Mark Waqllinger e Marina Abramovic, prima dell’attuale mostra collettiva, Collateral, che lascia emergere, grazie all’allestimento “aperto” delle diverse
postazioni video disseminate nello spazio, finalmente non chiuse su se stesse come avviene in genere, tutto il potenziale evocativo di questa sede.
Proprio l’installazione di Kiefer, così fortemente caratterizzante non aveva facilitato infatti, fino a questo momento, l’allestimento del lavoro di altre individualità artistiche nel medesimo spazio.
La prossima mostra, Not afraid of the dark, curata da Bartolomeo Pietromarchi nell’ambito della manifestazione Emergenze (una serie di incontri e rassegni sui temi delle necessità umanitarie e sociali) avrà come protagonisti cinque artisti, Jenny Holzer, Fabio Mauri, Santiago Sierra, Kutlung Ataman, William Kentridge – che declineranno con sensibilità certamente diversa la stessa attenzione al vivere contemporaneo.
Valeria Trigo
Esauriti tutti gli “ismi”, pare che la diversità sia l’unica fonte da cui trarre nuovi stimoli. Ed ecco che le minoranze diventano, come per miracolo, le vere protagoniste. Un fenomeno che dilaga, ormai, ovunque: dai reality al Parlamento. Democrazia allargata? Piuttosto, specchio di una società “targetizzata”, dove anche i piccoli gruppi (di consumatori) vanno coccolati. E, mentre si discute di diritti dei conviventi, c’è già chi pensa a produrre confetti lilla per le future coppie gay. Che inglobare la differenza sia un buon affare, l’arte lo ha già intuito da tempo. Solo il secolo scorso, è pieno di maledetti riabilitati post mortem (spesso, anche in vita), proprio per la loro eccentricità. Ma, in un sistema sempre più complesso e diversificato, anche l’attributo generico di “diverso” si è dovuto specializzare. Così, mentre i cultural studies sondavano un mondo ancora poco conosciuto, il mercato pregustava i suoi vantaggi economici. Perché le persone, dopo il tramonto dell’Occidente, avrebbero iniziato a guardare altrove. Sulla carta, un’ottima occasione per seppellire le vecchie categorie e aprirsi all’altro. Di fatto, l’ultima versione del capitalismo, che spaccia per tolleranza il bisogno di conquistare nuovi spazi. Ultimamente, tra i più sdoganati, è proprio l’universo femminile e, ovunque, si è pronti a giurare che il futuro sarà in mano alle donne.
Una nicchia che inizia ad allettare anche i musei, da sempre collezionisti di rarità. E passerà di sicuro alla storia il simposio The feminist future: theory and practice in the visual arts, ospitato dal MoMa di New York a fine gennaio. Due giorni di dibattiti e conferenze, “sold out” con grande anticipo, segno che ormai il femminismo fa tendenza. Del resto, le ospiti erano star di prima grandezza. In pratica, il gotha del movimento che nelle arti visive ha sfidato l’egemonia maschile. A cominciare dalla storica dell’arte Lucy Lippard che, a 70 anni, non ha perso la sua ironia e, davanti a una platea gremita, ha commentato: “Beh, direi che è un bel risultato per un “ismo”. Specialmente in un museo che non ha mai dimostrato grande attenzione per le donne”. Un successo inaspettato che dimostra come la creatività femminile sia ancora un’ospite rara negli spazi istituzionali. E un paradosso che spegne la carica eversiva di un fenomeno, in aperta contestazione con i luoghi deputati al fare arte. Non è un caso che al convegno abbia tenuto banco un’icona dell’avanguardia degli anni ’70 come Marina Abramovic. La stessa che, trent’anni fa, con il compagno Ulay scioccava il pubblico della Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Una performance memorabile, Imponderabilia, con i due artisti in piedi, completamente nudi, all’ingresso della mostra. Impassibili, nonostante il viavai di visitatori che, passando, sfioravano i loro corpi.
Protagoniste della convention newyorkese anche le Guerrilla Girls (www.guerrillagirls.com), un collettivo fondato a metà degli anni ’80, che oggi conta un centinaio di artiste. La loro filosofia è un cocktail dissacrante di ironia e provocazione. Mascherate da gorilla e ribattezzate con i nomi di artiste defunte, in onore alla loro memoria, sono famose per azioni, vagamente situazioniste, sui media o in giro per il mondo. Dove il fine è: “Mostrare il sessismo, il razzismo, la corruzione nella politica, nell’arte e nella cultura pop”. Baccanti che non si intonano al rigore apollineo di un museo e la loro presenza al MoMa lascia, quantomeno, perplessi. Del resto, come negare a un branco di scimmione il sogno di sentirsi principesse per un giorno? E come reprimere lo slancio progressista di quello che già i futuristi chiamavano il “cimitero” delle opere d’arte?
Ma la seconda primavera è appena iniziata e sta per arrivare anche a Los Angeles, con la mostra Wack! Art and the feminist revolution, dal 3 marzo al MoCa. Sempre a New York, invece, il 23 marzo inaugurerà Global feminisms al Brooklyn Museum, dove aprirà anche l’Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art, con uno spazio permanente per l’installazione The dinner party di Judy Chicago. Esposta per la prima volta al MoMa di San Francisco nel ’79, è stata accusata di pornografia e denunciata dal Congresso come un affronto alla virtù e alla modestia delle americane. L’opera mette in scena un grande banchetto, allestito per trentanove ospiti d’onore, dalla dea della Mesopotamia Ishtar a Virginia Woolf, da Saffo a Santa Brigida. A dare scandalo erano soprattutto i simboli decorati sulla porcellana, varie trasposizioni della vulva, per rivendicare la propria sessualità. Un manifesto contro la tirannia maschile che, dalla censura del puritanesimo yankee, è finito nel “tempio delle Muse”.
Negli anni ’70, anche in Italia il femminismo ha prodotto una generazione impegnata a rinnovare le procedure tradizionali dell’arte, come la serie di interventi realizzati dall’Associazione “Donna Arte” a Frascati (Rm), tra il giugno e il luglio del ’77. Una squadra di sole donne per un progetto che univa tutte le forme artistiche, in uno scambio diretto con la comunità. “Il nostro fine – dicevano – è creare un’area di azione non ghettizzata, un canale di comunicazione non eterodiretto, una circolazione di idee non per “cento” persone che fanno notizia”. Oggi, la cittadina laziale continua a interessarsi alla questione dell’identità femminile, “ferita ancora aperta sul corpo dolorante delle società ipermoderne dell’occidente, o di quelle del sud del mondo in via di sviluppo”. La novità (o l’involuzione, a seconda dei punti di vista) è che, dalle strade e dalle piazze, le artiste si sono trasferite nel museo. Ma non volevano uscire dal ghetto? Dopo trent’anni, pare non sia cambiato molto: è solo un gineceo di lusso per legittimare uno status, solo in apparenza, paritario. Tra i pochi spazi di autogestione rimasti, Internet. Ed è qui che le giovani, remixando i codici della loro generazione, affilano le armi dell’ingegno e dell’umorismo. Come Laurina Paperina, figura emergente della scena italiana, che nella serie Sexual Drawings, ironizza sui ruoli sessuali e i rispettivi cliché. Un esempio? “Le passere sono tutte delle grandi gnocche”. Parola di papera.
Stasera la performer guatemalteca, Leone d’oro alla Biennale 2005 per le sue azioni sanguinose, si incatenerà al muro di Regina Coeli per mettere in evidenza la tensione fra le strategie di potere.
Dopo essersi aggiudicata nel 2005 il Leone d’oro per la giovane arte facendo svenire i visitatori della Biennale di Venezia con un intervento di ricostruzione del proprio imene proiettato in video, dopo essersi fatta riprendere mentre camminava a lungo per le strade del suo Guatemala immergendo i piedi in un catino colmo di sangue, dopo avere scelto – ancora a Venezia – di fustigarsi in pubblico (256 colpi, il numero delle donne assassinate nel 2005 in Guatemala), Regina José Galindo è approdata a Roma dove questa sera a partire dalle 19 darà vita a una performance forse meno cruenta di quelle che l’hanno resa celebre ma non meno teatrale.
Per questa sua prima azione nella capitale italiana, infatti, la trentatreenne artista guatemalteca ha deciso di mettersi alla gogna per una intera notte in prossimità del carcere di Regina Coeli. Per la precisione, lo spazio dove Galindo effettuerà la sua performance si trova a Trastevere, in via San Francesco di Sales, all’interno del giardino della Fondazione «Volume!», che presenta l’azione artistica. Approfittando della vicinanza con la struttura carceraria di Regina Coeli che appunto costeggia lo spazio espositivo, Galindo ha ideato questa azione intitolata «Cepo», che – recita il comunicato stampa – «si pone come un’asserzione di resistenza nei confronti delle dinamiche di scissione strumentale tra bene e male, innocenza e reità, autonomia e asservimento, con cui la società giustifica l’esercizio dei propri poteri decisionali sull’individuo, in ambito sia politico che culturale».
