a cura di Anna Turri Vitaliani


Si è svolto, dal 18 al 20 ottobre 2023, nell’armoniosa quiete del Monastero di Sezano (Verona), il tanto atteso e desiderato Convegno delle Comunità di storia vivente. Da tempo era stato rinviato, anche a causa della pandemia, e finalmente le appartenenti delle varie comunità si sono riunite in presenza, provenendo da varie città: Milano, Savona, Foggia, Catanzaro, Sciacca, Mestre, Verona, Genova, Pinerolo, Barcellona.


Accomunate dall’impegno di mettere in pratica un modo innovativo di narrare la storia, le partecipanti al convegno, fiduciose nella fecondità del sentire profondo, avevano idee, scoperte, proposte e nuove riflessioni da scambiare in contesto, insieme a dubbi, ostacoli e difficoltà.

Il convegno era stato preceduto da alcuni incontri on line, preparati da Luciana Tavernini e Marina Santini, le quali, assieme alle altre componenti della loro comunità di Savona-Milano, avevano elaborato alcune domande, tra cui: quando un testo può essere considerato di storia vivente? Come distinguerlo da un racconto autobiografico? Come procedere in questa pratica?

Dopo tre anni di relazioni a distanza, si avvertiva il desiderio di un incontro in presenza, per discutere, potersi riabbracciare e comunicare emozioni.

Diventava, a questo proposito, importante trovare un luogo adatto, accogliente e confortevole, per parlare con agio, dare spazio alle istanze di ogni comunità, favorire nuovi incontri e godere anche di un piacevole soggiorno.

Quando è stata fatta la proposta di cercare uno spazio, si è accesa in me una lampada: ho visto il Monastero di Sezano come luogo ideale, per la bellezza della sua architettura, per l’accoglienza riservata alle e agli ospiti, per il clima di pace e serenità che vi si respira e l’ho proposto, assumendomi la responsabilità dell’organizzazione. Così per prima cosa ho contattato Paola Libanti, responsabile amministrativa dell’Associazione “Monastero del bene comune”, per verificare la disponibilità ad ospitare le partecipanti. Con lei ho chiarito fin dall’inizio che non tutte erano credenti. Paola, con molta dolcezza, mi ha risposto che non c’era alcun problema perché il Monastero è uno spazio aperto a tutte e tutti, credenti e non credenti, oltre alle diverse culture e appartenenze religiose.

L’organizzazione richiedeva un certo impegno, ma da subito Luciana Tavernini e Marina Santini mi rassicurarono con la loro presenza affettuosa e attenta, come del resto erano state fin dall’inizio con tutte noi della nuova comunità “Storia vivente in faccia al Monviso”, da quando muovevamo i primi passi a Pinerolo, presso l’antico Monastero della Visitazione, avendo di fronte a noi a ispirarci e sostenerci la spettacolare mole innevata del Monviso.

Da quando mi sono avventurata in questa nuova esperienza mi sono liberata da un peso, un macigno che portavo dentro di me da decenni: ho ripercorso la mia storia, risignificato le relazioni che ho intrecciato nel corso degli anni, riappacificandomi con mia madre e con me stessa. Ho guadagnato una grande serenità interiore e con essa la capacità di comprendere che i nodi si erano formati a causa del mio desiderio di libertà che mi faceva scontrare con chi mi voleva docile e sottomessa. Grazie alta pratica della storia vivente, sono entrata in un percorso vitale e trasformativo e ora provo una gratitudine profonda per le donne che mi hanno aiutata a portare alla luce i nodi irrisolti della mia vita, restituendomi il piacere della scrittura.

Hanno partecipato all’incontro di Sezano la comunità SaMi (Savona-Milano), promotrice del convegno in accordo con Marirì Martinengo, iniziatrice e inventrice della storia vivente, e con Laura Minguzzi; la storica María Milagros Rivera Garretas, già docente all’Università di Barcellona, autrice di testi, saggi e articoli significativi sulla storia vivente; la comunità “In faccia al Monviso”, la comunità di Foggia, la piccola comunità di Venezia-Mestre. In tutto 19 donne, delle 22 facenti parte della rete attuale di comunità e singole. Assenti, oltre a Marirì Martinengo, due amiche della comunità di Foggia.

Eravamo lì per desiderio, emozionate di incontrarci, decise a dire l’essenziale delle nostre storie “incandescenti”, a ragionare sui nodi irrisolti che fanno ingombro nelle relazioni.

Dopo aver verificato nei mesi precedenti l’interesse da parte di tutte di rivedersi, di individuare insieme i temi di approfondimento e di sapere che cosa ogni realtà stava facendo, si è deciso di presentare oralmente in contesto i racconti scritti da alcune e discuterne insieme; di ascoltare le pratiche messe in atto dalle comunità, con i guadagni e le ricadute positive sia a livello personale sia politico e le difficoltà incontrate. Infine, di valutare la possibilità di trasmettere la storia vivente, relazionandoci con le ricercatrici universitarie, le storiche di professione o le docenti di storia delle scuole superiori per far capire loro la necessità di lavorare sulla soggettività per una nuova scrittura della storia.

Il lavoro in contesto si è articolato nel modo seguente: per due mattine e un pomeriggio tre partecipanti hanno coordinato a turno i lavori e nove hanno proposto all’attenzione comune il proprio racconto. L’ultima mattina è stata dedicata ai progetti e alle proposte o a ulteriori riflessioni. L’ascolto del testo di un’altra è gesto di relazione: ognuna ha messo nelle mani delle presenti il suo racconto, fiduciosa nella cura del loro giudizio, consapevole che di quel giudizio ha necessità come un nutrimento che l’aiuta a fare passi avanti nel percorso di conoscenza di sé e della storia entro cui si è articolata e si sta articolando la sua vita.

Diventare “autrici” della propria storia, “storiche” appunto, richiede dei cambiamenti, vuol dire mettersi in discussione, uscire dalle gabbie patriarcali, scoprire i nostri intoppi, riconoscere e sbrogliare i conflitti del vissuto personale e far emergere la propria soggettività, trovare insieme alle altre «il nodo profondo che ha fatto di ciascuna di noi quello che è diventata», «ritornare alle origini, all’antica relazione con la madre, alle grandi pretese dell’infanzia per trovare il filo della propria vita unica e irripetibile».

La storia vivente ti fa capire che la tua storia è importante perché solo da qui puoi conoscere e guardare il presente; ti porta indietro, in un percorso a spirale fino a recuperare i «frammenti luminosi e oscuri» del sentire originario.

I racconti di storia vivente sono testi “in movimento”, in continua formazione, che non cancellano le emozioni, richiedono un lavorio su vari livelli, una scrittura di scavo interiore che parte dalle “viscere” (termine utilizzato dalla filosofa spagnola María Zambrano).

I nodi irrisolti ritornano, si ripresentano in forme sempre diverse nella vita ed è difficile, quasi impossibile rimuoverli, tenerli nascosti perché, prima o poi, riemergono e a volte esplodono in modo selvaggio. L’indagine sui nodi irrisolti esige la verità di un confronto vero e sincero, un lavorio teso a comprenderne il significato profondo, altrimenti restano chiusi in un «passato che non passa». Parlarne con altre è il primo passo per sciogliere quei nodi e andare oltre, in un percorso autentico di libertà.

Dai vari racconti sono emersi degli elementi comuni come il legame fortissimo e spesso conflittuale con la madre con cui ciascuna prima o poi deve fare i conti, ma anche il rapporto difficile con il padre e il maschile in generale, quando il proprio desiderio di libertà si manifesta e inizia a prendere forma. Sono emersi anche il nodo della sessualità e della maternità non libera, di cui si parla poco.

A Sezano abbiamo praticato «l’autorità in contesto», ognuna ha fatto in modo che ci fosse uno scambio vivo di autorità circolante, ha riconosciuto a sé e all’altra autorità sulla propria storia. Non c’è stata sempre sintonia e alcune critiche sono state aspre e taglienti. A volte sono mancate quella pazienza e capacità d’ascolto necessarie per venirsi incontro da grandi distanze. Era comunque chiaro a tutte il valore delle critiche per andare avanti nella ricerca comune.

Milagros Rivera Garretas ha posto la domanda sul possibile rapporto fra l’ispirazione e la storia vivente e ha indicato l’importanza di non parlare solo del dolore, ma anche delle esperienze di felicità che ci hanno segnato, raccontandole in maniera ispirata, lasciando spazio al mistero, alla possibilità di aprirci all’infinito. Le nostre storie, iniziate nella seconda metà del ’900, cominciano nel patriarcato, ma portano con sé la fine di quel regime. I nodi che ci portiamo dentro sono il modo in cui il patriarcato ci voleva imbrigliare, imprigionare. Se riusciamo a scioglierli, si entra in un tempo in cui c’è spazio per il piacere femminile e l’ascolto dei propri desideri. Per questo, ha sottolineato Laura Minguzzi, è necessario iscrivere nella storia il cambiamento simbolico portato dall’invenzione della storia vivente, collocandola tra gli «eventi memorabili» che hanno trasformato la storia perché ha messo in luce la fecondità del sentire profondo e creato un altro tempo.

A Sezano c’è stata un’apertura, un nuovo respiro nelle relazioni. L’incontro preziosissimo di Sezano – scriveva a tutte Marina Santini un mese dopo il convegno – è stato l’occasione per alcune di incontrarsi per la prima volta, per altre di ritrovarsi e sentirsi ancora più vicine, favorite anche dalla tranquillità del luogo. Sono circolate emozioni forti e parole di verità. A distanza di tempo, ognuna sta verificando la ricchezza che quel momento le ha donato e che continua a circolare nelle relazioni.

Anna Turri Vitaliani, interessata ai temi del ‘sacro’ e del divino femminile, fa parte dei gruppi donne delle Comunità di base con cui fa ricerca e della Comunità di storia vivente “In faccia al Monviso” di Pinerolo. Con Doranna Lupi e Sandra De Perini si è confrontata per la stesura di questo report.


(Autogestione e politica prima, n° 2/3, aprile-settembre 2024 – anno XXXII)

a cura di Laura Minguzzi


Ė accaduto non per caso. Un invito di Silvia Aonzo a partecipare a un Convegno, una tre giorni (8-9-10 dic.) nella scuola parentale di ispirazione montessoriana che lei sostiene, creata da Barbara Cerutti con altre mamme solo tre anni fa, dove entrambe insegnano come volontarie a un piccolo gruppo di bambini e bambine della Primaria. Titolo dell’incontro Archeosaperi femminili. Luogo dell’incontro, le sale di via San Dalmazio 24, del quartiere Lavagnola. Un progetto educativo CreAttiva in collaborazione con Comunità femminile di Cura ed Eredibibliotecadonne.


Venerdì pomeriggio, primo giorno dell’incontro è stato proiettato il film documentario Segni fuori dal tempo, sull’archeologa e linguista lituana, naturalizzata americana, Marija Gimbutas, che avvalendosi dell’innovativo metodo multidisciplinare ha ridisegnato il volto delle antiche civiltà matriarcali dell’antica Europa, poi invase tra il terzo e il quarto millennio a.C. dagli Indoeuropei. E fu l’inizio del patriarcato.

Io mi sono sentita profondamente in stretto legame con questa linea di ricerca fondata sull’origine della nostra storia, su una storia che fa leva e pone a suo fondamento l’orizzonte simbolico della madre. La storia è tempo e la memoria è madre della storia. È con l’invenzione linguistica e simbolica della pratica della storia vivente che noi della Comunità di storia vivente di Milano, con Marirì Martinengo, sua ideatrice (La voce del silenzio. Storia di Maria Massone, donna sottratta, 2005), abbiamo posto le basi di un nuovo inizio della narrazione storiografica. Un percorso di risignificazione o destoricizzazione, come si usa dire oggi, avvenuto rielaborando i nostri nodi irrisolti: le ferite reali o simboliche, che la storia patriarcale ci ha inferto per migliaia di anni. Fare di noi stesse documento storico è stata l’idea rivoluzionaria che ha permesso la svolta. Lo scavo in profondità dove il presente e il passato arcaico si collegano a partire da sé, dalla nostra esperienza svelata, nel contemporaneo, nel nostro tempo. Spezzando il tempo lineare incentrato sul maschile come valore dominante abbiamo posto al centro le nostre ferite obliate, rimosse, il rimosso della storia, nel mio caso, la tragedia della morte di mia madre quando avevo vent’anni. La mia orfanità è diventata nella Comunità di storia vivente da evento personale a evento storico universale, riletto in chiave politica tramite l’autocoscienza, come segno di una profonda trasformazione della storia italiana. La modernità violenta che negli anni sessanta ha trasformato l’economia italiana. Intendo la mutazione da paese agricolo a paese altamente industrializzato. Una società violentata. Questa risignificazione antropologica immessa nella narrazione storiografica è stata possibile grazie all’agire di un’autorità femminile che ha prodotto una modificazione dello sguardo interiore e un punto di vista differente. Dal 2006 al 2018, per tutti questi anni, ci siamo riunite in Libreria o a casa di qualcuna e insieme a partire dal racconto orale di ciascuna abbiamo portato alla luce il nodo irrisolto annidato nelle “viscere”, come scrive Marίa Zambrano, e con la pratica dell’autocoscienza, cui siamo debitrici, abbiamo rielaborato la nostra esperienza e abbiamo scritto e pubblicato i nostri racconti di Storia. Un debito di riconoscenza alle invenzioni del femminismo delle origini (alla pratica dell’autocoscienza, alla disparità, all’affidamento) e all’autorità di Marirì, che abbiamo riconosciuto perché ci ha permesso di crescere soggettivamente ed essere presenti nella vita pubblica. Figura di madre simbolica che ci ha portato a riscattare la madre reale. Per me la voce del silenzio è stata quella di Eva, mia madre. Abbiamo posto fine alla scissione cultura/natura, uno dei pilastri del patriarcato. Questi racconti di verità soggettiva, storie che fanno la Storia, testimoniano la fine del patriarcato nelle nostre menti. Esprimono la forza della parola, veritiera, indipendente perché fedele alla propria origine insieme alla gioia e al piacere della riappropriazione della propria storia, non in contrapposizione con l’altro, nel mio caso con mio fratello, negazionista climatico e anche incapace di fare i conti con la memoria. Anche lui è stato danneggiato dall’inconsapevolezza del ruolo che il patriarcato gli ha imposto e dalla legge patriarcale dell’oblio. Sono riuscita a fargli comprendere il valore della memoria e del pensare veramente a partire da sé. Anche nel piccolo gruppo esperienziale della domenica mattina ho sentito che veniva compresa dalle donne presenti la modalità innovativa della storia vivente e ognuna delle partecipanti ha individuato e raccontato un nodo della propria storia. Noi della Comunità di Milano dopo tredici anni di lavoro sulle parole, con le parole, in stretta relazione di fiducia, abbiamo pubblicato La Spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (2019). Nel titolo, suggerito da Marirì stessa, è sottesa la nostra pratica rivoluzionaria. La forma della spirale indica un percorso aperto, non dicotomico che, pur andando in profondità, essendo bidirezionale vola in alto e tocca la trascendenza e l’universale. Rappresenta la fine della storia sacrificale come scrive María Zambrano in Persona e democrazia. Fine della storia sacrificale, non è la fine della storia come predetto negli anni ottanta da alcuni storici e filosofi ma la fine della storia fatta e scritta da uomini, dal “cosiddetto” popolo eletto che fa la guerra per diffondere “la democrazia”, quella di impronta ateniese, che non prevede la libertà femminile. Libertà per le donne è libertà per tutti.


(puntodivista.libreriadelledonne.it, 9 aprile 2024)

di Donatella Massara


“Patchwork di storie femministe”, raccontate in prima persona dalle protagoniste e da attrici che le interpretano, in un podcast scritto e curato da Donatella Massara. Esperienze vissute dagli anni ’70 in poi, dando voce anche a quelle che sono venute prima di noi, dall’eretica Guglielma (sec. XIII) fino a Linda Malnati (1855-1922) e Carlotta Clerici (1851-1924) milanesi, socialiste femministe, compagne nella vita e nella politica.


Link del podcast: https://vimeo.com/829091597/9b8866a370



(www.libreriadelledonne.it, 2 luglio 2023)

di Antonella Nappi


L’articolo Cambiare le adozioni per tutelare gli orfani di femminicidio (Gianluca Di Feo, La Repubblica 13 gennaio 2023), così chiaro nella dichiarazione dei giudici – “Le criticità principali di zio e prozio,” a cui sono stati affidati i bambini piccoli che hanno perso i genitori perché il padre ha ucciso la madre, “consistono nella incapacità di accogliere gli aspetti depressivi dei bambini e di riferirli al trauma, cercando di porre fine in fretta ai momenti di crisi riportando ad altro le cause” –mi ha spalancata una questione personale.

La rimozione del dramma non avrebbe permesso ai bambini di affrontarlo e superarlo negli anni, è stata la questione principale della mia esistenza; ho rivisitato biograficamente il tema dell’articolo e ho compreso mia madre, me e mio padre nel nostro pervicace silenzio tutta la vita. Il silenzio di chi non può elaborare i traumi, né aiutare altri a farlo. La donna del mare di Ibsen racconta di questo silenzio tra lui, la nuova moglie e le figlie. E alfine riescono a rompere l’isolamento tra loro.

Nonostante i molti anni di analisi e la soluzione di molti problemi non avevo compreso il complessivo contesto nel quale ero vissuta non solo da bambina ma tutta la vita. Una cosa veniva superata e un’altra, ma il cammino continuava a essere nelle tenebre anche dopo le terapie, non avevo mai focalizzato il perché di tante sofferenze anche dopo le prime, e le successive, il continuare a muovermi in un mare tempestoso, la grande difficoltà di individuarmi.

E qualcuna teorizza che dall’io ci si debba allontanare! Sì, se l’hai ben saldo. L’impossibilità di elaborare i traumi, proviene da chi ti sta vicino se te lo impedisce in mille modi perché egli stesso è incosciente di che cosa lo frena e lo manipola, di che cosa lo obbliga a manipolare gli altri. In pratica a fuggire dal mettersi in discussione.

Per l’infanzia e anche per la politica è un fatto centrale aprirsi al dolore, mettersi in discussione, dipende da questa paura.

Sappiamo quanto è vero e quanto ne abbiamo parlato, anche a sproposito: perché il fastidio verso chi si lamenta, un po’ teorizzato tra alcune femministe (in Libreria), ha tutte le giustificazioni di chi non può essere terapeuta con quella o l’altra a ogni riunione ma sfugge una problematica centrale della politica. Le persone possono imparare da te tanto, ma se non sono loro stesse a maturare una questione, saranno sempre poco capaci di difendere le tue stesse posizioni. Devono creare le loro posizioni. Se come molte persone hanno subito traumi devono parlarne.

Ho vissuto il conflitto dei miei genitori non potendo fare da intermediaria perché è iniziato prima che io nascessi. Lei lo sposò per uscire di casa, aveva diciotto anni. Lui la mise a fare i conti della spesa con grande pignoleria, indi a correggere le bozze che scriveva per il suo libro. Ma soprattutto, anche durante il giorno, voleva approfittare dell’avere una moglie e per pochi minuti ripeteva i rapporti sessuali che continuarono durante tutta la gravidanza. Era scritto in un pezzetto della biografia che mia madre strappò prima di morire e ne lessi postuma quel che rimase. Alla Liberazione, io avevo appena compiuto due anni, mia madre se ne andò di casa assieme a me.

Mia madre non raccontava. Non voleva farmi i suoi racconti di odio per mio padre. Ma l’odio e la disperazione per tutto quanto successe dopo quella fuga, straboccavano incontenibili dai suoi pianti; negli anni successivi bastava un piccolo accenno alla sua storia. Così non ho saputo mai nulla che potesse essere discusso e ragionato. Ho saputo tutto come uno stato incombente e terrorizzante, una aspettativa di morte celata dalla presenza di una parete di nebbia impenetrabile. In quella parete era nascosto il mio mondo. Sognai da adulta una bambina truce, assassina o assassinata che mi fece molta paura. Questo muro lo vedevo bene nella mia vita con mia madre, era in casa ma bisognava far finta di niente. Non domandare, non parlare, sbottava a piangere e la colpa era mia, non dovevo tormentarla, mi diceva.

Da mio padre il muro era esterno alla casa. Fuori non sapevo che cosa ci fosse, se mia madre esistesse, se avesse fame, che noi mangiavamo tanto. Se soffrisse. No, che soffrisse lo sapevo, forse perché avevo sofferto io nell’essere stata rapita a lei poco dopo il nostro allontanamento dalla casa di mio padre. Lo sapevo anche perché l’avevo vista piangere e scappare quando eravamo nello studio del nonno, quando c’era il giudice amico di lui, quando mi fecero entrare nella stanza come fossi io a rompere la norma – prima dei sei anni i bambini non possono essere ascoltati dal giudice – come fossi capitata dentro spinta dalla voglia di dire che volevo stare con mio padre. Mi avevano tirata fuori a forza da sotto il letto della nonna che viveva a fianco dello studio, mi avevano ripetuto che dovevo farlo anche se non volevo, altrimenti sarei stata mandata in collegio, in un posto dove non avrei più potuto vivere con papà. Neppure la mamma avrei visto, che già non vedevo da diverso tempo.

La vidi quell’attimo che mi buttarono dentro, la vidi che era il mio sogno, la femmina a cui mi sarei abbarbicata. Finalmente la vedevo: una mamma nella bellezza dei suoi ventitré anni, con il viso rapito e felice nell’individuarmi. L’attimo me lo avevano preavvertito e proibito. Non dovevo guardare a sinistra ma guardare a destra e da quella parte correre. Dovevo andare da mio padre, seduto vicino al giudice e dire quello che dovevo dire.

La mia vita continuò solitaria accompagnata dall’attesa. Fuori non c’era la mamma in nessun luogo. Non all’asilo dove mi rifiutai di stare dopo un’ora passata contro il muro, in un angolo del gabinetto. Non alla scuola elementare dove a volte mi addormentavo cullata dalla voce della maestra. Altre volte vedevo le torture inflitte a quella bambina che aveva rubato, o l’interrogatorio all’altra piena di lividi per farle confessare chi l’avesse picchiata – era stato il padre portinaio. La lezione di canto è un ricordo quasi bello; la fatica di partecipare e di essere a scuola mi aveva portato un regalo: brava, sei intonata!

Fuori della scuola il papà con la macchina guidava svelto, il braccio teso a tenermi perché abbiamo sbattuto contro il tram, un grande spavento. Ma soprattutto il papà a casa che torna dall’ufficio, un quarto d’ora assieme, lui mangia sul carrello a fronte del mio letto. Io sempre malata, a volte finta malata, io a casa perché insonne, vomito appena alzata e riesco a non uscire. Fuori c’è solo pericolo, solitudine e le sgridate, i due con due segni di meno dei compiti.

La seconda volta che faccio la quinta elementare sono in un’altra scuola, anche la mamma qualche volta è venuta a prendermi. In ritardo perché molto indaffarata. Non ci vado molto a scuola e l’anno successivo vado alle medie dalle suore, vicino alla casa di mio padre. Ci vado di più, faccio anche la capoclasse a volte se la maestra deve assentarsi. I libriccini d’avorio con i disegni a cornice della messa sono una gioia, si gioca anche a palla e si fa il quadro svedese. Purtroppo vado ancora troppo poco e la maestra di economia domestica non accetta la mia dichiarazione che il cappellino del bambolotto, a maglia, sia fatto da me, è fatto a macchina e io mi oppongo, non ammetto la bugia e così il rapporto si rompe. Ma da lei ho imparato molto, a togliere le macchie di inchiostro, a mettere la mano davanti alla bocca se starnutisci, ho visto i filmati del fascismo – verranno usati per molti anni dopo la caduta – sono bellissimi e chiari, insegnano l’igiene in casa e fuori. Con il raffreddore non si abbracciano gli altri; non si mettono le mani in bocca mai, lavarle è importante e quando si è malati si rimane in casa, non possono entrare in camera i bambini e a volte con la bocca e naso coperti ti possono fare un salutino dalla porta.

Le malattie furono tante e la solitudine tanta. Lo sconforto che mi aggrediva per qualsiasi rimprovero, per ogni non approvazione dalle bambine del palazzo o dagli adulti, mi facevano rinunciare agli incontri, anche al gioco. Stavo sul letto al buio, piangevo infinitamente, invocando la mamma tra me e me. Non potevo che invocarla piano perché non c’era e neppure chiamarla al telefono: eppure c’era già il duplex. Era lei a chiamare qualche volta, non c’era da aspettare una telefonata. La mamma non c’era e il papà rincasava alle otto meno un quarto che io spesso mi ero addormentata per passare le ultime ore del pomeriggio. (Continunerà…)


(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2023)

di Alessandra De Perini


Il saggio è pubblicato nella rivista della Comunità filosofica Diotima, Per amore del mondo N.18/2022 *


[…]


La verità delle donne, il loro sentire, la competenza simbolica femminile sul corpo sono assenti dalla storia e dalla filosofia che pur sono impegnate nella ricerca della verità.

La verità delle donne non è astratta, è incarnata, connessa con l’amore ed è appesa al filo d’oro che intreccia la genealogia femminile e materna.

La cultura greca ha sistematicamente ignorato la verità delle donne che si radica nella vita misteriosa e oscura delle viscere. Per secoli la verità delle donne ha continuato a essere trasmessa attraverso la lingua oracolare, la poesia, le visioni, i simboli dell’ordine simbolico della madre.

Nella storia d’Europa per produrre conoscenza è prevalsa con san Tommaso e la Scolastica la modalità del Logos, del pensiero astratto, della parola ragionata, del distacco dalla vita in nome dell’oggettività rispetto alla modalità della visione-rivelazione, della mistica, e dell’allegoria.

Con il trionfo della Scolastica, persa la battaglia per il simbolico, la verità delle donne, che è connessa con l’amore e con la vita dell’anima, dovette trovare altri rifugi, si è andata a nascondere in luoghi poco accessibili, nelle viscere.

La modernità ha negato il valore politico dell’esperienza e nei secoli XIX e XX ha ridotto la politica all’esercizio del potere.

Il femminismo ha riconosciuto la politicità del personale, il valore personale e politico dell’esperienza per conoscere la verità, cambiando così radicalmente il senso della politica e della veridicità storica.

La politica allora, non più confusa con il potere, si è spostata al suo posto originario: l’esperienza.

Oggi, è in atto nella storiografia, nella filosofia, nella scienza e nella politica una “rivoluzione metafisica”, la rivoluzione della verità delle donne e della vita dell’anima. Si tratta di una rivoluzione di “posizionamento” della filosofia e della scrittura della storia, che si lascia alle spalle la verità “concordata”, la pretesa dell’oggettività, il paradigma del “sociale” e salva la vita delle viscere, dove si radica il senso libero e inesauribile dell’essere donna, proponendo un’altra relazione con la verità, quella del sentire, per cui “pensare è decifrare ciò che si sente” e cercare la verità significa innanzitutto desiderarla, immaginarla, mettersi in ascolto delle ragioni dell’amore.

Il saggio di Maria-Milagros Garretas Rivera è come un prisma dal disegno complesso, un viaggio dell’anima corporea attraverso il tempo e le diverse epoche della storia per aprirsi alla visione della verità femminile che in questo tempo post patriarcale sta parlando. Una verità femminile ascoltata e messa in parole da quelle donne, amanti della storia – io mi sento tra queste – che, invece di integrarsi nella storia che già esiste, riconoscono la verità dell’esperienza femminile, radicata nelle viscere, fatta di relazioni, desideri, modi di sentire, progetti, paure, limiti, ambizioni, nodi interiori, e assumono il proprio essere donne come significante inesauribile della scrittura della storia.

(*) Si tratta della traduzione italiana, realizzata da Luciana Tavernini, di “La verdad ausente de la filosofía: la historia viviente”, saggio pubblicato in Magda Lasheras y Teresa Oñate (a cura di), Filosofía de la historia y feminismos, Dykinson, Madrid 2020, pp.111-138, a seguito della conferenza La verdad ausente de la filosofía: la historia viviente, tenuta dall’autrice il 12 dicembre 2018 all’Università Nazionale Autonoma (UNAM) di Messico, organizzata da Instituto de Investigaciones sobre la Universidad y la Educación (IISUE), attraverso il Seminario Escritos de Mujeres e la Facultad de Filosofía y Letras della UNAM, la cui videoregistrazione si trova al link


http://www.mariamilagrosrivera.com/video/la-verdad-ausente-de-la-filosofia-la-historia-viviente/


(www.libreriadelledonne.it, 23 ottobre 2022)

di Marina Magnani


Relazione introduttiva all’incontro del 19 marzo 2021 a Ravenna


La presentazione del libro La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi era stata programmata con la Casa delle donne di Ravenna più di un anno fa, nel mese di marzo, all’insegna dell’“inviolabilità del corpo femminile”, poi rimandata a novembre 2020 a causa della pandemia, nell’ambito della rassegna “Una società per le relazioni. Strade alternative alla violenza”. A onor del vero ci tengo a precisare che la pandemia non fu la sola causa dello spostamento. In realtà si verificò un disaccordo politico fra le promotrici dell’evento, riguardante il sostegno che Laura e io dichiarammo pubblicamente alla posizione critica espressa da una parte del movimento femminista italiano al ddl Zan. All’interno della Casa delle donne vi fu un netto rifiuto di confronto su alcune tematiche controverse ma che alcune sentivano come irrinunciabili. In seguito la proposta fu ulteriormente spostata a causa della seconda ondata pandemica, ma grazie a una tenace ricerca di nuove interlocutrici siamo riuscite a mantenere questo impegno, che con Laura Minguzzi e Marirì Martinengo avevamo preso da tempo e a cui non volevamo rinunciare. Oggi, 19 marzo 2021, dedichiamo questo appuntamento a tutte le donne che desiderano approfondire e sviluppare il “pensiero della differenza” nella storia, una pratica relazionale che necessariamente parte da sé, in un calendario di manifestazioni che il Comune di Ravenna organizza in occasione del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza alle donne. Con Laura avevo da alcuni anni iniziato una relazione in occasione di un dibattito per ricordare il cinquantenario del ’68, dal punto di vista del movimento delle donne, promosso dal Gruppo Donneversoilmareperto, di cui io faccio parte. La invitai in quanto Laura è originaria di Torri di Mezzano, un piccolo paese del comune di Ravenna e mi incuriosiva il suo percorso politico ed esistenziale, avendo letto che da tempo viveva a Milano e in relazione con la Libreria delle donne. La conobbi, infatti, attraverso il sito della Libreria. Fu un incontro fertile poiché fu proprio in quella serata che lei ci parlò della Comunità di storia vivente, della cui pratica lei stessa è componente attiva, e in me nacque un forte desiderio di saperne di più e approfondire la sua conoscenza.

Di certo non servono date celebrative per sentirsi donna, tuttavia, se è vero che la storia siamo noi, è anche troppo semplice dire che la storia è la somma di tutto quanto è successo dai tempi dei tempi e che conoscerla è un modo per allargare lo sguardo, per uscire dal proprio orizzonte, quando ognuna/ognuno sa benissimo di vivere una sua propria storia. Abbiamo vissuto millenni di storia positivista, tradizionale, anche detta oggettiva, della dominanza del patriarcato, dove i rapporti basati su gerarchie di predominio, supportati dalla forza, dalla paura, dal dolore oggi si devono poter definitivamente interrompere, per trovare un modo di risvegliare, dal coma profondo in cui giacciono, troppo spesso inermi, una politica del nostro corpo, del nostro eros, un desiderio di connessione biologica con la storia della consapevolezza, nel solco già segnato da una parte del femminismo della seconda metà del ’900.

Tra l’altro la storia, se considerata come una forma di oggettività, è già per definizione un distacco dalla vita, è già una certa morte, mentre la conoscenza che muta secondo la nostra coscienza, della nostra lettura degli eventi, del nostro modo di interrogare, e soprattutto di sentire il mondo, può essere capace di porre nuove questioni, fino a diventare un processo che “resuscita i morti”. Gli storici cercano la verità in ciò che è realmente accaduto, ben sapendo che la verità non solo non si possiede ma semmai si cerca insieme con gli altri. Tuttavia, come ben sappiamo, noi donne siamo praticamente assenti dalla storia. E allora, come può esserci verità nella filosofia, nella storia tradizionale se il pensiero e le esperienze delle donne sono assenti? Quindi c’era una volta l’uomo, ma c’era una volta anche la donna, ideatrice oggi di una nuova pratica di autorità femminile, che cerca di mettere in atto il percorso già indicato da María Zambrano (1904/1991), filosofa spagnola del secolo scorso: «per essere veramente umana, la storia deve scendere fin nei luoghi più segreti dell’essere, fino alle viscere, a quella parte meno visibile del nostro corpo, perché quella è il luogo in cui la nostra differenza sessuale mette radici e radica il suo sentire. E il sentire ci costituisce più di ogni altra facoltà psichica: le altre le possediamo, mentre il sentire lo siamo».

Riflettiamo allora sul fatto che il tempo che passa deposita dentro il nostro essere profondo alcune esperienze, che domandano sensibilmente di uscire alla luce, di essere riascoltate, narrate, riconsiderate e rinarrate e immaginiamo che questo processo possa mutare non solo il corso della narrazione della storia ma anche chi l’ha vissuta: quindi con l’audace scommessa che il far emergere – dal varco tra le viscere – elementi apparentemente ignoti, impensabili, imprevedibili arricchisca, di fatto, la storia e il simbolico femminile.

La pratica della storia vivente della Comunità di Milano, iniziata nel 2006, ha prodotto la realizzazione del libro La spirale del tempo, edito da Moretti & Vitali, nella collana curata dalla filosofa Annarosa Buttarelli, preceduto nella stampa dalla pubblicazione degli atti dei Convegni tenutisi tra il 2012 e il 2014. Il libro contiene tre testi teorici e dieci racconti di storia vivente di Marie-Thérèse Giraud, Laura Modini, Giovanna Palmeto, Marina Santini, Luciana Tavernini, Rosy Daniello, Adele Longo, Anna Potito, Katia Ricci, María Milagros Rivera Garretas, nonché di Laura Minguzzi e Marirì Martinengo, nostre ospiti.

Tuttavia, il merito di riconoscere negli scritti l’origine di un nuovo modo di fare storia, una storia a partire da sé, dalla genealogia materna, va dato a una storica medievalista, docente all’università di Barcellona, María Milagros Rivera Garretas, in occasione nel 2005 della presentazione del libro La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, “donna sottratta”, scritto da Marirì Martinengo, che poi sarà considerato il libro istitutivo della storia vivente. In particolare, dalle stesse parole di Marirì: «C’è una storia vivente annidata in ciascuna e ciascuno di noi», María Milagros ebbe la felice intuizione e il coraggio di definire la storia vivente una forma di conoscenza femminile, che lega esperienza, parola e scrittura insieme, mostrando l’intimo legame tra il desiderio per la storia e la propria esperienza personale, che richiede di essere reinterpretata, molto semplicemente perché le interpretazioni date non bastano più. A differenza di quanto avviene nella storia tradizionale, finalmente non è più il soggetto che indaga un oggetto, ma è lo stesso soggetto il documento principale cui attingere, «un corpo pensante, non silente, anzi sentente».

Quindici anni sono passati da quella innovativa proposta politica e storiografica, altre donne si sono aggiunte alla Comunità di Storia vivente di Milano, mentre altri gruppi si sono formati e si stanno formando in diverse città italiane, e anche in quelle di lingua latina nell’America meridionale.


19 marzo 2021


(www.libreriadelledonne.it, 14 maggio 2021)

di Antonietta Berretta


Seguendo l’ispirazione di Beatrice Venezi, direttora d’orchestra e autrice, fra le altre sue opere, di Le sorelle di Mozart, libro nel quale scrive di molte musiciste mai ricordate, voglio ricordare i due libri scritti da Antonietta Berretta, docente al Conservatorio di Novara, intitolati “Inaudita musica”, pubblicati nel 2012 e dedicati rispettivamente alle compositrici del ‘600 e del ‘700. Antonietta inoltre ha organizzato concerti sulla loro musica, mostre itineranti, conferenze, presentazioni. L’obiettivo politico di Antonietta, oltre a quello di far conoscere le compositrici,è stato quello di far suonare, nei conservatori, negli istituti musicali, la loro musica. Il Conservatorio di Novara, sul portale www.inauditamusica.consno.it ha raccolto tutto ciò che è stato prodotto nel corso della ricerca sulle compositrici, a partire dai suoi esordi e dalle motivazioni fino ai convegni, concerti, eccetera.

L’11 dicembre 2012 è stata invitata al Circolo della rosa Libreria delle donne di Milano, dove ha tenuto la bella conferenza, che riproponiamo.

(Marirì Martinengo)


Sabato 11 dicembre 2012, ore 18.30

Libreria delle Donne, Circolo della rosa

Desiderare la musica daltre. Viaggio tra le compositrici

di Antonietta Berretta


Ringrazio la Libreria delle donne che ha accettato di dedicare questo pomeriggio alla musica delle compositrici e in particolare alla presentazione del Cd I suoni Bianchi della notte e ringrazio soprattutto Luciana Tavernini che si è adoperata per organizzare l’iniziativa.

Qualche mese addietro delle giovani ricercatrici dell’Università della Sapienza di Roma hanno scritto una lettera aperta al Ministro dell’Istruzione e della Ricerca manifestando il disagio e il disappunto in seguito alla lettura delle indicazioni sulle prove d’esame e i relativi programmi contenuti nel bando del concorso in programmazione. «Negli elenchi di autori che i / le candidate dovrebbero conoscere, per la filosofia nemmeno una donna, per la letteratura solo Elsa Morante, per la storia non c’è alcun accenno alla storia delle donne e alle questioni di genere, tra i fatti notevoli del Novecento non è menzionato il femminismo, per l’educazione linguistica non c’è nessun riferimento al linguaggio sessuato». Ancora persiste lo stesso atteggiamento del passato che dava visibilità solo a qualche donna di valore. Penso per esempio a Raffaello Sanzio, che pare abbia inserito in un immaginario pantheon, formato da filosofi, la figura di Ipazia d’Alessandria. Mi riferisco all’affresco La scuola di Atene, realizzato tra il 1509 e il 1511 e conservato nella Stanza della Segnatura presso i Musei Vaticani a Roma.

Sono Antonietta Berretta e ho contribuito assieme ad altre, tra cui Beatrice Campodonico, alla fondazione di Magistrae Musicae, un’associazione che abbiamo voluto per valorizzare e promuovere la figura della donna artista dall’antichità ai nostri giorni. Attraverso concerti, spettacoli, stages, incontri, convegni, congressi, seminari, mostre vogliamo diffondere, in particolare, la musica delle compositrici affinché venga, studiata, ascoltata ed eseguita durante esami, saggi e concerti per la creazione, all’interno della cultura musicale, di una visione del mondo che si richiami alla sapienza e alla creatività femminile. S’ispira al progetto trasversale In-audita musica, da me ideato nel 1998 (e realizzato con il sostegno di tutto il “Conservatorio Guido Cantelli” di Novara) e selezionato come “buona pratica” per illustrare l’Anno Europeo della Creatività e dell’Innovazione (2009) dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.  
Da quando sono in pensione sto dedicando in misura maggiore il mio tempo all’associazione e organizzo assieme a Beatrice Campodonico e a Rosalba Montrucchio, che ne è la presidente, degli eventi nella provincia milanese. A Pessano con Bornago per il terzo anno consecutivo abbiamo partecipato all’iniziativa del Comune, denominata Autunno Classico, con concerti dedicati alle compositrici. Abbiamo partecipato anche alla Fiera di Sant’Apollonia con un concerto di Ottoni del gruppo Brianza Quintet Brass che ha eseguito musiche di Antonia Sarcina. Abbiamo allestito uno stand che conteneva in esposizione una selezione di foto di compositrici di tutto il mondo e compositrici viventi in Lombardia, i programmi di sala, le locandine di tutti i concerti realizzati, libri e CD dedicati alle compositrici e alle loro musiche che per tutto il giorno hanno allietato lo spazio concessoci. Anche se abbiamo rischiato di rimanere congelate (eravamo all’aperto e il 12 febbraio dell’anno scorso a Pessano con Bornago la temperatura era sottozero), siamo state contente dell’interesse suscitato. Siamo fiere che a Pessano e dintorni i nomi e le musiche delle compositrici del passato (Mel Bonis, Emilie Mayer, Maria Teresa Agnesi, Cécile Chaminade, Matilde Capuis, Maria Malibran, Pauline Viardot, Fanny Mendelssohn, Clara Schumann) e del presente (Beatrice Campodonico, Rita Portera, Barbara Heller, Laura Shur) circolino e il pubblico che ci segue, cresca di anno in anno.

Frequento la Libreria delle donne da parecchio tempo e ho delle belle relazioni con Luciana Tavernini, Marina Santini e altre, soprattutto con Marirì Martinengo, che mi ha suggerito nel 1998, quando allora mi accingevo a fare una ricerca sulle compositrici del Seicento, di utilizzare uno sguardo diverso nell’affrontare il canone biografico delle compositrici, prendendo a prestito gli strumenti del pensiero della differenza sessuale. Il lavoro sfociò in una mostra con catalogo, In-audita musica. Le compositrici del 600 in Europa; credevo di impersonare il ruolo di paladina delle compositrici dimenticate dalla storia, invece scoprii di essere alla ricerca delle mie origini. Il mio desiderio era conoscere le antiche matriarche della musica (non solo le cantanti e le strumentiste) perché, pur subendo la fascinazione operata dai grandi musicisti, mi sentivo sola in un mondo di uomini. I libri di testo dei conservatori su cui ho studiato la storia della musica citavano (ancora citano?) solo quattro nomi di compositrici: Francesca Caccini, Antonia Padovani Bembo, Barbara Strozzi e, celata nel gruppo dei Sei, Germaine Tailleferre. Frequentando donne che mi hanno indicato la lettura di libri che narravano un’altra storia scoprii che erano esistite le scienziate, le poetesse, le scrittrici, le filosofe, le compositrici. Sia che abbiano vissuto nei monasteri o nei conventi, nelle corti o nei salotti hanno contribuito a creare cultura lasciando la loro impronta anche in musica. Studiando il Seicento italiano m’imbattei nelle suore compositrici: un fenomeno particolare che in quelle dimensioni non si è più ripetuto nella storia. In quel secolo, in Italia, c’era sia la pratica della monacazione forzata sia la consuetudine, da parte delle ragazze che rifiutavano il matrimonio, di vivere nei conventi o nei monasteri per stare in relazione con altre donne: qui con l’aiuto economico delle famiglie studiavano canto, composizione, strumento oltre che meditare e pregare. Grazie alla loro creatività e intelligenza hanno reso i luoghi di clausura in pregevoli laboratori culturali. Il materiale documentario del catalogo Inaudita musica. Compositrici del 600 in Europa (presente in libreria) e della relativa mostra itinerante (conservata presso il Conservatorio di musica di Novara) è costituito dalle biografie di quaranta compositrici tra cui spiccano Caterina Assandra, Chiara Margherita Cozzolani, Rosa Giacinta Badalla, Francesca Caccini, Antonia Bembo, Isabella Leonarda, Élisabeth-Claude Jacquet de La Guerre, Barbara Strozzi. Tutte europee (molte italiane e soprattutto dell’area milanese), laiche e religiose, nate o comunque in attività nel Seicento. Hanno scritto musica vocale e strumentale, sacra e profana, da ballo e da teatro. Il tutto è arricchito da bibliografie, immagini di frontespizi, spartiti e tavole di opere di pittrici coeve (Artemisia Gentileschi, Sofonisba e Lucia Anguissola, Giulia Lama, Louise Moillon, Magdalena de Pas, Lavinia Fontana, Rosalba Carriera, Judith Leister ecc.)… Fu un lavoro che mi gratificò molto. Infatti La mostra ha percorso l’Italia da Nord a Sud riscontrando ovunque benevoli consensi.

Quando nel 1999 venne nel Conservatorio di Novara, dove io insegnavo, Beatrice Campodonico, in veste di compositrice ospite durante un concerto in cui veniva interpretato il suo brano, La leggenda di Vassilissa, dalla chitarrista Maria Vittoria Jedlowski, io ne fui favorevolmente impressionata: dopo un anno di letture sulle compositrici vissute nel passato finalmente ne vedevo una in carne e ossa! La prima cosa che feci, dopo il concerto, fu una domanda che col senno di poi mi è sembrata stupida: cosa faceva prima di comporre? Come chiedere a una pittrice cosa facesse prima di dipingere o a una scrittrice prima di scrivere. Però a me sembrava talmente strano che Beatrice Campodonico fosse una donna senza l’aureola, senza superbia, anzi preoccupata per aver lasciato a casa la sua bambina con la febbre, e che nello stesso tempo fosse anche compositrice. L’anno successivo fu trasferita come docente di ruolo al Conservatorio di Novara e la sua continua presenza diede un grosso contributo al progetto In-audita musica divenuto intanto linea guida del conservatorio e con lei fece l’ingresso nell’istituto la musica contemporanea. È noto come i programmi scolastici fino a pochi anni or sono fossero fermi agli ultimi anni dell’Ottocento-primi del Novecento. L’orecchio, abituato alla musica tonale, non gusta immediatamente le nuove sonorità, non capisce i nuovi linguaggi dove manca il discorso compiuto, dove manca il rapporto gerarchico tra i suoni più o meno importanti, dove gli accordi dissonanti non sono più obbligati a risolvere su quelli consonanti. Da allora la musica contemporanea divenne per me meno ostica. Con l’avvio di seminari e laboratori tenuti direttamente dalle compositrici contemporanee, italiane e straniere, ospiti del conservatorio, studenti e docenti si dovettero misurare con lo studio delle nuove musiche che venivano interpretate durante i concerti pomeridiani.

Il CD I suoni bianchi della notte contiene brani che sono stati pensati per l’infanzia ma in effetti sono anche per l’età adulta. Magistrae Musicae lo ha presentato a Pessano con Bornago il 25 novembre 2012 dove abbiamo registrato il favore del pubblico che ha apprezzato particolarmente la combinazione musica e parola. C’è stata una mamma, restia a frequentare i concerti, ma per altri motivi presente in sala col suo bambino, che ha subito la fascinazione emanata dalle musiche suonate con la chitarra, col flauto e con il violoncello. Il suo piccolo stava seduto a terra di fronte agli strumentisti con gli occhi spalancati e attenti. Il linguaggio delle musiche incise (a parte quello più vicino ai canoni tradizionali di Luisa Indovini Beretta, l’ideatrice del progetto, venuta a mancare quando il Cd era ormai prossimo alla realizzazione), è vario: ogni compositrice, Beatrice Campodonico, Gabriella Cecchi, Annamaria Federici, Anna Gemelli, ha il proprio. I suoni, non ordinati secondo una gerarchia rigida, formano oggetti musicali che si frantumano in una moltitudine di incisi evocanti atmosfere, sensazioni, richiami. Le partiture a volte contengono una legenda contenente i segni esplicativi della effettistica usata che sostituiscono totalmente o in parte il pentagramma, invitando l’interprete a realizzare effetti particolari, a volte veri e propri rumori realizzati col proprio strumento e/o con la voce.

Spesso si pubblicizzano eventi che vedono coinvolte le compositrici con la formulazione “musica al femminile”. Come se la musica, naturalmente maschile solo in determinate occasioni possa essere declinata al femminile. Nel Dizionario sessuato della lingua italiana è scritto: «Suggeriamo di non cadere nel tranello di adottare, sia pure a “fin di bene”, forme che si stanno diffondendo ma continuano a essere discriminatorie come “giudice donna”, “giudice in gonnella”, “scrittura al femminile” in luogo di “la giudice” e “scrittura femminile”». «La musica non ha genere, cioè non ha sesso, anche se la percezione del mondo femminile è diversa da quella maschile». Forse solo nei testi che accompagnano la musica è rintracciabile il pensiero maschile o femminile. La scrittrice Catherine Clément sostiene che l’opera lirica nella maggior parte dei grandi autori narra e canta la disfatta delle donne: «L’opera è una faccenda di donne. No, non una versione femminista; no, non una liberazione. Tutt’altro: le donne soffrono, lanciano acute grida, muoiono». Il Teatro alla Scala di Milano ha continuato per tutto l’Ottocento, il Novecento e anche adesso, a veicolare il patriarcato e la sua misoginia. Oltre a rappresentare la musica di compositori, privilegia i grandi direttori d’orchestra, i grandi scenografi e registi, tutti uomini, con qualche eccezione (Emma Dante, regista della Carmen, 2011). Come se non ci fossero opere scritte da donne. Molte compositrici del Settecento hanno nel loro catalogo opere teatrali (drammatiche e comiche), balletti, drammi pastorali, oratori, oltre a opere strumentali e vocali. Ricordo la milanese Maria Teresa Agnesi Pinottini, Maria Rosa Coccia, Maria Theresia, contessa di Ahlefeldt, Elizabeth Berkeley, margravia di Anspach, Marie Emmanuelle Bayon Louis, Amélie Julie Candeille, Caroline Wuiet e altre. (Nel catalogo della mostra In-audita musica. Le compositrici del Settecento in Europa – presente in Libreria – a cura di Antonietta Berretta, Patrizia Florio e Pier Giuseppe Gillio, Istituto Superiore di studi Musicali “Conservatorio Guido Cantelli” di Novara, 2004, sono state selezionate quaranta profili di compositrici). Anche nell’Ottocento non mancarono musiciste che scrissero opere liriche: Maria Bottini-Andreotti, Carlotta Ferrari da Lodi, (soprannominata La Saffo italiana, La regina del canto e della lira, Bellini in gonnella, La doppia stella di Lodi). Un’artista, quest’ultima, che si cimentò oltre che nella musica (compose diversi lavori tra cui i melodrammi Sofia e Eleonora dArborea) anche nella poesia (scrisse quattro volumi di Versi e Prose). Nonostante le sue opere siano state rappresentate, il suo nome cadde ben presto nell’oblio. Stessa sorte per Vincenza Garelli della Morea in de Cardenas, Gabrielle Ferrari, Giulia Recli…

Nel 2008, sempre al Conservatorio di Novara, avevamo organizzato il Convegno In-audita musica. Intrecci femminili tra armonia e melodia, cui invitammo Suzanne Cusick che ha avuto il merito di far intervenire il femminismo nella politica della sua disciplina invitando i suoi e le sue colleghe a utilizzare uno sguardo diverso nell’affrontare il canone biografico della musicologia. Prendendo a prestito la storia delle donne e citando i testi di Adriana Cavarero e di Luce Irigaray, la Cusick sostiene che nella ricerca e nella presentazione delle biografie di uomini e donne non si possono usare le stesse categorie che rimandano a un neutro universale (uomo/donna) che è invece maschile. Infatti, nel suo lavoro di ricerca sulla figura di Francesca Caccini, compositrice e cantatrice del diciassettesimo secolo, perplessa perché non trovava sufficienti notizie biografiche (dato il peso che questa donna aveva presso la corte medicea) volse lo sguardo sui luoghi frequentati dalle donne. Uno di questi fu la corte femminile della reggente del Granducato di Toscana, Cristina di Lorena. «Scoprii una rete di relazioni e patronage che legava le donne delle classi nobiliari tra di loro e con la loro granduchessa, poiché era lei stessa, più dei loro padri e fratelli, a gestire la negoziazione, i dettagli cerimoniali, il consumo, la buona riuscita e lo scioglimento dei loro matrimoni […]». «[…] un particolare sistema sesso/genere, che ho chiamato patriarcato femminile». Qui le notizie si moltiplicano e rendono conto di una realtà ricca e variegata da cui si staglia prestigio, creatività e libertà delle donne. «Ma soprattutto, sotto le duplici spinte del pensiero postmoderno, a un livello più generale, e della teoria femminista di Luisa Muraro, Adriana Cavarero e la comunità filosofica Diotima, mi sono proposta di sfidare le regole della biografia musicologica, scrivendo di Francesca, in un modo che sottolineasse la relazione tra la sua storia e le altre storie delle donne della corte medicea». A quel convegno invitammo altre personalità di spicco della storia della cultura femminista (tra cui Marirì Martinengo, Annamaria Cecconi, Silvana Bartoli) e della musicologia (Pinuccia Carrer). Presente anche all’iniziativa della Libreria delle donne, Pinuccia Carrer, docente di storia della musica del Conservatorio “G. Verdi” di Milano, ritenuta una delle massime esperte italiane per quanto concerne la ricerca musicologica nell’ambito delle compositrici, ha introdotto nell’attività didattica la musica delle donne. È autrice insieme a Barbara Petrucci del libro Donna Teresa Agnesi compositrice illustre (1720-1795), Genova, Ed. San Marco dei Giustiniani, 2010.


Breve bibliografia (1980-2012) relativa a scritti sulle compositrici

a cura di Magistrae musicae (rosalba.magistraemusicae@fastwebmail.it)


Vinay-Lanza, Storia della musica, Il Novecento II, Torino, EDT, 1980, vol. 10

Roland de Candé, Storia universale della Musica, Roma, ed. Riuniti, 1980

Alberto Basso (diretto da) Deumm, Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, Le biografie, Torino, Utet 1985-90

Di Mioli, La musica nella storia, Bologna, ed. Calderini, 1986

Carolyn Gianturco, Caterina Assandra suora compositrice in La musica sacra in Lombardia nella prima metà del Seicento: Como 31 maggio-2 giugno 1985 a cura di Alberto Colzani, Andrea Luppi, Maurizio Padoan, Como, A.M.I.S., 1986

Patricia Adkins Chiti, Almanacco delle virtuose, prime donne, compositrici e musiciste dItalia, Milano, De Agostini, 1991

Enzo Restagno (a cura di), Gubajdulina, Torino, E.D.T., 1991

Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri, In unaria diversa. La sapienza di Hildegarda di Bingen, Milano, A. Mondadori Editore, 1992

Elena Cazzulani-Angelo Stroppa, Carlotta Ferrari da Lodi. Poetessa e musicista. Commento allopera musicale di Marco Emilio Camera, Orio Litta, L’immagine, 1992

B. S. Anderson- J. P. Zinsser, Le donne in Europa. Nelle corti e nei salotti, Roma-Bari, Laterza e figli, 1993

Julie Anne Sadie and Rihan Samuel (edited by), The New Grove Dictionary of Women Composers, London, Macmillan, 1994

Patricia Adkins Chiti, Donne in Musica, Roma, Armando Editori, 1996

Marirì Martinengo, LArmonia di Hildegarda, in Marirì Martinengo, Claudia Poggi, Marina Santini, Luciana Tavernini, Laura Minguzzi, Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo, Torino, SEI, 1996

Maria Tabaglio (a cura di), Hildegarda di Bingen, Ordo Virtutum, San Pietro in Cariano, Il Segno dei Gabrieli Editori, 1999

Romano Becatti, Nella Musica, Milano, Fabbri editori, 1993, v. 1

Paolo Monticelli, Isabella Leonarda, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1998

Musica e realtà, Rivista, n. 58, Pisa, ed. Lim, 1999

Francoise Giraud, Alma Mahler o larte di essere amata, Garzanti 1989

Antonietta Berretta (a cura di), In-audita musica. Compositrici del 600 in Europa, Conservatorio “G. Cantelli” di Novara, catalogo della mostra, Novara, Edizioni Et, 2000

Patricia Adkins Chiti (a cura di), Una visione diversa, Milano, Mondadori Electa, 2003

Candida Felici, Maria Rosa Coccia “Maestra Compositora Romana”, Roma, Editore Colombo, 2004

Antonietta Berretta, Patrizia Florio, Pier Giuseppe Gillio (a cura di), In-audita musica. Compositrici del Settecento in Europa, catalogo della mostra, Conservatorio “Guido Cantelli” di Novara, Torino, Seb 27, 2004

Adriana Mascoli, Marcella Papeschi, Fanny Mendelssohn. Note a margine, San Cesario di Lecce, Pietro Manni s.r.l., 2006

Susan McClary, George Bizet. Carmen, Milano, Rugginenti Editore, 2007

Bruno Monsaingeon, Incontro con Nadia Boulanger, Palermo, rue Ballu, 2007

Fondazione Adkins Chiti, Le Lombarde in musica, Roma, Editore Colombo, 2008

Chiara Sirk, Candace Smith (a cura di), Soror mea, Sponsa mea, Arte e musica nei conventi femminili in Italia tra Cinquecento e Seicento, Padova, Il Poligrafo casa editrice, 2009

Pinuccia Carrer, Barbara Petrucci, Donna Agnesi compositrice illustre, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2010

Luca Rognoni, Luigi Dallapiccola (a cura di), Gustav Mahler. Ricordi e lettere, Torino, Il Saggiatore, 2010

Alma Mahler, La mia vita, Roma, Castelvecchi, 2012

Laura Zattra, Musica e famiglia. Lavventura artistica di Renata Zatti, Padova, Coop. Libraria Editrice Università di Padova, 2010

Laura Zattra, Renata Zatti. Invenzione musicale, Padova, CLEUP, 2012

di María-Milagros Rivera Garretas

 

La Comunità di storia vivente della Libreria delle donne di Milano, che esiste dal 2006, ha pubblicato alla fine del 2018 il suo ultimo libro: La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, (Moretti & Vitali). “Storia vivente” è un’invenzione simbolica di Marirì Martinengo che ha liberato la narrazione storica dalle ideologie, siano di destra, di sinistra o di centro. Questo vuol dire che la narrazione storica si è liberata, finalmente, dal potere sociale e si è trasformata in ciò che sempre desiderava essere: l’espressione scritta del vissuto, senza l’intervento di teorie interpretative che sostituiscono il vissuto con l’interpretazione. Chi si ricorda della vecchia coppia “euristica/ermeneutica”? Quasi nessuna/o. Terminato il patriarcato, la Storia non può continuare ad essere la stessa.

La storia vivente è una pratica. Una pratica per esplorare il sentire dei vissuti profondi della storica, decifrarli e collegarli con la storia che scrive. Si è detto che “tutta la storia è storia contemporanea” perché fa storia ciò che interessa al presente. Si intendeva che ciò che interessava al presente era ciò che aveva potere sociale. La storia vivente fa la rivoluzione di dire e mostrare che ciò che interessa al presente, a ogni presente, è il sentire dei vissuti di donne e uomini che viviamo nel mondo e sono vissuti costitutivi dell’essere. La storica, esplorando e decifrando i suoi vissuti, discerne quelli che sono significativi per lei e comuni nel suo contesto relazionale, nel suo mondo e, forse, nel mondo. L’autenticità sta dentro di sé, non fuori di sé.
La pratica della storia vivente si fa in relazioni duali o in piccoli gruppi composti da relazioni duali. “Il mondo interiore,” – scrive Marina Santini, una delle autrici de La spirale del tempo – “ciò che altri e altre hanno depositato nelle nostre vite è quel sentire profondo non considerato nella narrazione storica, che invece per noi è il fondamento. Vogliamo che l’esperienza soggettiva, anche se non è documentabile secondo criteri storiografici tradizionali ma è parte della vita di ciascuna e ciascuno di noi, sia considerata storia. Si tratta di compiere un doppio movimento: un’immersione profonda in sé che faccia affiorare una verità soggettiva e la offra alle altre che, riconoscendola e aiutando a illuminarla, permettano di renderla pubblica” (p. 126).
La pratica in relazione impedisce che il vissuto sperimentato e sentito sia inghiottito o usurpato dall’interpretazione ideologica. Ne schiva il giudizio e il linguaggio. Come? Essendo, come è, l’esperienza inespugnabile (Joan Scott).
Vedo un nesso tra la pratica della storia vivente e l’autocoscienza così come la intese Carla Lonzi nel femminismo degli anni Settanta del secolo XX. Nel Secondo Manifesto di Rivolta Femminile. Io dico io, scrisse: “L’autocoscienza è l’altra”, idea difficile che si capisce meglio in contesto: “Perché l’autocoscienza è stata fraintesa e abbandonata in molti gruppi che dicono di averla fatta senza averla fatta? Perché si è considerato un passo avanti l’averla sostituita con la pratica dell’inconscio? Perché nella cultura maschile e nei suoi derivati al femminile nessuno capisce niente dell’espressione di sé in quanto tale. […] E questo chiamo autocoscienza: fare in modo che chi parla prenda coscienza che trovare se stesso è riconoscersi nell’espressione di sé, che non esiste verità al di fuori, nell’adesione o nell’uso di chiavi interpretative” (Carla Lonzi, “Mito della proposta culturale”, in M. Lonzi, A. Jaquinta, C. Lonzi, La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta femminile 9, 1978, p.146 e p.147).
Vedo un nesso tra la pratica della storia vivente e l’autenticità, che è per me il maggior lascito ricevuto da Carla Lonzi. C’è Storia senza autenticità?

 

(“La historia viviente: la autoconciencia es la otra”, in Textos políticos. Llenando el mundo de otras palabras. Duoda. Centro de Mujeres, Universidad de Barcelona, 6/2/2019, http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/1/236/ Traduzione dallo spagnolo di Luciana Tavernini)

(www.libreriadelledonne.it, 14 febbraio 2019)

Gruppo di pratica di Storia Vivente di Pinerolo

 

Rompere il silenzio

Rompere il silenzio. Trovare parole nostre per dire di noi, della nostra storia e dunque mettere al mondo il mondo senza tacitare il nostro essere donne.

Per Lia Cigarini lo scacco del silenzio va visto, sperimentato e attraversato per capire che circolano parole e pensieri che non sono nostri, che non ci corrispondono, ma il passo successivo è: anche balbettando, trovarne di nostre.

Sappiamo, però, che per arrivare a rompere il silenzio e prendere la parola partendo da sé, dando valore alle proprie esperienze, sono necessari dei passaggi interiori, dei cambiamenti profondi. Pensiamo che, se non si compie questo salto in avanti, il rischio è di restare sulla soglia di quel vuoto senza attraversarlo.

Clarice Lispector, ne La Passione secondo GH, quando parla del grande crollo di tutta una civiltà di cui lei ha fatto parte e del deserto che si è venuto a creare, descrive il suo risorgere come un cammino, barcollante ma liberatorio, in quel vuoto.

Stare immobili sulla soglia crea invece una condizione di inconsistenza paralizzante. Questo può accadere soprattutto quando non riconosciamo nell’altra un riferimento, un appiglio solido a cui aggrapparci mentre si fanno i primi passi sulle proprie gambe e non ci sono donne grandi, che spendono il loro di più in autorità circolante, che aiuti a crescere e acquisire autonomia.

Per creare nuova realtà condivisa non è sufficiente, quindi, condividere testi e parole di altre donne, ma è necessario attraversare quel vuoto da cui siamo partite e trovare soggettivamente il pensiero che sa decifrare ciò che sentiamo, in relazione con le parole e con i corpi (in carne e ossa) delle altre donne.

Riflettere sulla propria esperienza significa darle un senso, cioè creare simbolico: è nella narrazione che si scopre il senso di quello che si è fatto e che si sta continuando a fare. È un lavoro politico più impegnativo, certamente, che può generare anche conflitti e separazioni, ma può portare vita, espressione dei nostri desideri più profondi, immaginazione creativa, proposte per il futuro…

Abbiamo visto quante incomprensioni, quanti equivoci, quanto dolore e conflitto ha creato il libro di Mira, eppure non si può negare che esso rappresenta la rottura da parte di una donna di un silenzio di cinquant’anni, tanti ce ne sono voluti per trovare le parole non consumate, perché le “viscere” di cui parla la Zambrano si aprissero e generassero verità scomode.

Cosa che è accaduta anche con il me-too, del resto.

La donna e il prete di Mira Furlani è per noi un esempio di storia vivente,   che significa, secondo le parole di Marirì Martinengo, «estrarre dalla propria interiorità l’esperienza femminile e darle parola e poi scrittura, significa narrare la storia dei condizionamenti violenti imposti alla vita delle donne dall’organizzazione simbolica e sociale patriarcale, acquistarne consapevolezza e contemporaneamente studiare il modo di mettere al mondo le vie per sottrarvisi, avviando un movimento politico e storico in cui vi siano libertà e autorità femminili. Proponiamo una storia a partire da sé – valida per donne e uomini – da un sé profondo che la filosofa María Zambrano e la storica María Milagros Rivera Garretas chiamano le viscere

Ci piace concludere con le parole precise tratte dal documento di apertura del Convegno di Milano, del 28 gennaio 2018: «Anche noi, dunque, a partire da desideri, interrogativi, pensieri e a partire dalla relazione preziosa tra di noi, che ci ha dato forza in una ricerca che ha trasformato radicalmente la nostra spiritualità, sostenendo la nostra libertà, possiamo iniziare un lavoro di scrittura in cui emerga la nostra storia vivente».

Senza avere la pretesa della perfezione, come dice Paola Cavallari: «Il perfezionismo è infatti un meccanismo maligno, che blocca la creatività femminile, spesso un alibi – come Antonietta Potente non si stanca di ripetere – che ci inchioda nella ripetizione inesausta della sfiducia in noi, depotenziandoci. Dire le cose con parole che rispondono alla nostra esperienza è agire la vita a cominciare da quella narrazione della Storia che non possiamo demandare ad altri/e: è un destino cui siamo chiamate».

 

Storia vivente e donne in ricerca

Più volte è stata espressa dai gruppi donne delle Cdb in collaborazione con Donne in ricerca di Padova e Ravenna, Identità e Differenza, Graal-Italia, Thea teologia al femminile, l’esigenza di fare storia della nostra esperienza «uno degli esperimenti più duraturi e continuativi della chiesa delle donne in Italia»[1].

In un primo tempo l’obiettivo per noi era di acquisire la capacità di narrare, intrecciando i percorsi soggettivi alla storia e ai fatti e chiarirci come realizzare il progetto restando fedeli alla nostra esperienza. Non volevamo un’autocelebrazione del nostro percorso, come se fosse un’esperienza conclusa, bensì la testimonianza dell’intreccio di ricerche e pratiche avvenute in relazioni efficaci e trasformative, dentro le diverse realtà e negli specifici contesti. Tutto questo dando parola anche ai conflitti e ai cambiamenti, senza tacere delle diversità, delle difficoltà, dei nodi non risolti.

Dentro di noi si muovevano molte domande. È stato possibile fare una ricerca dentro le Cdb, parlare con verità? Quali conflitti ha aperto e quali sono state le conseguenze? Quali relazioni sono state necessarie per acquisire forza e autorità? Che senso ha avuto far nascere gruppi di donne delle Cdb? Quanta forza abbiamo saputo darci reciprocamente? Quanta autorità femminile circolante e quanto affidamento nelle nostre relazioni ci hanno sostenute nei momenti di difficoltà e che ricadute visibili ha avuto, nei contesti misti, la nostra pratica teologica? Ha modificato gli immaginari di dio, le celebrazioni? Questo percorso è visibile solo dove la riflessione è stata assunta anche dagli uomini attraverso l’autocoscienza maschile e i gruppi uomini?

Di fronte alla difficoltà di narrare un percorso trentennale originale e complesso, c’è stata anche la tentazione di dare i nostri materiali a un’esperta esterna, che sapesse, con sguardo distaccato e oggettivo, trarre da tanta ricchezza una storia ben narrata. Molto presto, tuttavia, è emersa l’incongruenza di questo metodo per donne come noi che, in tutti questi anni, si sono sforzate nelle loro pratiche di mettere in connessione ciò che il patriarcato ha scisso: mente e corpo, ragione e emozioni, pubblico e privato, personale e politico. In questo percorso noi ci siamo state tutte intere, con una modalità femminile che pertanto nessuna, meglio di chi l’ha sperimentata, può sapere e narrare. Questi trent’anni in fondo sono stati spesi proprio per trovare le parole per dirlo. Quelle parole che dagli anni ’70 del Novecento le donne non hanno smesso di cercare in ogni ambito, poiché in una civiltà che si fondava sulla loro esclusione a vantaggio degli uomini, alle donne mancavano parole in lingua materna per dire il mondo, la cultura, l’arte, la scienza, la politica e anche la spiritualità.

Questa ricerca di parole e di significati nuovi, che continua ancora oggi, è avvenuta, come dice Elena Lobina della Cdb di S. Paolo di Roma, «in 22 incontri nazionali nei quali si è dipanato un percorso fatto di ricerca teologica, laica, politica, riappropriazione di espressività liturgiche, coinvolgimento dei corpi, avendo come punto fermo la coscienza dell’essere sessuate al femminile e il partire da sé». E conclude: «Questa, per me, è la storia che vogliamo raccontare: intreccio tra la storia personale di ciascuna nel contesto del proprio ambito di vita e di attività e la eccezionale (a mio avviso) esperienza comune che da quelle singole storie nasce, ma che ha assunto nel suo realizzarsi una più vasta, globale significanza politica, sociale, religiosa, che le conferisce già per il suo stesso esistere una dimensione storica»[2].

Alcune di noi hanno sentito vicina alla propria ricerca di parole che dicano il senso libero della differenza femminile, in una relazione di affidamento tra donne, la pratica sperimentata dalla Comunità di storia vivente di Milano. Così, in seguito alla partecipazione di Doranna Lupi al Convegno sulla “Pratica della storia vivente” dell’11 marzo 2017 nella Libreria delle Donne di Milano (http://www.libreriadelledonne.it/convegno-sulla-pratica-della-storia-vivente-2/), è nata la proposta di costruire una giornata seminariale con la Comunità di storia vivente, il 28 gennaio 2018 presso la stessa Libreria delle donne – Circolo della Rosa.

All’incontro hanno partecipato, oltre a Luciana Tavernini con cui c’è stato un continuo contatto, Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Laura Modini e Marina Santini della Comunità di Storia Vivente, un gruppo consistente di donne appartenenti ai Gruppi donne delle Comunità di Base cristiane italiane, il Graal-Italia, la Sororità di Mantova e Thea-Teologia al femminile di Trento[3].

È stato in questa occasione che noi che scriviamo abbiamo capito che la pratica di storia vivente ci indicava una modalità per andare oltre e l’abbiamo fatta nostra; cosa che, ovviamente, non esclude affatto che altre donne ne ricerchino e ne pratichino altre.

Marirì Martinengo scrive:

«La radice della nostra pratica è l’autocoscienza degli anni settanta, che aveva un suo progetto politico; la storia vivente ne ha un altro; il metodo, la pratica, è quello di andare a fondo dentro di sé fino ad individuare il nucleo, il nodo profondo che ha fatto di ciascuna di noi quello che è diventata: il narrarlo e lo scriverlo ne è la storiografia. L’esposizione, prima orale poi scritta, di quanto viene fuori, va contestualizzata (questo è il punto chiave!) e legata saldamente con i fatti di cui dicevo sopra. Occorre rifuggire dallo psicologizzare e mantenersi ancorate/i al terreno della politica»[4].

La storia vivente è, dunque, una pratica di donne in relazione, che si autorizzano a narrare la storia partendo da ciò che sentono, vivono, desiderano profondamente. Si procede partendo da nodi soggettivi, indagando la propria vita, il proprio percorso con le altre e connettendolo agli eventi, ai fatti storici che l’hanno attraversato. Questo esce dai canoni della storia oggettiva, dal modo maschile di far memoria esclusivamente attraverso fatti pubblici e documenti, e dà vita a una storia incarnata che si propone di dare senso al vissuto, mantenendo la passione per la storiografia, lasciando aperte le questioni, acquistando uno sguardo diverso sulla storia. In questo senso sono state illuminanti le parole che Luciana Tavernini, del gruppo di Milano, ci ha scritto in una delle sue mail:

«Fare pratica di storia vivente significa scrivere una storia dove si rivela innanzi tutto a se stesse qualcosa che ci è accaduto e ci ha fatto essere quello che siamo, qualcosa che spesso ha fatto ostacolo alla nostra libertà perché ci ha imprigionate in un’interpretazione di quanto accaduto che percepiamo non vera, ma non siamo ancora in grado di proporne un’altra. Il racconto di storia vivente, proponendo una nuova interpretazione, libera prima di tutto la singola facendola portatrice di una verità soggettiva che, diventando pubblica, può essere condivisa da altre e altri e così diventare universale. Penso che, portando alla luce il non detto, parlerete anche dell’esperienza delle Cdb, perché ha avuto grande spazio nelle vostre vite, come è accaduto a molte di noi col femminismo nei racconti di storia vivente.»

Siamo consapevoli, dice Paola Zanchi del gruppo donne in ricerca di Verona, che la via da seguire è quella del partire da sé e che richiede «responsabilità di presenza e di sostanza, imparare a rompere il silenzio interiore, trovare parole nuove e diventare autrici di storia della propria storia. Questo richiede dei cambiamenti, vuol dire mettersi in discussione, per sbrogliare il proprio groviglio interiore e far emergere la propria soggettività».[5]

Convinte della bontà di questa pratica e rafforzate anche da queste e altre affermazioni, a Pinerolo abbiamo dato vita a un gruppo di storia vivente del quale fanno parte Luisa Bruno, Carla Galetto e Doranna Lupi del gruppo donne Cdb Viottoli di Pinerolo, Pinuccia Corrias, nostra iniziatrice al pensiero della differenza, Mariarosa Filippone del gruppo donne della Comunità di Oregina di Genova e Anna Turri del Gruppo di ricerca femminile di Verona.

Ci siamo già incontrate tre volte e negli interventi che seguono proviamo a darvi qualche assaggio di questa breve ma fruttuosa esperienza che, pur mantenendo come orizzonte l’esigenza che ci ha mosse, non si pone obiettivi immediati. Pensiamo, infatti, sia importante individuare i nodi da dipanare con pazienza e cura, prendendoci il tempo necessario, ponendoci domande e confrontandoci ciascuna a partire da sé. Eppure già adesso qualcosa è accaduto e molte sono le chiarezze e i doni che abbiamo ricevuto da questo nostro stare insieme.

 

Indicazioni bibliografiche sulla pratica della Storia Vivente

– Comunità di Storia Vivente di Milano (a cura), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (Testi di: Marirì Martinengo, Marie-Thérèse Giraud, Laura Modini, Giovanna Palmeto, Laura Minguzzi, Luciana Tavernini, Marina Santini, María-Milagros Rivera Garretas, Rosy Daniello, Adele Longo, Anna Potito, Katia Ricci), Moretti &Vitali, Bergamo, 2018.

– Il documento fondante della Storia Vivente è il libro La voce del silenzio. Storia di Maria Massone donna sottratta di Marirì Martinengo (ECIG, 2005).

– Documenti e testimonianze di questi dieci anni di ricerca sono pubblicati sul sito della Libreria delle donne di Milano in Approfondimenti / Storia Vivente: http://www.libreriadelledonne.it/category/approfondimenti/storia_vivente/

– Su DWF-Edizioni Utopia-La pratica della storia vivente, n. 3 2012, si possono conoscere gli scritti di alcune di noi: Laura Minguzzi, «La storia respinta, storia come vita significante», pp. 23-29; Marina Santini, «Il volto ambiguo della preferenza. Un percorso storico», pp. 30-34; Luciana Tavernini, «Gli oscuri grumi del disordine simbolico», pp. 35-45 (acquistabile alla Libreria delle donne di Milano) http://www.dwf.it/dwf-la-pratica-della-storia-vivente-2012-n-3-95/

– In spagnolo si trovano sul n. 40/2011 di Duoda, leggibile in internet: http://www.raco.cat/index.php/DUODA/issue/view/17988

– Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Fare Storia Vivente, ed. Libera Università dell’economia sociale e degli scambi, Mag, Verona, 2012

– Marirì Martinengo, «Me llama desde siempre: la respuesta a la llamada», in Duoda, Estudis de la Diferencia Sexual. Estudios de la Diferencia Sexual, Universitat de Barcelona, 49, 2015, pp. 68-94, leggibile anche in internet: http://www.raco.cat/index.php/DUODA/article/view/299359;

in video: http://duodaub.blogspot.it/

– La pratica della storia vivente – Atti dell’incontro del 26 settembre 2014, a cura delle Vicine di casa di Mestre, (2015) In cartaceo c/o Libreria delle donne di Milano e ora pubblicati nella Biblioteca Virtuale Duoda (BViD) con il prologo di María Milagros Rivera Garretas. Leggibili anche in internet:

in italiano: http://www.ub.edu/duoda/bvid/text.php?doc=Duoda:text:2016.12.0010

in spagnolo: http://www.ub.edu/duoda/bvid/text.php?doc=Duoda:text:2016.12.0009

[1] Elizabeth Green, La chiesa delle donne, in: XXIII Colloquio Istituto Costanza Scelfo. Le donne e la riforma della Chiesa, a cura di Cettina Militello e Serena Noceti, EDB, Bologna 2017

[2] http://www.Cdbitalia.it/gruppidonne/2018/04/15/storia-vivente-22-febbraio-2018-2/

[3] http://www.Cdbitalia.it/gruppidonne/2018/04/09/incontro-sulla-pratica-della-storia-vivente-milano-28-01-2018/

[4] http://www.libreriadelledonne.it/sul-convegno-di-storia-vivente-dell11-marzo-2017-una-giornata-di-festa/

[5] http://www.Cdbitalia.it/gruppidonne/2018/04/15/storia-vivente-3-marzo-2018/


(Viottoli, 2/2018)

di Doranna Lupi

RACHEL MORAN, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Round Robin Editrice, Roma, maggio 2017, € 16

Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione è il titolo dirompente e autorevole che Rachel Moran ha dato al suo libro. Partendo dall’analisi della propria esperienza e dal confronto con molte donne conosciute nei sette anni vissuti in quell’ambiente ci porta a comprendere che la prostituzione non è un lavoro tra i tanti: non è come vendere l’hamburger al McDonald’s, lì la carne sei tu. L’uomo acquista un rapporto sessuale con una donna che non lo desidera e il silenzio di lei sul ribrezzo generato dal mettere il proprio corpo sessualmente a disposizione di uno sconosciuto, spesso ripugnante e violento. Disconoscere il desiderio dell’altra in un rapporto sessuale equivale a negarne l’esistenza.

Figlia di un padre bipolare e di una madre schizofrenica, Moran ha vissuto un’infanzia di povertà ed emarginazione. In questo contesto si è abituata al ritmo interiore che, in seguito, l’ha accompagnata durante gli anni della prostituzione: “nel profondo di me stessa sentivo di non essere adeguata, di non essere normale e di non essere rispettabile” (p. 26). Sarebbe rimasto puro orrore il suo racconto se fosse stata una semplice narrazione autobiografica, invece sin dalle prime pagine l’autrice si pone l’obiettivo “di prendere qualcosa di brutto e trasformarlo come in un processo alchemico in qualcosa di buono” (p. 24): cioè mettere a nudo quello che è veramente la prostituzione e condividere la presa di coscienza su un sistema oppressivo, creato e mantenuto dagli uomini per gli uomini. Una volta uscita dall’incubo della prostituzione, prestando attenzione al suo desiderio profondo di parlare, comunicare e scrivere, Rachel prende la strada del giornalismo e dell’attivismo femminista. Partendo da sé e dalla relazione con altre donne, scrive mettendo in gioco la sua verità soggettiva che diventa universale perché altre e altri la sentono vera anche per loro. Il suo obiettivo è che chi l’ha vissuta in prima persona, riesca a strappare la verità dalle proprie viscere su quello che la prostituzione le ha fatto.

Riconosco in questo libro le caratteristiche di una storia vivente che scova un nodo esistenziale, illuminando un’esperienza forzatamente tenuta nascosta, segreta. Il frutto di un lavoro su di sé che l’autrice fa superando pregiudizi e vergogna, in un doloroso scavo emotivo, alla ricerca del significato del proprio vissuto. Come sostiene Marirì Martinengo, fondatrice della Comunità di Storia Vivente di Milano, “estrarre dalla propria interiorità l’esperienza femminile e darle parola e poi scrittura, significa narrare la storia dei condizionamenti violenti imposti alla vita delle donne dall’organizzazione simbolica e sociale patriarcale, acquistarne consapevolezza e contemporaneamente studiare il modo di mettere al mondo le vie per sottrarvisi, avviando un movimento politico e storico in cui vi siano libertà e autorità femminili” (Sul Convegno di storia vivente dell’11 marzo 2017. Una giornata di festa, www.libreriadelledonne.it)

Con coraggio e determinazione Moran lavora su queste zone d’ombra, arrivando persino a indagare i danni che le interazioni perverse, dominate dal risentimento, dal disprezzo e dal disinteresse reciproco generano non solo nella donna prostituita ma anche nel prostitutore. Il denaro fa sì che gli uomini non abbiano margine di miglioramento nelle loro relazioni con le donne. Per esperienza so che quando gli uomini non mettono di mezzo il denaro e hanno relazioni positive con le donne c’è vero interesse reciproco che fa crescere entrambi.

Inoltre la disumanizzazione della persona come prerequisito e l’interiorizzazione della dinamica servo-padrone nella prostituzione richiamano qualcosa dell’essenza della schiavitù. In quest’ultima la funzione del cibo e della sistemazione era di far vivere gli schiavi per poterli sfruttare; nel caso delle prostituite il denaro ha lo stesso significato, cioè rende cooperative le donne sulle quali si vuole infliggere l’abuso e la violenza.

Il libro si legge trattenendo il fiato per il dolore che provoca accostarsi a tanta sofferenza. Nello stesso tempo si prova rabbia nel sapere che c’è chi rivendica come libertà essere prostituite, definendo la prostituzione sex work come fosse una qualunque professione, dove esistono clienti, transazioni economiche, imprenditori, libere professioniste e autodeterminazione. Un linguaggio che vuole legittimarla, in ogni caso più a vantaggio dei clienti che delle prostituite. Rachel ci fa riflettere: in fondo è un modo per tenere lontana una verità scomoda poiché ne va di mezzo l’immagine di sé. È un modo per sentirsi meno umiliata. Ma il registro linguistico con cui parliamo della prostituzione non è neutrale, bensì frutto di una lettura politica della società. Questo è il taglio che lei ha voluto dare alla presentazione del suo libro il 20 maggio scorso alla Libreria delle donne di Milano dove, in un incontro precedente, sullo stesso tema, Luciana Tavernini aveva dato grande risalto al suo libro, evidenziando la necessità di alcuni cambiamenti linguistici:“Moran mi ha convinto a cambiare il linguaggio: non prostitute ma prostituite perché questo termine mette l’accento sul fatto che è necessario vi sia il prostitutore, il cosiddetto cliente, perché una donna venga prostituita” (Video: Sulla prostituzione. Intervento introduttivo di Luciana Tavernini, www.libreriadelledonne.it, 6 aprile 2018).

Una delle conseguenze più dolorose per Rachel Moran è stata proprio la negazione della sua presa di parola sulla prostituzione da parte di altre donne, favorevoli invece alla sua legalizzazione. Perché, si è domandata, alcune sono fortemente ancorate a questo tipo di opinioni? Forse dovrebbero vedere l’immensità di qualcosa che va riconosciuta come oppressione sia per i milioni di donne, bambine, ragazze che ne sono violentemente coinvolte sia per i millenni in cui è durato questo abuso, che richiede di avere solamente una vagina, cosa che ogni corpo di donna possiede. E questo, che riguarda tutte, ci fa troppa paura, ci fa male.

Dunque si tratta di un testo fortemente politico: rompe “il regime di irrealtà che si è creato con la subordinazione del femminile al maschile” (Luisa Muraro, Tutto comincia da dentro, Donne Chiesa Mondo, 8 dicembre 2017, www.libreriadelledonne.it).

Il nostro è un tempo in cui si incomincia a credere alle parole delle donne e molte hanno ascoltato con grande attenzione ciò che lei aveva da dire, alcune, come il gruppo di Resistenza Femminista, sono arrivate a tradurre il suo libro come atto politico.

Da qualche anno queste giovani donne seguivano il blog di Moran “The Prostitution Experience”, dove lei scriveva usando lo pseudonimo FreeIrishWoman e denunciava la violenza che le donne prostituite subiscono nell’industria del sesso. Questo approccio al tema faceva a pezzi i miti patriarcali della “prostituta felice”, dell’“escort di lusso” (www.resistenzafemminista.it). Dopo la pubblicazione del libro le donne di Resistenza Femminista hanno organizzato e partecipato a numerosi incontri e dibattiti sul tema con lo scopo di spostare l’attenzione sulla richiesta da parte maschile del sesso a pagamento poiché solo negli stati dove è stata soffocata la domanda la prostituzione è nettamente diminuita. Questo è avvenuto in Svezia, Norvegia, Irlanda, Francia e Islanda dove vengono sanzionati i clienti.

Come affermava Carla Lonzi, affrontare e forzare in prima persona il blocco di un ordine simbolico che crea sofferenza e disordine è un lavoro che parte da dentro, producendo una profonda trasformazione interiore e aprendo varchi di libertà da cui possono passare donne e uomini. Moran definisce una profonda bramosia spirituale la spinta interiore che l’ha costretta a cercare e ritrovare il desiderio di pace tra sé e sé, quel sentimento che aveva sperimentato da bambina: “Avevo bisogno di riprendermi quella pace che avevo provato nella mia infanzia quando camminavo nel bosco, circondata dalla bellezza del mondo. Era la pace che mi dava la certezza di sapere chi ero, e di gioire di questa consapevolezza. Non c’è pace all’interno della prostituzione. Non c’è pace né nel tuo corpo né nella tua mente” (p. 357).

Leggendo le sue parole si ha l’impressione di assistere a un processo di guarigione, alla nascita di una nuova consapevolezza che la sottrae al risentimento e a un giudizio immiserito su se stessa e sulla propria famiglia.

Il libro si chiude con un commovente riconoscimento nei confronti dei genitori: “La malattia e le dipendenze che affliggevano i miei genitori mi hanno dato un’infanzia tutt’altro che invidiabile e una giovinezza irta di difficoltà, ma la loro salute, la loro parte dignitosa, la positività intrinseca nella loro più intima natura, fu in gran parte responsabile di avermi dotata degli strumenti necessari a superare l’eredità delle loro avversità” (p. 361).

Per Rachel non è stato sufficiente uscire dalla prostituzione: ha sentito l’esigenza di analizzare la sua esperienza, per illuminare se stessa e le altre. Ha cercato e trovato le parole giuste per narrare il suo vissuto aprendosi a una ricerca di senso, si è riorientata mettendosi in contatto con qualcosa di profondo e buono che da sempre era dentro di lei. Questo si percepisce dalla forza trasformativa delle sue parole, non solo per le donne ma per tutti e tutte.

Note biografiche

Rachel Moran nasce negli anni Settanta a Dublino in una famiglia problematica. Viene affidata a una casa d’accoglienza statale, a 15 anni vive l’esperienza della prostituzione. Impiegherà sette anni per liberarsi da quella vita. Nel 2000 riprende gli studi, ottenendo una laurea in Giornalismo e un Master in scrittura creativa. Nella primavera del 2011 prende parola come attivista femminista contro la prostituzione e da allora inizia a girare il mondo tenendo conferenze a livello internazionale sulla prostituzione e la tratta. Collabora con la Coalition Against Trafficking in Women e L’European Women Lobby. È cofondatrice di SPACE, una nuova organizzazione internazionale creata per dar voce alle donne che sono sopravvissute alla realtà violenta della prostituzione e che lottano perché venga adottato il modello nordico, come in Irlanda, Svezia, Norvegia, Islanda e Francia dove viene criminalizzata la domanda della prostituzione: il cliente.

(Viottoli, settembre 2018)

di Alessandra De Perini


Un libro dedicato alla madre che suscita un putiferio

Convinta del valore storico-politico del libro di Mira Furlani intitolato Le donne e il prete. L’isolotto raccontato da lei (Gabrielli 2016), ho chiesto io a Carla Neri e a Luciana Talozzi di Insieme ArTe -Amare Chioggia, che da diversi anni mi invitano a parlare nella loro città, di organizzare una discussione pubblica. Loro si sono fidate e mi hanno detto subito di sì. