Quasi tutti i mezzi d’informazione di oggi, 5 febbraio, si occupano della vicenda dello stupro della tredicenne a Catania. Alcuni si pongono il problema di cosa dicano le donne, in particolare le femministe, di questo stupro che è stato commesso da giovani maschi, alcuni minorenni, di nazionalità non italiana. Molti di coloro che si pongono questa domanda sono uomini.

A quanto mi risulta ben pochi uomini sui mezzi d’informazione si pongono, di contro, la domanda di cosa pensiamo, diciamo e facciamo noi maschi, me compreso.

Forse, in questi casi invece di guardare sempre al fuori di noi, di rendere esterno a noi il problema della violenza, in questo caso anche sessuale, e di puntare il dito accusatore verso altri uomini, meglio se stranieri, sarebbe il caso che volgessimo il dito, lo sguardo su di noi, sui nostri silenzi e sulle nostre omissioni. E tentassimo, con le parole e con le azioni, di cambiare lo stato di cose esistente, senza pensare che violenza sia sempre agita da altri, e non da noi stessi.

(Via Dogana 3, 5 febbraio 2024)

Nel mese di novembre si è consumato, davanti agli occhi di tutti – in una morbosa diretta televisiva, a cui ormai siamo purtroppo abituati – l’ennesimo femminicidio: la vittima era Giulia Cecchettin. Siamo stati tutti, per una settimana, con gli occhi incollati al telefono, alla tv, le orecchie fisse a varie stazioni radiofoniche alla ricerca di una notizia, un’informazione in più, nonostante la maggior parte degli spettatori conoscesse già quale sarebbe stato l’epilogo.

Io ho appreso la notizia durante una delle attività quotidiane più banali e indispensabili: stavo facendo la spesa al supermercato. Ricordo di aver aperto Instagram, mentre navigavo nel reparto surgelati, e aver visto sulla mia home il post di Elena Cecchettin – una tenera foto tra sorelle, un cuore in didascalia. Ricordo di essermi fermata in mezzo al corridoio, giusto un istante come per far funzionare meglio le mie sinapsi tra il rumore delle casse e il vociare degli avventori. Ricordo poi di aver pianto, una reazione spontanea e viscerale. Mi sono vergognata, un pochino, delle mie lacrime tra surgelati, verdure in scatola e patatineHo pagato la mia spesa, sempre tra lacrime sommesse, e sono rientrata a casa, triste e confusa.

La mia giornata è andata avanti alla meno peggio: non riuscivo a distogliere la mia attenzione da questa vicenda. Mi sono chiesta a lungo il perché, perché questo femminicidio era diverso – lo sentivo diverso, vicino, personale – mi sono chiesta se fosse per la tv, se fosse per l’attesa, se fosse per la contingenza con il 25 novembre, poi ho capito: era personale perché per la prima volta nella mia vita ho pensato: «Potevo essere io».

La mia vicenda personale, ormai di parecchi anni fa, è abbastanza simile a quanto ha preceduto la scomparsa di Cecchettin. Un uomo come Filippo Turetta l’ho avuto al mio fianco: una persona meschina, insicura, che traduceva questa sua inettitudine in una continua competizione con me, che apparivo agli occhi di tutti come una brillante liceale con un roseo futuro davanti. Lui, al contrario, accumulava fallimenti e delusioni accademiche durante i primi anni dell’università. Sminuirmi era dunque per lui essenza di sopravvivenza: più lui cadeva in basso, più doveva trascinarmi appresso.

Quella che all’inizio era una semplice cotta estiva in pochi mesi è diventata una di quelle che adesso chiamiamo relazioni tossiche, con tira e molla, insulti, litigi, tranelli, fino alla violenza vera e propria e alla persecuzione. Infatti, non è sempre facile chiudere le relazioni con questo tipo di persone: come bisce riescono sempre a trovare il modo di rientrare nella tua vita, magari tramite amici in comune, attenzioni non richieste o chiamate imploranti nel cuore della notte. Rientrano coi i vari cambierò, i vari non sei tu, sono io e altre bugie che raccontano come se ci credessero davvero. Non se ne vanno, mai. Non se ne vanno perché io – e come me tante altre – mi sento obbligata ad accogliere le loro turbe, a offrirmi come spalla su cui piangere lacrime di coccodrillo. Così, anche se l’unica cosa che vuoi fare è sbattergli la porta in faccia, sei lì a cercare le parole migliori per andartene senza farlo soffrire troppo. Solo che a volte queste parole non esistono e resti con la porta aperta, lui entra ed esce quando gli pare, come se quella relazione fosse solo un albergo e le cose che vorresti dirgli si accumulano sempre di più, ma le parole buone, quelle che non fanno soffrire nessuno, non le hai più, te le ha tirate tutte via a suon di insulti e quindi che fai? Stai zitta, aspetti che il tempo faccia il suo corso, che sia lui a stufarsi, che sia lui a sbattere la porta, sperando che non faccia più casino del necessario. Così, a volte si alza solo un polverone, altre volte, nell’uscire, ti lascia cadavere.

E poi la fanno facile in tv: «Dovete lasciarli al primo segno di squilibrio!». Nei rotocalchi non lo sanno che nonostante il nostro immenso dolore, nonostante ci trattino come degli stracci, che in fondo ci dispiace, sì, ci dispiace vederli tristi e sofferenti: siamo noi le donne e in quanto tali ci dobbiamo prendere cura del mondo intero, anche della parte del mondo che ci odia e ci uccide.

D’altronde, è con questo refrain che siamo state educate: se ti tira i capelli gli piaci… devi capirlo… è che lui è un maschietto e non è intelligente emotivamente e attento come te che sei una femminuccia… così devi volergli bene lo stesso, perché a lui piaci, anche se tu i capelli non li vuoi tirati.


(Via Dogana 3, 13 gennaio 2024)

Le donne lasciano un segno sulle guerre di Putin. Le madri dei soldati guidate da Valentina Melnikova hanno saputo mettere in crisi il potere sovietico e poi russo nelle sue diverse stagioni politiche e storiche. È accaduto sempre. Dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan all’invasione dell’Ucraina passando per le guerre in Cecenia. Anche nell’agosto del ’91, a Mosca, in prima fila alla manifestazione che celebrava la fine del golpe c’erano loro, le madri dei soldati. Simboli di disobbedienza civile, dal ventre della società, lungo i suoi undici fusi orari.

Quel che le donne hanno fatto nelle guerre in Cecenia è noto e costituisce un riferimento per chi promuove la risoluzione 1325 dell’Onu, che riconosce il ruolo delle donne nei processi di pace. Donne che hanno aiutato le madri dei figli scomparsi, prigionieri o caduti al fronte, recuperando i loro corpi o facendoli liberare grazie a relazioni radicalmente estranee alla guerra e perciò capaci di linguaggi e sensibilità per superare limiti costituiti.

Nella guerra di oggi accade altrettanto, fuori dai riflettori. Non si vedono o si finge di non vederle. Si cerca di nasconderle sotto al tappeto perché sono un problema. Disturbano chi le vorrebbe nell’esclusivo ruolo di creatrici di vite da spezzare, per soddisfare il bisogno di uomini per la guerra. Eppure loro agiscono. Fanno rumore. Nei modi e nei luoghi utili a creare ascolto e dialogo. Sono le donne che creano gruppi e associazioni come “Riporta il marito a sua moglie”, iniziata con la donna andata a cercare il marito di cui non aveva più notizie. L’ha trovato, prigioniero. Poi lei ha scelto di restare in Ucraina per fare da tramite per altre donne e riportare altri soldati a casa e, come dice lei, per fare il possibile per fermare la guerra. Qualcuno ricorderà i girotondi delle donne di Ulan Ude, capitale della Buriazia, quando Putin lanciò la mobilitazione. Protestavano mettendo in imbarazzo le forze dell’ordine, che non osarono arrestarle.

Molte di quelle donne oggi sono vedove per avere perso i mariti proprio a causa di quella mobilitazione. Non hanno mai smesso di protestare. Hanno creato un’associazione di vedove, “Donne forti”. L’organizzatrice è una donna che ha perso lei stessa il marito. Per cercare di contenerne la rabbia le autorità hanno messo a loro disposizione una sede e uno psicologo. Le donne si sono dotate di un avvocato. Come riportarono sull’account Instagram e Telegram Bajkal People, «la cosa più importante è che lì ci riuniremo e tra noi ci capiremo sicuramente». E ancora: «Gli amici siano amici, ma quando perdi una persona cara, non tutti capiscono i tuoi sentimenti e il tuo dolore. Le vedove che hanno vissuto il trauma possono capirsi di più, raccontare come ognuna di noi riesce a sopravvivere. Non esiste un’unica opzione per sopravvivere al dolore. L’esperienza può aiutare, e grazie a questa ognuna può farcela».

Parole che già allora suonavano come un avvertimento. Oggi, all’indomani dell’annuncio da parte della leader dell’associazione della volontà di candidarsi alle elezioni presidenziali chiedendo l’immediata fine della guerra, suonano come un avvertimento per Putin. Gli episodi che rappresentano il malessere verso la guerra sono tanti, come emerge pure dai sondaggi. Dal coro che sulla piazza di Ekaterinburg durante il discorso di Capodanno proiettato sul grande schermo manda al diavolo Putin, alla preoccupazione crescente per la violenza di ritorno dal fronte e per l’amnistia ai criminali in cambio del servizio al fronte, ai bambini della scuola vicina al Lago Bajkal che accolgono i volontari in divisa, giunti per sostenere i figli dei caduti, con una famosa canzone contro la guerra nota per essere eseguita da una cantante che sui social si esprime contro la guerra, alla rabbia, sempre delle donne buriate, che chiedono in incontri pubblici e in dirette tv perché un caduto buriato valga meno di uno della parte occidentale del Paese.

Sono malesseri antichi che vedono colpita questa popolazione da tempo. La storia insegna che il malessere delle donne può trasformarsi e smuovere poteri, anche quelli più forti o apparentemente tali. Donne che sfuggono di mano. Giornaliste, insegnanti, attrici, registe, poetesse, madri e vedove, tante già dietro le sbarre per il loro nonviolento “no” alla guerra, che possono diventare più di un disturbo perché toccano nervi sempre più scoperti e vanno oltre gli schieramenti, sfidando anche quelli ritenuti invalicabili.

Una prova di questo sentire è quanto accaduto a Mosca dove le mogli dei mobilitati dell’associazione “La strada verso casa”, arrivate nella capitale da altre regioni, hanno deposto fiori sulla Tomba del Milite ignoto vicino alle mura del Cremlino e organizzato picchetti nel centro della città e vicino al palazzo del Ministero della Difesa. Altrettanto a San Pietroburgo, dove sul Campo di Marte i fiori sono stati deposti vicino alla Fiamma eterna.


(Avvenire, 10 gennaio 2024)

Osservatori, think thank, progetti partecipativi e non solo… Ecco i luoghi più interessanti da conoscere sul tema del femminismo oggi: sono reali e virtuali, istituzionali oppure di frontiera, storici o nati da poco

Il femminismo oggi non è solo parità di genere. È un’economia che guarda ai divari da una prospettiva di genere, osservatori che mettono i dati al servizio delle persone, think tank intergenerazionali e reti tessute per affermare le competenze femminili o per affermare le tante nuove forme d’amore. Luoghi dove sperimentare progetti partecipativi e luoghi dove proteggere dalla violenza di genere, spazi digitali dove combattere tutti i razzismi e spazi fisici dove immaginare un’umanità “libera, allegra e consapevole”. Qui alcuni dei tanti luoghi – fisici e non, istituzionali e di frontiera, storici o sbocciati da poco – che può essere interessante conoscere per capire da vicino come evolve la galassia femminista.

L’economia di genere è qui 

Un sito di divulgazione, Ladynomics.it, che parla di economia e politica dalla prospettiva delle donne e che mira dritto ad affermare una visione di genere che trasformi il Paese. «Millenni a prenderci cura delle persone non possono essere passati invano», scrivono nel manifesto le due fondatrici, le economiste e ricercatrici Giovanna Badalassi e Federica Gentile. «È ora che questo sentire si traduca in presa di coscienza pubblica, per un’economia al servizio delle persone e non al loro comando». Da seguire se si hanno cuore da pasionaria e sguardo acceso e si cerca una lettura facilitata delle grandi questioni che coinvolgono la metà del pianeta.

La voce di tutte 

Una startup sociale dal respiro internazionale, un media civico impetuoso contro le discriminazioni di genere, un progetto partecipativo di attivismo ed elaborazione di contenuti a opera di firme prestigiose: tutto questo è Le Contemporanee (lecontemporanee.it), una voce autorevole e pragmatica che sa farsi ascoltare nei luoghi che contano, come quando le sue attiviste si sono battute perché il PNRR riconoscesse la crucialità degli asili nidi – che sono numericamente una miseria – per favorire l’occupazione femminile, modesta anch’essa. Delle donne Contemporanee piace la capacità di attraversare tutti i femminismi e connettere le generazioni.

Fuori dagli stereotipi 

Qui pulsa un femminismo intersezionale molto vitale, grazie al team di scriventi Millennial e GenZ che più vorticoso ed eterogeneo di così non si potrebbe: è bossy.it, nato quasi dieci anni fa dalla passione di una ragazza visionaria, Irene Facheris. Sorellanza, diritti LGBTQ+, erotismo, razzismi, politica e tutte le forme della violenza di genere: ogni tema è buono per accendere una storia fuori dagli stereotipi e dagli schemi. Sono banditi i maschili sovraestesi, benvenute le schwa.

Contro la violenza

D.i.Re – Donne in rete contro la violenza è la rete italiana di Centri Antiviolenza non istituzionali e gestiti da associazioni di donne. 106 i centri antiviolenza, 62 le case rifugio per le donne e i figli minorenni, più di 20mila le donne ascoltate in un anno. Le parole chiave: auto-aiuto, autodeterminazione, empowerment, segretezza e antidiscriminazione, gratuità.

Luoghi simbolo/Milano 

La Libreria delle donne (nella foto in alto, da Facebook), dal 1975 luogo storico di elaborazione teorica del femminismo della differenza, con sede prima in via Dogana 2 e ora in via Pietro Calvi 29, e la Casa delle Donne, altra istituzione del femminismo della seconda ondata, convivono con i luoghi abitati dalle ragazze e i ragazzi del femminismo intersezionale più di frontiera: questi ultimi si incontrano oggi al Csoa Lambretta, allo Zam e al PianoTerra del quartiere Isola. 

Luoghi simbolo/Roma 

La Casa internazionale delle donne è centro congressi, foresteria, ristorante e mette al centro l’autodeterminazione e le scelte libere sulla salute riproduttiva, il sostegno alle donne vittime di violenza, il contrasto al sessismo. TUBA è, invece, libreria, bar e bazar ed è costruita quotidianamente da un gruppo di femministe e lesbiche che, dicono, «credono in una società libera, allegra e consapevole e lottano contro le discriminazione di genere, orientamento sessuale, classe, colore della pelle, provenienza geografica». 

Più competenze, meno pregiudizi 

Per togliere ogni alibi a chi organizza panel con solo uomini o scrive articoli senza mai citare una donna esperta (“perché di donne esperte in questo campo non se ne trovano”, dice lo stereotipo) nasce 100esperte.it, che propone profili, competenze e cv di professioniste della scienza e della tecnologia, dell’economia e della finanza, della politica internazionale, della storia e della filosofia (grazie all’Osservatorio di Pavia e all’associazione Gi.U.Li.A). L’ultima sezione nata è quella dedicata alle donne esperte di sport. Perché femminismo è oggi più che mai anche lotta agli stereotipi e ai pregiudizi. 

La politica si fa con i dati 

Period è il think tank femminista intersezionale (thinktankperiod.org) che usa i dati per monitorare le azioni della politica. Da seguire gli Osservatori femministi che ha costituito sul territorio per fare il punto sull’andamento dei progetti del PNRR e valutare l’impatto che hanno sulle donne e i giovani.

Mobilitazione permanente 

Non Una Di Meno è un grande movimento femminista e transfemminista, un intreccio di reti, un flusso di assemblee e sit-in, una mobilitazione permanente contro le tante forme che assume il patriarcato. Il prossimo 25 novembre, giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, lancia i cortei nazionali a Roma e Messina Transfemministǝ ingovernabili contro la violenza patriarcale.

Un concentrato di approfondimenti 

«L’economia ha bisogno di essere riletta con uno sguardo che assuma la differenza tra i sessi e denunci le disuguaglianze»: è il manifesto del documentatissimo webmagazine ingenere.it, forziere di dati, studi, analisi e approfondimenti a opera di economiste, docenti universitarie, studiose delle scienze sociali, giornaliste che tengono il punto sul panorama nazionale e internazionale. 

Più vie dedicate alle donne 

Il 40% delle vie e delle piazze del nostro Paese sono intestate a uomini, appena il 3% a donne, sostanzialmente martiri e sante. Toponomastica femminile (toponomasticafemminile.com) è un’associazione che punta a svegliare le amministrazioni affinché mettano in luce il valore delle tante donne che hanno contribuito a costruire il Paese e leggano la storia non dal solito punto di vista.

Nella foto: Chiara Zamboni, Jennifer Guerra e Laura Colombo alla Libreria delle donne di Milano, durante l’incontro dal titolo “Orientarsi con l’amore” organizzato dalla rivista Via Dogana Tre l’11 giugno 2023.

(StartupItalia.eu, 9 gennaio 2024)

ro un’adolescente quando vivevo a Gaza vent’anni fa. Ricordo che un giorno avevo un ciclo pesante. Ero alla fermata dell’autobus al valico di Rafah, che aveva sedili di plastica bianca. Ho traboccato e ho macchiato il sedile. Una donna anziana mi ha chiamato e mi ha indicato il sangue. Sono una femminista e sono cresciuta bene con mia madre femminista. Indossavo addirittura un assorbente e avevo preso tutte le precauzioni. Eppure, ricordo quanto fu stigmatizzante per me quel momento.

Oggi, seduta a Brooklyn, negli Stati Uniti, guardando la mia città ridotta in macerie, continuo a pensare a quel giorno alla fermata dell’autobus e mi chiedo cosa stiano attraversando le donne mestruate in questo momento a Gaza, che è sotto assedio israeliano da quasi tre mesi. Posso sentire la vergogna e l’umiliazione che devono provare. Molte di queste ragazze e donne portavano con sé solo uno zaino quando se ne andavano. Cosa potrebbero portare in quello zaino? Non sorprende sentire che a Gaza la richiesta di pillole per bloccare le mestruazioni e contraccettivi è aumentata dopo questa invasione. Le donne non vogliono avere le mestruazioni perché non c’è acqua.

Mi chiamo Farah Barqawi. Attualmente sto terminando un MFA [Master of Fine Arts, cioè in belle arti, Ndt] in scrittura creativa saggistica e sono una poeta. Scrivo di Gaza, del confine, di mia madre e dell’ULFA [University of Lethbridge Faculty Association]. È tutto sconvolgente perché mia madre Zainab al Ghonaimy, settant’anni, ora è a Gaza City. Attivista femminista e difensora dei diritti umani, è stata lì fin dall’inizio, sopravvivendo all’artiglieria israeliana, alle bombe e al fosforo bianco. Ha co-fondato un rifugio per donne sopravvissute a violenza domestica e abusi. Nonostante gli immani bombardamenti è rimasta nel suo appartamento a Gaza City. Nel bel mezzo del conflitto, deve sopravvivere da sola e anche gestire il rifugio. Non so quando e se potrò rivederla.

Da queste parti, la guerra ha un impatto sulle donne a molti livelli. Naturalmente stiamo perdendo un gran numero di uomini, giovani, ragazzi e anziani, e questo è devastante. Ma in queste guerre, le donne che sopravvivono si trovano arretrate di decenni nelle condizioni di vita. Le donne devono diventare le principali fonti di sostentamento per i loro figli e dovranno prendersi cura per tutta la vita dei loro familiari maschi mutilati o invalidi. Bisogna anche ricordare che, nonostante l’enorme autonomia delle donne palestinesi, la nostra è una società alquanto conservatrice e la maggior parte delle donne non si sente a proprio agio nel cambiarsi, fare il bagno o anche fare pipì negli spazi pubblici.

Ora pensate a tutte le migliaia di donne sfollate a causa di questa guerra che attualmente trovano rifugio in appartamenti o stanze anguste che condividono con altri rifugiati, uomini e donne. E si tratta pur sempre di donne della classe media o medio-alta. I poveri vivono in tende di plastica o in baracche improvvisate. Non c’è acqua, essenziale per mantenere l’igiene genitale. Ristrette in questi spazi o rimaste orfane o sfollate a causa dei bombardamenti, molte giovani donne sono anche a rischio di abusi sessuali. Ci sono così tante donne incinte e così pochi servizi di emergenza ancora sopravvissuti.

Intenzionalmente o no, l’esercito di occupazione israeliano ha preso di mira gli ospedali. L’ospedale arabo Al Ahli, che disponeva delle migliori strutture di maternità e parto di Gaza, è stato uno dei primi a essere bombardato. Molti dei miei cugini erano nati lì. Tante donne incinte hanno avuto aborti dolorosi a Gaza a causa della mancanza di strutture per il parto e di medicinali.

Alcune delle mie compagne di scuola sfollate dalla zona di Al-Remal a Gaza sono madri giovani o di mezza età con tre-quattro figli ciascuna. Le loro case sono state completamente demolite. Mi dicono che la situazione nei rifugi di fortuna e nei campi degli sfollati è orribile. Si mettono in fila per l’acqua e per l’uso del bagno e poiché non c’è acqua potabile, molti vengono umiliati e trattati come animali e costretti a bere l’acqua non potabile del bagno.

Questo è il motivo per cui mia madre si è rifiutata di lasciare la sua casa a Gaza City. Ha detto che è vecchia e che le fanno male le ginocchia, e che preferirebbe morire a casa piuttosto che vivere una vita di umiliazione come sfollata abusiva, per sempre in fuga. Mi preoccupo per lei. Tutti mi dicono di portare via mia madre da Gaza. Ma lei è forte e la sua forza dà forza anche a me.

L’organizzazione di mia madre rappresenta e difende le donne che divorziano, vengono private dell’eredità e combattono per l’affidamento dei figli. Nei giorni normali ha un team di avvocate che lavora con lei. Per tutta la vita ha lavorato duramente per creare spazi umani in cui le donne potessero interagire tra loro e con i loro figli, in particolare le donne divorziate in causa per l’affidamento.

Tutto questo lavoro ora è stato interrotto. Il rifugio è ancora in funzione, ma è un rifugio antiaereo. Non sappiamo quando potrebbe essere bombardato.

Io stessa ho seguito un corso per formatrici della CEDAW [Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, Ndt], un’iniziativa delle Nazioni Unite in base alla quale le organizzazioni per i diritti delle donne si trovano a marzo di ogni anno e discutono di protezione delle donne. Ma qual è il punto adesso? Chi formerò? A Gaza sono stati violati tutti gli accordi per i diritti minimi indispensabili delle donne.

Di tutti i servizi che Gaza ha sviluppato nel corso degli anni, come l’assistenza sanitaria, l’emancipazione delle donne, l’istruzione e la sensibilizzazione sui diritti, il cambiamento di uomini e donne – tutte le generazioni che sono cambiate o che ci stavano lavorando – metà degli operatori e operatrici sono morte o non sono più lì. Chi penserà ai diritti adesso? Al femminismo? È un passo indietro in tutti i sensi per il movimento femminista. Eppure le donne – le femministe – di tutto il mondo stanno ancora decidendo da che parte stare. Ciò che sta accadendo a Gaza è una punizione collettiva e le donne sono quelle che la subiscono.

Mentre sto scrivendo, mia madre è a Gaza e così la sua famiglia: due delle mie zie, tutti i miei cugini e le mie cugine da parte di madre sono a Gaza, solo un paio di noi è all’estero. Non sappiamo cosa ne sarà di loro, ma finora mi è stata risparmiata la tragedia di perdere una persona cara. Per questa volta. Ma due anni fa, nella guerra di maggio a Gaza, ho perso mia cugina, suo marito e due figli. Il suo unico figlio sopravvissuto ora ha dodici anni.

Continuo a pensare a cosa deve passare oggi quel dodicenne. Quali immagini gli passano per la testa? È sopravvissuto una volta. È sopravvissuto sotto le macerie come tante persone adesso a Gaza. Le donne forti di Gaza tengono duro e continuano a combattere. Ma per quanto tempo? Rivedrò mai mia madre? Per ora non ho risposte.

(Outlook India, 7 gennaio 2023. Traduzione nostra, qui l’originale)

C’è chi parla di radere al suolo la striscia di Gaza. Chi chiede di non avere nessuna pietà “per i crudeli”. Chi invoca l’uso della bomba nucleare. È l’escalation verbale che si sta verificando nel discorso pubblico in Israele, escalation che accompagna quella delle violenze e dei bombardamenti nella striscia di Gaza. Un gruppo di personaggi pubblici israeliani ha inviato una lettera per prendere posizione contro questo incitamento “esteso e palese” al genocidio e alla pulizia etnica e chiedere al procuratore generale e ai procuratori statali di intervenire per fermare la normalizzazione di un linguaggio che viola la legge israeliana e internazionale. Tra i firmatari ci sono scienziati, accademici, ex diplomatici, ex parlamentari, giornalisti e attivisti.

«Per la prima volta da quando abbiamo memoria, gli appelli espliciti a commettere crimini atroci contro milioni di civili sono diventati una parte legittima e ordinaria del discorso israeliano», scrivono. «Oggi, appelli di questo tipo sono quotidiani in Israele».

La lettera, lunga undici pagine, contiene numerosi esempi del «discorso di annientamento, espulsione e vendetta». L’elenco di israeliani che hanno incitato ai crimini di guerra include ministri del governo e membri del parlamento israeliano, ex alti ufficiali militari, accademici, personaggi famosi e influencer. Tra i commenti citati nella lettera c’è quello del parlamentare Yitzhak Kroizer, che ha dichiarato in un’intervista radiofonica: «La Striscia di Gaza dovrebbe essere rasa al suolo, e per tutti loro c’è solo una sentenza, ed è la morte».

Tally Gotliv, del partito Likud di Benjamin Netanyahu, ha chiesto al primo ministro di usare una bomba nucleare su Gaza come «deterrente strategico», si legge nella lettera, «prima di considerare l’inserimento di truppe di terra, arma del giorno del giudizio». Un altro deputato del Likud, Boaz Bismuth, ha evocato il massacro biblico di Amalek, nemica dell’antico Israele. «È vietato avere pietà dei crudeli, non c’è posto per alcun gesto umanitario», ha detto riferendosi a Gaza, aggiungendo poi il riferimento alla Bibbia: «La memoria di Amalek deve essere cancellata».

Non sono solo i politici a portare avanti il discorso d’odio: il giornalista Zvi Yehezkeli ha dichiarato in televisione: «Avremmo dovuto uccidere 20mila persone molte volte, [avremmo dovuto] iniziare con una botta da 100mila».

La lettera è stata presentata dall’avvocato per i diritti umani, Michael Sfard, che si è detto stupito dalla velocità con cui l’incitamento al genocidio e altri discorsi estremisti sono stati normalizzati in Israele. «Non avrei mai immaginato di dover scrivere una lettera del genere», ha dichiarato.

«Il fatto che questo tipo di discorso sia entrato nel mainstream in modo così massiccio per me è incomprensibile. Il primo pericolo è che le persone agiscano in accordo con questo tipo di discorso, e poi mi chiedo che tipo di società saremo dal momento che questo è il discorso che regola il nostro trattamento dei palestinesi. Ci sono 2,3 milioni di persone a Gaza, la maggior parte delle quali è minorenne». Anche nella lettera si sottolinea come «il linguaggio del genocidio rischia di influenzare il modo in cui Israele conduce la guerra. Un discorso normalizzato che invoca l’annientamento, la cancellazione, la devastazione può influenzare il modo in cui i soldati si comportano».

Se, da un lato, è mancata un’azione giudiziaria anche sui casi più gravi e pericolosi di incitamento all’odio contro gli abitanti di Gaza, dall’altro si sta verificando un’intensa campagna da parte della magistratura nei confronti di chi, nei suoi discorsi, avrebbe mostrato sostegno ad Hamas, prosegue la lettera. Alla fine di novembre, erano state aperte 269 indagini e 86 incriminazioni. «È sorprendente il numero di indagini penali, quando si tratta di cittadini palestinesi che vivono in Israele», ha detto Sfard, che ha sottolineato come nella maggior parte dei casi si tratti di persone comuni che non hanno alcun seguito nel discorso pubblico. «Il divario tra questo trattamento e la libertà e l’impunità per coloro che sostengono ogni genere di cose – pulizia etnica, uccisioni di civili, bombardamenti di aree civili e persino genocidio – non quadra. Le autorità devono spiegare».

La lettera è stata inviata poco prima che il Sudafrica si rivolgesse alla Corte internazionale di giustizia per aprire una causa contro Israele, accusando il paese di genocidio. «Abbiamo inviato questa lettera la settimana scorsa, prima che il Sudafrica presentasse la sua denuncia e senza sapere che l’avrebbe fatto», ha detto Sfard. Le accuse di istigazione mosse dal Sudafrica includono il linguaggio citato nella lettera e sottolineano l’incapacità delle autorità di intraprendere un’azione giudiziaria in risposta. Adesso sarà il procuratore generale a doversi esporre e prendere posizione: «Vogliamo dare alle autorità l’opportunità di fare qualcosa», ha concluso Sfard.

(Valigia Blu, 4 gennaio 2024)

Questo incontro di VD3, il cui tema era stato pensato dopo l’estate, è venuto a cadere in un momento denso di avvenimenti correlati con gli argomenti proposti alla discussione: la prosecuzione della guerra in Ucraina, la strage di israeliani commessa da Hamas e la seguente guerra scatenata da Israele non solo nei confronti dell’organizzazione islamica, ma soprattutto della popolazione palestinese della striscia di Gaza.

Ma non solo: il 23 novembre è emerso il femminicidio di Giulia Cecchettin, seguito dalla grande manifestazione del 25 novembre («una marea femminista» come metaforicamente l’ha nominata Giorgia Basch in una delle introduzioni all’incontro), il discorso del padre di Giulia al funerale della figlia e le prese di posizione, gli editoriali, le riflessioni che hanno seguito questi avvenimenti. Il tutto anche attraverso la ripresa in ambito pubblico di un concetto, quello di patriarcato, da tempo quasi assente nelle riflessioni sul rapporto uomo-donna e di una novità indubbia che ha accompagnato la riflessione: la presa di responsabilità individuale di molti uomini nei confronti della violenza sulle donne che è una violenza maschile, una responsabilità non solo asserita privatamente ma anche esposta su innumerevoli mezzi di comunicazione.

L’incontro tenutosi alla Libreria delle donne di Milano il 3 dicembre scorso è quindi venuto in un momento in cui era necessario approfondire la discussione sulla responsabilità maschile nelle guerre e nei conflitti armati, la nostra responsabilità in quanto uomini nei femminicidi e nella violenza sulle donne e l’utilizzo di un concetto come quello di patriarcato, che nella discussione pubblica è stato usato a sproposito e senza un adeguato approfondimento: per esempio, lo slogan «il patriarcato uccide», mentre chi uccide le donne siamo noi uomini e non il concetto sociale e simbolico di patriarcato.

In questa direzione si sono mosse le tre introduzioni e il dibattito successivo.

Per muovermi in questo «imbrogliato presente», espressione utilizzata da Laura Colombo richiamandosi a un intervento di Ida Dominijanni su Internazionale dal titolo “Il campo di battaglia del patriarcato vacillante”, ho trovato molto utile la considerazione fatta sulla ferocia del patriarcato, che come una bestia ferita, diventa maggiormente reattivo e capace di offesa sino all’assassinio.

Penso anche siano utili le riflessioni fatte da Laura Colombo sulla necessità di fare ordine utilizzando il concetto di post-patriarcato e non più quello di patriarcato. Un concetto, quello di post-patriarcato, che rappresenta l’esito di una lunga discussione e di approfondimento che inizia dalla rivista Via Dogana nel settembre 1995 (allora edita in formato cartaceo) e in particolare da Luisa Muraro che considerava, dopo quattromila anni di storia e un periodo imprecisato di preistoria, essere arrivata, con la perentoria affermazione «È concluso!» l’epoca della fine del patriarcato. Ma cosa esattamente si era concluso secondo Muraro? Si era interrotto il secolare destino imposto alle donne, si erano sgretolate le leggi che lo tenevano in vita: i desideri maschili, quindi, non erano più i parametri e la misura per le donne. In altre parole, le vite femminili avevano iniziato da tempo un viaggio alla ricerca di significato in prima persona e le relazioni tra donne erano ormai visibili nello spazio pubblico.

Per questo Laura Colombo ritiene «quindi che bisogna parlare di post-patriarcato, perché, se non è finito il potere maschile e la sua ricerca da parte degli uomini, è cessato l’assoggettamento delle donne, è terminato il credito che le donne davano al sistema socio-simbolico rappresentato dal patriarcato».

È un’affermazione che mi convince, anche se a questa convinzione debbo affiancare una considerazione che nasce dalla mia esperienza: per uno come me, nato alla metà degli anni ’50, il patriarcato è stato un sistema pervasivo, che mi ha formato, soprattutto nei primissimi anni della mia vita e nella mia adolescenza. Onestamente, non credo di poter superare completamente questo condizionamento profondo. I giovani uomini che stanno crescendo o che nasceranno in futuro potrebbero forse riuscire a eluderlo e a superarlo a fondo con le pulsioni che ne sono l’effetto.

Condizionamento che per me, uomo che riflette sulla propria sessualità, riconosco nella mancanza di un “senso del limite”, che deriva dalla mancanza di consapevolezza su cosa non debba essere superato. A volte, durante l’atto sessuale o nelle fantasie, potrei desiderare di “andare oltre”, anche se nella realtà scelgo consapevolmente di non farlo, basandomi su discussioni avute con le donne. Questo desiderio, talvolta stereotipato come parte intrinseca della “natura” maschile, include la mancanza di resistenza a un impulso sessuale, una reazione violenta di fronte a un rifiuto sessuale e l’inerzia nel negoziare esplicitamente o implicitamente gli atti sessuali con la mia partner. Riconosco l’importanza del “senso del limite”, inclusa la consapevolezza che un rapporto sessuale può portare al concepimento, e quindi la necessità di fermarsi o di prendere precauzioni per evitare di superare quei limiti, come evitare un rapporto sessuale completo o proteggersi adeguatamente.

Il mio obiettivo realistico e concreto è controllare questa pulsione verso un ipotetico “infinito”, pur sapendo che in alcune circostanze potrei perdere questo controllo. Sono convinto che gestire queste pulsioni, senza reprimerle ma rimanendo consapevole della loro esistenza, rappresenti per me, in questa fase della mia vita, un obiettivo.

Questo non vuole dire che legga e interpreti il ruolo che mi è stato inculcato dal patriarcato come destino come un qualcosa di ineluttabile e da accettare passivamente.

Non voglio certo riprodurre la condizione maschile che Giorgia Basch descrive nella sua introduzione come «un patriarcato eroso, un fantasma del patriarcato che […] ha un volto nuovo che abbiamo appena compreso: quello dell’uomo-vittima. L’uomo che non si riconosce più. […] che si sente in competizione con le donne». Ma debbo fare i conti con la mia storia e con la mia esperienza.

Può darsi che questa risposta non sia completamente appagante, ma ho una preferenza per essere consapevole dei miei limiti piuttosto che cercare di superarli in modo ambizioso in un’unica occasione. Prediligo avere chiara coscienza di questo “limite”, per orientarmi meglio lungo un percorso personale e parziale verso la comprensione di me stesso e l’acquisizione di consapevolezza.

Certo, per le giovani generazioni il discorso è sicuramente diverso: il loro percorso di vita si è sviluppato in un patriarcato morente e si sono confrontati, coscientemente o meno, con la fine simbolica del patriarcato. Di questa situazione non posso parlare e spero che qualcuno di queste generazioni possa prendere la parola e spiegare la propria esperienza.

Riprendendo l’introduzione di Laura Colombo, mi convincono anche altre considerazioni che nascono dalla sua analisi. Quella che lega maschile e guerra, «il problema di un maschile che non sa stare alla misura della libertà femminile, che non può sopportare l’indipendenza delle donne da desideri e imposizioni di un lui debole e in affanno […] Il punto nodale non è quindi il patriarcato, inteso come sistema socio-simbolico di dominio dell’uomo sulla donna. La vera questione è la cultura patriarcale, alimentata da guerra e violenza, che fissa l’identità maschile in una tradizione anacronistica».

E quella che introduce il discorso sul neoliberismo, inteso come una forma specifica di biopolitica in cui le dimensioni sociale, politica ed economica convergono in un sistema che non è affatto repressivo, al contrario, è un sistema che genera, amplifica e ridefinisce la libertà umana secondo i dettami del mercato. Penso sia importante questo riferimento dato che, se non ritengo il sistema patriarcale un destino, non ritengo neppure il sistema economico sociale in cui siamo immersi un qualcosa di immutabile. Anche se sono consapevole che un cambiamento del sistema sociale ed economico non basta a cambiare le relazioni tra donne e uomini: il lascito del patriarcato richiede un lavoro supplementare da iniziare subito, anzi ancor prima.

Esiste, lo ricorda anche Giorgia Basch osservando che quello che sta nascendo dalla manifestazione del 25 novembre scorso e da quello che l’ha preparata e seguita, una «positività che questa forte risposta sta generando nello scuotere le coscienze», ma anche la «chiusura e alcune forme di nascente separatismo e radicalizzazione da parte delle donne [che] mi preoccupano. Perché l’autorità femminile continui a circolare sempre di più abbiamo bisogno di farla sentire agli uomini anche e soprattutto con nuove forme di mediazione, che partano dalla dimensione relazionale».

Una risposta che parte da una consapevolezza che lo starci, anche nelle relazioni con il maschile sia una strada non solo per cambiare queste relazioni di differenza, ma anche se stesse.

Riprendo ancora le sue parole: «Ci sarà la complicità dello sguardo congiunto, ci sarà l’ascolto della nostra differenza».

Per dirla con le parole di un uomo, Marco Deriu, al termine della sua introduzione: « […] c’è ancora molta strada da fare per congedarsi veramente dal sessismo e dalla violenza. […] non basta cambiare le leggi, occorre lavorare sulle mentalità, sulle aspettative sociali, sui modelli di relazione. È urgente cominciare a parlarne insieme».

E per riprendere il filo della mia autobiografia, quello che questo confronto, a volte aspro, a volte difficile e complesso, a volte liberatorio e gioioso che ho cercato e tutti giorni cerco con le donne e qualche uomo della Libreria delle donne di Milano che frequento da quasi trent’anni e con le donne che in quella sede incontro e ho incontrato: relazioni che mi hanno fatto crescere e diventare quanto di buono sono adesso.


(Via Dogana 3, 31 dicembre 2023)

«Perché gli uomini non si dissociano dalla virilità distruttiva? Quali ostacoli interiori ed esteriori li trattengono?». Cosa potremmo fare? In verità, quando la virilità distruttiva è la guerra, ci dissociamo, tanto da aver dato vita a un movimento capace di grandi mobilitazioni, un movimento divenuto soggetto politico: il pacifismo.

Invece, quando la virilità distruttiva è la violenza maschile sulle donne, siamo capaci di fare poco e nulla, ad eccezione di alcune valorose piccole minoranze di volenterosi. Gli stessi uomini che si reputano «rispettosi» evitano di assumersi una responsabilità, rimangono indifferenti o, peggio, difendono il proprio sesso di appartenenza («Non tutti gli uomini…»; «Anche le donne…»), se si sentono chiamati in causa. Solo molto di recente, alcuni opinionisti della grande stampa hanno iniziato a inquadrare la violenza sulle donne come questione maschile, ottenendo perlopiù il consenso femminile. In particolare, è successo a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa a novembre dal suo ex, Filippo Turetta, il quale rifiutava la separazione. Perché la maggioranza degli uomini sembra rimanere indifferente?

Viene in mente come prima risposta che femminicidi, stupri, maltrattamenti, siano ancora percepiti dalla maggioranza degli uomini solo come questione penale, per cui vale la responsabilità individuale. Casi di cronaca nera mista a cronaca rosa. Riguardanti unicamente lui, un matto squilibrato, lei, una che ha sbagliato a sceglierlo o a non mollarlo per tempo. Perciò, è una cosa buona l’irrompere del concetto di patriarcato nel dibattito pubblico sui femminicidi. Perché oppone alla lettura psicologica, individualistica, di cronaca, una lettura politica, che vede nella violenza l’espressione di un sistema di potere, sociale e culturale, a dominanza maschile. Che questo sistema di potere sia in grave crisi non è in contraddizione con l’essere così tanto evocato. La crisi di un ordine sociale e simbolico fa sì che non sia più percepito come ordine naturale, permette che sia svelato e riconosciuto nella sua parzialità, quindi che sia nominato e denunciato, nei suoi retaggi e nelle sue rigenerazioni. Bujar Fandaj, l’assassino femminicida di Vanessa Ballan, prima del delitto ha scritto su TikTok: «Mia madre mi ha cresciuto come la persona più gentile e dolce che tu abbia mai incontrato, ma se mi manchi di rispetto scoprirai perché porto il cognome di mio padre». Non somiglia a una consapevole rivendicazione patriarcale?

Il concetto di patriarcato lo ha rilanciato Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera del 19 novembre, riprendendo un antico slogan femminista, proprio per affermare l’esistenza di una responsabilità collettiva: «I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». La lettera ha suscitato insistite resistenze. Per settimane, i talk-show di Mediaset si sono chiesti se il patriarcato c’entra con i femminicidi. Per rispondersi sempre di no, senza però mai riuscire a liberarsi da quella domanda.

Secondo la visione delle femministe americane degli anni ’70, la violenza maschile è una funzione della società maschilista. Fa gioco a tutti gli uomini, violenti e non violenti, perché intimidisce e stressa tutte le donne a vantaggio di tutti gli uomini. Sia nelle relazioni private, sia nelle relazioni pubbliche. Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico. Nelle relazioni pubbliche, spesso relazioni competitive, lei, quando vittima di violenza, deve gestire lo stress del maltrattamento, sottraendo tempo ed energia alla gestione dello stress del lavoro e della carriera, con relativo beneficio dei competitori maschili. Allora, può essere che la maggioranza maschile intuisca che, in fondo, la violenza sulle donne, più che una deviazione, sia una misura d’ordine favorevole agli uomini. Che, peraltro, se uomini buoni, permette loro di proporsi come protettori, tutori, controllori. O di ottenere un premio di fiducia per il solo fatto di non nuocere.

D’altra parte, noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? C’è chi ha proposto un #metoo alla rovescia. Se tante donne, almeno una volta nella vita, hanno subito violenza, altrettanti uomini, almeno una volta nella vita, hanno inflitto violenza. Per parte mia, credo di aver reagito in modo abbastanza corretto ai rifiuti, perché in genere corrispondenti alle mie aspettative. Non posso sempre dire altrettanto della gestione delle relazioni e, in particolare, degli abbandoni, perché questi contrastavano con le mie aspettative. Specie, in un paio di situazioni, tipo quelle descritte da Dora Casadio, nelle quali durante l’amicizia tra un uomo e una donna, è l’uomo a innamorarsi della donna, perché lui scambia per reciprocità la disposizione di lei allo scambio intimo; per lui è un fatto eccezionale, mentre per lei è naturale. Perciò, ad alcune mie amiche, compagne, ho inflitto scene di gelosia quando mi sembrava fossero troppo amiche di altri uomini, o conversazioni coercitive, con toni insultanti, sarcastici, sminuenti, quando mi pareva che le loro opinioni divergessero dalle mie e, peggio, convergessero con quelle dei miei avversari. Così come ho vincolato più del tollerabile donne che non volevano avere più a che fare con me. Nulla di estremo, ma comportamenti conformi con lo schema di pensiero del potenziale femminicida.

Mi era oscura la mia interiorità? Non sapevo gestire le mie emozioni? Ero incapace di elaborare i miei sentimenti? Può darsi. Così mi presentavo quando era il momento di scusarmi. Una persona confusa che genera confusione nell’altra persona. Il dottor Jekyll che non sa spiegarsi il mister Hyde. Una forma di inganno e autoinganno. Perché, quando (forse) non sai gestire le tue emozioni negative, gelosia, rabbia, delusione, senso di abbandono, una cosa la scopri subito e impari a gestirla presto. L’espressione delle emozioni negative ha un potere manipolatorio. Lei, finché non arriva al punto di rottura, si mette sulla difensiva, si scervella per capirti, e accetta limitazioni. Questo, in una relazione nella quale ti senti inadeguato rispetto al dovuto, ti dà una sensazione dopante di potere a cui preferisci non rinunciare, fino a sondare il limite cui puoi arrivare.

Per un uomo, dissociarsi dalla violenza maschile può avere un effetto proiettivo, che gli permette di chiamarsi fuori nel breve termine. Ma, se la dissociazione è seria, riflessiva, duratura, l’effetto ti trasforma anche se non persegui l’obiettivo della trasformazione. Perché è difficile sfuggire di continuo al riconoscere parti di sé negli uomini che dici di voler isolare. Questo effetto specchio, con relativo senso di colpa, può essere l’ostacolo interiore alla dissociazione dalla violenza. Come il vantaggio sociale che deriva agli uomini dalla violenza è l’ostacolo esteriore.


(Via Dogana 3, 30 dicembre 2023)


Dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, ho cominciato a curiosare nel diario di Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Cercavo, nelle pagine di questa donna che ha iniziato il femminismo italiano scrivendo un libro formidabile – Sputiamo su Hegel – un riferimento al massacro del Circeo, il più tremendo dei femminicidi del suo tempo. Protagonisti tre ragazzi della borghesia romana. Rapirono due adolescenti, le picchiarono e le violentarono per 36 ore e poi le uccisero (anzi credettero di averle uccise entrambe, invece una si salvò). Ancora oggi si parla di quel delitto. Ma all’epoca la discussione fu enorme. Chissà cosa ne aveva pensato, mi chiedevo, Lonzi. Pubblicamente, è noto, niente. Ma sono stato sorpreso di scoprire che nemmeno nelle pagine del suo diario ne fa cenno. Sorpresa moltiplicata dal fatto che, mentre sfoglio, deluso, le pagine di quell’autunno del 1975, mi accorgo che un altro episodio di cronaca irrompe nel diario e lo occupa per giorni. L’assassinio di Pier Paolo Pasolini.

Scrive: “Adesso che sei stato ucciso fratello mio, anima mia, ti piango”. Sono le prime parole che le vengono in mente appena appresa la notizia al telegiornale delle 13.30 che lo scrittore era morto nella notte tra l’1 e il 2 novembre. I sostantivi che usa sono eclatanti. “Fratello”, lo chiama: una donna che aveva scritto nel luglio del 1970 il manifesto di Rivolta femminile, la cui ultima frase, gelidamente, recitava: “Comunichiamo solo con donne”. Un riconoscimento mai concesso a nessun altro. E poi, “anima mia”: detto da una lettrice di Carl Gustar Jung, secondo cui “l’anima” è la componente femminile della psiche di ogni uomo. È un rispecchiamento piuttosto significativo: la più importante delle critiche del patriarcato che si identifica con un maschio. Ancora più rilevante se si considera che Pasolini, in gran parte, aveva ignorato il femminismo, e anzi si era convinto che la componente femminile della rivolta degli anni Settanta fosse l’elemento più negativo della rivolta stessa. E che inoltre aveva fantasticato – in una delle sue tarde poesie, La Couvade – il parto maschile. Un mondo che si rigenera senza donne. Fatto solo di maschi. 
Teoricamente, avrebbe dovuto sputargli in un occhio. Almeno quanto a Hegel. Invece si sente sua sorella. Lo percepisce come parte di sé (“anima mia”). Ma perché? Da dove viene questa attrazione? È noto che il 21 gennaio del 1975 spedisce a Pasolini una lettera. Lui aveva scritto un articolo che il Corriere della Sera sintetizza con questo titolo: Sono contro l’aborto. Ma Pasolini aveva parlato anche, e soprattutto, di ciò che viene prima: cioè, il coito. Da omosessuale temeva che l’aborto avrebbe sacralizzato la sessualità della maggioranza, la cosiddetta normalità, escludendo tutto ciò che “è sessualmente diverso”. Com’era lui, per esempio: omosessuale. Su questo Lonzi è d’accordo. La legalizzazione dell’aborto, pensa, avrebbe lasciato intatto il rapporto sessuale basato sul piacere maschile. Lei stessa aveva abortito due volte: in entrambi i casi, nel rapporto sessuale non aveva raggiunto l’orgasmo. Perciò, interpreta la legalizzazione come “una tappa obbligata del patriarcato che si rinnova per sopravvivere”. E a Pasolini dice: “Il tuo articolo l’ho letto con partecipazione, come se senti la voce di un fratello, e con l’amarezza di constatare che il fratello continua a arrivare prima della sorella a farsi ascoltare. Non ti dico questo per vittimismo ma perché non voglio lasciare incompleto il gesto di fiducia che faccio a mandarti questa lettera”. 
Da tempo Lonzi desiderava instaurare un rapporto con Pasolini. Un desiderio talmente profondo che affiora anche nei sogni, e ben due volte, prima che si decida a spedire quella lettera. Il primo sogno lo annota nel diario il 29 dicembre del 1974. “Sono con Pasolini, so che è omosessuale, mi appare timido. Ma io trovo degli argomenti che lo sciolgono a poco a poco”. Lei nel sogno appare cosi: “Faccio la calza e sono molto calma”. E certo bisogna esercitare la fantasia al massimo per immaginarsi Lonzi placida, con i ferretti in mano. “A un certo punto mi aiuta a passare un gomitolo tra dei fili di lana, cosa che mi sembra un gesto d’intesa fra me e lui. Dopo di che diventa addirittura euforico, parla e parla”. Poi, prima del risveglio, la sensazione finale: “Provo un estremo bisogno di conquistarlo e sono certa di riuscirci”. Il secondo sogno è del 11 gennaio del 1975, dieci giorni prima della lettera. “Pasolini su una povera strada di campagna”. Lei continua a percepire la difficoltà di entrare in contatto con lui. “Intuisco di dover condurre gli approcci in modo molto delicato”. Pian piano però si apre un varco. “Ogni tanto dico qualcosa che lo colpisce, faccio centro”. Finché Pasolini diventa “sempre più allegro, più loquace”. E il gioco è fatto. “Non vedo l’ora di dire a Lucia della mia amicizia con Pasolini”.

Il giorno dopo l’invio della lettera, Lonzi si libera di colpo di ogni dilemma su cui si era arrovellata in precedenza: scrivergli, non scrivergli, cosa penserà, risulterò “ingenua”, oppure “machiavellica”. “E una gran sensazione”, essersi lasciata i dubbi alle spalle. Pensa al rapporto fratello-sorella, a San Francesco e Santa Chiara. È convinta: “Un incontro si prepara”. Ma mentre passano i giorni, e lui non risponde, è assalita dall’incertezza: “Cosa può avere capito da quella lettera?”. Ma subito la respinge. “Per me è, in assoluto, la cosa più importante. Non posso non essere attratta, non cercare un contatto con chi mi si mostri in quella veste”. La delusione si abbatte su di lei il 30 gennaio. Pasolini risponde sul Corriere della Sera. Ma non a lei. Bensì ad Alberto Moravia. Il “patriarca” delle lettere italiane. Confessa che vorrebbe dargli del “fascista”. Respinge, sdegnato, l’accusa di essere un “cattolico”. M agli dice anche che, in parte, sono “affratellati”. 
La stessa vicinanza offerta a lui da Lonzi. Che ne deduce: “Non dà spazio per me e per quelle come me”. Se “il migliore di loro, non capisce, non vede, non è toccato”. Ne ricava una regola generale: “Viene dato spazio alla donna quando è già portavoce di un’esigenza in comune con l’uomo”. E descrivendo una dinamica che considera tipica: la donna promuove la battaglia, come quella sull’aborto, “ma poi, al momento opportuno, come sempre, l’uomo la impugna, la gestisce, la con-trolla”.

Pasolini non risponderà mai alla lettera di Lonzi. In tutto il suo corpus letterario, composto da dieci volumi di meridiani Mondadori, più un grande tomo di lettere, non c’è un riferimento a Lonzi. Per Pasolini, Lonzi, semplicemente, non esiste. Non è mai esistita. Lei, invece, continuerà a sentirsi ferita ogni volta che lo legge, a ridimensionarlo, ad accusarlo di sentirsi al centro delle ingiustizie del mondo, mentre, per cecità calpesta chi sta più in basso di lui, come le donne, come lei. Si convince che lui sia in cerca del riconoscimento dei fratelli, e che le sorelle non lo interessino, La disillusione giunge al culmine 18 ottobre, quando scrive: “Cosa ho da spartire con Pasolini?”. È una domanda a cui vorrebbe rispondere: “Nulla”. Ma sa che non è così. Tornando un po’ indietro nel tempo, nelle pagine del diario, si trova un’altra lettera a Pasolini. Ancora più lunga. Ma pochissimo nota. È dell’agosto del 1974. E non risulta essere stata mai spedita. 
Dopo aver visto il suo film, Il fiore della mille e una notte, Lonzi gli scrive che la sua mitizzazione del sottoproletariato è destinata a fallire. La comprende benissimo, sia chiaro: l’ha vissuta anche lei. L’ha cercata “nei santi, negli artisti, nei poeti, nei popoli primitivi, infine nelle donne”. Ma ha capito che non funziona: è solo nostalgia di un paradiso terrestre. E il paradiso è irrimediabilmente perso. C’è poco da fare. “Adesso che conosco il mio diritto all’infelicità e perciò alla coscienza”, gli scrive, “ho finalmente imboccato la strada della felicità”. Colpisce, in questa lettera, il fatto che Lonzi anticipi un fallimento che nella vita di Pasolini avrà conseguenze catastrofiche: il crollo del mito dei sottoproletari, che gli aprirà le porte di una disperazione feroce. Ma non è solo questo, ci sono altri due elementi notevoli. Il primo è che in pochi ebbero la lucidità di avvertirlo in diretta. Mentre tutto ciò avveniva. Il secondo è che dei pochi che glielo fecero notare (per esempio, Franco Fortini) nessuno si era posto, come Lonzi, al suo stesso livello: senza guardarlo dall’alto in basso, trincerato nella sicurezza ideologica, dicendogli piuttosto: “Guarda che anche io ho provato la stessa cosa”. È una delle testimonianze delle qualità intellettuali di Carla Lonzi (disgraziatamente ancora non accolta nell’esclusivo mondo dei pensatori italiani del Novecento).

Ed è anche una testimonianza del suo metodo. Che parte innanzitutto da sé. E dice: ti critico, sì. Ma mettendo in gioco anche me stessa. Non puntando il dito. Non in astratto. Non solo in teoria.

Quando Pasolini viene ucciso, alcune femministe prendono le parti del ragazzo che lo aveva assassinato. Si mettono nei panni del borgataro che aveva dovuto offrirsi sessualmente al maschio con più potere di lui e pensano: in fondo se l’è meritato, quella del ragazzo è una ribellione comprensibile. Carla Lonzi si arrabbia. “Donne del Padre”, scrive, “mi tormenterete sempre: mi fate sentire più simile a un uomo che alla mia specie”. Osserva che nessuna di loro conosceva il ragazzo che lo aveva assassinato. Ignoravano perché lo avesse fatto. Cos’era scattato in lui.

Si schieravano, cioè, in maniera dottrinaria. 
Come Moravia: che non garantiva di “sentire” in termini femministi, ma garantiva di “pensare” in termini femministi. Proprio ciò su cui lei sputava: l’astrattezza teorica, anziché il vissuto. In questo, la voce di Pasolini era diversa, e lei l’aveva sentita come quella di un fratello. Perché “ci aveva parlato di sé”, scrive, per questo “possiamo avere delle relazioni personali”. 
Mi spiega Annarosa Buttarelli, tra le maggiori studiose di Lonzi, filosofia e curatrice della riedizione delle opere lonziane per La Tartaruga della Nave di Teseo, che questo punto è centrale per comprendere cosa sia, nell’universo lonziano, la battaglia contro il patriarcato. “Significa anche disobbedire alle regole imposte da un ruolo, agli imperativi sociali, alle parole dette da altri. Per trovare, invece, la propria lingua. Parlarla. Dire, appunto, di sé”. Ho chiuso il diario di Carla Lonzi mentre era diventato impossibile non discutere della morte di Giulia Cecchettin con gli amici a cena, con la propria compagna, con le colleghe al lavoro, con gli sconosciuti in metro. La novità è che parecchi uomini hanno parlato di una responsabilità della cultura maschile. Mentre altri l’hanno respinta, credendo che la colpa sia solo e soltanto di quel ragazzo che ha ucciso Giulia, Filippo Tu-retta. Personalmente mi sento più vicino ai primi che ai secondi. Ma ho imparato un criterio che distingue i maschi che ne parlano veramente dai maschi che ne parlano retoricamente. Questi ultimi tendenzialmente prendono la parola a nome della categoria: “Noi uomini”, eccetera. Gli altri invece raccontano cosa sin la cultura maschile nella loro vita – come la esercitano, come ne sono ricattati – usando la prima persona singolare. Il sé, avrebbe detto Carla Lonzi. 


(Review-Il Foglio, 28 dicembre 2023)

Le relazioni introduttive all’ultima redazione allargata di Via Dogana 3 coltivano qualche speranza che l’omicidio di Giulia Cecchettin per mano dell’ex-fidanzato segni una svolta nel comportamento di molti uomini. Contano che lo scambio con le donne, come è già stato per alcuni, si approfondisca e diventi per i più elemento di ispirazione per un radicale ripensamento dei comportamenti maschili violenti. Tento anch’io di dare un contributo in questa direzione.

Mi ha molto colpita che l’assassino, Filippo Turetta, abbia sofferto particolarmente del fatto che la ragazza si sarebbe laureata prima di lui. Il traguardo raggiunto avrebbe potuto portarla lontano e sancire la separazione sentimentale che da mesi Giulia perseguiva.

Dunque, un giovane uomo, di fronte al rifiuto di una donna e all’ipotesi di un allontanamento che la sottrarrebbe definitivamente a lui, alimenta possessività e frustrazione al punto da arrivare all’estremo crimine. Ma se agli inizi del loro rapporto avesse provato ammirazione e gioia nello stare vicino a una giovane brillante più di lui negli studi, se si fosse detto, magari con ingenua beatitudine giovanile, «Ha scelto proprio me!», sarebbe per questo cambiato l’epilogo della loro storia affettiva? Non lo sappiamo, ma lui avrebbe posto le basi per accettare forse con sofferenza, ma certo anche con rispetto il rifiuto di lei.

Viene ripetuto giustamente che i cosiddetti femminicidi sono determinati dall’impossibilità per alcuni uomini di accettare la libertà che le donne agiscono. E moltissimi, sempre di più, diventano consapevoli che la violenza estrema è la spia di un disagio vissuto forse da tutti gli uomini per una manchevole elaborazione del mutato rapporto tra i sessi.

Noto che tra le conseguenze più evidenti della libertà delle donne vi è certamente il loro eccellere negli studi e sempre più spesso nelle professioni.

Mi concentro su questo unico aspetto della realtà per chiedermi se, tra le cause dell’infelice rapporto che gli uomini intrattengono con le donne, non sia centrale proprio il modo in cui vivono e (non) elaborano l’eccellenza femminile.

Le donne hanno dato ampia testimonianza dei sentimenti e dei comportamenti che le hanno legate a uomini eminenti e geniali, ne sono piene la storia dell’arte, della letteratura, delle scienze. Sono diventate allieve riconoscenti, collaboratrici fattive ed orgogliose, purtroppo anche spesso misconosciute dagli stessi uomini che hanno goduto del loro appoggio, ma qui conta solo la testimonianza dell’elaborazione vitale che le donne hanno dato della grandezza di un uomo.

E gli uomini? Certo non manca qualche esempio di riconoscimento da parte di alcuni, ma sembra non bastare.

Come i più attenti sanno, anche per le donne è stato difficile sia elaborare il modo di rapportarsi alla grandezza di un’altra, sia accettare che comunque l’altra mantiene integra la libertà di sottrarsi alla relazione. L’impegno politico e il lavoro del pensiero femminile hanno trovato parole per dire che vi è da guadagnare coltivando sentimenti di ammirazione e di riconoscimento per l’intelligenza e le capacità di una propria simile, superando così invidia e indifferenza. Ma anche per affermare che è possibile accettarne il diniego, per via della felicità che viene dal mettersi in gioco con la forza del proprio desiderio, qualunque sia l’esito della contrattazione. “Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio” di Luisa Muraro è uno dei testi fondamentali che ha mostrato come stare proficuamente al mondo, misurandosi con il desiderio dell’altra o dell’altro, che può corrispondere o non corrispondere.

E gli uomini? Possono approfittare anche loro di questo percorso esemplare? Imparando a riconoscere, per esempio, i guadagni possibili nella loro vita grazie all’accettazione piena dell’eccellenza delle donne? E così imparando anche a rispettarne le scelte?

Si potrebbe cominciare con la constatazione che quando lei si muove libera è molto probabile che eccella, perché millenni di ricerca dei modi per sopravvivere all’oppressione o di uscirne addirittura vincenti, da parte delle sue simili, sono per lei un pozzo senza fondo di conoscenza, di connessione profonda con la realtà, che la proiettano su un piano di maggiore intelligenza del mondo e alimentano il desiderio, la forza e il coraggio necessari per cambiarlo.

Il disconoscimento delle grandi e diffuse capacità femminili rischia di rendere la maggior parte degli uomini cieca e sorda nei riguardi di metà del genere umano.

Come insegnare, dunque, a un giovane uomo la felicità di trovarsi vicino alla grandezza di una donna?

Infatti proprio della sua felicità si tratta, sempre che lui non si accontenti dei piaceri promessi dal potere e dalla sopraffazione.


(Via Dogana 3, 21 dicembre 2023)

Leggendo i numerosi articoli riguardanti la recente morte di Toni Negri, mi è tornato alla memoria un breve saggio che Ida Dominijanni, in un post apparso su Facebook, ha definito «quel piccolo capolavoro che è La differenza italiana (nottetempo, 2005) dove Toni colse perfettamente, con mia stupefazione, l’essenziale del pensiero della differenza sessuale».

Non ho frequentato i testi del teorico dell’operaismo, ma mi sembra che per ricordare la sua attività filosofica questo breve saggio abbia un’importanza legata anche al giudizio che in quella sede ha dedicato al pensiero della differenza sessuale.

Secondo Negri la filosofia è l’analisi critica che consente di comprendere l’epoca in cui si vive, di orientarsi in essa, di contribuire alla costruzione di un destino condiviso e di testimoniarne la realtà con questo obiettivo: a questa definizione segue il giudizio che di filosofia, dopo Gentile e in parte Croce, nel XX secolo non ve ne sia stata (almeno in Italia).

Questo netto giudizio ha tre importanti eccezioni: Gramsci che ha «reimpiantato la filosofia là dove doveva stare, nella vita e nelle lotte della gente comune», Mario Tronti, e «quasi nascosto eppure profondissimamente agente […] il pensiero femminista della differenza sviluppato da Luisa Muraro».

Il pensiero filosofico può emergere solamente quando ci si sofferma sul tema biopolitico della riproduzione e quando si creano, in questo ambito, soggettività nuove come dallo scontro operaio contro il lavoro salariato e «nell’insorgere femminile contro il dominio patriarcale».

Negri ritiene che il pensiero delle due eccezioni che individua nella seconda metà del ’900 abbiano in comune sia la «lotta contro la dialettica» (in particolare quella hegeliana, citando Carla Lonzi), cioè contro il processo dialettico che nega, supera un momento, una categoria e, al tempo stesso, lo eleva e conserva, sia «l’imponente fenomenologia della differenza che interpretano».

In entrambe, l’azione sovversiva nei confronti della condizione umana attuale si orienta verso l’adesione, in prima istanza, al separatismo: della classe operaia per Tronti e delle «donne in rivolta contro le istituzioni borghesi del dominio patriarcale: così si organizza polemica la prima presa di coscienza femminile della differenza».

La pratica di distacco, enfatizzando le differenze, condurrà a una fase successiva più profonda: un cambiamento ontologico che coinvolge entrambe queste posizioni. Si tratta di una separazione creativa che «spinge queste differenze a proliferare, a produrre innovazione […]. In Italia in brevissimo tempo si dà il passaggio dall’affermazione separatista della differenza a un’affermazione costituente della medesima. […] qui non c’era più semplicemente teoria, ma pratica trasformatrice».

I movimenti delle donne vanno oltre la mera critica dell’esistente e lo sostituiscono con l’idea di metamorfosi, modificazione e trasformazione che riguardano sia il piano individuale che collettivo.

Per Negri «la differenza è resistenza […] una resistenza che rompe l’orizzonte del dominio [in questo caso patriarcale] non dai margini ma dal centro, meglio, ricostruendo un centro, un punto su cui far leva per trasformare la realtà, là, davvero nel cuore del sistema».

Un riconoscimento teorico e politico del pensiero della differenza sessuale, un pensiero che modifica l’orizzonte filosofico ed è «reale produzione del legame sociale».

Senza, infine, dimenticare una sua produzione di discendenze «che operano su più grandi scene [… e che escono] dai seminari e dai laboratori» e che sono attive nei movimenti e nella società: la differenza sessuale «ha finito di essere separazione, è diventata creativa e comincia a produrre avvenire».


(puntodivista.libreriadelledonne.it, 19 dicembre 2023)

L’uccisione di Giulia Cecchettin, a due giorni dalla laurea, ha suscitato una tale ondata di attenzione e di partecipazione da farne un importante momento di svolta nella consapevolezza politica. Di quello che è seguito vorrei mettere in evidenza un fatto significativo per una politica come la nostra, che si fonda sul linguaggio: questa volta c’è stata una inedita e generalizzata presa di parola.

In primis ha parlato la sorella Elena che dal suo dolore ha tratto una lucida analisi, poi su questa ennesima uccisione hanno parlato non solo le femministe, ma intellettuali, artisti, donne e uomini comuni. Mi ha commosso un bambino di undici anni che ha appeso davanti alla casa di Giulia un biglietto con su scritto: «prometto che da grande non diventerò mai come lui». In quei giorni perfino la mia parrucchiera parlava di patriarcato.

Considero positivo che la parola patriarcato sia uscita dagli ambiti femministi e sia diventata una parola corrente. Detto questo sono pienamente d’accordo con Laura Colombo quando nella sua introduzione dice che la parola giusta per definire il tempo che stiamo vivendo è post-patriarcato. Il patriarcato, infatti, ha perso sia la sua base nella società che il suo sistema di norme rappresentato dalla legge del padre ed è proprio il post, cioè la distanza, che permette di individuare a colpo d’occhio i comportamenti che si rifanno a quel modello del passato. Se fossimo ancora immersi in quella cornice culturale non ce ne renderemmo conto.

Di post-patriarcato parlano da tempo pensatrici femministe come Ida Dominijanni e Ina Praetorius, e nel 2014 Irene Strazzeri ha pubblicato il suo libro Post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico. Ma è una parola che circola ancora poco ed è bene riprenderla e rilanciarla, perché fa chiarezza. Ha ragione Ida Dominijanni a ricordare nel suo bell’articolo su Internazionale che oggi la legge del padre è stata soppiantata dal “discorso del capitalista”, dal godimento immediato e dalla non sopportazione della frustrazione e della mancanza. Filippo Turetta, con la sua impossibilità ad accettare di essere lasciato e di vedere Giulia laurearsi prima di lui, è figura dell’oggi e non residuo del passato. Ma in quel passato trova il privilegio di essere uomo e ha a disposizione tutto l’armamentario prepotente e violento di quella cultura. Come ha detto Elena Cecchettin, «nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto».

Ora la questione è se quell’ondata è una fiammata che si esaurisce in grandi manifestazioni o se ci sarà un seguito di cambiamento e trasformazione. In questi giorni i femminicidi continuano inesorabili ma vediamo anche che non si sta arrestando il desiderio di cambiamento.

Sappiamo bene che la politica essenziale è che ognuno, ognuna parta da sé nel suo vivere quotidiano per trasformare la qualità delle relazioni in cui è inserito e inserita: quelle di coppia, quelle con i figli e le figlie, quelle con amici e amiche, quelle nel posto di lavoro. Inoltre diventa sempre più importante porre maggiore attenzione attorno a sé e non sorvolare sul commento sessista, sulla battuta misogina, sul paternalismo, sul minimizzare, sullo sminuire le donne.

Io penso anche però che il tempo sia maturo per un gesto simbolicamente forte. Nell’invito a questo incontro è citato il Manifesto di Rivolta Femminile che già nel ’70 diceva: «la guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». Con le orribili guerre in corso, la militarizzazione del modello di comportamento maschile si è ulteriormente intensificata, per questo penso che ci voglia un gesto di rottura plateale. Ho in mente quello che ha rappresentato per le donne il Me Too, la cui forza è stata in grado di percorrere il mondo. Capisco che per gli uomini la cosa è più complicata perché c’è un doppio passaggio nella presa di coscienza. Il primo passo è senz’altro “mi riguarda” e mi azzardo a dire che la presa di parola di queste settimane ha posto le basi di questo primo passaggio. Il secondo passo è “non ci sto più” e questo va detto a voce alta per aprire a qualcos’altro.

Durante il funerale di Giulia, Gino Cecchettin, il padre, si è esposto con parole significative quando ha detto: «Mi rivolgo agli uomini, noi per primi dobbiamo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi sfidando la cultura che minimizza la violenza da parte di uomini apparentemente normali, non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione cruciale è creare una cultura di responsabilità e di supporto».

Ecco, è il momento per gli uomini di rispondere alla sua chiamata.


(Via Dogana 3, 19 dicembre 2023)


Questo testo nasce dall’intervento alla redazione aperta di #VD3 del 3 dicembre 2023 “È ora di cambiare”, presso la Libreria delle donne di Milano.

L’invito aperto alla Redazione di Via Dogana 3 ci interroga sulla «continuità tra tempo di guerra e tempo di pace», allora io provo a rispondere utilizzando le modalità che ho incontrato nei gruppi della rete Maschile Plurale; provo cioè a osservare da vicino le mie relazioni di intimità e l’esperienza di insegnante di Scuola dell’Infanzia.

Parto da un’osservazione di Marco Deriu che nel suo libro: “Dizionario Critico sulle Nuove Guerre”sottolinea come «la guerra materiale trova un suo fondamento nella dimensione dell’immaginario», ed è qui che troviamo continuità tra la dimensione bellica e la violenza che è uno degli aspetti caratterizzanti il dominio sulle altre soggettività che noi uomini siamo chiamati ad agire. In queste settimane in cui la “chiamata alle armi” degli eserciti risuona prepotente insieme ai richiami alla forza, mi è capitato di incontrare gruppi e associazioni che ci interrogano intorno al fenomeno della violenza degli uomini sulle donne, anche oggi ribadisco di non parlare a nome di nessuno se non mio. In uno di questi incontri un ragazzo ci sollecitava sul dovere di protezione delle donne a lui vicine, che quella “chiamata alla forza” esige da lui in quanto uomo; l’unica risposta che ho trovato, e porto anche a voi qui, è la possibilità di rintracciare nelle mie relazioni intime questa chiamata. In particolare nella mia esperienza di padre, dove si manifesta nella paura che mia figlia sia più debole e fragile di suo fratello; la sua supposta e non reale fragilità mi spinge e autorizza a esercitare quel diritto/dovere di protezione che in realtà nasconde lo squilibrio di potere e di ruoli nella relazione tra i sessi e i generi; squilibrio che muove dal principio per cui io e mio figlio, in quanto maschi, occupiamo un luogo simbolico che parla di una gerarchia di valori. Io però posso evitare di rispondere a questa chiamata riconoscendo quanta forza è necessario evocare nella relazione di cura con mia figlia, una forza diversa da quella che vuole noi maschi duri e incrollabili. Ora posso riconoscere le mie fragilità e vulnerabilità che nascono nell’intimità di quella relazione, e che sono fonte di ricchezza e autenticità. Insieme a questa nuova forza e ricchezza trovo anche nuove fatiche e responsabilità, che sono inevitabilmente intrecciate al desiderio che mi spinge fuori dalla posizione di dominio. Posso scegliere questa cura intima che la posizione di padre tradizionale non vorrebbe mi spettasse. Nei giorni successivi all’uccisione di Giulia Cecchettin molto si è detto e scritto, da destra risuona con arroganza il richiamo al maschio forte nell’idea che Filippo Turetta sia in realtà un uomo debole, un “maschio femminilizzato” che non sa controllarsi e che per questo diviene pericoloso; di nuovo l’idea che il femminile sia degradante, la chiamata alle armi del maschio tutto di un pezzo, la voglia di mettere distanza tra sé e “l’altro”, questa volta non più il mostro instabile ma un nuovo maschio, fragile e quindi non correttamente funzionante. Mi viene chiesto come io abbia riconosciuto in me questa chiamata e di conseguenza come provare a rifiutarla. Forse mi è possibile perché avendo scelto un mestiere tradizionalmente considerato “da femmine” ho incontrato nel mio percorso molte donne autorevoli, che sono state mie maestre e colleghe nel mestiere di insegnante e queste relazioni mi hanno permesso di disinnescare la presunzione di superiorità del mio genere, potendo così scegliere una dimensione lavorativa finalmente non performativa o competitiva. Così come nelle relazioni con amiche e compagne di vita posso imparare cosa non desidero essere e insieme coltivare legami intimi che mi vedono libero di esplorare desideri ed emozioni, libero da gabbie e stereotipi. In tempi recenti l’incontro con gli uomini dei gruppi di Maschile Plurale mi ha mostrato un modo prezioso e trasformativo del prendere parola tra maschi, diverso dalle modalità che avevo appreso in quelle zone oscure dove vengono insegnate le regole delle relazioni: la costante tensione alla performance e alla sopraffazione dell’altro, la distanza del corpo dall’esperienza e dei corpi tra loro, il divieto all’intimità prima di tutto con se stessi e poi con gli altri, la fragilità e la vulnerabilità da evitare a tutti i costi. Infine l’incontro con il femminismo e le sue pratiche mi ha regalato strumenti del tutto nuovi per esercitare il desiderio di rileggere la mia identità e il modo in cui abito le relazioni. Voglio citare anche io l’articolo di Dominijanni su Internazionale2, in particolare il passaggio in cui ci dice che: «Se il possesso di una donna diventa così irrinunciabile e il suo diniego insopportabile, le ragioni vanno ricercate anche nell’economia psichica propria dell’impero della merce e del mercato, che non genera mostri devianti ma figli disciplinati e conformi, perfettamente assoggettati alle sue norme». Lo cito per dire che riconosco appieno la mia origine di figlio disciplinato da un sistema simbolico dal quale desidero emanciparmi, e che anche nel mestiere di Maestro sento intorno a me la chiamata (di nuovo da respingere) a «disciplinare e conformare» bambini e bambine, con voce grossa e paternalistico autoritarismo. Soprattutto sento che questa chiamata alla disciplina mi arriva in quanto uomo, ovvero corpo estraneo, imprevisto, in una istituzione scolastica da sempre abitata per lo più da insegnanti donne. Quella stessa istituzione scolastica in cui, in contrasto con cento anni di esperienze e pensiero sulla scuola davvero troppo poco diffusi, ancora trova spazio uno sguardo degli adulti che vuole che i bambini maschi ripetano ossessivamente il “gioco eccitante”3 della performance, della violenza e della guerra.


1 Deriu M. (con la collaborazione di Tosolini A., Barbieri D.), Dizionario Critico delle Nuove Guerre, 2005, EMI, Bologna

2 https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2023/11/23/femminicidio-cecchettin-patriarcato-vacillante

3 Qui un testo collettivo su maschile e guerra: https://maschileplurale.it/maschi-e-guerra/


(Via Dogana 3, 17 dicembre 2023)

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