«L’essere umano – ha dichiarato Galindo – vive costantemente la tensione tra varie strategie di potere». È in questa tensione, osserva l’artista, che «si creano prigioni immaginarie e forme di tortura quotidiana che limitano la libertà individuale». Occorre però chiedersi, come fa Félix Duque nel suo recente Terrore oltre il postmoderno (Ets, pp. 99, euro 10), quale risposta possa dare concretamente il mondo dell’arte a una serie di «tensioni» che, dopo l’11 settembre 2001, si sono fatte sempre più radicali. Secondo Duque è proprio nel campo della performance estrema – praticata dalla Galindo – che gli artisti rischiano di diventare prigionieri del loro, talvolta inquietante, autocompiacimento, alimentando un’anestesia collettiva che nega dignità e voce «al dolore dell’altro». Un cortocircuito che sgomenta quelli che all’arte chiedono parole di libertà, non solo nuovo, forse più gratificanti, gogne o prigioni.
Un omaggio del ‘MARTa’, museo tedesco di arte contemporanea firmato da O.Gehry, alle opere astratte dell’ artista italiana e al suo ‘incontro’ con Lucio Fontana – Una cifra stilistica che si pone dentro il solco della tradizione moderna ma include Balla, Kandinskij, Klee Arp, Miro, Matisse – L’ assenza di prospettiva porta i segni in primo piano, non esiste il vicino e il lontano ed è qui che la pittrice rimanda a Fontana.
Achille Bonito Oliva
Si chiama “MARTa” l’ ultimo museo di arte contemporanea firmato da Frank O.Gehry a Herford, in Germania. Dal 27 gennaio all’ 11 marzo sarà allestita una mostra dal titolo “Carla Accardi incontra Lucio Fontana”. Dal catalogo edito dal museo anticipiamo parte del saggio di Achille Bonito Oliva. L’ astrattismo italiano, sviluppatosi nel secondo dopoguerra, non ha i caratteri di una geometria rigida e chiusa, ma assume prevalentemente quelli di una pittura aperta verso cadenze e cifre stilistiche bilanciate tra l’ esibizione di una struttura visiva, regolata da norme oggettive, e il rimando a flussi emotivi, regolati da una mano sensibile e nello stesso tempo sapiente. Nella coscienza di partecipare a ristabilire un legamento con la cultura figurativa internazionale interrotto tragicamente dall’ avvento di una cultura autarchica. La ripresa dell’ astrattismo dunque segna la riproposta anche di una mentalità che punta giustamente sull’ autonomia dell’ arte, minacciata anche da ipoteche politiche tendenti proprio in quegli anni a ribaltare tale naturale condizione in una eteronomia dell’ arte, tramite la nozione di impegno politico. La giovane arte italiana astratta ribadisce invece un’ esigenza espressa e praticata già dalle avanguardie storiche, quella di fare del linguaggio l’ unico soggetto dell’ opera e anche l’ unico oggetto di una possibile rappresentazione. Carla Accardi opera dunque in un clima culturale teso a restituirsi una libertà espressiva e un affrancamento da condizionamenti espliciti e striscianti. La sua cifra stilistica si pone immediatamente dentro il solco della tradizione moderna che però non restringe i suoi antenati ai padri dell’ astrattismo in senso stretto, ma tende a allargare le proprie matrici e includere Balla, Kandinskij, Klee, Arp, Mirò, Matisse. Tali precedenti segnano la ricerca artistica verso un ventaglio di rimandi, quali sintomi di uno sguardo estremamente ampio a livello culturale. Il dato fondamentale e costante della pittura di Accardi è la conformazione bidimensionale dello spazio, lo sbarramento di ogni profondità prospettica e nello stesso tempo una mancanza di spessore materico, che invece accompagna lo sviluppo, simultaneo all’ astrattismo, dell’ informale. Lo spazio bidimensionale porta la pittura in uno stato di pura visibilità, in una condizione lampante e specifica, regolata da norme tutte poggianti sul dato ottico percettivo, senza sprofondamenti illusivi o anche rimandi esterni all’ immagine. Accardi regola lo spazio pittorico in maniera da esibire la struttura stessa della pittura, fatta di un supporto, di una superficie e di un reticolo di segni. L’ assenza di profondità porta i segni in primo piano, sulla stessa linea di orizzonte su cui è disposta la dimensione spaziale, la bidimensionalità appunto. Ma lo spazio non è una dimensione quantitativamente inerte, una misura statica o un puro contenitore. Piuttosto in questo caso si configura come campo, un sistema mobile di relazioni giocate sulla istantaneità dei segni. La nozione di campo, nella sua attendibilità scientifica, permette una fluttuazione dello spazio, un respiro della superficie che si distribuisce con una mobilità interna a seconda della dinamica, dell’ accostamento e della disseminazione dei segni. Essi vibrano in una dimensione che oscilla senza che sia possibile indicare un centro e una periferia, che avrebbero bisogno di una staticità definitoria. La bidimensionalità permette al campo di scorrere continuamente nella potenzialità dei nessi, nella loro flessibilità formale. Accardi asseconda dunque la mobile nozione di campo, azzerando la profondità spaziale e portando il linguaggio adoperato nella condizione proliferante di uno stato organico, dove il segno si attorciglia, si snoda, si sposta fuori da ogni paralizzante geometria. Ora non esiste il vicino e il lontano, il fondo e il primo piano ma una compenetrazione simultanea dell’ insieme. L’ azzeramento avviene attraverso l’ introduzione di un colore, il nero, che permette allo spazio di presentarsi secondo i caratteri dell’ uniformità. Il nero è una connotazione di uno spazio che non vuole diventare protagonista della rappresentazione, semmai spingerla verso un’ integrazione ottico-percettiva con il sistema dei segni che l’ attraversano. Essi portano il colore bianco, non come contrasto, ma come tessitura d’ integrazione. L’ intreccio del bianco dei segni con il nero della superficie di fondo regola l’ immagine, che acquista l’ ambiguità di un ritmo dove non è possibile stabilire se il nero è la risultante dei contorni del bianco oppure se il bianco dipende dal percorso discontinuo del nero. L’ ambiguità della visione è data dal ritmo organico dei segni che seguono un movimento imprevedibile e nello stesso tempo costante. La polarità del movimento è regolata da una doppia tensione: la ripetizione e la differenza. Attraverso la prima l’ artista stabilisce una sorta di matrice generante il segno che possiede una struttura di fondo che lo ripete. Attraverso la seconda il segno prolifera se stesso e si modifica secondo una dinamica organica che rimanda al ritmo di crescita biologica della natura. Un movimento a togliere regola la mano dell’ artista e anche il movimento della contemplazione dell’ opera che si presenta nell’ ambiguità di un intreccio cromatico, da cui non è dato cogliere se non la continua intersecazione e anche il sospetto che i segni siano una risultante di un ritaglio dello spazio e lo spazio la conseguenza di un percorso irregolare dei segni. Dunque la stessa contemplazione è regolata da questo movimento a togliere, dalla sensazione instabile di un continuo attraversamento dei due elementi che toglie loro unità ed interezza. Ma il togliere non spaventa Accardi, perché significa anche un movimento di sottrazione che produce una maggiore intensità alla parte occultata e sottratta anche allo sguardo. Togliere significa anche memorizzare e accumulare l’ idea di uno spessore sottratto alla superficie. Perché la pittura ha necessariamente il carattere di uno splendente superficialismo, che non significa superficialità, bensì accettare il carattere specifico e strutturale della pittura che, per definizione storica e spirito laico, tende a superare l’ illusionismo prospettico. Allora diventa lampante il rimando a Matisse e all’ art nouveau, alla loro attitudine di operare sempre attraverso superfici felici e arrendevoli, mediante un disegno che si aggroviglia ma senza creare spessori o gonfiori, sempre sotto l’ impulso di restituire il senso di un flusso aperto ed inarrestabile. Il togliere non presuppone una perdita definitiva, bensì una momentanea sottrazione, una discontinuità della presenza segnica, che ribadisce la qualità specifica della nozione di campo, presa nell’ accezione di un suo continuo funzionamento dinamico. Il segno appare e scompare, così come lo spazio si forma e si sfalda, si condensa e si slabbra, sempre nella sua consistenza bidimensionale. Il colore nero produce un’ uniformità e anche un assorbimento del ritmo bianco, che è il risultato di una sorta di assedio del segno verso se stesso. E qui Carla Accardi incontra Lucio Fontana.
Sarà una stagione segnata dal protagonismo femminile. A febbraio a Napoli Rachel Whiteread e Marisa Merz. Mentre i musei americani proporranno mostre di Kiki Smith e Kara Walker. A Barcellona, i percorsi sonori di Janet Cardiff, a Vienna Dara Birnbaum e Nathalie Djurberg e a Copenaghen Cindy Sherman e Julie Mehretu
Elena Del Drago
Scandito da kermesse tentacolari, mostre-mostro e fiere pantagrueliche, il 2007 permetterà di seguire meglio di quanto non sia successo negli ultimi anni gli ingranaggi dell’efficiente e ricco sistema dell’arte internazionale. Quest’anno, infatti, oltre alle usuali esposizioni monografiche, che tentano di scrivere l’ultima parola sull’opera dell’artista in questione, sarà la volta delle mostre più attese, quelle che dovrebbero indicare la rotta della storia artistica contemporanea: la Biennale di Venezia e la dodicesima edizione di Documenta a Kassel: di entrambe l’ inaugurazione è prevista a giugno, a pochi giorni di distanza una dall’altra, (10 e 16), e forniranno l’occasione per riflettere sulle sorti del mondo visivo e individuare quali tendenze si imporranno nei prossimi anni. Ma cosa vedremo negli spazi dell’Arsenale e dei Giardini o quali artisti saranno incoronati dalla partecipazione alla più importante delle mostre internazionali non è dato sapere, poiché il riserbo dei curatori è stato pressoché assoluto, nonostante le dichiarazioni del curatore americano Robert Storr lascino immaginare una trama poco ideologica: «dalla mia Biennale non uscirà nessuna dichiarazione filosofica, sociologica, politica, com’è accaduto in alcune edizioni recenti. Io non penso che le opere d’arte possano servire per illustrare un’idea», ha dichiarato recentemente lo studioso, forse nel tentativo di evitare preventivamente le critiche mosse tanto all’edizione 2005, curata da Rosa Martinez e Maria de Corral, quanto alla precedente firmata da Francesco Bonami.
Da Kassel a Münster
E se nonostante la riservatezza di Storr, da Venezia continuano a filtrare indiscrezioni su chi parteciperà ai padiglioni nazionali – Sophie Calle per la Francia, Tracey Emin per la Gran Bretagna, Aernout Mik per l’Olanda, Gonzalez-Torres per gli Stati Uniti e Yehudit Sasportas per Israele – su Documenta il mistero è assoluto: la sorpresa sarà notevole poiché molti degli artisti indicati come probabili partecipanti hanno negato di aver ricevuto alcun invito, il che fa pensare a una edizione quantomeno poco ovvia. Il quarantacinquenne curatore tedesco Roger M. Buergel, in un recente incontro presso il Centre Pompidou di Parigi, ha peraltro continuato a tenere segreta la lista degli artisti invitati. Nel corso della conferenza, però, la parola più utilizzata è stata Bildung, formazione, e proprio all’aspetto «educativo» di una mostra cruciale come Documenta sembra tenere particolarmente Buergel, che in opposizione al suo predecessore Okwui Enwezor – i cui interessi gli avevano orientato lo sguardo soprattutto verso i paesi post coloniali, sembra voler focalizzare la propria attenzione su un contesto assai meno globale.
Più prodighi di informazioni, invece, gli organizzatori dello skulptur-projekte di Münster, che si tiene ogni dieci anni e chiama gli artisti a confrontarsi con le vie e le piazze della città tedesca (dal 17 giugno). I curatori, Kaspar König e Brigitte Franzen, hanno invitato con largo anticipo trentatre artisti (tra i quali Pawel Althamer, Ermgreen e Dragset, Dominique Gonzales-Foerster, Isa Genzken e Thomas Schutte) a confrontarsi con l’identità della scultura contemporanea e soprattutto con il suo ruolo nello spazio pubblico. Nell’attesa di questo mese di giugno così sovraffollato, sono molte le mostre che si prevede richiameranno l’attenzione generale. Protagonisti del programma espositivo saranno ancora gli artisti anglosassoni, e per cominciare il duo Gilbert and George, definitivamente beatificato da una mostra itinerante, che dalla Tate Modern di Londra (dal 15 febbraio) si sposterà in diverse sedi tra le quali il nostro Castello di Rivoli, dove in autunno saranno esposte più di duecento tra le opere concepite dalla coppia in quarant’anni di lavoro.
I paradossi del mercato
Tornando indietro nel calendario, l’apertura del 2007 vedrà al Castello di Rivoli una esposizione delle opere di Bruce Nauman concentrata sugli anni Settanta, il decennio più interessante nella produzione dell’artista americano, che ha impegnato gli ultimi cinque anni nel concepimento di questa mostra: da qualche tempo Nauman è al centro dell’attenzione italiana: non soltanto, infatti, è in corso a Napoli la retrospettiva che gli dedica il Madre, ma sono anche usciti in contemporanea due volumi – Please Pay Attention, Le parole di Bruce Nauman di Janet Kraynak per postmediabooks e Bruce Nauman Inventa e Muori. Interviste 1967-2001 a cura di Farid Rahimi, editi da a+mbookstore in collaborazione con Gian Enzo Sperone. La stagione espositiva del museo napoletano si inaugurerà con un doppio omaggio femminile: il 3 febbraio prenderanno il via le mostre di Rachel Whiteread e Marisa Merz che ribadiscono la definitiva affermazione del lavoro delle donne, siano esse artiste, critiche o galleriste, finalmente affrancate dall’attenzione «di genere». Questo, infatti, sarà senz’altro l’anno di due grandi autrici come Kiki Smith, protagonista di un tour espositivo per i maggiori musei statunitensi e Kara Walker che allestirà i suoi lavori al Walker Art Center di Minneapolis, al Whitney Museum di New York e, infine, all’Hammer di Los Angeles: entrambe le artiste tra l’altro, sebbene da prospettive differenti, una più intimista e scultorea, l’altra prepotentemente orientata alla rivendicazione dell’appartenenza razziale, hanno lavorato proprio sul ruolo femminile nella storia. Inoltre, al Macba di Barcellona, dal 2 febbraio sarà possibile perdersi nei percorsi sonori della canadese Janet Cardiff, mentre alla Kunsthalle di Vienna i progetti più sperimentali della primavera sono quelli di Dara Birnbaum e Nathalie Djurberg, e al Louisiana Museum di Copenaghen, uno dei migliori musei europei, saranno di scena prima Cindy Sherman ( 16-2) e poi Julie Mehretu.( 1-6).
Per quanto breve questo tour espositivo permette di osservare come nel circuito dei musei contemporanei sia sempre il lavoro di pochi artisti a essere affidato a mostre itineranti, identiche le une alle altre, o dotate di produzioni diverse, e il 2007 sembra non volere sconfessare questa tendenza: a esempio, sia Cindy Sherman che Bruce Nauman si sono valsi negli ultimi due anni di una serie notevole di esposizioni, cosi come Jeff Wall, che sarà protagonista dell’ennesima retrospettiva al Moma di New York dal 25 febbraio. In più, sembra confermata nel prossimo futuro la totale assenza di confini tra il mercato e gli altri settori del mondo dell’arte.
In questo fitto calendario espositivo verranno montate come sempre le mostre mercato (si comincia con Artefiera a Bologna il 25 gennaio per arrivare a Art Basel Miami Beach il prossimo dicembre), che quest’anno in particolare evidenzieranno la sovrapposizione tra la parte più teorica e avanzata del sistema dell’arte e quella più commerciale.
La crescita del mercato sembra peraltro inarrestabile, grazie a flussi di denaro tanto abnormi quanto incontrollati e misteriosi, che consentono la registrazione di una serie di record, soprattutto sul mercato contemporaneo: proprio i lavori più recenti, anche quelli dissacranti e provocatori, sono i più desiderati e acquistati, né sembra che questo andamento subirà un arresto nei prossimi dodici mesi. D’altronde un’alternativa all’attuale sconfinamento di saperi e poteri non è neppure immaginabile: resta però tristemente paradossale il fatto che lavori artistici alimentati dalla volontà di riflettere su problemi come la guerra e l’ineguaglianza sociale spesso finiscono per decorare le case e gratificare l’ego di quanti hanno costruito la propria ricchezza proprio grazie ai tanti conflitti in corso nel mondo.