Dal manifesto del 23 febbraio 2010
EFFETTO Fioroni:
mi spiace che questa grande artista non abbia saputo riconoscere che il “Valore Aggiunto” che attribuisce oggi alle artiste è stato conquistato proprio dal movimento femminista, non è capitato per caso Zina
di Elena Del Drago
Un grande libro curato da Germano Celant e uscito di recente per Skira è l’occasione per ripercorrere con l’artista la parabola della sua vita. Dalla lezione di Toti Scialoja ai quattro anni di soggiorno parigino, al ritorno a Roma. Nel 1969 un trasferimento cruciale nella campagna veneta insieme al suo compagno Goffredo Parise. Era la stagione in cui lui scriveva i Sillabari e lei raccoglieva nei boschi materiali per la sua arte, che è fatta di pittura, scultura, ceramica, parola, suggestioni derivate dal lavoro e alla vita di Giosetta Fioroni è dedicato un recente volume monografico curato da Germano Celant e edito da Skira (pp. 456, euro 140), che ripercorre come un album di famiglia ampi frammenti di storia dell’arte italiana del Novecento. Seguendo il percorso biografico dell’artista, dalla nascita fino al 2006, scorrono davanti al lettore, insieme ai cambiamenti di interessi, di stile e di linguaggio, quelli del mondo dell’arte frequentato da Giosetta Fioroni, prima a Roma, città allora strettamente legata alle vicende statunitensi, poi Parigi. Sfogliando, infatti, questo ampio catalogo ci si trova di fronte a un lavoro coerente e personalissimo – dalle prime tele neoespressioniste ai celebri argenti, dai teatrini alle ceramiche – che lascia intravedere anche lo sviluppo artistico e letterario del nostro paese: sebbene portatore di una cifra soggettiva preponderante, il lavoro di Giosetta Fioroni è a tratti attraversato dalla condivisione di amicizie profonde: con Toti Scialoja, per esempio, punto di riferimento indiscusso della giovinezza, con Tano Festa, con Franco Angeli, con Mario Schifano, vicini in un momento di grande energia convogliata nella Scuola di Piazza del Popolo, con Goffredo Parise compagno di vita, e poi con tanti scrittori, fotografi, intellettuali.
Il libro curato da Germano Celant mette in evidenza un elemento ricorrente in tutte le fasi del suo lavoro: la capacità di proiettare la sua cifra biografica in un contesto pubblico com’è quello determinato dal linguaggio dell’arte.
Questo è, in effetti, l’aspetto che Celant ha voluto privilegiare per la monografia, che dunque comincia con il 1932, la data della mia nascita, perché ha ritenuto che l’elemento biografico sia rintracciabile lungo tutto lo svolgimento del mio lavoro.
Lei si sente d’accordo con questa impostazione o la legge come una interpretazione critica?
Se penso all’inizio del mio lavoro, che mi sembra lontanissimo, mi accorgo che molto presto la mia pittura e la mia vita privata si sono fusi in un unico problema centrale, sin da quando, giovane sposa di ventidue anni, mi sono trasferita a Parigi. Poco dopo quel matrimonio è finito.
Seguiamo un ordine cronologico, e partiamo dunque dall’insegnamento di Toti Scialoja e dalla sua fascinazione per l’espressionismo astratto, per Gorky, in particolare, al quale lei ha anche dedicato un’opera…
Toti Scialoja per la mia scelta di divenire pittore è stato assolutamente cruciale: mia madre era marionettista e mio padre scultore e la loro influenza ha contato certamente tanto, ma è stato l’incontro con lui a svelare questo mio interesse. Scialoja era un ottimo pittore, un grande poeta, ma soprattutto aveva una capacità straordinaria di comunicare ai giovani le potenzialità emotive intrinseche al rapporto con l’arte. Questa emozione in divenire, che si trasformava in esperienza per alcuni, in riflessione per altri, Scialoja la sapeva raccontare benissimo. Era andato negli Stati Uniti molto presto, agli inizi degli anni ’50, e ne tornò con opuscoli, foto, notizie. Anche la grande impressione derivata dal lavoro di Gorky ce la seppe trasmettere con speciale efficacia. L’Accademia delle Belle Arti era allora un luogo di abbandono, e Scialoja, per poter tenere il suo corso, aveva accettato di chiamarlo Scuola Libera del Nudo. Diventammo amici e lo ritrovai anche a Parigi.
Quanto è stato importante il passaggio a Parigi per lo sviluppo del suo lavoro, e che ricordi ne ha?
Ho vissuto stabilmente a Parigi dal ’58 al ’62 e sebbene l’esperienza dell’arte fosse già in via di trasferimento, erano ancora attive presenze molto importanti come quella di Yves Klein. Del suo lavoro mi interessavano gli aspetti performativi più che i Monocromi. Nella galleria Iris Clert assistei alla celebre performance in cui Klein dipingeva le modelle nude con il suo blu contenuto in grandi secchi per poi spingerle con violenza sulle tele bianche: per quel periodo era un gesto rivoluzionario e in più rappresentava un perfetto mix di arte e pittura che mi ha sempre interessato.
Torniamo alle sue diverse tecniche pittoriche: agli inizi degli anni ’60 lei ha cominciato la serie degli argenti. L’argento raffredda, ferma il segno, ma nella sua interpretazione non ha affatto quella valenza industriale, quella vocazione seriale, che invece era tipica della Pop art…
No, all’inizio non aveva affatto questa accezione. Nel ’62, a Parigi, Scialoja e Burri montarono una mia mostra in cui l’argento funzionava da fondale magmatico da cui uscivano segni riconoscibili – il cuore, il telefono, una mano, il segno di un braccio, numeri, come a formare una mappa riconoscibile, che proprio in quel periodo si trasformò, diradandosi. In seguito cominciai a proiettare alcune immagini sulla tela bianca – volti, paesaggi, bambini – e quindi a dipingerli, e l’effetto cambiò drasticamente: quello che era stato una sorta di amalgama, legato all’espressionismo astratto, divenne una pittura vicina a quella metafisica, oppure a certe esperienze di Morandi, piuttosto che alla Pop art, alla quale fu assimilata.
La sua pittura si allontana non solo dalla Pop Art, ma soprattutto da quel certo cinismo che caratterizza, per esempio, il lavoro di Warhol. È d’accordo?
Sì, ricordo che Warhol si vantava di non avere toccato mai i colori. La sua era serigrafia, trattava solo passaggi di colore. Io invece proiettavo elementi qualsiasi sulla tela poi però dipingevo in modo amanuense.
L’elemento della manualità divenne centrale quando lei cominciò a costruire i suoi teatrini e le sue ceramiche, ma era già presente nella sua pittura. Tra l’altro il suo lavoro si segnalava anche anche per uno speciale rapporto con i media…
Il cinema mi ha sempre interessato, ma l’ho sempre inteso solo come un input. Ho cercato di rubare sguardi, volti, elementi per raccontare una emozione, in modo molto distante dagli artisti Pop, che lo hanno reso un simbolo riconoscibile, universale. Il mio atteggiamento, invece, risentiva ancora di una visione romantica.
Romantica? È un termine che suona singolare, oggi.
Si, il mio è stato un percorso sentimentale, legato all’espressività e al fare romantici, e a distanza di tanti anni tutto ciò è diventato persino più evidente. Mi piacerebbe essere stata in grado di rivoluzionare i dati ricevuti dalla tradizione, ma la mia reazione è stata più apparente che reale. Molti della mia generazione si rifacevano più alla pittura metafisica che a quella astratta, venuta in seguito, e io stessa feci un piccolo tentativo di avvicinare il mio lavoro alla Neo Figurazione, che ho sempre aborrito. Mi sembra che il catalogo di Celant chiarisca bene questo punto.
Vogliamo parlare anche della sua riflessione sul corpo femminile?
Non sono stata mai una femminista convinta, ma mi ha sempre interessato capire il peso della femminilità nella società in cui vivo, e come i sentimenti femminili agiscano in senso simbolico su un contesto che cambia così rapidamente.
E il movimento femminista si è reso conto del suo lavoro?
No, non credo. Personalmente ho sentito le rivendicazioni femministe come riduttive di un ruolo che si pretendeva alieno da quello maschile. Quando le donne hanno cominciato a condividere la competitività del mondo del lavoro c’è stato qualcosa di quel decennio che è rimasto sordo. Se guardiamo al mondo dell’arte, per esempio, tutto è completamente cambiato. Una volta partecipai a una mostra collettiva alla Galleria di Cardazzo a Milano: venne un collezionista al quale il mercante propose alcuni lavori. Il collezionista li selezionò e lasciò da parte i miei perché dalla firma capì che erano di una donna. A spiegazione di questa scelta sostenne di non poter investire su una artista, perché presumibilmente si sarebbe sposata, avrebbe fatto dei figli e avrebbe smesso di dipingere. Adesso invece, essere una artista donna costituisce un valore aggiunto.
Lei è d’accordo con la considerazione di Celant che vede il ’69 come un anno spartiacque nel suo lavoro?
Sì, perché in quel momento, ancora una volta, la mia vita personale prese il sopravvento: lasciai Roma con il mio compagno, Goffredo Parise, per andare in Veneto, in campagna. Lì lui scrisse i suoi Sillabari e io cominciai a ricercare materiali. Mi piaceva moltissimo, raccoglievo tutto: penne, piume, sassi, terra, spaghi…
Qual è il suo rapporto con Louise Bourgeois: glielo chiedo perché in entrambi i vostri lavori c’è un rapporto fortissimo con la biografia…
Ho conosciuto tardi Louise Bourgeois, ma il suo lavoro mi interessa moltissimo, credo che abbia compiuto una ricerca eccezionale: anche lei racconta la sua vita intrecciando memorie e scene di infanzia.
Questo libro l’avrà portata, tra l’altro, a ripercorrere la sua esperienza dell’arte fino ai nostri giorni. Qual è secondo lei il momento in cui ha raggiunto la sua massima felicità espressiva?
Per me l’anno più emozionante è stato senz’altro il ’70, quello vissuto con Parise nella campagna veneta. Come ho scritto nel catalogo, il suo racconto titolato Ozio è autobiografico ed è ambientato lì. Vi si legge di un uomo lunatico, che trascorre il tempo senza fare niente, ma proprio in quel non fare niente il lettore coglie il sentimento bellissimo di una vita fantastica. Anche per me quel periodo è stato molto ricco di suggestioni, e per molto tempo ho continuato a realizzare lavori ispirati a quella casa veneta e a quei luoghi.
di Maria Laura Giovagnini
MILANO – The Artist is Present s’intitola la mostra al MoMA. E, se l’artista in questione è Marina Abramovic, potete giurarci: è presente davvero. Cosa sarà mai rimanere 7 ore al giorno seduta a guardare negli occhi i visitatori per una che, davanti al pubblico, si è denudata-tagliata-fatta tagliare- gettata fra le fiamme-lasciata avvinghiare da 5 pitoni affamati?«E invece no: sarà questa la performance più radicale della mia vita» ci sorprende lei. «Ognuno può fermarsi di fronte a me quanto vuole: tre minuti o tre ore. In silenzio. Il contatto visivo non è facile, intimidisce parecchio».
Più che mostrarsi nudi?
«Certo. Puoi leggere così tanto, puoi vedere così tanti dolori attraverso gli occhi! All’inizio – negli anni Settanta – le mie performance erano più drammatiche, più fisiche, duravano un’ora o due. Progressivamente si sono allungate: più tempo ci metti, più radicalmente trasformano te e chi osserva. La finzione si dissolve, tutto diventa realtà. Questo ti rende vulnerabile e la vulnerabiltà provoca una risposta emotiva dal pubblico ».
È questa risposta emotiva lo scopo dell’artista, oggi?
«Sì, però non una risposta emotiva fine a se stessa. Abbiamo perso i nostri templi, il museo è diventato il nostro nuovo tempio: qui dobbiamo elevare lo spirito, non buttarlo giù. Ecco perché quel che chiedo a me stessa è radicale: devo essere un esempio, la gente guarda a me come a uno specchio. La mia preparazione è rigorosissima: non parlerò per tre mesi, tornerò a casa senza comunicare, senza usare il telefono».
E la sua vita privata?
«Ora non c’è nessun uomo, sono concentrata sulla performance. Ma sono sicura che quando finirò, il 31 maggio, inizierà un capitolo inedito della mia vita. E sarò di nuovo aperta per una relazione».
Nel frattempo abolito anche il sesso?
«Il sesso va di pari passo con l’amore, è qualcosa di fantastico solo se c’è amore. Attualmente non si ha un atteggiamento sano verso il sesso, che poi sarebbe: averne bisogno come del cibo. E questo non è che una riprova di quanto la società sia malata. In America spesso ci si astiene perché le persone sono travolte dal lavoro, non hanno tempo: magari bevono o prendono pasticche o droghe… Quando la relazione fra il corpo, il sesso e il cibo è disturbata, diventa tutto non naturale».
Lei ha una relazione sana col suo corpo, dopo avergli inferto tante cicatrici?
«Sto bene, sono probabilmente più sana – con tutte le cicatrici – di altri che non ne hanno neppure una. Perché io affronto le mie paure e le scaccio. Quando capisci che puoi controllare il fisico, sei davvero libero».
Sarà dunque esente dalle preoccupazioni delle mortali: chili in più, rughe.
«Nel lavoro non importa se il corpo è vecchio o giovane, malato o sano. Nella vita privata, no: sono una che entra e esce dalle diete e non mi nego trattamenti – rigorosamente non invasivi – che mi facciano sentire meglio. A novembre compio 64 anni…assaporo ogni attimo».
Sessantaquattro? Stupefacente!
«…e a 64 anni voglio fare soltanto cose che abbiano senso, che mi rendano l’esistenza più felice e più semplice. Non si può assecondare ciò che ci viene imposto dall’esterno. Devi effettuare una sorta di montaggio della tua vita, tagliare le parti non importanti. Un lama tibetano mi detto di cercare una cosa chiamata holy selfishness, un san(t)o egotismo: se non pensi prima a te stessa e a quello che è bene per te, non puoi fare il bene degli altri. Se sei un’artista, poi, rischi di arrivare a bruciarti. Io voglio proteggermi. Anche dalle tentazioni del mercato, che ti spingerebbe a produrre, produrre. Per che cosa? Meglio avere meno e più qualità che collezionare progetti uguali – in definitiva – a quelli che hai già realizzato. Non intendo ripetermi».
Perché ha scelto proprio questa forma d’arte? Insolita per una cresciuta nella Jugoslavia di Tito.
«Insolita? Volevano mettermi in manicomio! Mio padre e mia madre, due eroi nazionali (erano alti membri dell’esercito, ndr), la società, i miei colleghi: nessuno capiva. È una forma d’arte così alternativa… E così difficile da spiegare. Quel che provo nelle performance è un’energia, un’esperienza del momento così forte che non potrei mai ritornare nel chiuso di uno studio ».
Ha lavorato nel chiuso di uno studio?
«Ho sentito di voler diventare artista a 6 anni e il mio debutto, a 12, è stato con una mostra di pitture (ispirate ai miei sogni) ma sono stata fortunata: ho capito ben presto che era il corpo lo strumento più giusto per esprimermi e non ho mai abbandonato questa strada. Sono una dei pochi della mia generazione che ancora la segue e continua a essere sempre innovativa, pure rispetto ai giovani. È un lavoro gratificante: ti cambia, ti fa capire i tuoi limiti fisici e mentali. Sto attraversando uno dei miei periodi migliori: ne assaporo ogni attimo».
Essere pacificata giova all’arte? O, sfortunatamente, è meglio il dramma?
«Non si preoccupi, la sofferenza è sempre qui (ride). Però devi imparare un po’ a distaccarti, a guardarti da fuori… Più vivi nel presente, più sei felice».
Il buddismo l’ha proprio permeata.
«Oh sì, credo nel buddismo tibetano. Sono andata in India per la prima volta nel 1980: l’incontro con il Dalai Lama e con il suo maestro ha cambiato la mia esistenza. Mi è servito per capire la vita. E la morte. Dobbiamo essere “amichevoli” verso la morte. Io non voglio andarmene arrabbiata e insoddisfatta, ma con consapevolezza, senza paura. Nel sufismo si dice che la vita è dormire e la morte è svegliarsi: spero di essere pronta a svegliarmi».
da ARTKEY MAGAZINE del 10.02.2010
Un’esistenza vissuta a sfidare i limiti del corpo. Marina Abramovic, The artist is present, Moma NY
Autore: Giulio Cattaneo
E’ ormai da 37 anni che Marina Abramovic (Belgrado, 1946) incanta il pubblico di tutto il mondo con le sue performance estreme; era il 1973 quando, da poco specializzata all’Accademia di Zagabria, portò in scena Rhythm 10, in cui utilizzando dieci coltelli e due registratori, eseguì un gioco russo nel quale ritmici colpi di coltello sono diretti tra le dita aperte della mano. Per ogni errore, ogni taglio quindi, l’artista ricomincia con un nuovo coltello fino ad esaurirli. Dopo essersi ferita dieci volte riavvolge la registrazione, ascolta i suoni e tenta di ripetere gli stessi movimenti, cercando di replicare gli errori, mescolando passato e presente. “Una volta che sei entrato nello stato della performance”, spiegherà successivamente, “puoi spingere il tuo corpo a fare cose che non potresti assolutamente mai fare normalmente”. Un’esistenza vissuta a sfidare i limiti del corpo, tra la vita e la morte, ma anche riflettendo sulle tradizioni dei popoli balcani e sui problemi legati ai conflitti armati. Marina Abramovic ha fatto del suo corpo, della sua vita, l’arte stessa. Ha vissuto nella performance diventando essa stessa opera d’arte e segnando in maniera profonda e innovativa l’evoluzione artistica degli ultimi trent’anni. Sarà con la stessa intensità e con la forza delle prima performance che si presenterà anche all’immensa personale che il Moma le sta preparando. The Artist is present, a sottolineare ancora una volta che Abramovic è la sua arte, il suo corpo è la sua tela; ma anche ad indicare che con la più lunga e costante performance mai realizzata e portata avanti, sarà presente nel museo con il suo nuovo lavoro durante tutta la durata della mostra, dal 14 marzo al 31 maggio prossimi. L’evento, senza precedenti, rappresenterà la sua più grande fatica, diventando la più lunga performance della sua carriera; tale intervento artistico infatti la vedrà impegnata 7 ore al giorno per ben 3 mesi, per circa 600 ore totali di performance. “Le performance richiedono un’energia sterminata e, invecchiando, il corpo è in difficoltà” spiega Abramovic, “eppure le mie azioni diventano sempre più lunghe e difficili con il passare degli anni. Perché con la forza della mente si può fare qualunque cosa: non serve un allenamento olimpionico, ma volontà e disciplina”. Abramovic sarà presente, durante gli orari di apertura al pubblico, seduta in assoluto silenzio ad un tavolo nell’atrio del museo. Gli spettatori avranno la possibilità di sedersi di fonte a lei per tutto il tempo che riterranno necessario, diventando così parte integrante e necessaria della performance, nonostante l’artista rimarrà in silenzio. Fondamentale anche in questo caso la presenza del pubblico che mai come nella performance riesce ad entrare esso stesso nell’opera d’arte, a stretto contatto con l’artista. Come non ricordare uno dei suoi primi lavori, Rhythm 0, presentato a Napoli nel 1974, in cui abbandonò il suo corpo alle torture che liberamente il pubblico poté infliggerle con una serie di oggetti messi a disposizione; finì in rissa quando le fu messa in mano una pistola carica con il dito premuto sul grilletto.
La mostra ospitata al Moma traccerà tutto il percorso artistico dell’Abramovic proponendo una cinquantina di lavori tra cui installazioni, video e fotografie delle sue performance. Più interessante sarà però vedere, al sesto piano del palazzo, riproposti per la prima volta cinque dei suoi lavori più famosi. L’artista stessa ha selezionato i trentacinque attori che, durante tutta l’apertura della mostra, reinterpreteranno le performance.
Si parte con Imponderabilia (1977), dove un uomo e una donna nudi stanno uno di fronte all’altro accostati ad una porta, rendendo così difficoltoso il passaggio del pubblico che dovrà relazionarsi ai due attori scegliendo da che parte passare; Relation in Time (1977), in cui i due attori sono seduti di spalle, nudi, ed uniti tramite i capelli intrecciati tra loro; Point of Contact (1980), dove i due attori guardandosi negli occhi si sfiorano gli indici delle mani puntati uno addosso all’altro; Nude with Skeleton (2002–05), natura morta contemporanea in cui uno scheletro è disteso sopra il corpo dell’attrice che lo anima con il movimento creato dal suo respiro; Luminosity (1997), in cui grazie al gioco di luce ed ad un piccolo sellino da bicicletta l’attore sembrerà sospeso nel vuoto, in un continuo stato di precarietà ed equilibrio.
Imponderabilia, Relation in Time e Point of Contact erano state create con l’artista/compagno Ullay (Germania, 1943), suo partner dal 1977 al 1988. I due decisero di chiudere la relazione con una performance lungo la Grande Muraglia Cinese; lui partendo dal deserto del Gobi, Marina dal Mar Giallo. Dopo una camminata di duemila e cinquecento chilometri si sono incontrati e si sono detti addio: “È stato un momento molto doloroso della mia vita. Dopo il quale ho avuto una crisi molto forte sia come artista sia come donna. Ma un artista lavora sempre con le sue tragedie, la sua pena. In un certo senso, abbiamo bisogno della drammaticità per fare progetti”. Una vita dedicata alla performance non potrà che prevedere anche una morte legata all’arte, programmata e studiata, in un certo senso anche esorcizzata. E’ uno dei progetti che Marina sta preparando; tre cerimonie contemporanee in tre città: Belgrado, città natale; Amsterdam, città adottiva e New York, dove è stata e sarà ancora una volta consacrata. Tre orchestre, tre cortei, tre bare, tre sepolture, il tutto accompagnato da colori sgargianti e dalle note di My Way di Sinatra. Il tutto nel frattempo sarà presentato, nel 2011, a teatro con Bob Wilson, nell’opera Vita e morte di Marina Abramovic.
Un incontro con la fotografa di Marrakesh Lalla Essaydi. Le sue immagini lavorano intorno all’identità femminile «dipingendo» storie e diari sulla pelle con l’henné. «Il mio lavoro ribalta lo stereotipo dell’harem e delle donne arabe viste solo come oggetto sessuale.”
di Manuela De Leonardis
Due appuntamenti per Lalla Essaydi (Marrakech 1956, vive tra il Marocco e New York) a Paris Photo 2009. Elegantissima e impeccabile, l’artista ha presentato – per la galleria newyorkese Edwynn Houk – il suo primo volume monografico, Les Femmes du Maroc (2009) con testo di Fatima Mernissi, di cui è una fedele lettrice (uno dei suoi libri preferiti è Sheherazade Goes West: Different Cultures, Different Harems). Tra le foto esposte anche Grande Odalisque (2008), moderna interpretazione dell’opera di Ingres. Il corpo della modella – una ragazza araba, come sempre nelle opere di Essaydi (anche il drappeggio, nonché l’ambiente in cui è collocata la scena), sono ricoperti di calligrafia araba tratteggiata con l’henné. L’opera, parte della collettiva Ingres et Les Modernes (approdata al Musée Ingres di Montauban), è stata acquistata dal Louvre per la sezione di arte contemporanea.
Il booksigning di Nazar. Photographs from the Arab world, nello stand dell’Aperture Foundation è il secondo appuntamento. L’artista, dopo Parigi, tornerà a Marrakech ad ultimare il lavoro per Biennale di Alessandria (dal 17 dicembre al 31 gennaio 2010). Non ama parlare dei progetti futuri, ma non fa mistero sulla location: l’harem del meraviglioso palazzo Dar Al Basha a Marrakech, dimora del pascià El Glaoui.
Si è laureata alla Museum School of Fine Arts di Boston, arrivando alla fotografia dopo un percorso «pittorico»…
Sì, mi sono laureata nel 1996, poi ho preso un diploma di specializzazione e un master, terminando gli studi nel 2003 alla Boston Museum School e Tuft University. Da allora continuo a usare fotografia, installazione, pittura e film, in base all’idea del progetto. Ma, in realtà, mi sento pittrice anche quando fotografo, perché per ogni scatto occorre una preparazione che può richiedere fino a sei mesi. Applicare l’henné è quasi come usare i colori ad olio, mentre la sensazione tattile e l’intimità che si viene a creare con le donne con cui lavoro è più vicina alla performance.
Utilizza la pellicola o il digitale?
Fotografo con il banco ottico. Negli Stati Uniti uso anche il grande formato 20×24, mentre in viaggio ricorro al 9×12. Nelle stampe, fatte in camera oscura, il bordo nero della pellicola dove compaiono anche i numeri, è la prova del processo tradizionale. Non uso il digitale né il computer.
Il suo lavoro ruota intorno al concetto di identità femminile nel mondo arabo…
Il mio lavoro parte dalle mie esperienze personali perché credo che l’arte debba nascere dal cuore. In Converging Territories i soggetti ritratti appartengono alla mia famiglia, oppure sono amiche, per cui non solo condividiamo la stessa conoscenza, ma anche gli stessi spazi…
Proprio in «Converging Territories» le donne, in abiti tradizionali, sono fotografate all’interno di spazi spogli che rispecchiano un gran senso di solitudine. La location è un’antica dimora che appartiene alla sua famiglia…
La casa, bellissima, è a 12 km da Marrakech. La prima volta che ho mostrato negli Stati Uniti alcune fotografie degli interni, la gente è rimasta così affascinata da chiedermi se fosse in vendita. Da giovane, quando facevo qualcosa di sbagliato – sia io che alcune cugine – sono stata mandata in questa casa per «riflettere». Una volta fu quando i miei genitori scoprirono che ero stata in un locale pubblico, dove c’erano alcolici e musica. Mi avevano portata lì i miei fratelli per il mio quindicesimo compleanno ma, nonostante fossi in famiglia, io venni punita e loro no. Mi contrinsero a rimanere da sola per un mese, con l’unica presenza dei domestici. La casa era bella ma io ho avuto paura. Quando, anni dopo, ho iniziato a lavorare al progetto Converging Territories non avevo le idee chiare su come procedere. Decisi di trascorrere alcuni giorni da sola. Questa volta mi trovavo lì per scelta e ho sentito che dovevo scrivere il mio diario. Con dei grandi teli bianchi ho coperto i particolari delle decorazioni, i mosaici, i colori delle stanze, perché la bellezza del luogo non distraesse l’osservatore e ho iniziato a scrivere su quei tessuti che sono diventati il mio diario. Tutto il lavoro è una sorta di libro in cui i corpi delle donne sono pagine, paragrafi e capitoli.
Per la scrittura usa l’henné, impiegato dalle donne per tatuare mani e piedi in particolari occasioni come le nozze…
Come ho già detto, non c’è nessuna manipolazione digitale, il lavoro è realizzato in maniera tradizionale, dopo mesi di preparazione. La prima fase è la scrittura su metri e metri di tessuto, facendo attenzione perché l’henné asciugandosi si scrosta. Poi, bisogna scrivere sul corpo delle donne il giorno stesso in cui si scatta l’immagine. Le modelle stanno sedute ore e ore in posizioni scomode. Sono giorni di lavoro intenso che cominciano alle sei del mattino per finire alle tre del pomeriggio…
Il suo lavoro, in cui la scrittura è associata al corpo femminile, è in qualche modo ispirato a quello di Shirin Neshat, benché l’artista iraniana utilizzi il farsi?
Intanto ci tengo a precisare che l’arte calligrafica, in Marocco, non era un’arte vietata alle donne, ma fino a poco tempo fa non esistevano corsi di studi accademici per loro. Personalmente non l’ho mai studiata, è una disciplina molto complicata e occorrono anni di apprendimento. Nelle mie immagini considero la calligrafia come il disegno, e come si può vedere dalle prime opere a oggi la scrittura è diventata più elaborata e fitta. Ma è scrittura, non vera calligrafia. Quanto a Shirin Neshat, ho sempre ammirato il suo lavoro, anche per via della potenza dei soggetti. Bisogna però tenere presente che il Marocco e l’Iran sono due paesi musulmani completamente diversi. Naturalmente sono felice se c’è chi trova una connessione tra il mio lavoro e quello dell’artista iraniana, ma ci sono comunque delle divergenze, intanto perché non sono una militante, poi perché il mio lavoro, provenendo dalla pittura, è meno diretto.
In alcune opere cita capolavori del passato, l’odalisca di Ingres, le donne d’Algeri nei loro appartamenti di Delacroix, il mercato degli schiavi di Gerôme… In che modo ribalta la visione di questi pittori occidentali che hanno immaginato l’oriente, creando modelli stereotipati?
Molti orientalisti non sono mai stati in Medioriente e Nordafrica. Uno dei pochi viaggiatori è stato Delacroix, l’unico ad entrare in un harem. Gli altri hanno usato modelle occidentali che indossavano abiti che qualcuno portava dall’oriente, ricreando in studio scene finte in cui dare sfogo a un immaginario erotico. Nell’epoca vittoriana c’erano solo due possibilità: moglie e prostituta. L’immagine dell’harem che è diventata uno stereotipo non corrisponde certo alla realtà, almeno in Marocco. Con il mio lavoro intendo proprio ribaltare la rappresentazione delle donne arabe come oggetto sessuale. Tanto per cominciare, pur ispirandomi ai modelli dell’orientalismo, le mie donne guardano dritte negli occhi dell’osservatore.
di Lea Vergine
Trisha Brown l’ho vista per la prima volta nel 1973 alla galleria milanese di Franco Toselli. Si trattava di un’azione senza alcun tipo di accompagnamento sonoro se non quello delle rincorse, dei salti, della frizione dei corpi, direi tonfi sordi più che suoni… era il periodo in cui la Brown raccontava: «…negli ultimi cinque anni sono stata associata all’interpretazione di sistemi tecnici che permettessero agli esseri umani di camminare sulle pareti, di scendere da una costruzione di sette piani, di sembrare liberi di cadere oppure di essere sospesi nello spazio neutrale, opere in cui le preoccupazioni principali sono l’anti-gravità e il movimento che si registra in circostanze straordinarie. La mia opera corrente – Accumulazione– comprende esclusivamente movimenti, non frasi, non musica. La struttura dell’opera è rigida, il movimento predeterminato…». La giovane donna americana, con una maglietta e un pantalone di maglina grigia, a volte largo sul corpo e a volte aderente come il suo corpo in sequenze allora scandalose e, comunque, ai (imiti dell’assurdo per l’ossessione di sfidare le leggi di gravità; e l’equilibrio s’affermava e si rompeva di continuo. C’erano tutti i caratteri per inserirla nel libro II corpo come linguaggio. La body e storie simili.
Ma da dove arrivava Trisha Brown? Senza risalire alia danza libera di Isadora Duncan e di Loie Fuller è d’obbligo ricordare quella modern dance per cui ebbe meritato successo la celeberrima coreografa Marma Graham. Dopo l’altrettanto straordinario Mercé Cun-ningham, da poco scomparso, con la sua new dance esplode, di seguito, la post-modern dance con Trisha Brown e Simone Forti, Jo-an Jonas, Yvonne Kainer e, se non sbaglio, sporadicamente anche Meredith Monk.
Giustamente nel depliant di presentazione si legge che la Brown inventa «un nuovo linguaggio contrapposto alle stilizzazioni del balletto moderno… la sua danza è un flusso inarrestabile di corse sospese, cadute improvvise, slanci giocosi, prese schivate; il movimento è in costante attività, in una estrema fludità di tutte le parti del corpo»; e si ricordano tappe significative della sua carriera quando crea nel 1978 Water’moiore nel 1983 Set and Reset, dove «il corpo disarticolato si lancia in diverse direzioni e tutto è strutturato nello spazio da forme su cui la coreografa ha lavorato nel decennio precedente; la linea, l’onda, l’eco, il doppio, lo specchio, lo sfasamento, l’armonia». Nel 1986 è invitata a curare la coreografia di Carmen, regista Lina Wertmuller, in scena al San Carlo di Napoli. Dal 1981 aveva utilizzato composizioni musicali come quelle di Laurie Anderson e lavorato in collaborazione con artisti minimal quali Donald Judd. Nel 1995 lavora su Bach e poi su Anton Webern. Si segnala, nel 1998, per un Orfeo di Monteverdi nel quale «fa danzare i cantanti e volare i danzatori». E poi ancora mette in scena Salvatore Sciarrino e, inoltre, si dedica anche al disegno. Un uragano…
Per il Festival Red (Reggio Emilia Danza) si è assistito, nella enorme sede per tre piani della Collezione Maramotti a Reggio, alla prima esclusiva in Italia, realizzata con la collaborazione della Max Mara e dell’Associazione Teatrale Emilia Romagna, di sei coreografie della Brown (dal 1970 al 1973), i famosi Early Works eseguiti da sette ballerini (si può definirli cosi?) della compagnia di danza da lei fondata. Negli spazi Maramotti, dove è visitabile gratuitamente la prestigiosa collezione suggerita e, talvolta, scelta da quello straordinario poeta e studioso che è stato ed è Mario Diacono, si sono rivisti, dopo circa quarant’anni, i lavori un tempo interpretati personalmente dalla Brown.
Scenografia quindi particolarissima: di qui una tavola con frutta di Mario Merz e di là il gigantesco libro-scultura di Anselm Kiefer, da una parte Matthew Bamey e dall’altra Mimmo Paladino, Gerhard Richter e Claudio Parmiggiani fino agli ultimi acquisti Kelley Walker e Jessica Stockholder.
Due esecutori, imbracati in una serie di panni inseriti su di una gratìcola di corde, si abbandonano inerti tenuti dalle stoffe; altri sembrano esercitarsi lungo un asse di legno; sotto la barca di Parmiggiani alcune fanciulle ripetono movimenti sincroni, sdraiate per terra; e così via. Ma questi piegamenti, torsioni, contorcimenti, gesti tra dottrina Zen e palestra, sembrano non scioccare più nessuno. Perché? Ci si chiede se anche per la Brown, carismatico e sulfureo personaggio, come per Carmelo Bene, per fate un esempio nostrano, l’emozione, lo sbigottimento, Hfrisson non scaturissero dalla loro stessa presenza. Come qualche cosa che, senza l’autore, cambia, perde tensione e resta irripetibile.
C’è però un pezzo intitolato Spanish Dame con la musica di Bob Dylan che dura quattro minuti: le interpreti sia addossano le une alle altre sino a fermarsi davanti a un muro. Difficile da comunicare detto così. Ma ecco che in quest’ultimo pezzo, misteriosamente, l’idea che sottende la rappresentazione riesce a destare la partecipazione appassionata del pubblico.
Due ore dopo, al Teatro Valli, ogni remora si dissolve, ogni sensazione di esercitazioni inerti o dì déjà vu scompare. Sarà il palcoscenico (la giusta distanza nonostante tutto), le luci, la musica, chissà! I tre brani appartengono all’ultima produzione della Brown. Rapiti dalle creature platoniche tutte tese in movimenti scolpiti nella più effimera delle materie quale lo spazio, gli spettatori ristanno a mirare la cerimonia visiva che ha un’evidenza e un’intensità specifca dal momento che presenta una danza assolutamente non convenzionale anche rispetto alla produzione contemporanea.
Queste chimere corporee, queste tante «figure del corpo», sono figure musicali il cui accumulo, e poi scioglimento, dà la significanza che sono, del corpo, a volte metafora, a volte annullamento o scomparsa. Si determina una simultaneità visionaria contratta, una «meravigliosa serenità» che è come un desiderio mentre i gesti dei danzanti, spesso simili ai «gettati» strumentali, assumono rilievo rispetto ad ogni altro elemento.
Da Venezia a Parigi, da Vancouver a Torino, Mona Hatoum, artista palestinese, traduce in minacce quotidiane i drammi del mondo
di Adriana Polveroni
Mona Hatoum, artista palestinese nata a Beirut nel 1952, è una donna tosta. Senza dubbio intransigente, ha uno sguardo che pare osservare da una “giusta distanza” il suo passato, il mondo dove vive, anche la sua arte, che, sebbene fedele a precisi criteri, in 30 anni è anche molto cambiata. La fedeltà risiede nel mantenere ferma la tonalità ambigua che pervade le sue opere e nell’attenzione all’idea del conflitto. Che è soprattutto intimo, e si è espresso all’inizio attraverso il corpo (i video tratti dalle performance anni ’80), poi in allestimenti in cui protagonisti sono diventati gli oggetti. Banali, come scolapasta e grattugie, ma ingranditi a tal punto da apparire alieni. Oppure alterati dalla presenza di altri oggetti fuori luogo: zerbini di benvenuto puntellati di aghi, cucine ingabbiate da filo spinato. Come se per comunicare occorresse varcare quelle maglie in filo spinato, appoggiare i piedi su tappeti chiodati: e i rapporti normali diventano molto rischiosi, evocando costantemente la possibilità che il familiare si trasformi in qualcosa di minaccioso, diventi, da rassicurante, perturbante. Dove, in filigrana, si legge l’instabilità, la fragilità della nostra epoca. Sentimenti vivi e pungenti come gli aghi dei suoi tappeti. Ma Mona Hatoum, con piglio assai più leggero (lei la chiama la “componente surrealista” del suo lavoro, accanto “al minimalismo, al concettualismo, a molta arte a me contemporanea”) racconta anche di corpi, o parti di essi, defunzionalizzati. Apparentemente buffi, ma altrettanto perturbanti: collane di capelli, graziosi triangoli pubici fatti di peli appoggiati su una sedia che paiono fare il verso a Magritte. Mette in opera dei cortocircuiti dai quali emerge lo straniamento, un senso di non appartenenza sempre più diffusi anche per i flussi migratori caratteristici del nostro mondo. Lo fa con eccentriche combinazioni che rielaborano il sentimento dell’esilio, vissuto per lei assai acceso, visto che nel ’75 quand’era casualmente a Londra, non poté più far ritorno a Beirut perché intanto era scoppiata la guerra civile. Da tanti anni la Hatoum ha rovesciato la condizione di esiliata “in positivo”, diventando cittadina del mondo, invitata da musei, istituzioni internazionali. Si è appena conclusa una sua mostra alla Querini Stampalia di Venezia, ne ha due in corso alla Fondazione Merz di Torino e alla galleria Continua di S. Gimignano e il 24/10 inaugura una personale in un museo privato a Vancouver, la Rennie Collection. A novembre sarà in residenza al Mac/Vai, vicino a Parigi, e nel 2010 ne avrà un’altra, a lei molto gradita, al Beirut Art Center.
La sua storia personale spesso si sovrappone al suo lavoro. Che legame c’è veramente tra queste due realtà?
“Si tende a leggere il mio lavoro artistico attraverso la lente del mio passato: ma è una regola che vale per tutti, chiunque interpreta il mondo a partire dalla propria esperienza. Non esiste qualcosa come una realtà oggettiva. Non c’è dubbio che l’esperienza modelli il mio modo di vedere il mondo, ma a me non interessa illustrare tali processi, né razionalizzarli. Il dato biografico entra nel mio lavoro in maniera inconscia”.
Sono passati anni da quando è andata via da Beirut: qual è oggi il suo approccio alla realtà politica della Palestina?
“Nella mia vita quotidiana c’è sempre la presenza della Palestina: non è sempre esplicita, mi sento più coinvolta dalla dimensione psicologica che da precisi fatti storici accaduti”.
Si sottolinea spesso la componente femminista del suo lavoro, la cultura post-coloniale, in qualche modo la globalizzazione. Ma, soprattutto, nell’immaginario artistico contemporaneo lei incarna l’essere straniera. Si riconosce?
“L’essere straniera è qualcosa che si avverte sempre nel mondo in cui si vive: si percepisce nel mio lavoro, credo, ma non solo perché “tutto il mondo è una terra straniera”, come dice il titolo di un libro di Edward Said che mi ha influenzato molto. La psicologia dell’esilio produce una sorta di dislocamento e può capitare che il significato d’un oggetto non sia più chiaro, o che oggetti molto familiari diventino minacciosi, forse perché c’è un trauma associato a essi”.
Si riferisce alla casa, all’esperienza domestica?
“Sì, anche. La casa, che è il luogo dove si svolgono soprattutto le funzioni materne, quindi un luogo protettivo, si può trasformare anche in una trappola, in una prigione”.
Pensa alla cultura araba, dove la donna vive in uno stato di sottomissione?
“Niente affatto, tale realtà riguarda tutte le donne, e forse più in Occidente che altrove, perché lì la tecnologia può essere molto pericolosa. Invece spesso sento dire: “questo non ci riguarda”, come se la violenza, l’essere controllati appartengano al mondo arabo. In Occidente l’architettura per le classi meno abbienti esercita un controllo programmatico. In Palestina no, l’architettura è più fluida, anche organica, non agiscono dispositivi di regolamentazione”.
Lei ultimamente mette il corpo, con il quale ha lavorato molto, più in secondo piano. Come mai?
“Il corpo che più mi interessa coinvolgere nel mio lavoro non è il mio, ma quello dello spettatore: l’interazione col pubblico, dove ciascuno ha reazioni diverse, mi attrae di più”.
Uno dei suoi temi forti è l’ambiguità, la casa-trappola va in tale direzione. Ma colpiscono molto le immagini belliche che emergono da una lanterna magica, le granate che ha realizzato in vetro di Murano con colori trasparenti, belli.
“Volevo far vedere qualcosa di affascinante, sensuale: e che si riconoscesse la vera natura dell’oggetto solo in una fase seconda guardandolo attentamente, il che non si fa spesso”.
Pensa che la guerra, la violenza possano essere attraenti?
“No, almeno per chi si trova dalla parte sbagliata. Penso che al fondo della guerra ci siano sempre ragioni economiche”.
A proposito di soldi, come giudica gli artisti che vanno nei territori di conflitti, o disagiati, e scattano foto, girano video che poi rivendono a caro prezzo nelle fiere mondiali?
“Penso che il messaggio sia in fondo la cosa meno importante nel lavoro artistico: quello che conta di più, secondo me, è il linguaggio”.
Al museo di Capodimonte gli scatti dell’artista tedesca danno una diversa prospettiva a luoghi e monumenti
di Adriana Pollice
«Utilizzo la luce naturale, non mi piace portarmi dietro fari e attrezzi da set cinematografico. In alcuni ambienti si possono aprire o chiudere le tende, ma il lavoro sulla luce lo faccio in studio» racconta la fotografa tedesca Candida Höfer di fronte l’immagine, grande quanto un quadro rinascimentale, della sala del teatro Mercadante ripresa dal palcoscenico, di un bianco innaturale in contrasto con il rosso dei velluti. Uno dei sedici scatti fatti a Napoli e in mostra al museo di Capodimonte fino al 15 novembre, «ma ne ho fatti molti altri, tanti altri posti mi sarebbe piaciuto ritrarre. La scelta dei luoghi e il lavoro in studio hanno richiesto circa due anni». L’indagine fotografica sugli spazi pubblici, chiese, biblioteche, alberghi, teatri dell’opera, luoghi di incontro e scambio fra gli individui di una stessa comunità, intrapresa dall’artista allieva di Berndt e Hilla Becher in giro per il mondo, aggiunge le architetture partenopee al suo atlante. Sembra di rivedere delle eco della serie portoghese «ma lì le geometrie erano più rigorose – spiega l’artista – Quasi sempre le mie immagini sotto fatte dall’alto, quando non era possibile abbiamo montato una sorta di balconata. Preferisco concentrare la mia attenzione in un punto preciso dello spazio, focalizzare l’immagine, poiché nei luoghi si svolgono molte attività diverse, si è circondati da molte stratificazioni artistiche e tutto questo finisce per confondere l’osservatore, distogliendolo dalla funzione primaria del luogo stesso».
La Biblioteca nazionale, la chiesa della Certosa di san Martino, le sale di Capodimonte, il Lazzaretto dell’ospedale di Santa Maria della Pace sono ritratti in un vuoto di persone, che in una città come Napoli implica una radicale trasformazione rispetto all’immagine usuale. Una sorta di still life dei volumi architettonici: «Molti non riconoscono gli interni dei monumenti della loro stessa città quando sottrai gli uomini e le donne che li vivono. Spesso mi dicono che le mie foto sono melanconiche ma a me non sembra, credo invece di ridare valore ai luoghi restituendo centralità alla funzione per cui sono stati ideati e costruiti». La sala Causa che ospita gli scatti, così, si trasforma in una quadreria contemporanea dove gli spazi ritratti rivelano, attraverso l’obiettivo della Höfer, una differente identità: la chiesa ottocentesca di San Francesco di Paola, abbagliata dal bianco della luce, rivela le geometrie neoclassiche, lo scalone monumentale della Reggia di Portici si trasforma in un gioco di prospettive disegnate dai colori pastello: «Il mio lavoro riguarda la trasformazione di spazi in immagini. Amo fotografare spazi aperti al pubblico dove le persone si incontrano, comunicano, si rilassano. Cioè che mi interessa è la sovrapposizione delle epoche storiche che possono essere lette contemporaneamente, seguendo però il rigore delle loro geometrie».
Anticipiamo dal volume edito da Quodlibet (pp. 442, euro32, da mercoledì nelle librerie), «Album», scritto nel 1994.
Esce finalmente anche in Italia il volume che raccoglie i diari e gli scritti della grande artista francese: «Se non si riesce ad abbandonareil passato allora bisogna ricrearlo. È quello che faccio da sempre»
di Louise Bourgeois
Molte persone sono ossessionate a tal punto dal passato che ne muoiono.
È l’atteggiamento del poeta che non trova mai il paradiso perduto, ed è in
effetti la condizione di quegli artisti che lavorano per una ragione che
nessuno riesce davvero a cogliere. Amenoche non cerchino di ricostruire
qualcosa del passato. È che il passato per alcuni ha unatale presa, una tale bellezza…
Mi chiamo Louise Josephine Bourgeois. Sono nata il 24 dicembre del 1911, a Parigi. Tutto il miolavoro degli ultimi cinquant’anni, tutti i miei soggetti hanno tratto ispirazione dalla mia infanzia. La mia infanzia non ha mai perso la sua magia, non ha mai perso il suo mistero e non ha mai perso il suo dramma.
Lei amava mio padre. Così, come ho detto, scapparono insieme. Semplicemente se ne andarono.Dunque non erano sposati. Vivevano insieme, e naturalmente ebbero un figlio. Mio padre era piuttosto macho, e sfortunatamente per lui nacque una bambina. Sono sicura che
mia madre ne fu imbarazzata, anche se era una convinta femminista. Ma
l’imbarazzo non durò a lungo, perché la bimba morì.
Si sbrigarono a fare un altro figlio e – mioDio! – era di nuovo una bambina.
Era Henriette. Poi ebbero un’altra bambina, di nome Louise. Ero io! Così, capite, il mio arrivo rappresentò un’acuta delusione e mia madre deve aver pensato: «Come faccio a tenermi quest’uomo, dopo avergli dato tre figlie fem-
mine una dietro l’altra?».
Non le mancava l’immaginazione e disse: “Non vedi questa bimbetta? Le daremo il tuo nome. Non vedi che è il tuo ritratto sputato?”.
E mio padre rispose: “Ma sì, hai ragione. È molto carina ed è identica a me”. E così me la sono cavata, vedete, ma lui mi fece capire che dovevo realizzare il suo sogno di avere un discendente di successo.
Avrei dovuto farmi perdonare il fatto di essere femmina. Mio fratello è nato dopo, naturalmente. È stato lui, in un certo senso, a determinare i miei gusti in fatto di uomini, nel senso che m’innamoro di buoni a nulla che si aspettano il mio aiuto; in effetti, tutti gli uomini della mia famiglia si aspettavano che le donne li guardassero con ammirazione e lavorassero per loro. Erano uomini molto affascinanti. In famiglia le forti erano le donne.
Mio padre voleva davvero bene a suo fratello, Désiré. Sono molto diversi: Désiré era più grande e aveva già due figli. Era stato arruolato nell’esercito. Désiré fu ucciso nella prima settimana di guerra. Questo fatto ha trasformato mio padre. Non so bene come, decise di andar volontario. Beh, comunque partì.
Non appena partì, mia madre diventò isterica. Prese a seguirlo di accampamento in accampamento e mi trascinava. con lei.
Lui venne ferito e finì a Chartres, nell’ospedale locale.
Ecco l’amante che si pavoneggia, tutta in bianco. Comparve subito dopo la guerra, arrivò nel 1922. Fu introdotta nella famiglia come istitutrice per Pierre e me. E andava à letto con mio padre. Il fatto è che Sadie viveva in casa. E c’è rimasta per dieci anni – gli anni formativi, per mia sorella e per me. Nella mia vita, la storia di Sadie è importante quasi quanto quella di mia madre. La motivazione del mio lavoro è la reazione negativa verso di lei.
Ciò dimostra come sia proprio la rabbia a spingermi a lavorare. Non sono molto brava a parlare dell’amante perché ora, a distanza di mezzo secolo, ho superato l’influenza che ha avuto su di noi e posso pensare a lei con più equilibrio. Dunque, non riesco ad appassionarmi troppo alla questione, né a esserne turbata.
Sadie, era stata assunta per insegnarmi l’inglese. Pensavo che mi avrebbe voluto bene. Invece mi ha tradita.
Ora mi chiederete: Come mai in una famiglia della media borghesia l’amante faceva parte dell’arredamento? Beh, la ragione è che mia madre lo tollerava! Ed è questo il mistero.
Non sono stata tradita solo da mio padre, dannazione, ma anche da lei. Fu un doppio tradimento. Mi spiace infiammarmi tanto, ma ancora ne subisco l’effetto. Ancora.
Mio padre mi ha tradito perché non è stato quel che avrebbe dovuto essere. Prima di tutto ci ha abbandonato per andare in guerra e poi si è trovato un’altra donna e l’ha portata in casa. È solo un fatto di … regole del gioco. E in una famiglia le regole del gioco prevedono un minimo di conformismo.
Allora, da tutta questa chiacchierata ciò che viene fuori è che io rifiuto di lasciar andare questo periodo. Perché, sebbene fosse molto dolorosa sotto certi aspetti, era la vita stessa.
Nel 1955 o 1956 sono tornata. Volevo rivedere la casa. E l’ho trovata. Era completamente diversa … Aveva cambiato carattere … Ci vivevano quindici o venti famiglie diverse.
Non dico che fosse triste – era solo diverso. Sono tornata con i miei figli e … mi sono sentita meglio. Volevo vederla, avevo bisogno di rivederla, l’ho visitata e mi sono sentita meglio. Ecco tutto. Vedete, la vita va avanti e non possiamo farci nulla.
Oggi nel mio lavoro c’è una forte motivazione sentimentale, ma è trattenuta da una sorta di riserbo formale. Le due cose devono andare insieme. La motivazione è sentimentale e omicida, o comunque la si voglia chiamare, ma la forma deve essere assolutamente rigorosa e pura.
Non è una motivazione conscia. È una motivazione inconscia. Dopo aver finito un lavoro, ci si dice: «Ah, I mio Dio! Ecco cosa intendevo!».
Non si può fermare il presente.
Ogni giorno bisogna abbandonare il proprio passato. E accettarlo. E se non si riesce ad accettarlo, allora bisogna fare lo scultore! In qualche modo bisogna provvedere. Se rifiutate di abbandonare il passato allora dovete ricrearlo.
È ciò che faccio da sempre .
Al Modern Museum di Istanbul una rassegna dal titolo «In Praise of Shadows», curata da Paolo Colombo, propone la storia dell’animazione attraverso silhouette ritagliate in carta o «puppet» di artisti. In campo, i divertissement su Mozart di Lotte Reiniger e le donne di Kara Walker.
di Arianna Di Genova
Fuori, i battelli scivolano lungo le acque tranquille del Bosforo, «inquadrati» perfettamente dai grandi finestroni del moderno museo di Istanbul. Dentro, nel grande edificio-scatola, d’improvviso la luce del giorno scompare e i visitatori vengono catapultati in un mondo di ombre, silhouettes e sagome che raccontano esili trame di favole e le traformano in pièce teatrali o brevi video capolavoro.
In Praise of Shadows (a cura di Paolo Colombo, catalogo Charta, fino al 6 maggio ancora a Istanbul, poi emigrerà verso Atene a partire dal 23 maggio dove resterà aperta fino a luglio) è una mostra-gioiello che invita a un vagabondaggio fra diverse epoche, abbracciando gli esordi del teatro delle ombre in Turchia (usanza particolarmente diffusa nell’impero Ottomano, ma già in voga nel XVI secolo e forse anche prima, secondo quanto affermano alcuni scrittori turchi) con il suo personaggio «mitico» Karagoz che dette anche il nome alla popolarissima forma di spettacolo. L’itinerario espositivo prende l’avvio dalla Storia dunque per addentrarsi verso i lidi del contemporaneo, passando per gli esperimenti arditi di cineasti di avanguardia: sono otto gli artisti proposti nel percorso (circa 90 le opere). Può accadere quindi di camminare rasentando le pareti e immergersi negli scontri razziali narrati da Kara Walker (californiana, classe 1969): le sue drammatiche figurine ritagliate in cartoncino più di una volta hanno rievocato i soprusi subìti dai lavoratori africani, soffermandosi in particolare sulle violenze sessuali. Walker ha affidato alle sue fragili donne su carta black anche il ricordo dell’«Emancipation Proclamation» con la quale, nel 1863, Lincoln aveva posto fine alla schiavitù in America. In Burning African Village, la tragedia vissuta prende una forma tridimensionale in 22 parti, come se si srotolasse, davanti agli occhi dello spettatore, un libro pop up. L’effetto è travolgente.
La tesi di Colombo, curatore della mostra di Istanbul, è che con le «shadows» dei marionettisti prima e degli artisti poi si entra in punta di piedi nel foyer del pre-cinema: l’omaggio più intenso è infatti quello tributato a Lotte Reiniger.
Nata a Berlino nel 1899, questa artista che fin da bambina si impegnava meticolosamente a ritagliare silhouettes di carta, un giorno venne notata da un produttore in cerca di novità che le propose di fare un film d’animazione utilizzando le sue eleganti figurine. Cresciuta tra gli umori dell’Espressionismo tedesco, pronta ad accogliere le creature fantastiche fra le sue mani, nel 1919 Lotte presentò al pubblico il suo primo lavoro cinematografico, L’ornamento del cuore innamorato, coronato da un immediato successo. A Istanbul si possono vedere alcuni suoi corti: Carmen (1933), una esilarante reinvenzione della storia della bella gitana (qui non muore ma se la gode col torero), Papageno (1935), un mondo di lussureggiante natura in perenne metamorfosi tratto dal «Flauto Magico» di Mozart e il lungometraggio The Adventures of Prince Ahmed. Frutto di tre anni di lavoro (tra il 1923 e il 1926), realizzato con la collaborazione del marito Carl Koch e le scenografie di Walter Ruttmann, lascia scorrere l’universo incantato delle Mille e una notte, con grandi doti affabulatrici. Fra i maestri della stop motion c’è anche Ladislas Starewitch. Polacco, nato nel 1882, è stato un artista a tutto tondo: sceneggiatore, scenografo, tecnico del suono e delle luci, aveva una piccola equipe di lavoro composta dalle sue due figlie, Irene e Nina. E nel ricreare con originalità le favole di La Fontaine influenzerà, in seguito, un genio come Tim Burton.
Ombre in teatro e ombre che prendono carne e si fanno «puppet». Così la finlandese Katariina Lillqvist gioca con l’animazione, dedicando anche omaggio in salsa grottesca a Tadeusz Kantor, mentre i pupazzi di Nathalie Djurberg (svedese, classe 1978), poco oltre, si lanciano in performance sessuali brutali e danno segni di follia che investono il corpo e la sfera affettiva.
Si può chiudere la passeggiata a côté del Bosforo con il sudafricano William Kentridge, che spazia dall’animazione all’opera reinterpretata attraverso figurine e ombre. In mostra, il video Shadow Procession, già presentato alla Biennale di Istanbul del 1999. Con un ritmo modulato dalle improvvisazioni vocali del musicista di strada Afred Makgalemele, fluiscono le ombre degli esuli, uomini mutilati, minatori: una umanità in cerca di speranza si lascia alle spalle una città distrutta e fumante. Ma il cupo dramma della prima parte del video verrà interrotto e sconfitto da una specie di farsa dove personaggi immaginari, quali la donna-caffettiera, ruberanno la scena agli sfuocati perdenti.
di Valentina Parisi
«Un pellegrinaggio attraverso il paese degli spazi locali», così il critico Vitalij Patsyukov ha definito, con una formula tortuosa ma calzante, l’ampio ciclo fotografico Russkie (Russi), realizzato di recente da Anastasia Khoroshilova ed esposto fino al 2 maggio alla galleria Impronte di via Montevideo 11 a Milano. Luoghi remoti, talvolta geograficamente isolati, ma sempre e comunque rischiarati dalla presenza umana, quelli che la fotografa ha attraversato per dimostrare il carattere plurale dell’identità russa, al di là delle odierne derive nazionalistiche e populiste. In questa ottica, il titolo della mostra assume una sfumatura chiaramente paradossale, quasi provocatoria.
Che cos’hanno infatti in comune il giovane monaco buddista in scarpe da tennis e le donne ciuvasce ritratte nei loro costumi tradizionali che ci fissano imperturbabili da queste foto? Oppure gli artisti di un circo sperduto in una steppa dell’Asia centrale e le esponenti femminili di tre generazioni, riunite intorno a una culla in un angolo imprecisato della repubblica tatara?
Nella sua sfaccettata complessità, la Russia documentata dalla Khoroshilova sembra l’erede diretta di quell’entità sovranazionale che fu l’Unione Sovietica, oppure – per utilizzare una metafora ricorrente nella sua opera – un arcipelago formato da isole assai più distanti di quanto la contiguità spaziale non farebbe ipotizzare, forse addirittura ignare della loro reciproca esistenza. Di certo, a tenere insieme mondi così diversi è il metodo adottato dall’artista nei confronti dei suoi soggetti, che si traduce in una cifra stilistica ben riconoscibile, definita da Viktor Misiano come «grado zero della fotografia». I «russi» della Khoroshilova fissano invariabilmente l’obiettivo, quasi a voler instaurare, con i loro sguardi carichi di fiduciosa aspettazione o scetticismo, un dialogo col fotografo che, inevitabilmente, si rifrange anche sullo spettatore. Indifferente al fascino della tranche de vie inseguita dallo scatto del reportage, la Khoroshilova si rifiuta di cogliere di sorpresa i suoi modelli, anzi permette loro di adottare le pose rigide, ma psicologicamente rassicuranti tipiche delle foto di gruppo. Oppure chiede loro di scegliere lo sfondo su cui vorrebbero figurare, consentendogli di portare con sé, nell’universo ideale dell’inquadratura, gli abiti e le cose che meglio definiscono la loro personalità – quasi stessero partendo per un viaggio.
Incastonati come in una nicchia nello spazio «locale» che li racchiude, i soggetti di Russkie non sono dunque mai soli, ma accompagnati dalla presenza di animali totemici spesso esotici come il falco o il dromedario, strumenti musicali non meno inconsueti, oggetti-attributi ora buffi (come il cocomero di plastica esibito per qualche ignoto motivo da una vecchietta), ora spiazzanti (come nel caso di una donna di mezza età, seduta da sola su una panchina accanto al ritratto di una danzatrice classica).
Forse, il fascino di questo ciclo (e, insieme, la valenza etica del «pellegrinaggio» della fotografa) risiede proprio nel rispetto profondo con cui la Khoroshilova si accosta agli abitanti della campagna e della provincia russa. Sospesi tra l’immensità degli orizzonti che domina alcuni esterni e lo spazio delimitato, ristretto ma mai angusto, degli scorci domestici, i protagonisti di Russkie, con i loro sguardi colmi di compassata dignità, sembrano voler lanciare allo spettatore un appello alla comprensione reciproca cui è davvero difficile sottrarsi.
di Barbara Casavecchia
Al muro è schierata una miriade di piccoli corpi grigi decapitati, in piedi, braccia lungo i fianchi, impercettibilmente diversi. Sono i Bambini con cui Magdalena Abakanowicz accoglierà i visitatori: 90 figure in ceramica vulnerabili e minacciose, perché «tutte le moltitudini sono senza testa. Hanno reazioni pericolose, da organismi senza cervello». Tra fantasia e inquietudine, del resto, e sfruttando in modo originale i media più diversi, dalla morbidezza arrendevole dei tessuti alla durezza dell’ acciao corten, si è sempre sviluppata la ricerca di Abakanowicz. Che ha una biografia da romanzo d’ appendice. Classe 1930, figlia di un’ aristocratica polaccae di un nobile russo di origini tartare (discendente del mongolo Abaka-Khan, pronipote di Gengis), cresce in campagna tra domestici e precettori, fino all’ invasione nazista del ‘ 39. Si rifugia a Varsavia (dove vive tuttora), e con l’ avvento del regime comunista nasconde le proprie origini per accedere agli studi. All’ Accademia, la sua passione «politicamente scorretta» per l’ arte astratta viene punita con sfilze di zero in pagella, e la sua mostra d’ esordio (nel 1960) viene chiusa a poche ore dall’ inaugurazione. Scomoda anche la posizione del marito Jan, che diventerà leader di Solidarnosc. Eppure, nulla di tutto ciò le ha impedito di rimanere legata al proprio paese, di perseguire con ostinazione la carriera, di insegnare (all’ Accademia di Belle Arti di Poznan e all’ UCLA), di viaggiare ed esporre in tutto il mondo. La mostra alla Fondazione Pomodoro ripercorre liberamente mezzo secolo di carriera di Abakanowicz, che ne ha curato personalmente (insieme ad Angela Vettese, direttrice della Fondazione, sotto la cui egida sembrano in crescita le «quota rosa»: a fine anno, sarà la volta di un’ antologia della spagnola Cristina Iglesias) la scelta delle opere e l’ allestimento, perché «la scultura per me non è un bell’ oggetto da guardare, ma l’ esperienza di uno spazio da sperimentare»- da cui il titolo: Space to Experience. In un angolo, campeggia la spettacolare installazione Embriology (creata per il Padiglione Polacco alla Biennale di Venezia del ‘ 79), un agglomerato di oltre 600 «gusci» cuciti a mano con fibre di iuta, garza, cotone, canapa; dall’ alto pendono gli Abakans neri e rossi, le sue opere più note (che nel ‘ 65 le valsero il Grand Prix alla Biennale di Sao Paulo e la ribalta internazionale), sculturebozzoli avvolgenti, sensuali, che tesseva a mano «per via delle circostanze: all’ epoca avevamo diritto solo a due stanze». In ordine sparso, le 11 figure de La corte di Re Artù in acciaio inossidabile fuso a vista, destinate a una piazza di Varsavia. E ancora, due enormi Teste in acciaio: una porta il sigillo della fonderia bolognese Venturi Arte, dove negli anni ‘ 80 Abakanowicz ha scoperto la tecnica del bronzo, preparando la sua gigantesca Katarsis per il parco della scultura della Fattoria di Celle, in Toscana. Come è approdata a Milano? «Ho conosciuto Arnaldo Pomodoro anni fa, per caso, come succedono quasi tutte le cose. Ma abbiamo continuato a rimanere in contatto, a parlarci e confrontarci,e alla fineè arrivata questa mostra. Che per me è la testimonianza di quanto sia necessario comunicare, sempre, a dispetto delle distanze geografiche e culturali. Perché l’ arte è un linguaggio al di là delle parole.» Fondazione Pomodoro via Solari 35, inaugurazione domani ore 18.30, fino al 26 giugno.
di Arianna Di Genova
Presentata l’edizione 53 dell’Esposizione internazionale d’arte di Venezia, a cura dello svedese Daniel Birnbaum. Nuove strutture e un padiglione Italia con venti «ospiti»
Lo svedese Daniel Birnbaum, dopo essersi inoltrato avventurosamente negli spazi siderali intorno a Saturno (alla Triennale di Torino del novembre scorso), con tutto l’apparato di malinconia che necessariamente ne è conseguito, per la 53/ma edizione della Biennale di arti visive ha deciso di tornare sulla terra e poggiare i piedi su un solido pavimento. Una rentrée accompagnata da una ambiziosa promessa che enuncia, senza reticenze e fin dal titolo della sua mostra curatoriale, quel Fare mondi che si snoda fra Corderie, Arsenale e parte del nuovo Palazzo delle Esposizioni.
L’indagine che il più giovane direttore dell’Esposizione internazionale d’arte (Stoccolma, classe 1963) si appresta a concludere, presentandola al giudizio del pubblico a partire dal 6 giugno prossimo (fino al 22 novembre), polverizza qualsiasi sguardo di tendenza e fruga tra le pieghe di una tecnica antica come la pittura. Pittura tout court, installativa, riconsegnata attraverso la fotografia (come in alcuni scatti astratti e di luce del tedesco Tillmans) o citazione di esperienze anni Settanta (il francese Philippe Parreno che si ispira alle «silenziose» tele di Rauschenberg). L’unica certezza che si può avere prima ancora di visitare la sua mostra alla Biennale, è che Birnbaum odia le mostre «urlate», sembra lontano anni luce dal sensazionalismo e conduce una sua ricerca su un’arte che non teme l’horror vacui, spesso è astratta e abbraccia gli ambienti con strutture architettoniche pensate ad hoc per disorientare lo spettatore ma non per sconvolgerlo. Il curatore ci tiene così tanto a far «vivere» un’esperienza estetica full immersion da affidare il design degli spazi del bar e della ristorazione (nuovi) ad alcuni artisti da lui invitati: Massimo Bartolini, Tobias Rehberger e Rirkrit Tiravanija.
Dall’India alla Cina fino ai paesi nordici passando anche per numerosi artisti italiani come Grazia Toderi, Simone Berti, Lara Favaretto, maestri quali Michelangelo Pistoletto e il brasiliano Cildo Meireles o la nippo-americana Yoko Ono (Leone d’oro alla carriera insieme a John Baldessarri; la giuria internazionale della kermesse sarà presieduta da Angela Vettese) fino all’architetto e urbanista visionario Yona Friedman più che ottuagenario, Birnbaum seguirà la sua particolare costellazione critica, quel susseguirsi di generazioni storiche e più giovani per esplorare non tanto una linea tematica quando il «processo creativo in sé». Non un percorso puntellato da capolavori ma una serie di tappe dal valore esperienziale.
La Biennale numero 53, intanto si espande. Anche nel costo del biglietto che aumenta da 15 a 18 euro. Settantasette i paesi invitati, tra cui per la prima volta insieme Israele e Iran. E alcuni cambiamenti alle strutture che, come sostiene il presidente Paolo Baratta, «potranno dilatare orizzonti futuri e prospettive». Con un costo della macchina espositiva che si aggira sui nove milioni di euro (cataloghi pubblicati da Silvana), cui vanno aggiunte le spese generali e in attesa di un contributo di circa due milioni di euro che i tagli furiosi alla cultura quasi certamente vanificheranno, il fiore all’occhiello dell’edizione 2009 restano soprattutto alcune novità architettoniche e simboliche: una trasformazione dell’edificio ex padiglione Italia in Palazzo delle Esposizioni vero e proprio ai Giardini che verrà dato in concessione dal comune in via continuativa così da permettere una serie di attività permanenti e di allestire una sede per l’Asac, l’archivio documentale e biblioteca che riaprirà dopo dieci anni; un previsto ponticello che agevolerà il tour fra Arsenale e Giardini; e un rinnovato spazio per la creatività «made in Italy». Come lo scorso anno, si affaccerà sul giardino delle Vergini ma potrà contare su quasi 1000 mq in più: il suo «restyling» ha richiesto un investimento complessivo di circa 850mila euro, di cui 600mila provenienti dalla direzione generale del ministero per i beni culturali, la Parc.
Qui potranno mostrare i loro Collaudi – questo il titolo della mostra – i due curatori italiani scelti direttamente dal ministro Sandro Bondi, Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli, già ribattezzati B&B. Sotto l’egida di un omaggio a Marinetti, gli ospiti del padiglione che parteciperanno con opere site specific rappresentano una «truppa» piuttosto folta che vede Sandro Chia («una delle ragioni per cui ho scelto di fare questo mestiere», confessa Luca Beatrice) marciare insieme, fra gli altri, ai Masbedo (loro chiamano in campo anche i Marlene Kuntz mentre Valerio Berruti affida la sua colonna sonora a Paolo Conte), a Matteo Basilè, Sissi, Montesano, Pignatelli, Lodola, Galliano, Cingolani e Sighicelli. Perché il richiamo a Marinetti? «Perché il futurismo è stata l’unica avanguadia europea», chiosa l’altra curatrice del padiglione, Beatrice Buscaroli. Con buona pace dei cugini dadaisti, cubisti e surrealisti, tanto per riportarne alla memoria qualcuno…
Ultimo sguardo sugli altri padiglioni nazionali. Alcuni promettono molto. Dall’America con Bruce Nauman al Messico di Teresa Margolles fino alla Gran Bretagna (Steve McQuenn), passando per Cuba (Carlos Garaicoa) e l’Olanda (Fiona Tan)
di Michele Fumagallo
Partita a metà dicembre la quarta edizione di Intramoenia Extra Art, la manifestazione d’arte che sta attraversando da alcuni anni la terra di Puglia alla valorizzazione dei suoi monumenti. Dopo Castel del Monte, i palazzi e castelli della Daunia, quelli del Salento e di Lecce, è la volta del Castello Svevo di Bari. Qui è installato, in versione pugliese, il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto accoppiato alla scultura sonora Mama di Gianna Nannini, un work in progress che si riempie di contenuti nuovi ad ogni tappa del suo percorso per il mondo (il prossimo appuntamento è a Tallin). E va subito detto che l’innesto pugliese è uno dei più interessanti. Il Terzo Paradiso di Pistoletto è immaginato come un percorso nuovo dopo il primo in cui Adamo ed Eva, cioè il maschile e il femminile, coabitavano al ritmo della natura, e un secondo dominato da un progresso di contrapposizione alla natura che ha reso l’uomo quasi protesi della macchina. Il nuovo paradiso all’orizzonte, immaginato dall’autore della Venere degli stracci, non può che venire fuori dalle rotondità, dagli aspetti convessi, dalla morbidezza del ritorno alle origini dell’uomo. «Il Terzo Paradiso – racconta Michelangelo Pistoletto – è l’accoppiamento fertile tra il primo e il secondo. Nel primo, regolato dalla natura nel periodo che precede il morso della mela, tutto segue i ritmi dell’intelligenza naturale. Nel secondo, prende il sopravvento il Paradiso Artificiale, regolato dall’intelligenza umana dove lo sviluppo sempre più caotico porta verso una catastrofe di cui si annunciano ogni giorno i pericoli. È proprio per evitare questa collisione che bisogna aprire le porte al Terzo paradiso, in cui necessariamente l’intelligenza umana deve trovare un equilibrio con l’intelligenza della natura».
E l’installazione inizia proprio col segno dell’infinito in cui il tempo riprende il suo ritmo naturale ed eterno, sia sottoforma di ombelichi che guardano dalle pareti della Sala Angioina del castello, strisce luminose di metallo in cui occhieggiano serigrafati i simboli del gioco convesso dell’eternità dell’uomo che dalle rotondità, a mò di gravidanza, dei muri a secco della tradizione rurale e sapienziale pugliese. Un elemento locale di innesto in questa operazione che segue anche i progetti in cui Pistoletto ha sintetizzato la sua idea di arte sociale ma anche totale, popolare, che rifiuta i rigidi schemi settoriali in cui viene divisa. E Gianna Nannini fa da contraltare con la foto gigante a pancia e ombelico scoperti, immagine femminile pronta alla nuova avventura del terzo paradiso, accompagnatrice dell’opera con il sottofondo della sua voce struggente, la nenia Mama, sorta di elemento vocale primario, ritmato in tutte le sonorità più ancestrali e infantili.
Ma Pistoletto e la Nannini sono soltanto i primi due testimoni di questa operazione che aspira ad allargarsi in grande stile ovunque. E, infatti, saranno poi i dieci gruppi musicali intervenuti a interagire nella giornata inaugurale (la mostra prosegue fino all’8 marzo), a inserire le proprie sonorità nel solco tracciato dai due protagonisti principali: dall’intervento jazz di Roberto Ottaviano, a quello trasversale di Davide Viterbo, Enzo Veronese, alla trance di Monowatt, alla musica visionaria e cinematografica di Sergio Altamura, all’innesto tra strumenti antichi e moderni del gruppo Kamafei, alle ricerche sonore di Matteo De Ruggeri, Ester Valentini, Gianluca De Robertis. Infine al quartetto femminile delle Faraualla che affinano da ormai tredici anni la loro conoscenza delle varie sonorità.
di Laura Salvinelli
La giovanissima sigaraia ha uno sguardo fiero, quasi arrabbiato. Le operaie muratrici sono troppo intente nel lavoro, mattoni e filo a piombo, per guardare l’obiettivo: vediamo soprattutto le loro mani, decorate con l’henné. Le lavoratrici della ferriera si lasciano andare a un sorriso, visi invecchiati anzitempo. Non così le dai, le levatrici: i loro sguardi rugosi sono seri, quasi scrutatori, straordinariamente intensi. Ritratti in bianco e nero da cui strabocca energia, determinazione, e non è un caso: le donne fotografate da Laura Salvinelli fanno parte di un’esperienza unica al mondo. Esposte a Roma sotto il titolo Indiana, accompagnate da testi di Mariella Gramaglia, quelle foto sono in effetti un reportage su Sewa, o «Self Employed Women’s Association», sindacato di lavoratrici autonome in India.
Esperienza unica davvero, Sewa. Nata dalla tradizione gandhiana (nella città del Mahatma, Ahmedabad, nello stato nord-occidentale indiano del Gujarat) si è sviluppata in modo autonomo a partire dal 1981 come un vero e proprio sindacato di lavoratrici «auto-occupate», cioè senza contratto di lavoro, in quella che in India è spesso definita «economia informale». Sono le venditrici ambulanti, ricamatrici, cuoche, le donne che vanno a raccogliere stracci e materiali da riciclare nelle discariche (eccole nei ritratti di Laura Salvinelli: sacca di plastica sulla spalla, piedi scalzi e visi dignitosi in quella distesa di rifiuti e liquami che la bellezza delle foto rende quasi accettabile, come in certi inferni umani di Joao Salgado). O le sigaraie di bidi, la sigaretta dei poveri: foglie di tabacco raschiate, tagliate e arrotolate da donne pagate a pezzo. Nello slum di Dudhisswar eccole raccolte in gruppo, all’ombra di una veranda: Sewa ha condotto battaglie memorabili perché fossero riconosciute e trattate in modo degno, e oggi a Ahmedabad organizza circa diecimila sigaraie. Ecco poi le donne che arrotolano stoppini, quelle che fabbricano bastoncini di incenso. O quelle che riciclano il metallo, come l’anziana signora che qui vediamo accoccolata come un buddha davanti alla sua incudine. Lavoratrici urbane e rurali – come le fierissime artigiane della tribù dei rabari, madre e figlia, occhi color acqua.
Lavori umili, considerati marginali, ma è proprio contro l’idea di marginalità che si batte Sewa: tutelare e ridare dignità e orgoglio al lavoro delle donne. In questa galleria vediamo hindu e musulmane, come le ragazze che arrotolano le dupatta, lunghe sciarpe increspate in piegoline: nulla nel loro aspetto le distingue dalle giovani hindu, ma la didascalia ci ricorda che oggi a Ahmedabad tra i musulmani domina la paura, dopo che nel febbraio 2002, con la complicità del governo in carica, interi loro quartieri sono stati dati alle fiamme da estremisti del partito ultranazionalista hindu.
Sewa è un sindacato dunque, con oltre un milione di iscritte e una leadership femminile – la fondatrice Ela Bhatt è ritratta qui con il suo sguardo calmo e determinato, e così le più giovani leader che hanno raccolto la sua eredità. Ma è anche un movimento di donne che lavora per l’accesso alla salute, all’istruzione, organizza forme di microcredito e di mutuo soccorso. Ecco perché in questo reportage vediamo le levatrici: come Chanchalma, signora dai capelli bianchi china sul pancione di una paziente sul pavimento di una casa di villaggio. E quelle donne dallo sguardo attento, speranzoso, con matita e quaderno durante una lezione serale: la Academy è un aspetto importante dell’attività di Sewa, e insieme all’alfabetizzazione ci sono corsi di formazione politica, di educazione alla salute, di recupero scolastico, di formazione all’informatica e ai media elettronici.
Il reportage fotografico di Laura Salvinelli fa parte di un progetto comune: l’esperienza di Sewa è ampiamente riportata nel libro di Mariella Gramaglia Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo (Donzelli, 2008), basato sull’esperienza di collaborazione con Sewa nell’ambito di un progetto coordinato dalla Cgil. Foto di Salvinelli illustrano il libro, testi di Gramaglia accompagnano la mostra (al Palazzo Incontro, via dei Prefetti 22, fino al 18 gennaio).
Sarà tra le pochissime donne ad avere una personale al Moma di New York. E, mentre apre un centro per insegnare la performance, l’artista parla del dolore: nei suoi lavori, nella sua infanzia severissima, nel suo amore in crisi. Solo l’ultimo atto sarà pieno di humour…
di Antonella Barina
I suoi 62 anni sono invisibili: è ancora bella e un torrente in piena. Eppure Marina Abramovic sta progettando il suo funerale. Perché, se uno ha sempre voluto tenere in pugno la propria vita, non sopporta che altri prendano il controllo della sua morte. E le sue disposizioni sono singolari: tre cerimonie contemporanee in tre città – la Belgrado dei suoi esordi, l’Amsterdam del suo successo, la New York della consacrazione – tre orchestre, tre cortei, tre bare, tre sepolture. Ma niente lacrime né canti funebri o colori a lutto: solo rossi, verdi, toni sgargianti e humor, sulle note di My Way (A modo mio) di Sinatra.
Tanto Marina Abramovic ha sempre fatto a modo suo, da quando fu tra i pionieri della performance come arte visiva, negli Anni 70, fino a diventare la più celebre performer internazionale. In una sfida implacabile con se stessa, per esplorare i limiti del corpo e della mente, senza mai risparmiarsi dolore, stanchezza, pericolo. Come quando urlò fino a perdere la voce o mangiò cipolle fino a non aver più lacrime o si frustò fino a non sentire le stilettate. Come quando mise a disposizione del pubblico 72 oggetti – rose e piume, ma anche coltelli e una pistola carica – da usare su di lei a piacimento, per sei ore ininterrotte: una foto la ritae sconvolta, spogliata, ferita, violata nella sua dignità. O quando si sdraiò in una stella a cinque punte (simbolo del comunismo delle sue origini jugoslave), cui aveva dato fuoco, e quasi morì per mancanza d’ossigeno. Oppure rimase sei giorni seduta su una montagna di ossa putride, pulendole una per una, come per lavar via le atrocità delle guerre nei suoi Balcani. E così vinse il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del ’97.
Ora esce in Italia una monografia inglese della Phaidon Press, Marina Abramovic, retrospettiva degli ultimi anni di attività dell’artista, con splendide fotografie. E lei è protagonista di due filmati, uno di Babette Mangoste, uno di Chiara Clemente, proiettati a Firenze nella rassegna Lo schermo dell’arte, curata da Silvia Lucchesi.
Non solo: Marina, che in questi giorni è in Germania per fare conferenze, ha in corso mostre in Giappone, Brasile, Svizzera. E in Messico, dove espone video-installazioni realizzate in Laos, in cui denuncia l’inferno dei bambini soldato.
Ancora più impegnativi, i progetti per il futuro: nel 2011 porterà in scena la sua biografia, funerale compreso (che sia ben chiaro come dovrà essere anche nella realtà), firmando insieme a Bob Wilson – genio del teatro – Vita e morte di Marina Abramovic. E nel 2010 il Moma di New York le dedicherà una retrospettiva senza precedenti: non solo giovani artisti a riproporre alcuni suoi pezzi storici, ma lei stessa in azione tutti i giorni per tre mesi, sette ore al giorno e mezzo al giorno. Un tour de force mai visto. “Le performance richiedono un’energia sterminata e, invecchiando, il corpo è in difficoltà” spiega Marina, gli occhi neri che ti uncinano: “Eppure le mie azioni diventano sempre più lunghe e difficili con il passare degli anni. Perché con la forza della mente si può fare qualunque cosa: non serve un allenamento olimpionico, ma volontà e disciplina”.
Donna tosta, l’Abramovic, tostissima, che dando a ogni suo gesto una forza simbolica perduta, è riuscita a trasformare se stessa in opera d’arte. E, man mano che i performer della sua generazione abbandonavano una forma artistica che ormai pareva obsoleta, lei continuava caparbia a vagliarne le possibilità. Facendosi strada dalle cantine della Belgrado studentesca, negli anni 70, fino alle sale dei principali musei del mondo. “Ho atteso questa consacrazione tutta la vita” ride. “Dodici anni solo per riuscire a portare al Guggenheim nel 2005 Seven Easy pieces, rielaborazione delle performance di grandi artisti come Joseph Beuys, Gina Pane, Vito Acconci. Il successo è stato tale che mi ha chiamato il Moma”.
E ora l’ultimo passo, “l’idea che mi sopravviverà dopo la morte” (parole sue). L’artista ha acquistato un teatro degli anni Trenta a Hudson (due ore da Manhattan), per creare il Marina Abramovic Institute, una fondazione non profit che, in duemila metri quadri di auditorium, aule, archivi, si impegnerà a preservare e insegnare arte della performance. “Aprirà nel 2012: commissionerò azioni a grandi artisti come Mattew Barney e farò scuola ad aspiranti performer”. Cosa insegna l’Abramovic ai suoi alunni? “A sviluppare l’autocontrollo, a diventar coriacei: li porto in campagna quando nevica o si muore dal caldo, imponendo giorni di digiuno e silenzio, mentre si eseguono esercizi durissimi”.
E’ vestita di nero, ha un corpo forte, i lineamenti marcati, uno spiccato accento slavo con cui parla un inglese velocissimo. Sa essere inquietante, ma se ne rende conto: “Non è sadomasochismo il mio. ho sempre usato il dolore come un ostacolo necessario da superare”. Per liberarsi della paura. E anch’io nelle performance mi sottopongo ad agonie e pericoli che non affronterei nella vita reale. Perché è dal pubblico che traggo energia, invitandolo a rispecchiarsi nel mio dolore e vincerlo con me”.
Vuol dire che ha paura prima di esibirsi? “Sono terrorizzata. Come di fronte a tutti gli imprevisti della vita. ho avuto attacchi d’ansia per sei mesi prima dell’azione al Guggenheim. Ma che senso di potenza a prova superata. Peccato che quella sensazione di vittoria duri poco e presto senta il bisogno di sfidare di nuovo me stessa”.
Così intrepida in pubblico, Marina trema in privato. Come accadeva quando sua madre, granitico ufficiale dell’esercito di Tito e notabile del Partito comunista, che si vantava di non aver mai pianto in vita sua, le infliggeva una disciplina marziale. O quando suo padre, acclamato eroe di guerra, le insegnava a vivere in modo leggendario (salvo poi abbandonare tutto e tutti per farsi una nuova famiglia). O quando Marina incontrò Ullay, che dal ’76 all’88 fu il suo alter ego nell’arte e nella vita: una sfida dopo l’altra. Cinque anni a vivere in automobile, poveri in canna, e far performance: lei si incide la stella rossa sul ventre con una lametta; lui tende l’arco e le punta una freccia al cuore; l’un l’altro si schiaffeggiano, si urtano, si soffocano fino allo sfinimento. Ci vogliono otto anni per avere da Pechino il permesso di percorrere a piedi la muraglia cinese, partendo dalle due estremità. E intanto il loro rapporto si logora: quando infine si mettono in viaggio, 2500 chilometri in 90 giorni, e si incontrano a metà, è per dirsi addio per sempre.
“Ullay si era innamorato di un’altra donna: ero gelosa, lo odiavo, volevo ucciderlo. Ma non fu mai doloroso come è oggi la separazione da Paolo”. L’artista italiano Paolo Canevari, sposato due anni fa, dopo dieci di convivenza. La voce di Marina si spezza: “In questo caso è tutta colpa mia. So essere faticosissima da sopportare: Paolo mi chiama Duracell, perché non esaurisco mai le mie energie. Ho distrutto il nostro rapporto facendo troppo e sono disperata”. Gli occhi le si riempono di pianto: lacrime che neanche frustarsi a sangue le ha provocato.
Eppure il bisogno di sfidare all’infinito i propri limiti è inesorabile. Mai pensato di smettere? “Lo farò quando non proverò più quello stato d’ansia che mi spinge a impormi la severità di mia madre e l’eroismo di mio padre”.
di Assia Baudi di Selve
La chiamavano Pipilotti come la protagonista del romanzo di Astrid Lindgren, quella ragazzina indipendente e sognatrice con le trecce arancioni.
Elisabeth Charlotte Rist era lei: libera. Oggi ha 46 anni e, da quando con Ever Is Over All ha vinto al Biennale di Venezia del 1997, è una regina della video arte. Io donna l’ha incontrata per scoprire cos’è, se esiste, la perfezione, vist da un’artista che ama la scienza e crede “siamo Uno, anche senza Dio”.
L’occasione è la sua consacrazione al Moma, dove sta preparando quella che si annuncia come la più monumentale installazione realizzata per il tempio dell’arte newyorkese: Pour Your Body Out ( 7.354 Cubic Meters), un video inedito che sarà proiettato dal 19 novembre al 2 febbraio 2009 su schermi giganteschi, superficie totale otto metri per sessantuno. Un evento che rappresenta l’ultima tappa di un viaggio con destinazione l’infinito. Da sempre il mondo di immagini per Pipilotti sconfina, oltre i limiti dell’ occhio, su schermi che sembrano immensi quanto il cielo, da guardare sdraiati, come nella chiesa barocca di San Stae per la Biennale di Venezia nel 2005 , dove ha presentato Homo Sapiens Sapiens, un Giardino dell’Eden senza senso di colpa. Nel video Pickelporo entra nel respiro, tra i peli e i pori della pelle restituendole le sue imperfezioni. «Siamo strutture caotiche». Entra perfino nel suono, che sembra fatto di stelle, nell’ opera presentata per i trent’anni del Beaubourg di Parigi. E su schermi giganteschi e speculari, crea caleidoscopi, con immagini che si sdoppiano, si fondono e cambiano, perché nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma, come nel più bello dei suoi video Sip My Ocean, sensuale come il suo titolo.
Per la copertina di lo donna Pipilotti ha scelto un’uniforme: stoffa da tovaglie a scacchi rossi che ha fatto cucire come la divisa di un soldato del Kerala. Colleziona uniformi di ogni tipo e ogni parte del mondo. E si veste sempre con sotto e sopra che combaciano: «Per tenere la parte superiore del mio corpo attaccata a quella sotto». Sedute sulla moquette di casa sua, dopo un take
away asiatico, si chiacchiera oltre la mezzanotte. Se si dovesse descrivere chi è Pipilotti Rist attraverso uno solo dei suoi video, sarebbe Ever 1s Over All, ora nella collezione permanente del Moma: una donna che rompe i vetri delle macchine con un fiore. Nell’ arte come nella vita lei rompe le convenzioni, con una poetica che si ispira alla natura, dove anche la convenzione originaria, il tempo, viene rimessa in discussione: «Nelle cellule, la più piccola particella esistente può trovarsi allo stesso tempo, nello stesso identico momento, in due punti diversi della sua orbita». Vuole entrare dentro le cose, è per questo che ama la scienza. Vuole vedere sotto la pelle, «dove c’è il sangue che scorre». Dice che le capita di non guardarsi allo specchio per giorni. Non sa perché. Ma ascoltandola parlare, cosÌ presente in quello che dice, sembra di capire che le capiti perché vive cosÌ dentro alle cose da dimenticarsi di sé. Per guardarsi allo specchio è necessaria una distanza tra sé e il mondo, lei invece quella distanza l’azzera. Sarà che è completamente miope. Vede tutto da vicinissimo, niente da lontano. E quando racconta che tutto, colori, forme e suoni, sono «onde elettromagnetiche che hanno ciascuna la propria vibrazione e velocità», muovendo le mani piccole e delicate, sembra quasi che lei quelle onde invisibili le riesca a vedere. Nel 2010 sarà pronto il suo primo film per il cinema: Pepperminta. La storia di una bambina che si chiama come un altro personaggio di Astrid Lindgren, che custodisce un occhio della nonna in una mela d’argento, raccoglie il proprio sangue in un calice e ha il compito di libe rare il mondo dalle paure, trovando il colore perfetto. È la regista e la sceneggiatrice del film, e con l’esperienza di chi per sei anni, dal 1988, ha fatto parte del gruppo musicale Les Reines Prochaines, ha composto anche la musica, assieme ad Anders Guggisberg. Quando canta ha una voce alta e chiara, quando parla quasi sussurra.
Racconta che vive in una casa lontana dal centro di Zurigo, con un giardino quasi sempre ricoperto di neve. Una grande casa, dove vivono quattro famiglie di amici, con le porte sempre aperte. All’improvviso qualcuno spalanca la porta, qui a New York, entrano due specie di Elvis in tuta bianca. Pipilotti ride, si alza divertita: «Ecco il mio team». Lui la affianca nel montaggio, lei è la sua assistente. Va in camera da letto e ricompare con due vestiti: «Scegline uno, andiamo a una festa: è la notte di Halloween!». Prendo una tuta verde da operaio che ha comprato a Marugame, in Giappone. Mi presta anche un passamontagna. Lei infila un completo arancione, si copre la testa con un foulard di seta con simboli comunisti ma bellissimo di Fabric Frontline, un paio di occhiali da sole e siamo pronte. Partiamo all’ attacco dello storico Chelsea Hotel, dove sul terrazzo incontriamo uno dei curatori del Moma, Klaus Biesenbach, in mutande da femmina e giacca da calciatore americano. Pipilotti, anzi Pipi, parla del figlio di sette anni, Himalaya Yugi. Poi si distrae un attimo, guarda New York dall’ alto e commenta: “Bellissima”. Poi guarda meglio: “Sembra Chicago”. E scoppia a ridere. “Quando mostro a Yugi la sua piccola macchina giocattolo, lui alza la gamba e cerca di entrarci dentro. I bambini non conoscono le dimensioni e le distanze. Solo quando cresci impari che certe cose non sono possibili. Altrimenti, diventi un artista» .
di Valeria Ronzati
Erano donne, potenti, erano straniere. Caterina e Maria de’ Medici vissero da protagoniste una delle epoche più travagliate e sanguinose della storia di Francia. A loro, fiorentine sul trono transalpino, dedica una mostra la Fondazione Palazzo Strozzi. «Caterina e Maria de’ Medici donne al potere» ha come fulcro simbolico un’imponente (quasi cinque metri di altezza cadauno) serie di quindici arazzi che celebrano il mito di Artemisia. Una simbologia ideata per Caterina (il progetto fu proposto a lei, vedova di Enrico II, e reggente di Francia) e fatta realizzare da Enrico IV alla fine delle guerre di religione per la moglie Maria de’ Medici, sposata per procura a Firenze nel 1600 dopo l’annullamento del matrimonio con la prima moglie, Margherita di Valois (la reine Margot), figlia di Caterina. Senza prevedere che anche lui sarebbe prematuramente morto, lasciando Maria reggente nel 1610. Così l’iconografia del ciclo di arazzi muta ancora in corso d’opera.
Attraverso un allestimento evocativo delle cupezze e della fascinazione esoterica di quel periodo, i monumentali arazzi emergono dall’ombra, sontuosi nella loro opulenza di un’antichità ridondante, quasi archeologica, certamente celebrativa, accompagnati dall’esposizione di dipinti e manufatti, a cominciare dai due quadri di Jacopo da Empoli che nel 1600 immortalano le nozze di Caterina con Enrico di Valois, avvenute nel 1533, quando entrambi gli sposi erano quattordicenni, e quelle, a cui le prime fungono iconograficamente da illustre prologo, del matrimonio per procura, proprio allo svoltare del secolo, di Maria con Enrico IV. A conclusione del percorso espositivo, una sezione è dedicata a «La restituzione di Artemisia al mito». Otto dipinti di artisti italiani del sec. XVII illustrano uno dei momenti più intimi e drammatici del mito di Artemisia, quello in cui la regina dell’antichità beve la coppa con le ceneri del marito Mausoleo.
Delle due Medici, una grande Caterina è in via di rivalutazione dagli storici, vittima di una vulgata che la dipingeva fosca avvelenatrice, sanguinaria mandante della strage degli ugonotti (1572), nella Notte di San Bartolomeo. Lei che invece mirava ad un cristianesimo superiore, illudendosi su una possibile fusione fra scismatici protestanti e cattolici. Divenuta regina nel 1547, quando il marito (causa serie di lutti lungo l’asse ereditario) sale sorprendentemente sul trono di Francia nel 1547 col nome di Enrico II, sarà reggente dal 1560. Enrico II era morto in un torneo nel 1559, il figlio Francesco II, marito di Maria Stuarda, l’anno dopo. Carlo IX ha solo 10 anni, Caterina è nominata reggente e guiderà la Francia per tre decenni, attraverso la sottomissione devota dei figli. Sognando una pacificazione, ma dovendo affrontare ben tre guerre di religione. Circondata fin da subito da una corte piena di nemici, come aveva già sperimentato nella corte fiorentina della sua infanzia. Da cui porta in Francia l’universo intellettuale rinascimentale, la cultura del neoplatonesimo ermetico di Marsilio Ficino e della cabala cristiana di Pico della Mirandola. In mostra anche il suo talismano, un bronzetto conservato presso la Biblioteca nazionale di Parigi, testimone, fra l’altro, dei suoi rapporti con Nostradamus. Oltre a dipinti, documenti e manufatti preziosi, compresa la cosiddetta, splendida, «Coppa di Diana di Poiters», celebre favorita di Enrico II e grande rivale di Caterina.
Diversa la figura e la vicenda storica di Maria, sposa di Enrico IV di Navarra, quello di «Parigi val bene una messa», salito al trono di Francia all’estinguersi della dinastia dei Valois. Nel 1610 Enrico viene ucciso da un fanatico, il primogenito Luigi XIII ha solo nove anni, la madre Maria de’ Medici è reggente. Continuando a governare anche dopo la piena sovranità di Luigi, che la esautorerà definitivamente nel 1617. Dal ’19 divampa la Guerra dei trent’anni. Maria l’anno successivo scatena la prima di una serie di guerre contro suo figlio. Intanto aveva nominato capo del suo consiglio un tale Richelieu. Grande protettrice delle arti, fu amica personale di Rubens, da cui si rifugiò nei suoi ultimi pellegrinaggi da esule e che aveva dipinto per la regina un ciclo di 24 capolavori illustranti la sua vita, conservati al Louvre. Il 1642 è l’anno che chiude un’epoca, con la morte a Colonia di Maria, e quella, pochi mesi dopo, di Richelieu, mentre l’anno successivo verrà a mancare anche Luigi XIII. Sale sul trono di Francia Luigi XIV, il “Re sole”; inizia un’altra storia.
Caterina e Maria de’ Medici, donne al potere.
Firenze celebra il mito di due regine di Francia
Firenze, Palazzo Strozzi, 24 ottobre 2008-8 febbraio 2009
Riscoperta negli anni ’90 dopo un lungo oblio, l’opera dell’artista francese è ora al centro, in Italia e fuori, di un nuovo lavoro di scavo. Che tenta di ricostruire il senso più profondo di un progetto radicale, indifferente all’ordine di qualsiasi classificazione.
di Antonello Frongia
Di cosa parliamo quando parliamo di Claude Cahun? Fotografa surrealista negli anni ’20 e ’30, riscoperta da Rosalind Krauss e Jane Livingston nell’importante mostra del 1985 L’amour fou. Photography and Surrealism , ha cominciato a essere studiata a fondo all’inizio degli anni ’90, grazie al lavoro di scavo del poeta e storico francese François Leperlier, che ne ha ricostruito le vicende artistiche e biografiche. Da allora Cahun è divenuta un caso dibattuto nella storiografia femminista e nei gender studies , soprattutto in riferimento a quello che appare il tema dominante della sua ricerca: l’autoritratto en travesti come messinscena performativa del corpo, della propria caleidoscopica identità, del limite incerto tra vita e arte. Oggi le sue fotografie fanno parte delle maggiori collezioni museali e sono oggetto di una messe di libri e dissertazioni. E il suo personaggio androgino, con i capelli corti che contraddicono i grandi occhi malinconicamente infantili, è divenuto addirittura un modello per i giovani artisti. Questo slittamento interpretativo – che dal surrealismo ha portato Cahun nell’attualità del gender-bender – è ora utilmente tracciato da Clara Carpanini in Vedermi alla terza persona. La fotografia di Claude Cahun (Editrice Quinlan), il primo studio in italiano interamente dedicato all’artista francese, che fa seguito al recente inquadramento proposto da Federica Muzzarelli nel volume Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra Otto e Novecento (Atlante 2007).
Provocatorie incertezze
Uno dei pregi di Vedermi alla terza persona è quello di suggerire un percorso di lettura dell’opera fotografica di Cahun – dalla new woman degli anni ’20 al Surrealismo negli anni ’30 – senza tentare di costruire un quadro interpretativo totalizzante. Se, come ha scritto Camille Paglia in Sexual Personae , «tutta l’arte, in quanto culto dell’oggetto nella sua autonomia, è una fuga dalla liquidità», il problema posto dall’opera di Cahun è proprio quello di un’arte radicale che rimane indifferente all’ordine (maschile) delle classificazioni. Forse non è un caso che in alcune fotografie conservate nel suo archivio, che documentano una riunione surrealista del ’36, un riquadro a matita sia intervenuto a escludere l’artista dalla rappresentazione ufficiale del consesso, nella quale spicca la figura iconica di Breton. La sostanziale estraneità di Cahun rispetto ai guerreschi schieramenti delle avanguardie si misura a partire dalla sua vicenda biografica. Nata Lucy Schwob nel 1894 a Nantes da una famiglia di intellettuali – lo zio era lo scrittore simbolista Marcel Schwob, amico di Gide, Verlaine, Oscar Wilde e Alfred Jarry, che gli dedicò Ubu Roi – Cahun studiò a Oxford e alla Sorbonne, iniziando giovanissima a occuparsi di letteratura e politica e dando forma, attraverso lo pseudonimo, a un alter ego ambivalente e androgino. A Parigi, dove si trasferì all’inizio degli anni ’20 con la compagna, sorellastra e artista Suzanne Malherbe ( alias Marcel Moore), Cahun prese parte alle controversie artistiche del movimento surrealista. Inizialmente vicina all’Association des écrivains et artistes révolutionnaires, fondata dal Partito Comunista, nel ’34 pubblicò Les paris sont ouverts , un polemico pamphlet trotzkista contro la politica culturale del Partito e la «letteratura proletaria» di Louis Aragon, e si unì nel 1935-36 al gruppo Contre-attaque di Bataille e Breton. Nel ’38, fra i timori per il clima antiebraico instauratosi a Parigi, Claude Cahun e Marcel Moore si trasferirono in una proprietà di famiglia sull’isola inglese di Jersey, nel Canale della Manica. Sotto l’occupazione tedesca, dal ’40 al ’45, Schwob e Malherbe furono al centro della resistenza clandestina, diffondendo fogli antinazisti e dando asilo a un prigioniero ucraino fuggito dai campi di lavoro. Arrestate nel ’44, furono condannate a morte, e in prigionia, in nome di un patto condiviso, tentarono il suicidio. In seguito la sentenza venne sospesa e alla fine del conflitto furono liberate. Continuarono a vivere sull’isola, nella casa restituita dopo la confisca e il saccheggio dei nazisti. Claude Cahun morì nel 1954 in uno stato di debolezza fisica e psichica, circondata dal silenzio; Malherbe nel 1972, dopo aver tentato invano di donare alla Bibliothèque Nationale l’archivio personale della sua compagna. In realtà lo sfondo biografico dell’avventurosa vita di Claude Cahun funziona come i teli stesi in molti suoi autoritratti, che contribuiscono a definire un provvisorio campo d’azione e a inquadrare la fisionomia del personaggio, ma non occupano mai completamente l’immagine. Una delle sfide poste dall’opera di Cahun è proprio la provocatoria incertezza che introduce tra il mondo della vita e quello della rappresentazione. Benché per trent’anni Cahun abbia lavorato insistentemente sulla messinscena teatrale e sulla moltiplicazione delle sue personae , di rado ha reso pubbliche le sue immagini in mostre o pubblicazioni. Nel ’30 un suo autoritratto apparve sulla rivista Bifur , mentre dieci fotomontaggi firmati «Claude Cahun e Marcel Moore» apparvero a corredo di Aveux non avenus , una sorta di antiromanzo della stessa Cahun con una introduzione di Pierre Mac Orlan. Nel ’36 l’artista partecipò con alcune sculture alla Exposition surréaliste d’objets alla galleria Charles Ratton (per la quale Breton la incaricò di scrivere il testo critico). Nel 1937 apparve la sua ultima pubblicazione prima dell’esilio da Parigi: una serie di fotomontaggi a corredo di Le Coeur de Pic , un libro di poesie di Lise Deharmes. L’archivio fotografico di Cahun, praticamente inedito, riemerse fortunosamente solo negli anni ’70, quando un appassionato di surrealismo, John Wakeham, acquistò a un’asta, per poco più di venti sterline, due lotti di fotografie, lettere, libri (con dediche di Breton e Aragon) e un disegno di Michaux.
Un accordo messo in dubbio
Come per Eugène Atget, che in vita accumulò migliaia di fotografie senza pubblicare quasi nulla, anche per Cahun il problema è oggi ricostruire il senso più profondo di un’opera liquida, fatta di indistinzioni e di travasi, che rifiuta di identificarsi nella forma chiusa del singolo oggetto fotografico o nelle parole-chiave delle avanguardie storiche. In questo senso, molto lavoro resta da compiere perché il corpus completo delle ricerche di Cahun possa essere considerato nella complessità che compete a un progetto di vita. Tra i materiali conservati nel Jersey Archive compaiono non solo gli autoritratti, ma anche una quantità di soggetti meno attuali: fiori, paesaggi, composizioni di oggetti e scene di vita quotidiana, come quella di Cahun che conduce al guinzaglio il suo gatto. Dubbi, inoltre, permangono rispetto a una parte dell’archivio, censurato e distrutto dai nazisti al momento del suo arresto.
Ancora controverso, peraltro, rimane il ruolo intellettuale avuto da Suzanne Malherbe/Marcel Moore, che di molte fotografie è l’autrice materiale. Tutti questi elementi contribuiscono a tenere aperta la riflessione su una artista che la critica contemporanea ha spesso teso ad attualizzare entro la contrapposizione tra arte modernista e postmoderna. La riscoperta di Cahun ha coinciso negli anni ’90 con quella di Lady Clementina Hawarden e di Virginia Oldoini (la Contessa di Castiglione), fotografe «private» che come Cindy Sherman, attraverso l’insistente messinscena del (proprio) corpo femminile, hanno minato alla base due stipulazioni consolidate dell’approccio classico: l’autonomia formale del soggetto fotografico e il gentlemen’s agreement che lega l’autore e lo spettatore. Ma forse, al di là delle dispute teoriche, in Cahun c’è stata più consapevole malinconia che militante avanguardia: la sua insistente ripetizione dell’io disegna in sbalzo il riconoscimento del non-io, la ricerca di una soggettività al di là di quelle che lei chiamava «le maschere perfette».
di Stefania Ragusa
Dura 14 minuti ed è un concentrato di sorprese, scossoni, poesia. Parliamo di Enraged by a picture il cortometraggio in cui Zanele Muholi, fotografa sudafricana emergente, racconta le reazioni della gente davanti agli scatti che componevano la sua prima personale. Era il 2004, e alla Johannesburg Art Gallery Zanele portava Visual Sexsuality: only half the picture, una mostra che raccontava senza filtri e pruderie la quotidianità delle lesbiche sudafricane, una relatà fatta di tenerezza, ma anche (come è naturale) di sesso, corpo, dolore, piacere. In Sudafrica non si era mai visto niente di simile.
La Costituzione sudafricana è una delle più avanzate e progressiste del mondo (stabilisce l’assoluta uguaglianza tra i cittadini a prescindere dall’orientamento sessuale, il colore della pelle, o l’appartenenza religiosa: il Sudafrica è il primo e unico stato africano ad aver autorizzato i matrimoni gay) ma la mentalità dominante ha un passo completamente diverso. Molti, tra il pubblico, reagirono con un’irritazione e disagio. Alcuni liquidarono le immagini come provocatorie espressioni d’arte, decidendo di ignorare la natura reportagista e di denuncia. Colpita da queste risposte Zanele decise di raccontarle in un documentario. Enraged by a picture (infuriati da un’immagine) ha girato dal 2005 a ora, diversi festival. Tra il 19 e il 22 giungo di quest’anno tornerà ad essere visibile a Cincinnati, alla conferenza annuale della National Women’s Studioes Association, appuntamento importante per il femminismo made in Usa.
Zanele è un’artista e un’attivista lesbica. Ha incominciato a fotografare professionalmente nel 2000, concentrandosi sulla sua comunità. “Era arrivata l’ora di autorappresentarci. Eravamo tante ma quasi invisibili. Non volevo che a parlare di noi fossero gli altri. Bisognava fare qualcosa prima che fosse tardi”. Recentemente alcune sue immagini (selezionate, va detto, fra le più soft) sono state esposte al Palazzo delle Papesse di Siena, in occasione della collettiva .Za, giovane arte del Sudafrica. A “raccomandarla” (la selazione dei giovani artisti era stata affidata a cinque curatori-artisti sudafricani) è stata Sue Williamson che ha apprezzato il contributo di Zanele “alla stesura di una storia dell’omessessualità in Africa più democratica e rappresentativa”, la sua volontà ” di rendere pubblica l’immagine della comunità lesbica di colore, che è non solo avversata dal pregiudizio ma anche minacciata fisicamente da uomini che nelle lesbiche vedono un ostacolo alla loro mascolinità”. Minacciata fisicamente, nel caso specifico, vuol dire esposta ai “correptive rape” gli strupri rieducativi, che a volte culminano con l’uccisione della vittitma. Non esiste un conteggio ufficiale per sapere quanti siano. In Sudafrica, però, secondo le statistiche, ci sono in media due stupri al minuto, oltre 180 all’ora. Almeno uno su dieci dovrebbe rientrare nella categoria “correptive rape”. Un recente rapporto della Commissione Sudafricana per i Diritti Umani ha evidenziato che la violenza contro le lesbiche è estremamente diffusa anche nelle scuole, tra adolescenti. “la stigmatizzazione delle lesbiche di colore, nella maggior parte dei casi, nasce dal fatto che l’omosessualità viene percepita come un fenomeno non Africano”, spiega Zanele.
“Che una donna abbia tanti bambini e procrei accanto a un uomo cui spetta il ruolo di capofamiglia è considerato parte della nostra tradizione. Dal momento che non ci con formiamo a questo modello, veniamo percepite come identità deviate, che necessitano di un abuso sessuale di tipo curativo per tornare sulla buona strada e convertirci in donne vere: femmini, madri, mogli”.
Il paradosso è che la maggior parte degli stupratori ritiene di star agendo per il bene delle donne deviate e della società. Come dimostra, per esempio, la vicenda recente della 18enne Linda Masondo, che vive in una townschip (Nispruit) nella provincia di Mpumalamga. I fatti risalgono allo scroso 23 febbraio. Erano all’incirca le tre di notte e Linda, 18 anni, stava dormendo nella sua casa. Viene svegliata da alcune voci dall’esterno, voci maschili che gridano il suo nome. Linda intuisce che cosa sta accadendo, ma non fa in tempo a chiedere aiuto. La porta si apre e nella stanza irrompono due uomini: uno si allontana quasi subito, l’altro, armato di coltello, le ordina di vestirsi e seguirlo. La trascina sino ad un corso d’acqua poco distante e le spiega che è venuto a farle capire che lei non è il maschio che crede di essere, quindi la violenta, la violenta e la violenta ancora. Lei grida ma nessuno sente o vuole sentire. A stupro concluso, l’uomo la invita a seguirlo a casa sua: per darle degli abiti femminili (più adatti al suo nuovo stato). Linda non accetta la generosa profferta. Torna alla townschip. Chiama una zia, le spiega cosa è accaduto e si fa accompagnare in un ospedale, dove riceve assistenza fisica e psicologica e le viene data la pillola del giorno dopo. Quindi si rivolge a un’associazione di sostegno alle donne vittime di violenza e denuncia l’accaduto.
La polizia avrebbe già individuato il maggior responsabile dello stupro e del suo complice. La vicenda di Linda è esemplare, ma, al tempo stesso, eccezionale. Perchè è stata seguita da una denuncia e da un’indagine che dovrebbe portare al processo (mentre scriviamo c’è già stata la prima udienza). Altre donne, nelle sue condizioni, avrebbero taciuto: per vergogna, solitudine, sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine. Se questo non è accaduto, il merito va in parte alle associazioni che si stanno battendo per supportare le vittime e cambiare la mentalità.
Zanele fa parte del Forum for the Empowerment of Women, un’organizzazione che negli ultimi anni ha lanciato diverse campagne. La principale è, probabilmente, Rosa Has Thorns (le rose hanno spine) del 2003 e si rivolge espressamente alle donne della township. “Essere lesbiche in Sudafrica è sempre pericoloso, ma ovviamente lo è molto di più se sei povera, poco istruita e non hai una famiglia o una rete amicale su cui contare. I principali nemici di molte lesbiche sono spesso le donne delle loro stesse famiglie.
Zanele Muholi è impiegata in un master in Documentary Media Studies alla Ryerson University di Toronto. Finirà nel 2009 e conta di rientrare nel Sudafrica e continuare la sua mappatura di vite queer. Lesbiche ma non solo. Tra i suoi lavori più recenti e più apprezzati c’è la serie di immagini dedicata alla camaleontica drag queen Miss D’vine.
di Assia Baudi di Selve
Nel giorno del suo funerale nessuno potrà vestirsi di nero. Ci saranno tre cerimonie che si svolgeranno contemporaneamente a Belgrado, Amsterdam e New York. E se qualcuno sarà tentato di commuoversi, sulle note di My Way di Frank Sinatra, dovrà trattenersi. Sissignore, niente lacrime. E’ una richiesta che ha l’arroganza di un ordine, accettabile solo perché a farla è lei, una che gli ordini li ha dati per tutta la vita prima di tutto a se stessa. Marina Abramovic ha ordinato a Marina Abromovic di gettarsi tra le fiamme e rimanerci sino a soffocare, di ballare al ritmo di tamburo fino allo svenimento, di incidersi una stella a cinque punte sulla pancia e sanguinare, le ha ordinato di rimanere per dieci ore al giorno su una montagna di ossa bovine sporche di residui di carne e sangue, per pulirle una alla volta, e guadagnarsi il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1977. Marina Abramovic ha ordinato a Marina Abramovic di resistere per dodici giorni e dodici notti nella galleria Sean Kelly di New York nel 2002, senza mangiare, con gli occhi fissi in quelli del pubblico, affinché ognuno potesse vedere riflessa in lei la propria vulnerabilità, ma anche la propria capacità di resistenza. Le ha ordinato di pensare sempre alla situazione più pericolosa e realizzarla. Durante le sue performance ha spesso rischiato la vita. E dopo trentacinque anni di arte estrema è ancora qui. Il titolo della sua retrospettiva prevista al Moma nel 2010 parla chiaro: The Marina Abramovic foundation for preservation o: The artist in present. E lo sarà anche dopo: Perché se ha già deciso tutto del suo funerale, ha già deciso anche quel che lascerà in eredità f performance art.
Quasi duemila metri quadrati in ristrutturazione a Hudston, a due ore da Manhattan, che saranno pronti nel 2010 dopo la mostra del Moma. Io donna è andata a trovarla a New York, per farsi raccontare in anteprima “il progetto della sua vita”. E scoprire quale è, se esiste, il confine trea coraggio e follia.
Quando arrivo all’appuntamento, la trovo in piedi, davanti Al computer. Gira la testa, mi saluta e guarda l’orologio. <<Sei in anticipo>>. Sì. Di cinque minuti. Il suo Ufficio di Mildtown è un oper space grane quanto basta per due scrivanie, due computer bianchi ultrasottili, un tavolo da riunioni. Luminoso, ordinatissimo. Lei è vestita di nero, con ballerine a scacchi, capelli corvino, sessantuno anni invisibili sulla pelle bianca. Ha il corpo forte, i tratti marcati, e un’inaspettata morbidezza nei gesti e nella voce. Quando le chiedo di raccontarmi la sua storia dall’inizio e spiegarmi come l’essere cresciuta nella Belgrado socialista abbia determinato la sua vita e il suo lavoro, indica il ritratto di Tito alle sue spalle.
E parla del padre: <<Un Eroe>>. Un ero della resistenza che ha combattuto contro i tedeschi quando la Serbia era diventata un satellite della Germania nazista. <<Da lui ho imparato che puoi realizzare qualunque cosa: E mi ha trasmesso l’idea che la vita che la vita va vissuta in modo leggendario. Da mia madre invece, ho imparato la disciplina: se devi fare una cosa la fai, anche a costo del dolore fisico>> . Ha gli occhi concentrati, con qualche traccia di sofferenza sul fondo. Le chiedo se le piacerebbe essere definita un’artista soldato. Risponde di no, abbassa lo sguardo e quando sembra che stia pensando ad altro corregge: <<Sono un’artista guerriero>>.
Oggi l’artista guerriero marcia in fretta, come si marcia in fretta a New York. La sua missione è quella di trovare 10 milioni di dollari per portare a termine il suo progetto entro settembre del 2010, determinata ad adempiere l’altro comandamento: diventare leggenda. O per lo meno, cercare di passare alla storia, consacrandosi con una fondazione a suo nome. Ha venduto la sua casa di Amsterdam, dove ha vissuto per ventisei anni dopo aver lasciato Belgrado nel 1967, e con 950.000 dollari della vecchia ha comprato il palazzo degli anni Trenta dove nascerà la Fondazione. Il progetto dell’architetto Tennis Wedlick prevede due auditorium, di cui uno immenso con 1.700 posti, una libreria con archivi video e un caffè. <<Sarà il luogo dove voglio che venga dimenticato il tempo, dove si assisterà solo a performance che dureranno ore>>. Parola d’ordine: resistenza. Quella dei performer, e quella del pubblico. Ha previsto di invitare cinque artisti residenti l’anno, di esibirsi lei stessa e insegnare.
Una delle sue lezioni consiste nel rimanere cinque giorni nei boschi senza mangiare né parlare.
Il suo credo <<L’arte deve essere una deviazione dalla normalità. Un rischio mentale. Perché solo confrontandosi con l’imprevisto e la paura ci si può evolvere>> Ha mai avuto paura di spingersi troppo oltre, di perdere il controllo, d’impazzire? La parola follia sembra non fare eco in nessuna parte di lei. Con la matita rafforza le lettre di alcune parole scritte sul foglio davanti a sé. <<Nelle mie performance sono qui e ora. Incredibilmente presente>> Poi con la piccola matita traccia un cerchio, e un punto al centro. Lei è il punto. La perdita del suo centro, l’unica cosa che forse può essere chiamata follia. Marina Abramovic l’ha sperimentata solo una volta, nella performance più lunga della sua vita: la relazione di dodici anni con Ulay, suo alter ego nell’arte e nella vita. <<Avevo messo il mio centro nel suo: E quando mi ha lasciata ho perso me stessa>>.
A dimostrazione che il tallone di Achille degli eroi è sempre e comunque l’amore. La disperazione però, se l’è concessa solo dopo aver realizzato con lui l’azione più drammatica della sua vita, nel 1988: lui è partito da un’estremità della Muraglia cinese, lei dall’altra. Hanno camminato per tre mesi per raggiungersi a metà strada e dirsi addio. Sotto gli occhi di una telecamera, naturalmente. Riprende la matita e disegna un altro centro accanto al suo e con voce sempre più calma spiega: <<In una storia d’amore i centri devono rimanere separati. E’ una lezione importante, io l’ho imparata a caro prezzo>>. Per poi metterla in pratica con l’artista Paolo Canevari.
Stanno insieme da undici anni. Vivono tra il loro loft di Soho e una splendida casa non lontano da Hudson, tutta grandi vetrate e legno, a forma di stella. Frequenta la New York di Francesco Clemente, Matthev Barney e Lou Reed. Ma quando lui due anni fa le ha chiesto di sposarlo, erano <<davanti al supermercato, sotto la pioggia, con le buste della spesa>>. Come due comuni mortali: Poco prima della fine dell’intervista chiede a Davide Balliano, il suo efficientissimo assistente, di mostrarmi delle fotografie sul computer: lei con un vestito azzurro di Givenchy in un fiume del Laos. Vorrebbe che Io Donna le pubblicasse, <<perché in queste fotografie mi trovo bella>>: Poi me ne fa vedere un’altra, scattata da suo marito. La ritrae avvolta in un telo di raso stropicciato seduta a terra in modo regale, con un neonato nudo sul ginocchio. Lo indica. Madonna contemporanea forte e fiera. Le chiedo perché non ha mai avuto figli. Risponde. <<Ho deciso che non ne avevo bisogno>>: Sulla fotografia Gesù è femmina: E allora capisco. Marina Abramovic, generata, non creata, da Marina Abramovic.
La coreografa tedesca aggiunge un nuovo tassello al suo «atlante» con l’ultimo spettacolo presentato a New Delhi, Mumbai e Calcutta. Un laboratorio aperto di concetti, riferimenti, visioni, eros e pensieri
Gianfranco Capitta
New Delhi
Da più di vent’anni Pina Bausch, una dei pochi artisti che davvero hanno reinventato nella seconda metà del novecento la scena mondiale, va disegnando del mondo un proprio personale «atlante». Ogni suo spettacolo è dedicato a una città, o a un paese, di cui lei traduce nel linguaggio del teatro e della danza le suggestioni ricevute durante gli scrupolosi sopralluoghi e gli impertinenti e personalissimi affondi. Dall’ormai storico Viktor dedicato a metà degli anni ottanta a Roma (unica città ad aver meritato due di queste «dediche», perché a cavallo del secolo c’è stato poi Oh Dido) fino all’ultimo e appena presentato Bamboo blues (dopo un’anteprima assai riservata a Wuppertal la primavera scorsa) incentrato sull’India e mostrato in queste settimane, dopo New Delhi, anche a Mumbai e Calcutta. Una produzione cui la repubblica tedesca ha partecipato direttamente attraverso il Goethe Institut.
Aver avuto la fortuna di assistervi nella capitale indiana (per quanto il Siri Fort Auditorium non possedesse le «sicurezze» tecniche dei teatri d’opera occidentali) dona un valore aggiunto alla performance dell’artista e dei suoi danzatori: non solo il pubblico era strabocchevole e festoso (anche se per certi versi «sorpreso» dell’avvenimento), ma certo la cultura indiana ha una tradizione spettacolare così specifica, antica e formalizzata, e tutta basata sul corpo, da rendere Bamboo Blues una sorta di questionario pulsante, di sfida continua, di esperienza tanto aperta quanto necessaria di puntelli e di garanzie. Proprio sul piano fisico, che assomma qui su di sé concettualità e riferimenti, visioni e pensieri.
Del resto, se l’India è una sorta di grande e complesso laboratorio continentale, che ora si misura (con una grazia che non riesce a dissimulare la minaccia) con l’intera economia planetaria, anche l’artista tedesca sembra assecondare quel metodo laboratoriale. Le sue immagini, i suoi movimenti, le sue scintille ottenute dall’attrito tra parola e gesto, hanno un andamento piano e interrogativo, da far partecipare e condividere a un pubblico che pure già la conosce fin dal 1979, ma che nessuno poteva sapere, prima, cosa davvero si aspettasse da lei.
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