dal 26 agosto al 15 novembre 2015
Palazzo Reale, Milano
Comune di Milano | Cultura e Fondazione Nicola Trussardi presentano
La Grande Madrea cura di Massimiliano Gioni
Una mostra promossa da Comune di Milano | Cultura
Ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi insieme a Palazzo Reale per Expo in città 2015.
La Grande Madre, una mostra a cura di Massimiliano Gioni, promossa dal Comune di Milano -Cultura, ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi insieme a Palazzo Reale
La mostra, che aprirà al pubblico dal 261 agosto al 15 novembre 2015, è il frutto
di una collaborazione tra istituzioni pubbliche e private nella condivisione di un progetto che porta la grande arte contemporanea, anche nelle sue
dimensioni più attuali e innovatrici, nello spazio espositivo più prestigioso della città, rappresentando l’evento di punta del calendario di Expo in città nel secondo trimestre di Expo 2015.
“
Il palinsesto di Expo in città propone una mostra prestigiosa, ospitata in una delle sedi espositive più visitate d’Italia, Palazzo Reale, che chiude il cerchio di una proposta completa sull’arte, le sue stagioni e i suoi linguaggi. ha dichiarato l’Assessore alla Cultura Filippo Del Corno –
Una proposta che non solo offrirà al pubblico la possibilità di compiere un viaggio straordinario nella storia dell’arte e della cultura italiana e internazionale, ma sarà anche un’occasione speciale di approfondimento sulla figura della madre, che più di tutte incarna l’idea della nutrizione, tema centrale di Expo 2015.
Un risultato reso possibile grazie alla Fondazione Nicola Trussardi nel quadro di un ampio dialogo tra pubblico e privato, stretti in un’alleanza per la diffusione dell’arte……
http://atpdiary.com/exhibit/la-grande-madre/
dal 5 luglio lal 20 settebre 2015
I lavori di due tra le più importanti esponenti donne dell’arte contemporanea sono esposti a Merano fino al 20 settembre
Fino al 20 settembre 2015 il centro espositivo Merano Arte a Merano ospita, in collaborazione con la Collezione Verbund di Vienna e a cura di Gabriele Schor, un’ampia selezione di opere di due tra le più importanti donne dell’arte contemporanea: Francesca Woodman e Birgit Jürgenssen.
Francesca Woodman è stata un’importante fotografa statunitense e, nonostante la sua breve vita (morì suicida a 23 anni), una delle artiste più influenti del Ventesimo secolo: il suo lavoro si concentrava soprattutto sul suo corpo e su ciò che lo circondava, usando in gran parte esposizioni lunghe o la doppia esposizione, per creare un effetto di fusione tra il corpo e l’ambiente circostante. Birgit Jürgenssen, invece, è considerata una delle più importanti esponenti dell’avanguardia femminista degli anni Settanta: nel corso della sua carriera ha realizzato circa 3.000 opere tra fotografie, stampe, disegni, acquerelli, collage, dipinti e sculture. La maggior parte di queste opere ha come soggetto principale il corpo femminile, che appare mascherato e frammentato, come critica agli stereotipi sessuali e di genere.
Le due artiste, pur senza essersi mai incontrate, hanno in comune sia il lavoro sull’immagine della donna e la messa in discussione della propria identità, sia l’uso dell’autoscatto e lo studio della messa in scena.
dal 18/5/2015 al 30/7/2015
Twenty14 Contemporary Milano, piazza Mentana, 7 tel 02 49752406
Maria Mulas
Sospetto. In occasione della mostra l’artista presenta una serie di lavori inediti. Fasci di luce che tagliano tende e finestre, paesaggi metropolitani colti in giro per l’Europa e scorci dell’isola di Stromboli mediati dai riflessi.
Una serie di lavori inediti che mettono alla prova. Fasci di luce che tagliano tende e finestre, paesaggi metropolitani in giro per l’Europa e scorci isolani catturati mediati dal riflesso.
Maria Mulas dà vita ad una serie di “osservazioni” del naturale, del quotidiano attraverso una doppia lente: quella della sua Lumix e quella del suo unico spirito d’osservazione, creando uno spazio lirico contando sulle risorse del riflesso. Quanti di noi si accorgono delle nuvole riflesse? Quanti di noi guardano solo ma non osservano? Un artista deve osservare. Lei ci regala la sua visione da attenta osservatrice e scopritrice della realtà che ci circonda, ci mette alla prova, genera in noi “sospetto” e ci chiede di scrutare con attenzione.
Ancora un lavoro sulla luce. Lo studio che porta avanti da più di quarant’anni, il chiaro-scuro volutamente evidenziato sul volto dei migliaia di artisti che ha ritratto e adesso l’immagine riflessa restituita da tutto ciò che ci circonda. Siamo circondati. Ci invita ad una visione del mondo intorno non solo a 360 gradi, ma oltre: il guardare si distacca dalla superficialità e dal parziale per entrare nelle sfere del complesso.
Un invito all’attenzione di chi si sente immerso totalmente nella vita, proprio come l’artista stessa, tanto da scorgere i riflessi della luce sui muri di Stromboli all’ora del tramonto e l’incombenza di un cielo che si scontra in una pozzanghera. Il mondo che si riflette nel mondo e dentro di esso spesso l’immagine di un Uomo, le sue mani, quasi come un autografo dell’autrice. Lo specchio è solo uno, eppure, per la fisica dei riflessi, specchia entrambi, nello stesso istante. E fa uno di due.
Dall’8 maggio al 17 maggio2015
Le associazioni Baobab, La Merlettaia e Solidaunia di Foggia ospitano nella sede di Via Arpi 79 la mostra itinerante “Lampedusa porta della vita”, curata da Anna Disalvo, Rossella Sferlazzo e Katia Ricci, che la rete delle Città vicine e il gruppo “Colors Revolutions” di Rossella Sferlazzo hanno organizzato nel luglio 2013 all’interno dell’ormai tradizionale “Lampedusa in festival” che si svolge ogni estate a cura dell’associazione “Askavusa”.
Nella serata inaugurale giovani migranti racconteranno la loro esperienza. Il 17 maggio le opere saranno esposte a Manfredonia a termine del progetto “La Casa dei diritti” dell’associazione di migranti residenti.
La mostra a cui hanno partecipato anche artiste e artisti di Foggia, è uno dei momenti dell’impegno e della riflessione che da anni le associazioni portano avanti sull’incontro tra donne e uomini di culture diverse, sulle difficoltà dell’accoglienza e della convivenza e il desiderio di affrontarle e superarle, predisponendoci alla reciproca conoscenza. Primario oggi è risolvere insieme ai paesi coinvolti il problema di un viaggio e un approdo sicuri e un progetto di vita da offrire a quanti sono costretti a lasciare le proprie terre diventate insicure e inospitali.
Le artiste e gli artisti invitati nelle loro opere realizzate con le più varie tecniche, dal collage alla pittura, dalla fotografia ai video, dall’installazione ai ready made, hanno espresso sentimenti diversi: la drammaticità purtroppo sempre attuale dei pericoli mortali affrontati durante lunghi ed estenuanti viaggi, che somigliano sempre più a deportazioni, ma anche la speranza di donne, uomini e bambini quando in lontananza intravedono la Porta di Lampedusa quale salvezza e accesso a una nuova vita. Presenti anche i sentimenti di donne e uomini abitanti dell’isola, che accolgono i migranti con uno slancio di generosità e curiosità, comprensibilmente offuscato a volte da timori e perplessità in un intreccio di desideri e bisogni tra chi arriva e chi accoglie.
Espongono:
Rosalba CASMIRO ● Antonio DI MICHELE ● Wanda DELLI CARRI ● Nicola LIBERATORE ● Guido PENSATO ● Michele CARMELINO ● Rosy DANIELLO ● Nelli MAFFIA ● Oronzo LIUZZI ● Enzo RUGGIERO ● Anna Maria DI CIOMMO ● Anna FIORE ● Pina MORGANTE ● Valentina BRULARY● Paola GELARDI ● Anna DI SALVO ● Michelangelo SPAMPINATO ● Caterina AIDALA ● Pietro D’AIETTI ● Pamela NICOLOSI ● Misia TOMASELLI ● Valerio TOMASELLI ● Samuele MAGGIORE● Rossella SFERLAZZO ● Giacomo SFERLAZZO ● Dalila DI MALTA ● Tommaso SPARMA ●Adriana MARAVENTANO ● Luca RIZZO ● Maxine CAMBAL ● Marisa PROVENZANO ● Peppino SALA ● Luciana TALOZZI ● Matteo PASQUINI ● Veslemoy OVERLAND BERG ● Sara CRESCIMONE ● Giuseppe BALISTRERI ● Marina CHIRCO ● Giusi MILAZZO ● Donatella FRANCHI ● Mirella CLAUSI ● Cettina ROVERE
dal 30 Maggio al 30 Agosto 2014
Galleria Continua di San Gimignano,
Kiki Smith torna in Italia; dal 31 maggio al 30 agosto, la Galleria Continua di San Gimignano ospiterà infatti, l’attesissima mostra dell’artista statunitense dal titolo “Path”, allestita in contemporanea con “Update!’ dell’artista camerunese Pascale Marthine Tayou. L’artista americana tra le più affascinanti e originali interpreti della scena contemporanea, è arrivata in Valdelsa in questi giorni, anche per omaggiare i Comuni di Poggibonsi, San Gimignano e Colle di Val d’Elsa, con tre delle sue straordinarie opere d’arte che ha deciso di donare ai Comuni e che vanno ad unirsi alle istallazioni della collezione di arte contemporanea che ha trasformato la Valdelsa in un museo a cielo aperto. In quest’occasione Kiki Smith parteciperà al progetto Fenice Contemporanea 2014 incontrando venerdì 30 maggio gli studenti che hanno preso parte ai laboratori didattici. Per i ragazzi, conoscerla e apprezzarne più da vicino il lavoro, sarà un’esperienza unica ed entusiasmante. Figlia d’arte (suo padre Tony Smith era un scultore minimalista), Kiki Smith è una delle artiste più apprezzate dalla critica. La sua produzione artistica spazia dalla scultura al disegno – principalmente su carta – e affronta tematiche forti come l’identità, gli stereotipi sessuali e il corpo, in particolare quello femminile. In tempi più recenti, la sua riflessione e ricerca si è concentrata maggiormente sul rapporto tra l’uomo e la natura, tra il corpo e il mondo. Ma il suo interesse si è rivolto anche altrove: al mito, alla favola e alla letteratura di cui ci offre una lettura molto originale. L’appuntamento con Kiki Smith è l’ultimo degli incontri d’arte previsti dal progetto Fenice Contemporanea 2014 che ha già ospitato i workshop degli artisti Massimo Ricciardo e Maria Pecchioli e la residenza artistica del Collettivo di illustratori e fumettisti Delebile. Fenice tornerà ad ottobre con tante novità prima fra tutte la mostra dei lavori prodotti durante il progetto e la presentazione della “Contemporary Art Map” della Valdelsa, la prima mappa delle installazioni d’arte contemporanea presenti sul territorio rilette in chiave illustrativa e fumettistica. Nato da un’idea di Comincon, Associazione Arte Continua e CultureAttive che hanno messo a frutto le precedenti esperienze di Fenice Nine Arts International Festival e Interferenze – promossa dai Comuni di Poggibonsi (capofila), San Gimignano e Colle di Val d’Elsa, Fondazione Monte dei Paschi Di Siena, Vernice Progetti Culturali e Fondazione Elsa nell’ambito delle iniziative culturali di Siena 2019 Capitale Europea della Cultura-città candidata, realizzato con il contributo della Regione Toscana nell’ambito di ToscaninContemporanea2013 – Fenice Contemporanea è una proposta culturale e formativa innovativa, che ha dato la possibilità ad un gruppo di giovanissimi individuati tra gli oltre 100 studenti che hanno partecipato agli incontri preliminari, di incontrare artisti di fama internazionale e diventare così protagonisti di un percorso di conoscenza e sperimentazione dei linguaggi del contemporaneo incentrato sulla scoperta e rilettura delle installazioni presenti nel territorio: dalle opere di Mimmo Paladino a quelle di Antony Gormley, fino alle tante testimonianze artistiche ormai impresse nella geografia della Valdelsa. Le mostre “Path“ di Kiki Smith e “Update!’ di Pascale Marthine Tayou, inaugureranno presso la Galleria Continua di San Gimignano, sabato 31 maggio alle ore 18 e resteranno aperte fino al 30 agosto. ccTel.: +39.0577.943134 www.galleriacontinua.com info@galleriacontinua.com aperto lunedí-sabato ore 10-13 e ore 14-19 o su appuntamento. Chiuso i giorni festivi.
dal 18 aprile al 15 giugno
Museo Pecci di Milano – Ripa di Porta Ticinese, 113 Milano
Il corpo è sempre stato al centro dell’arte occidentale, come il ritratto e il paesaggio. Ma dalla seconda metà del Novecento il linguaggio del corpo nell’arte prende forma dal vivo, con l’artista che si mostra nudo in pubblico mentre compie gesti simbolici: un oggetto-opera, che oggi ci parla attraverso la fotografia e il video –
Marcel Duchamp nella fotografia Rrose Sélavy (1921), scattata da Man Ray appare travestito da donna e indaga il suo alter ego femminile, anticipando tematiche sull’identità e sull’ambiguità sessuale, poi sviluppante negli anni Settanta, aprendo spunti di riflessione sul ruolo della fotografia nelle avanguardie.
Nella seconda metà del Novecento il corpo passa dalla rappresentazione bidimensionale all’azione e diviene un complesso linguaggio trasversale: dispositivo di esperienze visive antiestetiche. L’artista teatralizza il suo corpo, diviene performativo, compie gesti e azioni e si trasforma in oggetto della visione duraturo e non effimero con mezzi extra-pittorici, quali sono fotografia e video.
Nella sede milanese del Museo Pecci di Prato è in corso un’interessante mostra dal titolo emblematico “Corpi in azione/Corpi in visione. Esperienze e indagini artistiche 1965-1980” a cura di Angela Madesani, Anna Maria Maggi e Stefano Pezzato, realizzata con la collaborazione dello Spazioborgogno e della galleria Fumagalli di Bergamo, a cui appartiene un ampio numero di opere esposte. Qui, attraverso una carrellata di fotografie, documenti, collage, film d’artista, video (trenta solo quelli di Dennis Oppenheim), cataloghi, libri, manifesti, si può andare oltre le apparenze e approfondire l’indagine sulla visione del corpo, “ri-trattato” dai movimenti d’avanguardia. Fanno sempre un certo effetto di disgusto le foto relative all’Azionismo viennese, incuriosiscono le trovate degli artisti di Fluxus, sono già conosciute quelle che documentano la Body art, tutte in rigoroso bianco e nero.
Al Pecci di Ripa di Porta Ticinese assisterete dalla visione di un copro offeso, grondante di sangue degli happening orgiastici di Hermann Nitsch, a modalità di rappresentazione più lieve e raffinata di Gina Pane, nota per Azione sentimentale (1973), in cui si fa fotografare in posa e vestita di bianco con spine di rosa conficcate nel braccio che disegnano ricami nella pelle. Marina Abramović e l’ex compagno Ulay, sono immortalati nudi e in movimento, durante una performance in cui si incontrano e si scontrano l’uno contro l’altro, aumentando il ritmo fino allo sfinimento. Si vede Abramović ritratta con uno sguardo passivo da martire nichilista, nella performance del 1975, quando chiese ai partecipanti di utilizzare contro di lei diversi oggetti, anche contundenti, compresa una pistola carica. Si riscopre la poesia del video in cui Ana Mendieta si immerge nuda in un ruscello per ricongiungersi simbolicamente con la Natura. L’elenco degli artisti in mostra è lungo, meritava uno spazio più ampio, molte opere sono un po’ troppo affastellate tra loro. Non potevano mancare Joseph Beuys, Gilbert&George, l’apollineo Luigi Ontani, in posa plastica, Franco Vaccari, Valie Export e Francesca Woodman. Insomma, di tutto un po’, sebbene tra le immagini relative agli anni Ottanta, manchi il corpo post-organico con le fotografie delle performances -live- di trasformazione chirurgica di Orlan.
Jacqueline Ceresoli
dal 18 aprile al 15 giugno
Corpi in Azione/ Corpi in visione
Museo Pecci di Milano
Ripa di Porta Ticinese, 113
Orari:da martedì a sabato ore 15-19, chiuso lunedì e festivi
Emanuele Trevi
Tra le varie zone in cui si suddivide il centro storico di Roma, le lunghe strade che uniscono via della Lungara alle pendici del Gianicolo, dominate dalla mole del carcere di Regina Coeli, hanno conservato un’atmosfera d’altri tempi, silenziosa e trasognata. Pochi i negozi, pochi i passanti, e anche il rumore che dovrebbe provenire dal traffico che scorre senza tregua lungo il Tevere si riduce a un mormorio remoto e indistinto. Da molti anni Giosetta Fioroni lavora al centro di questa strana isola urbana, in un grande studio che possiede la scabra eleganza di una vecchia officina di riparazioni. Ma al termine di una breve scala, si accede a un bellissimo e inaspettato giardino pensile, con terra sufficiente a farci crescere un melograno. Dall’altra parte della strada, incombe un raggio del vecchio carcere.
A poche settimane dal suo ottantesimo compleanno (il 24 dicembre), Giosetta Fioroni è l’esatto contrario di un’artista serenamente appagata da quello che ha fatto. Ha custodito in sé la fiammella dell’inquietudine e dell’esperimento che forse, di tutte le componenti dell’ispirazione, è la più fragile e insieme la più preziosa. E dire che due anni fa Germano Celant ha dedicato ai suoi dipinti una splendida monografia (edita da Skira), un vero e proprio monumento critico, di quelli che si possono dire definitivi. Eppure, non c’è monumento, non c’è riconoscimento che potrebbe mettere Giosetta al riparo dalla suprema tentazione: che è pur sempre quella di rimettere tutto in gioco, affrontando le nuove idee con la trepidazione dell’esordiente. Questo accade quando si vive la propria carriera come una fiaba, un percorso iniziatico, un sogno. Più che un itinerario rettilineo, una specie di spirale dove le illuminazioni improvvise e i sussulti del cuore contano più di ogni continuità. «Il fatto è — mi dice con l’aria un po’ incerta di chi confessi un peccato invece di enunciare una poetica — che alla mia bella età, invece di accontentarmi di ciò che sono, ho cominciato a covare in me una serie di immagini, che corrispondono ad altrettanti ritratti di ciò che sarei potuta essere, o diventare. Una galleria di identità alternative, o di aspetti di me inespressi, latenti, impossibili».
Da questa difficile ricerca, che si potrebbe definire come una nuova frontiera del narcisismo, è nata un’opera inquietante e sorprendente, portata a termine assieme a Marco Delogu, che — con la sua sapienza di fotografo — ha catturato questo pulviscolo di fantasmi, di identità alternative. La mostra, inaugurata al Macro di Roma il 6 novembre, si intitola L’altra ego. Sono quindici immagini di grande potenza emotiva, come altrettante confessioni provenienti dal nucleo più nascosto e inviolabile di sé, che però è sempre altrove, ama nascondersi e apparire dove meno te lo aspetti, come un bambino innocente e perverso. Esplicito è il riferimento letterario alle Vite immaginarie di Marcel Schwob. Ma mentre il grande scrittore simbolista, antesignano di Borges, scriveva biografie di artisti e celebri assassini del passato, qui l’energia dell’immaginazione è tutta concentrata su un unico soggetto, che ammicca dalla pluralità dei suoi travestimenti. A volte l’impressione è quella della discesa agli inferi, a volte quella di un’improvvisa liberazione. È con il rigore di una vera e propria body artist che Giosetta Fioroni ha scelto i costumi, le parrucche, i trucchi e tutti gli altri accessori che servivano a dar corpo alle sue identità immaginarie. «Mi era capitato in mano un vecchio numero di “Harper’s Bazaar”, dedicato ai rapporti tra arte e moda. Qualche stimolo all’invenzione mi è venuto da lì. Ma è stato un lavoro lunghissimo, pieno di incognite, di incertezze». In fin dei conti, intervenire sul proprio aspetto, evadendo dal recinto dell’apparenza quotidiana, è un’operazione magica ancora più che un processo artistico. E tutte le operazioni magiche contengono in sé una buona dose di imponderabile, una serie di effetti capaci di stravolgere tutte le cause evidenti.
Tutta l’opera di Giosetta Fioroni è condizionata da questo scarto: da un lato c’è il «mestiere», inteso come padronanza tecnica e disciplina; dall’altro si annidano la sorpresa, l’illuminazione, l’allargamento improvviso della conoscenza. Anche quando la conversazione si ritrae dal presente evocando tempi ormai remoti, la sensazione è che Giosetta, raccontando i suoi anni di noviziato artistico, non abbia vissuto un’esperienza molto diversa da quella di Topolino apprendista stregone nel celebre episodio di Fantasia. Come l’eroe di Walt Disney, ha evocato forze superiori, e se ne è fatta trasformare nel momento in cui tentava di piegarle a sé.
Che destino migliore potrebbe auspicarsi un artista? E come in tutte le fiabe che si rispettino, svolgono un ruolo decisivo certi «aiutanti magici», incontrati per caso nei momenti di scoraggiamento. Come quel giorno, a metà degli anni Cinquanta, in cui Giosetta Fioroni, studentessa delusa dai suoi professori e incerta del suo futuro, aggirandosi per i corridoi dell’Accademia di Belle Arti, in via di Ripetta, notò una porticina nera, con un cartello che invitava a iscriversi alla «Scuola libera di nudo». E fu così che avvenne l’incontro col primo, indimenticabile maestro: Toti Scialoja, «più grande ancora come poeta che come pittore. Eravamo una decina d’allievi, oltre a me c’erano Festa, Kounellis. Toti ci insegnava i maestri della regia russa, o i segreti del cinema di Buster Keaton. Era capace di mimare splendidamente tutto quello di cui parlava. Ed era stato uno dei primi a rendersi conto della grandezza dei pittori americani del dopoguerra».
Ed ecco gli incontri con De Kooning, con Rothko, con Twombly… Ascoltandola parlare, viene in mente che se fosse nata nel Settecento Giosetta sarebbe stata una di quelle perfide e deliziose autrici di lettere e memorie, capaci di infilzare un intero carattere con un colpo d’occhio infallibile e una manciata di parole esatte. Ecco Rothko sulla spiaggia di Fregene, molto reticente riguardo ai segreti della sua pittura, timidissimo. «Si tuffava in mare tenendo per la mano la moglie e la figlia, una famiglia di obesi silenziosi, affamati di fettuccine». De Kooning, invece, era «il fascino personificato», e mentre me ne parla Giosetta mi mostra una vecchia foto del pittore americano, conservata in una cornice ovale. «Gli organizzai una festa di compleanno, a casa mia in via delle Orsoline. La mattina dopo ho trovato in giro cento bottiglie di whisky».
Continuerei a lungo a collezionare queste perle della memoria, ma mi accorgo che il gioco la immalinconisce un po’. «Che vuoi che ti dica: sto per compiere ottant’anni, e ancora amo tutto della vita: i giorni di sole e di pioggia, i negozi, gli animali, i peli grigi che vedo sulla tua barba. Non mi sono preparata… Non so accettare che presto non ci sarà più niente!». E non c’è nessuna saggezza d’occasione, nessuna filosofia astratta che potrebbe consolarla. Semmai, c’è da star sicuri che troverà il modo da sola, Giosetta, per allungarsi la vita: continuando a tessere i fili colorati della sua storia, rischiando, mettendo a repentaglio ogni idea di sé troppo comoda e stabile per essere vera.
Emanuele Trevi
Linda Chiaromonte
«Molti sono convinti che l’omosessualità sia un prodotto occidentale, quasi fosse un contagio» «È importante dichiararsi e combattere. Nel nostro continente è ancora molto diffusa la pratica dello stupro curativo sulle donne lesbiche»
Dopo aver esposto i suoi lavori agli incontri per la fotografia di Arles e a Kassel per documenta 13, Zanele Muholi, attivista visuale, artista, filmaker e fotografa sudafricana è stata a Bologna, ospite del festival di cinema lesbico Some prefer cake, dove ha presentato il documentario Difficult love realizzato con Peter Goldsmid nel 2010 (premiato alla rassegna, da giuria e pubblico, come miglior documentario) e la personale Zanele Muholi_ Visual ARTivist. Scatti in cui ritrae in grande formato alcune donne lesbiche di colore, sudafricane e non solo. La mostra sarà visitabile fino al 20 ottobre nella sede dell’ex ospedale psichiatrico Roncati di Bologna. La Muholi, lesbica dichiarata, conduce da anni un lavoro di registrazione e archiviazione vivente sulla situazione della comunità lesbica gay trans e queer nei diversi paesi africani che, oltre ad avere un valore estetico ed artistico, è d’importanza sociale e politica.
Impegnata a dare visibilità ai corpi delle donne che hanno fatto coming out in un paese che ha una delle migliori legislazioni lgbtq, in cui sono riconosciute le unioni civili e le adozioni da parte di coppie omosessuali, ma dove nel codice penale manca l’aggravante della violenza agita contro gli omosessuali. In Sudafrica è ancora molto diffusa la pratica crudele di «stupro curativo» sulle donne lesbiche, soprattutto povere e nere, perpetrato a scopo terapeutico e di rieducazione all’eterosessualità. Molti sono ancora convinti che l’omosessualità non sia africana, ma un prodotto d’importazione occidentale, quasi come un contagio. Il progetto espositivo mostra alcune donne nella loro intimità, scatti teneri, dove nonostante si viva il pericolo del contagio dell’Aids e il rischio per il solo fatto di esporsi, la Muholi non fa trasparire il dolore e non rende i soggetti delle vittime, ma al contrario cattura sguardi fieri che sembrano interrogare e dialogare con il pubblico. La dichiarazione che la Muholi lancia quasi gridando attraverso gli scatti è di esistere, «è importante dichiararsi, resistere e combattere» dice, «anche se consapevoli dei rischi che corriamo. Andiamo avanti nella lotta per impedire di rinchiuderci nel silenzio». L’artista, nata a Durban nel ’72, ha studiato fotografia a Newtown e ha esposto per la prima volta a Johannesburg nel 2004, poi in molte gallerie in Europa e nel mondo. Vive e lavora a Città del Capo. Non sempre il punto di vista che propone attraverso le sue foto è ben accolto dal pubblico ostile all’omosessualità e al lesbismo. «Ci sono molti attacchi violenti contro le lesbiche soprattutto nelle township e le periferie» racconta, «si rischia la vita sia che ci si dichiari sia che si viva la propria condizione in silenzio. Alcuni, solo per aver posato nei miei scatti, potrebbero essere vittime. Nessuno è veramente al sicuro».
Zanele è una combattente, contro razzismo, classismo, disoccupazione, queerfobia, e il mancato accesso all’istruzione. «La libertà è artificiale» sostiene con tono deciso, «viviamo in società in cui ci sono ancora persone ricche e povere, donne che provano a ritagliarsi uno spazio per essere ascoltate sfidando il patriarcato. C’è ancora molto lavoro da fare per la libertà». Sul progetto fotografico, aggiunge, «alcune protagoniste delle foto sono già delle sopravvissute a stupri curativi, io non voglio esporre nessuno al pericolo. Ognuna ha una sua privata e personale esperienza. Negli scatti non presento le protagoniste con una didascalia in cui racconto il loro vissuto. Chiunque ha una vita prima e dopo gli scatti, voglio mostrare le persone come esseri umani senza far sapere quello che hanno attraversato a meno che qualcuna non voglia farlo espressamente e pubblicamente. Non è questo lo scopo del mio progetto. L’attivismo è usare l’arte come medium per dettare un’agenda». Il suo messaggio è indirizzato a chiunque voglia coglierlo come «gli insegnanti che trasmettono l’omofobia a scuola, i leader africani, americani, europei, i politici, tutti coloro che devono accettare la nostra esistenza. Non produco la mia arte per noi stesse, noi sappiamo bene chi siamo, abbiamo bisogno che la nostra voce arrivi a più gente possibile, a chi è d’accordo e a chi non lo è, a chi non capisce identità e vite differenti. Inclusi omofobi e lesbofobi». La questione non riguarda solo il Sudafrica «ovunque ci sono persone che fanno discorsi che istigano all’odio verso di noi», spiega, «è molto comune che le vittime sopravvissute siano state violentate, picchiate, o aggredite da gente conosciuta, come accade per i femminicidi, commessi dai partner e i membri della famiglia. A volte sono bande o ragazzi del vicinato, ma più spesso amici che provano una sorta di invidia nei confronti di lesbiche molto mascoline, che appaiono più uomini di loro». È una storia che le sta molto a cuore e che sente di dover raccontare. «Nel 2009» ricorda «è stata organizzata una mostra con i lavori di dieci artiste, voluta dal dipartimento di arte e cultura. La ministra Lulu Xingwana, della precedente amministrazione, disse che il mio lavoro era contro la costruzione della nazione, pornografico e immorale. Anche se è libera di avere le sue idee, le sue parole erano contro la costituzione, e dirle pubblicamente in un discorso di odio poteva innescare una catena di violenza. Può essere un pericolo per chi vive in aree rurali dove ci sono molte persone ostili, che rispettano tradizioni e convinzioni tribali».
Questo è solo uno degli episodi, ma il più duro è quello del recente furto di parte dell’archivio sui crimini d’odio che ha costruito negli ultimi cinque anni di lavoro e su cui aveva in mente di fare un’esposizione. «Ho perso gran parte del materiale» dice con rammarico «è una reazione a ciò su cui mi esprimo. È stato un brutto colpo, una forma di violenza per fermare la mia voce, ma rifiuto di restare in silenzio». In Sudafrica ci sono organizzazioni che difendono i diritti umani «non lavoro solo io in questa direzione», sottolinea, «le nostre voci sono lentamente ascoltate lo dimostra il diritto che permette alle coppie gay di adottare bambini. Questo fa già parte di un cambiamento. I governi sono formati da persone che abbiamo votato, si presume che ascoltino le nostre istanze, ma non sempre è così». In merito alle violenze contro le donne e in particolare contro le lesbiche la Muholi ci tiene a specificare «le lesbiche sono prima di tutto donne, non aliene, si tratta comunque di violenza contro le donne. Esiste una statistica sulle donne violentate, ma non in quanto lesbiche. Le violenze sono registrate e documentate, in centinaia sono violate e abusate dai loro partner, ma non ci sono dati specifici che trattino le violenze per questioni di lesbofobia. Quando una lesbica denuncia una violenza non importa se l’ha subita per il suo orientamento sessuale, ma in quanto donna». È una sfida che stanno affrontando come quella di capire, come spiega la Muholi, «dove arriva l’essere donna e quando subentra l’essere lesbica, spesso causa di molti crimini».
Il Sudafrica ha una storia molto travagliata in cui l’apartheid ha lasciato dei segni ancora tangibili «i neri sono sempre stati svantaggiati» ammette, «è molto complicato per me portare avanti delle battaglie in quanto donna, nera e lesbica, se vivessi altrove potrei essere più al sicuro. Una lesbica di colore che vive nelle periferie ha un diverso livello di comprensione, io ho la possibilità di dire queste cose più di una lesbica nera che vive ai margini della società. Dipende molto da dove vivi, quali risorse hai. Io sono una privilegiata, ma essere una donna nera che vive nelle township in cui sono cresciuta sarebbe completamente differente. Io ho un lavoro, uno stipendio, una fidanzata bianca, una copertura sanitaria, posso produrre film, viaggiare, la mia famiglia mi ha accettata. È diverso se qualcuno non può affrontare tutto questo ed è svantaggiata perché poco istruita. Essere nera, lesbica e sudafricana è complicato per molte». Ora la lotta più importante degli attivisti è quella contro la violenza di genere e i crimini di odio. «Non ho bisogno di far parte di un network o di un collettivo» dice con un piglio di orgoglio «ma non posso combattere la mia guerra da sola». Il prossimo lavoro dell’artista si concentrerà sui funerali delle donne lesbiche violate e uccise per ragioni di genere. Video a cui ha già iniziato a lavorare, visto che nel 2012 in Sudafrica si è registrata un aumento vertiginoso dei reati. Nonostante i pericoli la Muholi non ha intenzione di lasciare il suo paese che ama molto. Sarà in Umbria fino a novembre per una residenza di artista.
Arianna Di Genova
La storia di abuso scelta da Loredana Longo è quella delle operaie morte bruciate in fabbrica.
Splende il sole nonostante le previsioni meteo catastrofiche, ma appena varcata la soglia di Palazzo Massari a Ferrara, si dimentica la luce e l’atmosfera si fa carica di tensione. Molti visitatori scelgono il silenzio e nella grande stanza centrale il vocìo si attenua fino a scomparire. Violence, l’arte interpreta la violenza, tema della XV Biennale Donna, organizzata dall’Udi e curata da Lola Bonora e Silvia Cirelli, ha selezionato i lavori di sette artiste (visibili fino al 10 giugno) per raccontare la brutalità nascosta fra le pieghe di molte democrazie, occidentali e non. Una brutalità che è globale, trasversale, assoluta, proprio come i mercati finanziari che tutto mettono in ginocchio. È un argomento spinoso che facilmente può scivolare in una retorica astratta, ma ci pensano le opere a creare la giusta drammaturgia. Esistono infatti molte tipologie di violenza – fisica, sessuale, psicologica, sociale, economica – e l’assoggettamento segue spesso strade perverse. Le artiste invitate lo sanno e provano a imbastire un discorso, pur nella riluttanza a fornire giudizi, ad aprire un dialogo con chi guarda.
Così, in mezzo alla prima sala, una specie di armatura da guerra «rivisitata» con toni da lingerie, pende dal soffitto appesa a un filo: Naiza H. Khan, pakistana, sfrutta il linguaggio bruciante dell’ironia per «mimare» le condizioni delle donne del suo paese. Come un tempo i rigidi corsetti, ora è il duro acciaio (magari insieme a frivole piume) a imprigionare le forme del corpo, a inventare un esercito di fantasmi in cui l’assenza fisica denuncia l’invisibilità politica di quei corpi, l’afasia – anche gestuale – cui costringe il potere. Ognuna ha la sua gabbia, letteralmente, «cucita» addosso.
Poco oltre, si finisce in una stanza dove ancora una volta è la «mancanza del soggetto» a provocare inquietudine e a urticare la coscienza. Si è invitati a calpestare un pavimento costituito da pezzi di stoffa, abiti bruciati, incastonati nel cemento. L’installazione della siciliana Loredana Longo ha una data e un luogo preciso a cui fa riferimento: 25 marzo 1911, New York, fabbrica Triangle. Qui persero la vita 146 persone a causa di un incendio. Molte erano operaie italiane e dell’est Europa e non ebbero scampo poiché i padroni le avevano chiuse a chiave per evitare che si prendessero troppe «pause» e rallentassero la produzione.
Longo (classe 1967, Catania) chiede a tutti di camminarci sopra a quei «miseri resti». Fa impressione, sembra quasi un atto sacrilego, ma nessuno si tira indietro. «Il cemento ha un valore particolare per me che sono siciliana. È il materiale con cui si è arricchita la mafia, quello che ha distrutto il paesaggio italiano ed è lo stesso dentro il quale si fa sparire chi è diventato scomodo…», spiega l’artista.In un altro «floor», aveva intrappolato scampoli di bandiera italiana, mentre in alcune installazioni aveva «imbandito» interi set domestici che poi faceva esplodere d’improvviso, salvo poi ricostruirli minuziosamente, come se si potesse salvare una normalità di coppia, famigliare, sociale dopo una lacerazione. Strappi, tagli di vestiti fino alla nudità è ciò che propone Yoko Ono nel suo celebre video Cut Piece del 1965 (poi reiterpretato nel 2003): ogni spettatore deve salire sul palcoscenico dove l’artista lo aspetta immobile e sferrare il suo colpo di forbice per ridurre in brandelli l’abito fino al raggiungimento della vulnerabilità totale.
La guatemalteca Regina José Galindo, che da anni mette in scena le atrocità che subiscono le donne sul loro corpo, infliggendosele in prima persona, ha portato in mostra il suo El dolor en un pañuelo: «Mentre sono legata a un letto verticale, su di me vengono proiettate le notizie di violazioni e abusi commessi contro le donne in Guatemala». E la sua opera «vive» in un gioco di rimandi con quella dell’olandese Lydia Schouten, una sorta di camera delle torture (visive), perturbante e ansiogena. L’artista parla di un’arte nata da fatti autobiografici e qui la cornologia va a ritroso, riconducendola verso il suo soggiorno newyorkese alla fine degli anni Ottanta, quando il virus della violenza era pervasivo.
Il contagio si espande a macchia d’olio e proprio nell’olio esausto viene a radicarsi l’anti-monumento alla violenza dell’austriaca Valie Export: una piramide di kalashnikov di quattro metri si staglia nel vuoto mentre intorno scorrono video di barbarie: esecuzioni capitali e attacchi militari in Iraq. Chiude questo percorso di amara antropologia l’americana Nancy Spero, scomparsa a 83 anni tre anni fa: teste mozzate per non dimenticare l’orrore di Guantanamo o Abu Ghraib, deformanti «esportazioni» di democrazie.
Gianluigi Colin
Un uomo e una donna parlano sottovoce, consapevoli che il luogo nel quale si trovano non è un museo comune. In un angolo, una ragazza sembra perduta: ha le lacrime agli occhi. Tutto è avvolto da una misteriosa atmosfera, al tempo stesso accogliente e inquietante. Le tende chiuse impediscono alla luce di filtrare; intorno, oggetti di elegante intimità domestica: antiche stampe alle pareti, tappeti, una grande libreria di volumi antichi, una scrivania ricolma di reperti dell’antico Egitto, e poi, un divano avvolto da cuscini e da un tappeto caucasico con i simboli della fertilità. Ma sopra il divano, sospesa nell’aria, quasi fosse uno sconosciuto animale preistorico, qualcosa di inaspettato e difficile
da comprendere al primo sguardo: è una scultura in bronzo, ricoperta di lamina d’oro. La scultura di un membro maschile.
In questa piccola casa al numero 20 di Maresfield Gardens a Londra, il pensiero che ha rivoluzionato la storia del Novecento si presenta con la potenza sacrale di una immensa cattedrale laica, un monumento alla Ragione che emoziona e incute rispetto, come se una insondablle energia avvolgesse questo luogo denso di memoria e di umane tragedie. E’ la Casa londinese di Sigmund Freud. Qui il padre della psicoanalisi ha, trovato rifugio nel 1938, dopo essere fuggito da una Vienna minacciata dai nazisti. Freud aveva 82 anni e qui ha ricreato il suo studio, esattamente come quello di Bergasse 19: morì in questa casa il 23 settembre 1939, tre settimane dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Se si voleva creare un corto circuito sul valore e il senso dello sguardo Interiore non si poteva fare di meglio: Louise Bourgeois, una delle voci piu alte dell’arte americana, grande scultrice, interprete raffinata e provocatoria dei temi della sessualità e dell’identità femminile, poco prima della morte (2010) è stata invitata a preparare una mostra nella casa di Freud. È nata cosi The return of the repressed (“Il ritorno del rimosso”), emozionante esposizione curata da Philip Larratt-Smith, nata dalla scoperta nel 2004 di due scatole contenenti oltre mille fogli che
costituiscono un archivio sulle reazioni di Louise Bourgeois al trattamento psicoanalitico iniziato nel 1951 con Henry Lowenfeld, medico freudiano.
La mostra presenta questi documenti e circa una decina di sculture, sparse nelle stanze, lungo i corridoi, sulle scale, in dialogo con gli arredi dell’abitazione, ma soprattutto con la memoria della casa di Freud.
«Ogni cosa esiste attraverso il significato che gli diamo», ricorda il padre della psicoanalisi. Così, nel percorrere la mostra tra i ricordi personali di Freud e osservando le oniriche e surreali sculture di Louise Bourgeois,
si ha l’impressione che nessun altro artista avrebbe potuto creare una relazione cosi stretta tra pensiero psicoanalitico e creazione artistica Non solo: si resta come ipnotizzati in un gioco di rimandi. Ogni singolo oggetto, comprese le sculture della Bourgeois, appare impregnato dallo sguardo di Freud come se anche le opere dell’artista si trasformassero in una macchina del tempo capace di superare ogni confine.
Così, se la prima opera che accoglie il visitatore è una vecchia stampa che riproduce Mosè con le tavole della legge (Freud dichiarò:«Sono un ebreo senza dio»), la prima scultura della Bourgeois è un fulminante richiamo alla tormentata dimensione della sua arte: il corpo di una donna è disteso, una gamba amputata, una lama sospesa minacciosa e foriera di nuove ferite (Femme Couteau, 2002).
Louise Bourgeois è nata a Parigi nel 1911 e ha vissuto negli Stati Uniti dal 1938 sino alla sua morte: da sempre ha affrontato le tematiche dell’identità femminile e la complessa relazione tra vita e arte. In una grande opera (I am afraid, 2009) su un telo ricamato a mano scrive: “Ho paura del silenzio. Ho paura del buio. Ho paura di cadere. Ho paura dell’insonnia. Ho paura del vuoto. Mancare …cosa ti manca? Niente. Sono imperfettta ma non mi manca nulla, mia madre forse, forse qualcosa manca ma non lo so, per questo non ne soffro…”
Ma l’opera cardine della mostra sta proprio nel luogo simbolico della casa: c’è da chiedersi che cosa avrebbe detto Freud di fronte alla scultura così dichiaratamente esplicita (Janus Fleuri, 1968) che incombe oggi sul suo lettino. Un ‘opera all’interno di un ciclo importante (Janus, la divinità della mitologia romana bifronte) e che esplora le figure di un corpo frammentato, mettendo in luce le contraddizioni, le divisioni, le lacerazioni della psiche.
Una cosa è certa: in questo contesto tutta l’opera di Bourgeois assume un messaggio di intima rivelazione. E così con l’opera Cell XXIV, Portrait (2011) vediamo rappresentata la difficoltà nel suo essere contemporaneamente artista, madre e moglie. Tutto questo trova forma in una scultura (una gabbia di ferro) in cui una figura femminile di pezza con tre teste bifronti è sollevata al centro di quattro specchi che riflettono i diversi volti: metafora dei diversi punti di vista intorno all’identità femminile. L’opera va diretta al cuore, senza mediazioni: quante donne si trovano oggi con le stesse domande, gli stessi dubbi? ll pensiero intorno a questo tema è uno dei punti centrali del lavoro della Bourgeois che ritroviamo anche nel piccolo giardino: qui, un grande ragno nero sembra impedire lo sbocciare della primavera. Ma oggi, l’opera Spider (1994) sembra soccombere alla natura e ai fiori di un ciliegio che cadono dolcemente sull’animale di metallo, come se, ancora una volta, la forza di questo luogo, il giardino dove Freud trovava il piacere della contemplazione nei suoi ultimi giorni, avesse il potere di lenire le ferite dell’ esistenza.
Forse, la semplice sintesi di questa magica relazione tra i due protagonisti del pensiero e dell’ arte è sotto gli occhi di tutti, sul quademo dei visitatori. Qui, Samiha Abdel Djeba con una biro blu e con una grafia sicura annota: «Freud avrebbe amato Louise Bourgeois».
di Cristiana Campanini
Occhi inquieti e dispettosi, incorniciati da riccioli biondi indomabili. Le mani si muovono come per dipingere nello spazio. È un fiume in piena quando racconta la sua pittura Marlene Dumas, una delle due, forse tre artiste viventi più costose al mondo (tra i suoi collezionisti, Francois Pinault e Charles Saatchi), campionessa del ritorno alla pittura dagli anni Ottanta con soggetti scioccanti, immagini pornografiche e cadaveri (come la terrorista Ulrike Meinhof sul tavolo dell’obitorio e Marilyn Monroe fotografata dalla polizia). Nel 2008 la grande tela The visitor (1995) andava all’incanto per 4 milioni di euro. Era l’anno dei successi americani, quando la retrospettiva Measuring your own grave viaggiava dal Moca di Los Angeles al Moma di New York. Curata da Giorgio Verzotti, inaugura oggi alle 18.30 alla Fondazione Stelline una mostra intima e spirituale, senza scene di sesso o violenza. «Nel mio lavoro non c’è solo sofferenza, ma vitalità e bellezza», l’artista si racconta con gioia e un sorriso aperto, insospettabili per chi la conosce attraverso un’opera scarna, drammatica, esistenziale. Sfilano 15 carte, tra disegni e acquerelli storici, e 22 dipinti recenti, tra cui 4 crocifissi, ispirati a sculture gotiche lignee, e due volti di Amy Winehouse ritratta a poche ore dalla morte. Doveva essere una mostra come altre, ma è diventata un omaggio a Milano in 15 opere inedite. “Al Castello Sforzesco ho incontrato la Pietà Rondanini, opera inarrivabile. Ho iniziato a riflettere sul dolore della donna, sul rapporto tra Pasolini e sua madre, a cui avevo già lavorato, e ho rivisto capolavori come il Vangelo secondo Matteo e Mamma Roma”.
Uno dopo l’altro emergono ritratti e figure. Da vecchie foto d’archivio dell’ex orfanotrofio femminile delle Stelline nascono tre dipinti. «Negli occhi di quelle bambine ho rivisto la mia giovinezza in collegio», spiega. Nata nel 1953 in Sudafrica in una famiglia di boeri protestanti di lingua Afrikaans, Marlene cresce in una piccola azienda vinicola a un’ora da Cape Town, cosciente fin da bambina dei dolori dell’apartheid. È la più giovane di tre figli e il fratello Pieter, reverendo, viene licenziato per un sermone antirazziale. Nel 1976 si trasferisce ad Amsterdam in cerca di libertà e per vivere arrotonda la sua borsa di studio facendo le pulizie.
Quei conflitti razziali nutrono da allora una vera e propria ossessione per la figura umana. La dipinge, per lo più la notte, a olio su tela nei toni del grigio, del nero, del viola. Oppure ad acquerello su grandi carte facendo emergere fantasmi dai volti dolci e sgangherati. Le sue figure sono sempre tratte da fotografie. «Immagini di seconda mano» le chiama, ritagli di giornale archiviati per categorie: volti, urla, cadaveri, guerre, modelle, uomini. Le scelte formali sono centrali nella sua pittura, mentre storie, racconti e simboli restano sullo sfondo. «In un certo senso sono una pittrice astratta, perché in una linea verticale vedo l’uomo e in un volto scorgo paesaggi indefiniti». Da non perdere un piccolo olio su lino omaggio alla Pietà Rondanini; e il documentario di Rudolf Evenhuis, assistente che la segue due anni per realizzare il film della sua vita.
Lea Mattarella
Una donazione come ultimo atto di una catena intrecciata al femminile: è questo il senso del lascito di Mirella Bentivoglio al Mart di Rovereto. L’artista e critica romana (ma nata a Klagenfurt nel 1922), ha infatti regalato al museo la sua collezione e il suo archivio, che oggi compongono un’emozionante mostra, aperta fino al 22 gennaio. E gran parte delle opere qui esposte le sono state a sua volta donate, dal 1972 ad oggi, da quelle che possiamo definire le sue compagne di strada, le artiste che, in ogni parte del mondo, hanno partecipato, insieme alla stessa Bentivoglio, al movimento della Poesia Visiva. Nata negli anni Sessanta, questa corrente artistica ha l’obiettivo di far emergere i legami sottili e sotterranei che intercorrono tra le immagini e il linguaggio. Ed è proprio il caso di dire che la Bentivoglio ha restituito alle donne la parola. A raccontarlo sono i numeri: nel 1969 alla grande mostra dedicata agli esponenti di “poesia ottica”, allo Stedelijk Museum di Amsterdam, la presenza femminile raggiungeva a malapena il 2 per cento. Dopo le sue indagini sul campo, le mostre annuali che lei stessa chiama “censimenti internazionali”, iniziate al Centro Tool di Milano e culminate in una leggendaria esposizione in occasione della Biennale di Venezia del 1978 e poi in una serie di eventi in giro per il mondo, le cose cambiarono radicalmente: dal 2 al 20 per cento le donne invitate alle mostre, e via via un’attenzione constante verso il côté rosa del movimento.
Qui a Rovereto di artiste ce ne sono più di 100, autrici delle circa 300 opere che compongono l’esposizione. Ci sono russe e australiane, grechee giapponesi, brasiliane e americane. Con tutte la Bentivoglio è entrata in contatto personalmente. Scrivendo, naturalmente. E spesso le lettere che si scambiano queste artiste, così attente a tenere insieme testi scritti e immagini, sono piccole opere. Come quelle dell’americana Amelia Etlinger con le sue buste e i fogli su cui tesse grovigli di fili colorati che incorniciano e, nello stesso tempo, nascondono la parola.
Il ricamo è una tecnica collegata da sempre al passatempo femminile. E qui lo utilizzano in molte. Ma è il loro destino di artiste libere, e spesso anche ribelli, che hanno scelto di cucire.
Tra le “merlettaie” ecco Francesca Cataldi autrice di inquiete cancellazioni con il filo di catrame; Anna Paci che confronta le piante delle prigioni con i modellini dei lavori a tricot; Maria Lai, la grande artista sarda, classe 1919, che da sempre tesse incanti preziosi, leggende di fili dorati. Ecco in mostra i suoi libri-scalpi, intrecciati con i capelli, e le sue indimenticabili pagine cucite. Che ci rivelano due elementi costanti: il rapporto con il corpo e quello con l’oggetto-libro.A valorizzare il primo ci pensa la brasiliana cresciuta a Parigi Anesia Pacheco E Chavez che ha chiaro come O centro do corpo siano i genitali femminili, ma anche Ketty La Rocca e la stessa Bentivoglio: entrambe hanno identificato la curvatura della letteraJ con corpo e inconscio.
Tra i libri si può far centro anche con la forza dell’assenza: ci riescono quello in vetro della giapponese Izumi Oki e quello gigantee vuoto di Dora Tass, capaci di riflettere e contenere il mondo. Ci sono donne che si narrano e donne che raccontano il mondo: la Sventagliata di mitra di Anna Esposito rende un orpello femminile testimone di tragedie. E la dittatura è messa nel sacco dalle piccole scatole di carta colorate di Rimma Gerlovina che arrivavano clandestinamente alle mostre della Bentivoglio dal blocco sovietico. Contengono lettere in cirillico, un’allusione ai regimi che imprigionano proprio ciò che questa grande avventura intellettuale ha liberato: pensieri e parole.
di Olga Gambari
TORINO – Eroi, ma quante eroine? L’ eroismo femminile declinato nella mostra Eroi ha le caratteristiche dell’ intimità e della tenacia. Un piccolo ma granitico eroismo quotidiano, che circumnaviga la dimensione autobiografica, trasformando il vissuto comune in forme di resistenza e sopravvivenza universale. Louise Bourgeois, scomparsa un anno fa, ha amato e vissuto molto, percependo senza tregua l’ estrema solitudine interiore che accompagna la condizione esistenziale. In Cell XX del 2000 due teste in stoffa bianca sono racchiuse in una gabbia e raccontano la coppia. Si fronteggiano, una più grande dell’ altra, in una convivenza difficile basata su rapporti di forza, in cui sembrano coabitare l’ amore e l’ odio, la scelta e la dipendenza. Appaiono dio e l’ uomo, il genitore e il figlio, il maschio e la femmina, la madre e il feto, colui che è in qualche modo diverso e il resto del mondo. Soli e insieme allo stesso tempo, come Marina Abramovic nel video The hero del 2001, dedicato al padre. In sellaa un cavallo bianco l’ artista sta immobile, finché le forze la sostengono, reggendo una bandiera anch’ essa bianca, mossa dal vento. Diventa un elemento scultoreo mimetizzato nel paesaggio naturale, unendo il passato al presente, nel ricordo del padre che sarà sempre con lei ma è, ormai, già altrove. L’ immagine di questa amazzone è un simbolo romantico, un vessillo della caducità umana di fronte all’ eternità: il tempo che passa, che spazza via le storie in un unico flusso di oblio. Fragili esistenze che eroicamente, nel loro microcosmo, continuano a essere testimoni. La responsabilità civile della memoria respira anche nel lavoro murale A chaque stencil une révolution del 2007 di Latifa Echakhch. Un blu intenso cola da centinaia di fogli di carta carbone incollati a parete. Le tracce delle parole e dei pensieri scritti e copiati, rimasti come una registrazione, si perdono e diventano liquide, ormai irriconoscibili nelle pozze sul pavimento. Calpestarle sembra un sacrilegio, trasformate in concrezioni di pittura astratta. A volte, invece, c’ è la carne degli individui a ricordare, come la pelle segnata da un hula hop intrecciato di filo spinato che marchia Sigalit Landau nel video Barbed Hula del 2000. Tatuaggi dolorosi su un corpo che diventa politico, luogo di un accadimento che da privato si apre a un senso collettivo. Un’ autoflagellazione a cui l’ artista israeliana fa raggiungere un ritmo ipnotico, in un’ espiazione di qualcosa di commesso e subito insieme, che travolge la sua terra da generazioni. Una fisicità che coinvolge anche il ritratto a olio di Jenny Saville, un’ origine del mondo in cui c’è un corpo che si offre scomposto, eroico nel suo essere spudorato e sincero: senza esibizionismi mostra caratteristiche sessuali femminile, un seno, e maschili, un pene. Un’ identità in transito dal titolo indicativo di Passage 2004-2005. È un’ istantanea che arriva dal desiderio di libertà invocato dalla sessualità di ognuno. Essere se stessi rimane il maggior eroismo possibile, più difficile se si è donna. –
di Lea Mattarella
Torino – la storia dell´umanità e quella delle singole nazioni è costellata di orrori che rischiano continuamente di ripetersi. Ci si imbatte nelle stesse violenze e nelle medesime efferatezze a causa della memoria corta.
L´artista afro-americana Kara Walker, classe 1969, ne è così convinta che costruisce il suo mondo mettendoci di fronte a ciò che individualmente e collettivamente si tenta dirimuovere: misfatti quotidiani, sopraffazioni, abusi dei corpi e delle
menti, uccisioni, stupri e genocidi fatti in nome della razza. Solo che, a differenza di molti
protagonisti dell´arte contemporanea, la Walker non si limita a documentare i fatti, mostrandoli nella loro brutalità, li trasfigura in un immaginario che ha nella storia della pittura, della scultura, del disegno, delle arti applicate, ma anche del cinema, della letteratura, del teatro d´ombre, le proprie radici. La sua denuncia impietosa avviene sul piano dell´opera, in cui il pensiero diventa forma, oggetto artistico affascinante e misterioso.
La mostra curata da Olga Gambari alla Fondazione Merz “Kara Walker. A negress of noteworthy talent”, aperta fino al 3 luglio, è un viaggio tra ombre e luci, segni e suoni, trasparenze, stratificazioni, mondi sommersi, stereotipi scoperti e improvvisamente diventati consapevoli, attraversamenti di spazi sospesi, narrazioni intrecciate tra mito, fiaba, cronaca.
Un´esposizione che ha visto lavorare insieme artista e curatrice con il nume tutelare di Mario Merz, perché le opere della Walker hanno trovato una casa ideale nella Fondazione e si contaminano e arricchiscono nel dialogo con due opere storiche dell´esponente
dell’arte povera.
Tutto nasce da una silhouette di carta ritagliata: leggera, elegante, sintetica ma piena
d´energia, guizzante come una fiamma. Con questa Kara Walker mette in scena le sue storie della comunità afro-americana degli Stati Uniti. Tra elementi grotteschi e grandi malinconie parla di schiavitù, pregiudizi, difficoltà di integrazione, dell´idea stessa
dell´identità e dell´alterità in termini razziali, ma anche in termini sessuali. “Pittrice, donna e nera”: è questa la definizione che dà di se stessa e con questi tre elementi che costituiscono la sua essenza, dà vita a un´arte in cui convivono il disegno, la scultura
l´installazione, il video, l´animazione.
Nella volontà di scardinare le gerarchie rivendica come elemento fondamentale del suo lavoro anche le arti cosiddette minori, quelle che un tempo erano destinate alle fanciulle. In questo contesto scova, appunto, la carta che ritaglia e trasforma in arma. La schiera di figurine che ti accoglie nella prima sala di questa mostra, “una lanterna magica aperta sulla parete” la definisce la Gambari, ha un impatto gradevole che ti cattura disarmandoti. La Walker attrae con una specie di danza magica e silenziosa dentro un incantesimo che soltanto a uno sguardo più attento si rivela un incubo. Un linguaggio tipico dei salotti borghesi tra Sette e Ottocento come la silhouette – rassicurante e favolistico – si trasforma nell´emblema di secoli di sopraffazione e violenza. In quest´opera convivono le suggestioni di due romanzi Le avventure di Huckleberry Finn e La capanna dello zio Tom, sagome e carte dipinte che, nel mettere insieme la storia dell´arte e la cultura popolare, sembrano nascere da una suggestione dei cartoon.
Il movimento e la trasparenza della Doppia spirale di Mario Merz, con cui sono in relazione, suggeriscono una lettura in chiave dinamica della narrazione, come se, spezzando il cerchio, si riuscisse a intravedere una possibilità di riscatto. Kara Walker però ti riporta subitodentro l´orrore con le pitture di fronte: fondi colorati e dipinti con pennellate espressive da cui sbocciano sagome di volti apparentemente innocui. Peccato che li abbia tratti dalle fotografie di gente che assisteva, famelica e eccitata, alle esecuzioni e ai linciaggi dei neri.
Questo modo di portarti dentro l´opera con grazia per poi sferrare un colpo alla pancia e alla coscienza, sembra accomunare le donne artiste, sorrette da una necessità di creare tra l´intimità e la storia: viene in mente l´anglo-palestinese Mona Hatoum con i suoi oggetti di vetro che si rivelano bombe, o l´egiziana Gadha Amer che tesse le fila di storie
apparentemente astratte sotto cui pulsa una sessualità sfacciata.
Qui sono meravigliosi i piccoli acquerelli e le sculturine che mimano la vita di villaggi dove il pericolo è sotterraneo e l´allarme sempre presente. Sotto la scritta di Merz, Pittore
d´Africa, la
Walker parte da un film del 1957 Tamango per ideare uno storyboard che ha per protagonista una donna che raccoglie tutti i cliché connessi all´idea stessa del femminile africano, traattrazione e paura. E poi ci sono i film animati: mondi in movimento con le marionette che rivelano la loro finzione (intravedi spesso chi ne muove i fili) ma anche tutta la verità riassunta in archetipi, in struggenti tenerezze cercate e interrotte, in lotte furiose per la sopravvivenza.
Crudeli e commoventi.
di Laura larcan
Al Bolzano arriva l’artista messicana famosa per le sue denunce contro il narcotraffico e i crimini nella città. Tra performance, muri di esecuzioni capitali, “cubi” di macerie da guerriglie, l’abbiamo intervistata.
Due muri, alti poco meno di due metri, infestati di fori, reliquie di pallottole sparate durante le esecuzioni capitali di due poliziotti nella città di Culicàn e di quattro giovani di Juarez nel 2009. Un cubo, pesante una tonnellata, fuso dalle macerie di edifici demoliti durante una guerriglia urbana. Sono solo alcuni dei “monumenti” al dolore e alla morte, semplici e apparentemente minimali ma ferocemente inquietanti che l’artista messicana Teresa Margolles porta al Museion nella mostra personale “Frontera” dal 28 maggio al 28 agosto, dopo il debutto a febbraio scorso alla Kunsthalle Fridericianum di Kassel. Classe ’63, divisa tra Culicàn e Città del Messico, Teresa Margolles, che ha rappresentato il padiglione messicano alla Biennale di Venezia del 2009, è la quintessenza dell’artista impegnata.
Il coraggio non è “urlare” o provocare con enfasi teatrale, o sferrare colpi allo stomaco con immagini sconvenienti. Per Teresa, l’arte è una fine riflessione sulla crudezza della realtà messicana, con lucidità caustica. Ecco che “Frontera” diventa un manifesto lirico e intimo sul fenomeno del narcotraffico e sugli assassini-sparizioni che aleggiano su Ciudad Juarez, la città più pericolosa del mondo. L’abbiamo intervistata
Qual è il ricordo più nitido che si porta dietro di Ciudad Juárez?
– Ci sono molti momenti simbolici ed è proprio questo che mi fa tornare a Ciudad Juárez, amare e rispettare la sua gente. Ad esempio vedere una società civile sempre più interessata al bene comune, preoccupata e partecipe nel restaurare un tessuto sociale degradato, una società che esige dal governo l’adempimento dei propri obblighi. Conoscere donne attiviste che coinvolgono altre donne, che lottano per far luce sugli omicidi dei loro figli, delle loro figlie, dei loro bambini. Sapere del coraggio della signora María de la Luz Dávila, madre dei ragazzi uccisi il 30 gennaio 2010, che esprime tutta la sua indignazione al presidente della repubblica. Conoscere fotografi, artisti, bande musicali, baristi e intellettuali … Le persone che hanno reso possibile che Juárez esista.
Ci racconta come ha realizzato i suoi muri in mostra, le circostanze in cui ha raccolto quelle “rovine” di esecuzioni capitali?
– L’opera è costituita da due muri provenienti da due città nel nord del Messico, Culiacán e Ciudad Juárez, smontati e ricostruiti a Bolzano. Davanti a questi muri sono stati commessi degli omicidi, dei poliziotti di fronte a uno, dei ragazzi nei pressi dell’altro. Gli atti di violenza hanno lasciato tracce sulla loro superficie. Un muro apparteneva a una scuola elementare pubblica e l’altro a un’impresa privata. Ho parlato con il direttore della scuola e con il proprietario dell’impresa del progetto, che avrebbe previsto il trasferimento dei muri per testimoniare questa tragedia. Entrambi hanno accettato. I muri sono stati rimossi e immediatamente ne hanno costruito dei nuovi al loro posto. Nel caso della scuola, la parete interna è stata intonacata e colorata di bianco in modo che un gruppo di giovani attivisti potessero lavorare con i bambini per dipingere un murale. I muri, soprattutto quello di Ciudad Juárez, diventano paesaggio urbano, su cui trovare, oltre alle tracce di queste sanguinose azioni, segni, simboli e graffiti tracciati dalle bande per marcare il territorio. Una volta esposti nel museo, in un ambiente sicuro, i muri stimolano una riflessione sui fatti di violenza, avvenuti in uno spazio pubblico.
Stessa cosa, per il Cubo. Come ha raccolto i rottami di un quartiere distrutto?
Nel caso di “Cubo”, a febbraio 2010 cominciai ad acquistare pezzi di tondino di ferro recuperati dai resti di edifici crollati in calle Mariscal, nel centro storico di Ciudad Juárez. Erano fabbricati che ospitavano locali notturni, ristoranti e bar che per oltre 80 anni avevano rappresentato un centro vitale della città. Gli edifici vennero distrutti per ordine del governo. Quando furono distrutti, centinaia di persone si trovarono senza lavoro e la tonnellata di ferro fuso, che è il peso reale dell’opera “Cubo”, rappresenta il peso simbolico della devastazione di quella zona. Camerieri, prostitute, tassisti, baristi, musicisti, lustrascarpe, fotografi, cuochi e travestiti furono costretti ad andarsene.
Pensa che ormai la provocazione nell’arte sia un’attitudine sterile? O c’è ancora bisogno di “provocazione” per lanciare messaggi?
– Non mi interessa la provocazione nell’arte. Non vedo l’opera in questi termini.
Lei racconta una realtà tragica attraverso linguaggi inaspettatamente semplici. La sua non è un’arte “urlata” o esageratamente provocatoria…
– Perché cerco di lavorare con la periferia del corpo, con ciò che resta, con la traccia
Riprendendo la frase della sua azione filmata “Camiseta”, creata appositamente per “Frontera” e svoltasi nelle città di Juarez, Kassel e Bolzano, “quanto dolore può sopportare ancora Ciudad Juárez”?
– Non so quanto possa sopportare ancora, però so quello che ha sopportato fino ad ora: l’omicidio di più di 600 donne e ragazze, più di 5000 morti in 3 anni, l’estorsione a danni di imprese e scuole, la manipolazione dell’informazione, la speculazione edilizia, l’esodo di oltre 200 mila persone, lo sfruttamento nel lavoro, la violenza urbana, sequestri di persona, il traffico di esseri umani, di droga e di armi, la militarizzazione, la distruzione del suo centro storico… e nonostante tutto Ciudad Juárez resiste.
Ha subito mai ripercussioni per il suo impegno e le sue denunce sui fatti di Ciudad Juárez?
(Teresa Margolles fa un gesto del capo come a dire “si, ovvio”) – Io non sono importante, io vado via quando voglio. È la gente che sta lì tutti giorni, loro sono i veri esposti. Credo che sia più esposta la popolazione nella sua quotidianità, di giorno in giorno.
Dopo il grande successo della mostra alla Gam di Torino lo scorso inverno, Raffaella Cortese è orgogliosa di presentare la prima personale in una galleria italiana di Martha Rosler. In mostra una selezione di lavori dagli anni ’70 fino ai suoi più recenti fotocollage, inediti in Italia, legati tra loro dall’idea del viaggio e della guerra che ha caratterizzato fin dai suoi inizi l’opera della Rosler.
Martha Rosler è una della più importanti figure nella scena artistica dagli anni ’60 ad oggi, nel suo lavoro pionieristico e sperimentale ha utilizzato diversi media: dal video alla fotografia, dall’installazione alla performance, al testo-fotografico fino a scritti critici. Il suo lavoro si è spesso interessato alla vita sociale e alla sfera pubblica manifestando spesso precise posizioni rispetto a temi quali il femminismo e la guerra.
Tra i lavori più noti della Rosler si riconoscono i fotocollage della serie Bringing the War Home (1967-72), che uniscono immagini di guerra a interni domestici confortevoli ed eleganti.
All’inizio dell’invasione dell’Iraq da parte degli USA, Rosler ritorna sulla serie degli anni ‘ 70, attualizzando i foto collage con nuovi spazi, tecnologie e la rappresentazione stessa della guerra, come è facile intuire in Prospect for Today, Point and shoot o Invasion (2008).
Retrospettive di Martha Rosler sono state realizzate in Europa e a New Yok, tra 1998 and 2000, al New Museum e allI’International Center of Photography. Nel 2007 Il Worcester Art Museum, Massachusetts ha dedicato una mostra solo ai suoi fotocollage.
I suoi lavori sono stati esposti recentemente alla Biennale di Singapore, WACK! Art and the Feminist Revolution al The Museum of Contemporary Art, Los Angeles, PS1 in Queens, UnMonumental al The New Museum, New York, Documenta 12 e Skulptur Projekte Münster, nel 2007; e Ambitions d’Art at Institut d’Art Contemporain a Villeurbanne, Francia, nel 2008.
I suoi scritti sono stati pubblicati sia in cataloghi che su riviste e 14 sono i suoi libri distribuiti in diverse lingue sulla sua produzione fotografica, di saggi e di testi. Decoys and Disruptions: Selected Writings, 1975-2001, un libro di saggi scritti da Martha Rosler è stato pubblicato dalla MIT Press nel 2004 (ristampato, 2008). Altri progetti includono la Biblioteca di Martha Rosler -Martha Rosler Library- , una mostra itinerante di 8.000 volumi provenienti dalla collezione di Martha Rosler e il progetto If you lived here still in collaborazione con e-flux.
Martha Rosler è nata a Brooklyn, dove vive e lavora. Ha insegnato al M.F.A. dell’ University of California, San Diego, e al B.A. del Brooklyn College. Il suo lavoro è nelle collezioni dei maggiori musei internazionali tra cui: the Metropolitan Museum, the Whitney Museum, the Museum of Modern Art, the Guggenheim in New York, the Art Institute of Chicago, the San Francisco Museum of Modern Art, the Art Gallery of Ontario, Victoria and Albert Museum di London, e le Generali Foundation in Vienna. Martha Rosler è costantemente invitata a tenere conferenze e convegni in tutto il mondo.
«Qui non ricamiamo cuscini», esordì sarcastico Le Corbusier dopo aver dato un’ occhiata al breve curriculum di quell’ ambiziosa biondina ventiquattrenne. Charlotte Perriand aveva osato bussare alla porta del già celebre studio di rue de Sèvres armata solo del suo diploma di decoratrice. L’ architetto del secolo non doveva essere un mostro di simpatia, però aveva la vista lunga: esaminò meglio il portfolio della ragazza, e decise di prenderla con sé affidandole lo sviluppo degli arredi per le rivoluzionarie abitazioni che stava progettando. Era la fine del 1927, la loro collaborazione durerà dieci anni tondi: gli anni ruggenti dell’ architettura modernista. Ed eccola Charlotte, l’ abbiamo già vista nelle fotografie d’ epoca, nelle réclame della maison Le Corbusier, ma senza riconoscerla, anche perché distoglie lo sguardo dall’ obiettivo per non rubare la scena al prodotto; eccola dolcemente sdraiata sulla celeberrima chaise longue basculante che forse è più sua che del suo maestro, collaudatrice della sua stessa creatura, la gonna che lambisce civettuola il ginocchio, le belle gambe scandalosamente più in alto della testa, nell’ inedita posizione yoga del nuovo relax funzionalista. Finalmente una mostra al Petit Palais svela quale complessa personalità di donna c’ era davvero dietro quell’ improvvisata modella: la designer, la militante antifascista, l’ artista brut, l’ ecologista ante litteram, la fotografa d’ avanguardia e forse, azzardiamo pure, il volto più flessibile, sensuale e umano (femminile?) del corbusierismo, con le cui rigidità teoriche alla fine, con sofferenza ma determinazione, tagliò i ponti. Una dolce ragazza di ferro in una eccitante era di metallo. Il tubolare cromato domina i tavoli da disegno della gioventù dorata dell’ architettura, è l’ esoscheletro lucente dei nuovi scioccanti arredi che rifiutano il legno, materiale troppo compromesso dagli arzigogoli art nouveau. La giovane Perriandè associata allo studio di Le Corbusier e del cugino Pierre Jeanneret, ma raduna nel suo studio privato di place Saint-Sulpice un’ équipe professionale indipendente, giovane, aggressiva, che sfrontatamente si battezza “Unité de choc”. Il loro sguardo è avido dell’ estetica senza autore delle nuove forme industriali, per la forza della funzione pura. La Nike di Samotracia dei nuovi progettisti è il pont transbordeur del porto di Marsiglia, gigantesco insetto metallico, che affascina anche i fotografi della nuova oggettività, e tra loro c’ è anche Charlotte, che ha imparato dalla sua amica Dora Maar, la musa di Picasso, come la fotocamera sia il terzo occhio del creatore. Dalle banchine alle cucine: è Perriand che rivoluziona la divisione degli spazi della casa d’ abitazione, aprendo la cucina sul soggiorno, rompendo il serraglio che separa la padrona di casa dagli ospiti. Ma è ancora presto per sognare la femme nouveau. Un’ inchiesta che lei stessa organizza speranzosa fra le massaie dei quartieri popolari gela gli entusiasmi della giovane designer: le donne di casa degli anni Trenta sognano ancorai trumeau, le vecchie dispense, gli spazi piccolo-borghesi. Lo shock è tutto suo, questa volta. Pian piano, il paternalismo razionalista e universalista comincia a star stretto a Charlotte, che pure partecipa (tra le rarissime donne) a quel congresso Ciam di Atene che partorirà il manifesto dell’ architettura moderna. Bisogna,è il suo motto, «aprire l’ occhio a ventaglio». Esplorare i bordi della visione, dove stanno gli oggetti meno evidenti, più scontati, più “normali”, perché è da lì, e non dalla teoria, che può ripartire, più umana, più rispettosa della natura, la creazione dell’ ambiente per l’ uomo. Il suo occhio a ventaglio diventa un grandangolo fotografico. Il suo compagno di esplorazioni sarà per anni Ferdinand Léger, il «quarto cubista», con cui scopre una complicità intellettuale, affettiva, artistica che resisterà decenni. Insieme girano il mondo vicino e lontano, dalle coste del Mediterraneo al Giappone, dall’ Olanda alla Russia, in cerca dell’ art brut che si nasconde nei ciottoli, nelle reti dei pescatori, nei legni contorti, nei profili degli scogli modellati dal vento, negli «oggetti selvaggi», ribelli alla riga e alla squadra. Scopre che l’ angolo retto, che per Le Corbusierè un fondamento, non si trova nel repertorio della Natura. Si pente di quel suo manifesto del design, Wood or Metal?, quando ovviamente lei tifava per il Metal, abiura i suoi tubi cromati, riscopre il legno e le sue imperfezioni. Sceglie la molteplicità e l’ unicità contro l’ universalismo. Il locale contro il globale. L’ episodico contro il premeditato. Nella mostra di Parigi il legame fra le fotografia che porta a casa e i mobili che produce è sottolineato e impressiona: le vele di una nave vista sull’ Adriatico diventano un letto economico per clochard, lo snodo di un albero maestro fotografato in Croazia, una lampada girevole. Anche la Storia, del resto, non va in linea retta. Nubi sull’ Europa: la guerra di Spagna. Charlotte sta con gli intellettuali antifascisti che si riunisconoa Parigi. Non prenderà la tessera del Pcf, ma respira la stessa aria di Aragon, di Gide, di Rolland. Il suo lavoro, nella Francia del Front Populaire, è sempre più sociale e politico: poster, manifesti, pannelli per esposizioni. Le Corbusier è sempre più distante, e la frattura è inevitabile: lui la rimprovera di volergli mettere contro i giovani del suo atelier, lei lo saluta con un sofferto arrivederci: «Benché i nostri scopi siano simili, la base delle nostre ideologie è differente. Non dispero che un giorno potremo incontrarci di nuovo». È il 1937: per Charlotte comincia il lungo viaggio solitario della sua lunghissima vita (morirà novantaseienne nel ‘ 99). Il grande architetto le chiederà ancora aiuto occasionale, ma non le perdonerà mai la sua dichiarazione d’ indipendenza. Eppure in quella sua cappella di Ronchamp, splendido sorprendente canto del cigno, con quel tetto curvo e organico, conchiglia, osso di pesce, relitto spiaggiato dalla risacca, chissà, forse c’ è l’ eco di quella via poetica e naturalistica al razionalismo che una ragazzina ribelle con gli occhi a ventaglio gli aveva fatto intravedere. © RIPRODUZIONE RISERVATA – MICHELE SMARGIASS
Le mille vite di un genio chiuse in un armadio di ferro
Il libro
di AMBRA SOMASCHINI
L’armadio era di ferro e occupava la parete di un studio poco arredato. Il genio
di Charlotte Perriand era lì dentro. Quaderni, progetti, fotografie, negativi,schizzi, disegni trovati e archiviati dalla figlia Pernette, osservati, numerati,selezionati, ristampati e studiati per quattro anni da Jacques Barsac, regista di documentarisull’eccentrico milieu del gruppo Perriand, Le Corbusier, Léger, Jeanneret.Della Perriand in Italia si sa poco. La sua vita insieme ai suoi scatti, ai suoi arredi,
ai suoi oggetti, alle sue architetture di interni ed esterni è stata ricostruita ora da Barsacin Charlotte Perriand et la photographie. L’oeil en eventail (5 Continents, 365 pagine,59 euro) in libreria dalla prossima settimana in tutto il mondo e in una mostra itinerante, fino al 18 settembre 2011 al Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville di Parigi e che nel 2012 approderà in Italia e in Giappone.
Il collante tra testo ed esposizione sono la fotografia («une machine à créer»), glioggetti, la natura e il fotomontaggio come parte integrante della sua creatività. Duemila metri quadri di saloni, quattrocento scatti, settanta visioni di arredi indoor. Al Petit Palais ci sono la chaise longue basculante, i ponti di ferro, i quartieri di Parigi, le vette delle montagne, i ghiacciai, i tronchi degli alberi spezzati e sezionati con tutte
quelle venature che vanno dall’ocra al tabacco e ai beige, gli scheletri dei pesci e degli animali, le prospettive del Partenone. Gli oggetti sono i tasselli di questo mosaico intellettuale («fragmentation visuelle»). Lo slogan di Cassina che riproduce i mobili Perriand nella collezione “I maestri” è «Quand le design devient art».
Quello che le interessava di più era sottrarre, era la sobrietà, il minimalismo, il vuoto: «Il vuoto è onnipotente perché può contenere tutto». Nel 1926 aveva sposato Percy, un inglese naturalizzato francese e aveva dovuto traslocare. Si era portata una scopa, due piatti, due forchette, due pentole «per poterne avere sempre un esemplare pulito quando l’altro era sporco». Le avevano chiesto, in un’intervista, quale fosse l’elemento fondamentale dell’arredo domestico e lei aveva risposto: «Tutto ciò che permettedi riporre oggetti». Come quell’armadio a parete
che Charlotte ha lasciato a Pernette e che Pernette ha gestito dalla morte della madre nell’ottobre del 1999.
Solo attraverso le domande si va avanti nella vita dice Caroline Bourgeois. E lo dimostra organizzando nei vecchi magazzini di Punta della Dogana, a Venezia, una grande mostra d’arte contemporanea che mette tutto in discussione. Come fanno da sempre gli artisti. E le donne.
di Angela Frenda
Ingresso riservato solo a chi ha dubbi. E se li vuole tenere. Perché la mostra che apre il 10 aprile a Punta della Dogana, a Venezia, ha un intento dichiarato già nel titolo
dal richiamo brechtíano: Elogio del dubbio. Un’invenzione della curatrice, la svizzera Caroline Bourgeois: «Dubitando si va avanti, si procede nella vita. E gli artisti sanno fare tante domande…». È lei che ha preso in mano í vecchi magazzini della Dogana da Mar, il centro di arte contemporanea dove la fondazione del magnate Francois Pinault espone in modo permanente, dal giugno 2009, una selezione di opere della sua gigantesca collezione.
Ma a dubitare di pìù, in questo evento, saranno le donne: «È oggettivo: noi ci poniamo molti interrogativi» sorride Bourgeois strizzando gli occhi chiarissimi. E, mentre si toglie l’elmetto da operaio, ci accoglie nell’ingresso della Dogana. Fuori, un sole improvviso accompagna i turisti in giro per Dorsoduro.
Nelle stanze dell’edificio seicentesco restaurato dall’architetto giapponese Tadao Ando, invece, molti artisti stanno completando le loro installazioni: operaí, fiamma ossidrica, cemento… Il cantiere procede in una tranquilla frenesia.
È stata Bourgeois a volere questa connotazione “al femminile” per la grande mostra che rimarrà aperta fino alla fine del 2012. Su 19 artisti (tra cui Jeff Koons, Maurizio Cattelan e Bruce Nauman), sono quattro le donne protagoniste, oltre alla stessa Caroline.
Fanno parte della collezione Pinault Roni Horn ed Elaine Sturtevant. Mentre ad altre due sono affidati i progetti speciali: Julie Mehretu e Tatiana Trouvé. A loro il compito di “creare” opere sitespecific nelle due stanze simbolo della Dogana.
Ma attenzione: guai a parlare di quote rosa, qui dentro: «Trovo molto pericoloso segnare una dif-ferenza: è colonialismo» avverte Bourgeois. «La vera parità? Quando si annullerà l’identità sessuale nel giudicare».
Julie Mehretu è al lavoro nella “scatola” di calcestruzzo che Tadao Ando ha creato al centro dell’edificio, e che comunica con tutti gli altri ambienti. Il cuore della Dogana.
Sta ultimando con i suoi collaboratori i due grandi quadri che compongono Untitled. «Ti piacciono?» chiede, torcendo un capello nerissimo. Quarant’anni, nata ad Addis Abbeba, omosessuale, con la sua compagna, l’artista Jessica Rankin, ha avuto due bimbi: Cade e Haile. È con-siderata una star dell’arte contemporanea internazionale, ma per questo progetto dice di essersi emozionata: «Volevo usare questa stanza come il punto di una cartina geografica dove due città, Venezia e New York, due isole, dialogano e si sovrappongono tra interessi economici, politici e sociali».
Sorpresa che siano due donne ad avere i progetti speciali? «No. Il fatto stesso che io, pittrice di colore e donna, sia qui oggi, lo devo a quelle che in passato hanno combattuto per me. Ma ora la libertà, almeno nel m ío campo, è tangibile. Io rappresento il cambiamento».
PIÙ AVANTI, quasi alla fine del percorso, si arriva nell’ambiente affidato a Tatiana Trouvé: la stanza dove venivano smistate un tempo le merci. Esile, quasi eterea, 42 anni, è nata a Cosenza ma poi si è trasferita in Senegal dove il papà ha insegnato architettura. Oggi vive a Parigi ed è anche lei molto quotata sulla scena mondiale. Per Punta della Dogana ha realizzato l’opera Appunti per una costruzione: «Sono partita da questo spazio per ridefinire le cose: quì le merci entravano dal Canale della Giudecca e uscivano, mutate, sul Canal Grande. Io stessa mi sono sentita intrappolata. E ho cercato di portare tutto il mio lavoro, anche nell’assenza.
Nota di Zina Borgini.
Pubblico sulla rubrica da me curata questa intervista a Caroline Bourgeois, perchè l’ho trovata interessante e perchè sottolinea e da voce al lavoro di molte artiste che hanno trovato una collocazione importante in tutte le manifestazioni d’arte. Non sono daccordo con lei però su quello che ho sottolineato nel suo disquisire, ancora una volta devo chiarire a una donna che si esprime nel mondo dell’arte che l’identità sessuale ormai non è più un disvalore (colonialismo), ma è un plusvalore, una differenza che non si può cancellare anche perchè le opere stesse delle donne parlano e la annunciano. Piuttosto bisogna sostenerla con forza per non essere discriminate, certo non servono quote rosa ma neppure la cancellazione, tanto meno l’omologazione. Per avere riconoscimenti andiamo fiere e a testa alta di essere donne, soprattutto di questi tempi dove il potere maschile fa solo danni anche in campo artistico (una parità che certo non ci farebbe onore).
di Paola Nicita
Lo sguardo sull’ altro,a volte diventa lo sguardo dell’ altro: e così tra conoscenza e incontro il pensiero assume le nuove forme di uno spostamento, inteso come modifica soggettiva e al contempo analisi globale. “Chassis – Croisès” prende spunto da una figura di danza, quella per l’ appunto in cui dama e cavaliere scambiano i loro posti – e dunque modificano la percezione di sé e dell’ altro – per approdare a un discorso sulla semantica nel progetto allestito al Centro d’ arte Piana dei Colli, a Villa Alliata Cardillo, curato da Giulia Ingarao e Marìa Jesus Martinez Silvente. Un progetto espositivo che ha visto una forte volontà collaborativa per chiamare in causa le artiste selezionate: da Palermo arrivano Anne-Clémence de Grollée e Marjolein Wortmann, da Amsterdam Esther Burgher e Patricia Haersenhout, da Siviglia Ruth Moràn Mèndez e da Malaga Laura Brinkemann Reimann. Il percorso espositivo – allestito da Agnese Giglia- propone una sequenza di stanze, una per ciascun artista, doveè leggibile il lavoro sia nella sua singolarità che nel suo raccordarsi in un unico filo. Le artiste hanno scambiato le loro residenze: una modalità abbastanza diffusa, ma che qui ha fatto leva anche su un aspetto maggiormente personale. Iniziamo dalla fine, con uno dei progetti, quello di Patricia Kaersenhout, che sembra più efficacemente concretizzare la riflessione su una serie di concetti, dall’ identità al neocolonialismo, passando per una frammentarietà dell’ esistenza che a ben vedere assurge ad emblema di una condizione umana nutrita, per sua stessa natura, di spostamento, di mancanza di basi e certezze. Kaersenhout, nata in Olanda da genitori provenienti dal Suriname, propone “Zio Tom Project”, una serie fotografica realizzata a Palermo, in cui il celebre libro “La capanna dello Zio Tom”, è emblema di cancellazione dei visi delle persone che l’ artista ritrae con una fotografia. Altri lavori prendono in prestito gli emblemi del colonialismo, quelle perline di vetro e specchietti che venivano scambiati con gli indigeni per pietre preziose, per restituirli al loro ruolo decorativo. Anne-Clémence de Grolèe si appropria delle icone legate all’ Olanda, mucchee tulipani, le lega alle nuove architetture contemporanee che hanno alterato il celebre landscape tutto verde e bovini, e le rimaneggia in una direzione inedita e al contempo familiare, frutto – anche qui – di una summa di identità, come del resto accade anche nelle gouaches di “Flyng Dutch Cows”. Identità che si moltiplicano e a volte si annullano, ed ecco le fotografie con i tulipani “seriali”, uguali a se stessi, pronti a trasformarsi in codici a barre, in cerca di altre identità. Le suggestioni del paesaggio di Mondello e Sferracavallo sono gli spunti emotivi dai quali trae ispirazione il lavoro di Ruth Moràn Mèndez, che assembla una serie di fogli minuziosamente percorsi da segni minuti, quasi tracce di una memoria pulviscolare, astratta eppure insolitamente pregnante nella definizione di paesaggi d’ anima. La madre, nelle declinazioni più insolite, dal sacro al profano, è la presenza costante delle opere di Majolein Wortmann, che la Settimana santa di Siviglia e la festa della Madonna del Capo incrocia strappi di manifesti e inserisce decorazioni, tornando poi a riproporre quelle “vestagliette” da lei reinventate che sono un po’ la divisa da ordinanza delle donne del sud, tutte casa, lavoro e chiesa. Esther Burger recupera frammenti di libri e stoffa, li accosta per dar vita e nuovi racconti, ricoprendole con strisce sottili di silicone trasparente, per uno sguardo “disturbato”: la visione è tremula anche nel video e nelle immagini di Laura Brinkmann, che gira per i mercati siciliani e spagnoli, dando vita ad immagini fuori fuoco che ancora una volta narrano l’ inconsistenza del visibile.
di Gian Maria Annovi
Un dialogo con Marina Abramovic dopo la retrospettiva al MoMa di New York. Per tre mesi l’artista, in una nuova performance realizzata per la mostra, è rimasta seduta nel museo, in silenzio e senza interruzioni, disposta a guardare negli occhi chiunque si volesse sedere di fronte a lei.
Ormai quarant’anni fa, in una delle sue prime performance, Marina Abramovic si spazzolava i capelli fino a farsi male, ripetendo che l’arte deve essere bella (Art must be beautiful, 1975). Già allora era implicito che nel suo lavoro di performer il corpo dell’arte e il corpo dell’artista, con la sua concreta presenza fisica, non sono facilmente separabili e che è attraverso quest’ultimo che si devono mettere in crisi le convenzioni e gli assunti più comuni. Senza il rigore assoluto con cui Abramovic ha esplorato i limiti del corpo e della mente, il mondo dell’arte contemporanea non sarebbe quello di oggi e la performance art verrebbe forse ancora considerata come una forma d’arte minore ed effimera.
Riconoscendole questo ruolo centrale, il Museum of Modern Art di New York le ha appena dedicato una mostra retrospettiva, la prima in assoluto per un artista performativo. Curata da Klaus Biesenbach e intitolata The Artist is Present, oltre a ripercorrere quarant’anni di lavoro artistico, a partire dalle opere degli anni ’70 realizzate in coppia con l’artista tedesco Ulay, e in parte riprodotte impiegando giovani performer, Abramovic ha anche creato appositamente un nuovo lavoro che ha catalizzato in maniera inaspettata l’attenzione del pubblico e dei media americani. Nell’orario di apertura del MoMa e per i tre mesi di durata della mostra – 736 ore e 30 minuti, per l’esattezza – Marina Abramovic è rimasta seduta, senza interruzioni e senza parlare, in un’ampia area del museo, disposta a guardare negli occhi chiunque volesse sedersi di fronte a lei. Al termine di questa performance davvero epica, che si è conclusa il 30 maggio, abbiamo intervistato l’artista mentre si trovava nella sua casa di campagna vicino a New York, dalle cui finestre dice di osservare, di tanto in tanto, i cervi di passaggio.
Il titolo della sua mostra, con il suo richiamo alla presenza, mi pare si possa leggere anche come un’affermazione circa il ruolo dell’artista in questa società sempre più virtuale. È così?
Assolutamente sì, soprattutto se parliamo di performance. Quando il curatore della mostra mi ha suggerito questo titolo ho subito capito che non avevo alternativa: dovevo veramente essere presente. E così ho lavorato a una performance minimale, fatta quasi di nulla, il più immateriale possibile. Il pubblico viene sempre visto come gruppo e mai come somma di individui reali, ma creando una zona in cui lo spettatore è invitato a partecipare individualmente, a sedersi di fronte a me, si è stabilita una situazione completamente personale, una relazione concreta tra pubblico e artista. È per questo che tanta gente ha pianto ed ha mostrato le sue emozioni. È stato incredibile.
Come si è preparata per questa performance?
Ho iniziato la preparazione fisica sette mesi prima, modificando radicalmente la mia dieta. Sono stata in India, in una clinica ayurvedica, per purificare la mente e il corpo e ho fatto moltissimi esercizi. Avevo quasi la sensazione di essere un astronauta in partenza per lo spazio. Pensi che c’è gente che si è perfino chiesta come urinassi mentre stavo seduta per ore: semplicemente non lo facevo. Dopo aver performato per quarant’anni credo mi si possa riconoscere di essere almeno in grado di saper controllare il mio corpo.
Vederla al MoMa, in silenzio su quella sedia, mi ha fatto venire in mente uno dei personaggi di Teorema di Pier Paolo Pasolini. Conosce questo film?
Non solo lo conosco ma è il mio film di Pasolini preferito. Ne conosco ogni singolo fotogramma. Per tutta la mia vita ho sognato di rifarlo. Laura Betti, che raggiunge uno stato di illuminazione spirituale e inizia a levitare, è assolutamente meravigliosa. È un film interessantissimo, vorrei davvero farne un remake un giorno o l’altro.
Pensavo proprio alla radicalità del personaggio della cameriera interpretato da Laura Betti. Non a caso la levitazione è un’idea che anche lei ha esplorato in molte delle sue performance. Anche nel suo lavoro, oltre all’attenzione sul corpo, c’è una forte componente spirituale, persino mistica.
Nella maniera più assoluta, anche se nel mondo dell’arte la gente non ama parlare di spiritualità. È una forma di strano tabù. Per questo non parlo mai direttamente di misticismo anche se è un’esperienza che ho sperimentato su di me: quando la gente mi si sedeva di fronte durante The Artist is Present, era come se il loro spirito si aprisse, vedevo la loro luce mentre tutto intorno spariva. Dopo un po’ anche loro non erano più consapevoli dei suoni che li circondavano e io stessa non ero altro che uno specchio, tanto da svanire del tutto nella loro percezione. Riuscire a fermarsi e riflettere sulla propria vita è di certo un traguardo spirituale.
Che cosa ha significato lavorare con la perfomance in uno spazio istituzionale come il MoMa, dove pubblico e performer sono costantemente controllati?
Prima di tutto sono stanca che la performance art venga considerata una forma d’arte alternativa. Della mia generazione nessuno fa più performance: sono rimasta solo io. Sentivo il dovere di fare della performance una forma d’arte mainstream e quando ho ricevuto l’invito dal MoMa ho subito capito che quella era la mia grande opportunità, tanto che ho deciso di dare tutta me stessa, per tre mesi. Tre mesi d’inferno, ma ce l’ho fatta. È vero, queste grandi istituzioni hanno delle regole, moltissime regole. Quello che posso dire è che durante la mia performance la security mi ha facilitato, aiutando il pubblico a concentrarsi, a concentrarsi su se stessi. Ma a parte questo, bisogna essere disposti al compromesso, che non deve però mai essere totale.
Può spiegare meglio cosa intende?
Per Imponderabilia, per esempio, il pezzo che feci originalmente con Ulay a Bologna, l’idea della performance era che l’artista costituisse l’ingresso del museo: al MoMa l’attenzione è invece stata tutta sulla nudità dei performer che stavano uno di fronte all’altro obbligando il pubblico a passare in mezzo a loro. Così, rispetto alla versione di Bologna, hanno voluto un’apertura più larga. I performer coinvolti nell’opera, però, hanno cominciato di propria iniziativa ad avvicinarsi di più, in modo da ricreare ugualmente la stessa situazione. Credo davvero che cercare di far diventare questa disciplina parte del circuito artistico istituzionale possa aiutare le generazioni di artisti più giovani. Per questo considero la mia mostra al MoMa molto importante per il significato attuale della performance art. E la ragione della sua importanza è che quando entriamo in un museo non abbiamo mai nessuna esperienza personale. È questo il motivo per cui uno straordinario numero di persone ha partecipato, ha atteso, ha pianto: sembrava una specie di Lourdes. Questa è la cosa che ha completamente shockato il museo.
Nel caso di Imponderabilia, la stampa americana si è scatenata dopo che diversi membri del pubblico sono stati allontanati per aver toccato i performer nudi. Crede che questa reazione abbia a che vedere con un recente cambiamento nel modo di rapportarsi al corpo?
No, non credo, è davvero un problema dell’America: gli americani hanno un atteggiamento malato verso la nudità. Quando Janet Jackson ha mostrato accidentalmente un capezzolo in tv, se n’è parlato di più che della guerra in Iraq. È una maniera come un’altra di deviare l’attenzione generale. Sono rimasta sconvolta dal basso livello con cui i media si sono occupati della mia mostra: sembrava che volessero mantenere la gente nella stupidità. Era tutto un parlare di nudità, di erezioni… ma non uno che abbia colto l’aspetto poetico di Imponderabilia. Un’opera, vorrei ricordarlo, del 1977.
Tra i critici d’arte, qualcuno si è invece scandalizzato per la sua idea di re-performance. Perché ha deciso di riproporre, usando giovani artisti, cinque delle sue performance storiche accanto alle foto e ai video delle opere originali?
È molto semplice. All’inizio, negli anni ’70, nessuno, me compresa, pensava neanche lontanamente non solo di riperformare ma nemmeno di ripetere una performance. Era un assoluto tabù: non si prova, si fa la performance, non si ripete. Ma poi negli anni ’80 e ’90 molti giovani artisti hanno iniziato a scoprire alcuni pezzi ormai storici e a farli propri. E altrettanto giovani critici, senza alcuna cognizione della storia dell’arte, li elogiavano come se fossero nuove creazioni. Come quando anni fa una ragazza ha dormito per giorni in una galleria di Londra…
Sta alludendo a Tilda Swinton alla Serpentine Gallery?
Esatto, una banalità assoluta. Ci sono molti altri artisti che hanno dormito in pubblico a partire dagli anni ’70 e nei contesti più diversi: ma a questo non si accenna nemmeno. E poi se si guarda Mtv, la danza, il teatro, hanno tutti preso elementi e immagini della performance art cambiandone il contesto. È una cosa che mi fa infuriare: se usi un brano musicale o una citazione da un libro devi dire chi è l’autore. Puoi prendere Bach e creare del techno-Bach, ma non puoi evitare di dire che è Bach. La performance, invece, nessuno la rispettava, era una terra di nessuno, perché veniva considerata una forma d’arte alternativa. Ed è per questo che, nel 2005, ho riproposto sette performance storiche di vari artisti al Guggenheim di New York.Secondo me l’unico modo in cui la performance può sopravvivere è proprio la re-performance, perché la rende viva e non solo una cosa morta nei libri. Ma in tal caso bisogna stabilire delle regole: innanzitutto chiedere all’artista il permesso, in secondo luogo pagare i diritti direttamente all’artista o alla fondazione che lo rappresenta, nel caso sia morto, poi occorre comprendere il pezzo originale, farlo proprio ma sempre facendo riferimento all’autore. Durante la mia mostra, un gruppo di artisti senza curatore è venuto a dirmi che stavano per farmi l’onore di riperformare, senza però avermi chiesto alcun permesso, diversi miei lavori, compresi Rhythm 0 e Rest Energy. Ma io non do il permesso di rifare tutti i miei pezzi, e soprattutto non darei mai il permesso di rifare quelli più pericolosi, come Rhythm 0! In un certo modo ho aperto un vaso di Pandora. A suo tempo l’ho fatto con le migliori intenzioni ma la situazione ora è fuori controllo. Devo capire come educare meglio queste nuove generazioni a rispettare la tradizione.
Come mai i suoi primi lavori erano più legati all’idea di pericolo mentre oggi si concentra invece su tempo, autocontrollo e presenza?
Prima di ogni altra cosa mi sono sempre concentrata sul corpo. Non sarei mai arrivata dove sono ora, se non lo avessi fatto. È stato uno sviluppo logico. Nel mio lavoro dovevo conoscere il corpo, comprenderne i limiti, controllare il dolore. E a dire la verità anche se le mie prime performance erano più pericolose erano molto più semplici dei lavori di lunga durata che sto facendo ora, per i quali occorre davvero un’incredibile forza di volontà. Quello che ho appena fatto al MoMa per tre mesi, ad esempio, è estremamente difficile. Ho guardato 1565 paia di occhi: sono cose che ti cambiano profondamente. La vita non mi ha mai cambiato, è stato il mio lavoro a cambiare la mia vita.
Come vede il futuro della performance art e quali sono i suoi progetti attuali?
Penso che di recente la performance abbia avuto un grande revival tra le giovani generazioni di artisti. Sto lavorando alla creazione del mio Institute for Performing Arts, che voglio aprire nel 2012 a Hudson, New York. L’istituto avrà una scuola, ma anche una commissione di artisti per far realizzare opere di lunga durata. Tutto quanto verrà prodotto dovrà essere di almeno sei ore di durata, non meno. Sarà il primo luogo al mondo dedicato solo a opere di lunga durata, perché è questa la forma d’arte che ha oggi il maggiore potenziale trasformativo. E poi vorrei dedicarmi all’educazione del pubblico. Nessuno lo ha mai fatto veramente. La gente guarda l’arte attuale come faceva nel XIX secolo. Invece quello che succede oggi, come ha detto Damien Hirst nella sua ultima mostra, è che siamo veramente alla fine di un’era, la fine dell’epoca del consumismo materialistico. La gente è stanca della cultura materialistica, è persa in un mondo tecnologico, ha bisogno di qualcosa di diverso e la performance non è solo una forma d’arte, ma un grande strumento per ritrovare se stessi.
A Terni L’omaggio a «Tinissima». Bella e comunista, e ai suoi scatti crudi e sensuali
Il percorso La storia di un’artista che abbandonò la macchina fotografica per la rivoluzione
Nacque a Udine nel 1896, emigrò in America a 17 anniTinissima la chiamava sua mamma, e «Tinissima» è il titolo della mostra a Terni che celebra
Tina Modotti, attrice, rivoluzionaria,fotografa, spia, crocerossina, attraverso le sue fotografie.
Di Sandra Petrignani
Le fotografie di Tina Modotti che ritraggono dettagli di fiori, primissimi piani di calle, rose, lilium, rimandano ai quadri dell’americana Giorgia O’Keefe, successivi di qualche decennio,: ne hanno la stessa indecente sensualità, un carnale amore per la natura e la vita. E’ la sorpresa più grossa che mi riserva la mostra Tinissima, aperta fino al 4 aprile a Terni, Palazzo di Primavera. Non avevo mai visto queste fotografie. I primi piani di mani sì, li conoscevo, li vedi una volta e non li dimentichi più, mani stanche e impolverate di operai, di contadini, di vecchi, mani umili, delicate e forti insieme. Poi ci sono i bambini, quanti bambini seri negli scatti della Modotti, pensierosi dentro i loro stracci. Uno per tutti: un piccoletto di sei anni all’incirca, interamente coperto da una sciarpa sporca e con un cappelletto di paglia storto in testa, solo e preoccupato, contro lo sfondo di aridi cactus giganti a sottolineare la durezza della sua ancora breve esistenza.
Non basta qualche lieve sorriso sulle labbra di donne fiere, quella che porta una bandiera rossa tanto più grande di lei, quelle che avanzano con cesti e vasi sul capo, una concentrazione sofferta sui loro volti come su quello dell’autrice: gli occhi fondi e neri di Tina, il disegno amaro della bocca, quasi presaga di un destino difficile, luttuoso, calunniato. Quante vite ha avuto Tina Modotti? Attrice, fotografa, rivoluzionaria, spia, crocerossina. «Mi considero una fotografa, e niente altro» aveva detto di sé. Ma per affermare che non c’era niente di artistico nel suo lavoro, perché la parola arte la metteva a disagio, le dava «una sensazione sgradevole».
Non le piaceva l’aura di eccezionalità intorno agli artisti, lei era dalla parte della vita, con le sue tragiche ingiustizie. E quella scelse a un certo punto, buttando la macchina fotografica alle ortiche e votandosi totalmente alla rivoluzione comunista, che l’avrebbe tradita. Friulana di Udine, nata nel 1896 da famiglia modesta, comincia a lavorare in una filanda a tredici anni, a diciassette s’imbarca per San Francisco per raggiungere il padre emigrante. Fa la modella, l’attrice, diventando una diva del cinema muto. Poco più che ventenne sposa un artista e poeta bohèmien dai folti riccioli, che morirà in Messico per un’improvvisa malattia cinque anni.
Intanto Tinissima, nome che le dava la madre da piccola giocando a rendere superlativo il diminutivo di Assuntina, ha già conosciuto il grande fotografo statunitense Edward Weston, con cui intreccia un rapporto nutritivo e passionale. Lui, famoso seduttore, capitola per Tina, ne è gelosissimo, ma la asseconda nel sogno anticonformista del libero amore. E intanto la fotografa mentre prende il sole, completamente nuda, sensualissima, sulla terrazza della loro casa di Città del Messico, dove si sono trasferiti, dove frequentano Diego Rivera, Frida Khalo e gli altri comunisti rivoluzionari. E’ proprio Tina durante una festa in quella sua casa ospitale, luminosa, detta «la nave» per l’atipica forma angolare, a presentare Frida a Diego, di cui probabilmente la bella italiana, presente in tanti murales dell’artista messicano, è una delle numerose amanti.
Per la seconda volta nella vita Tina diventa famosa, una fama che non vuole e anzi cerca di sfuggire, una fama di scandalo oltre tutto: le foto che Weston le ha scattato le creano intorno un’aura pericolosa, da femme fatale che non è. E’ anzi, a detta di chi l’ha conosciuta, una donna modesta e tranquilla, dolce, ma intransigente. Una che parla poco e guarda molto, direttamente e attraverso l’obiettivo che Weston le ha insegnato a usare. Era un fotografo lo zio friulano Pietro Modotti e il padre, Giuseppe, aveva aperto uno studio fotografico a San Francisco. Tina era dunque in qualche modo predestinata alla fotografia.Ma poi conosce il grande amore, il giornalista rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella con cui passione e politica si mescolano in un incontro incandescente. E’ il 1928, la favola dura pochissimo. Il 10 gennaio dell’anno successivo Mella viene ucciso, mentre cammina di sera abbracciato a Tina. Vittima del governo cubano a cui si opponeva? Stroncato da un sicario di Stalin, che non ammetteva deviazioni anarchiche? Qui il destino di Tina s’incrina per sempre, da ora in poi sarà una marionetta della storia che la gioca in diversi scenari di cui lei non sembra più avere il controllo. Viene accusata del delitto di Mella per motivi passionali. Diego Rivera si batterà come un leone per dimostrare la sua innocenza. Ma la vita di Tina è spezzata. L’anno successivo abbandona il Messico. Sulla nave verso l’Europa c’è anche l’ambiguo Vittorio Vidali, un attivista staliniano dai molti scheletri nell’armadio. Forse ha perfino ucciso lui Mella, forse, per aver via libera con Tina. Ma Tina non sospetta niente, è sola.
Tenta di resistere alle insistenze di Vidali di trasferirsi in Russia. Va da sola a Berlino, dove già aleggia un clima prenazista. Qui potrebbe diventare una fotoreporter, questo le viene proposto. Ma lei scrive a Weston: «Non sono adatta, non sono così aggressiva. La mia fotografia ha bisogno di tempi lenti, di calma». E’ la rinuncia definitiva alla macchina fotografica. Ed è probabilmente la scelta peggiore che fa: accetta di entrare nel Comintern, diventa una spia per il Soccorso Rosso Internazionale di Vidali. Nel ’33 è a Parigi a soccorrere i rifugiati politici, nel ’36 volontaria nella guerra di Spagna, fa la cucina, cura i feriti. Vede con i suoi occhi gli orrori di cui si macchiano «i suoi». Forse finalmente le crolla il velo su Vidali, al quale la storia s’incaricherà di attribuire fino a 400 omicidi di anti-staliniani. Nel 1939, irriconoscibile, invecchiata, stanchissima Tina Modotti torna in Messico, il paese delle illusioni, dove aveva conosciuto una breve felicità. Esce dal silenzio soltanto per dichiarare il suo dissenso sul patto di non aggressione fra Stalin e Hitler. Forse firma così la sua condanna a morte. Tre anni dopo muore misteriosamente in un taxi.
Per un infarto, hanno detto. Ma c’è chi sostiene che Vidali si trovava anche lui di nuovo a Città del Messico. Sarebbe morto dopo molto tempo, nel 1983, senatore della Repubblica italiana, portando nella tomba i suoi segreti. Un bel film-documento realizzato da Silvano Castano per Cinemazero e la Cineteca del Friuli, utilizzando i materiali degli Archivi Modotti di Pordenone, è in vendita nella sede della mostra di Terni.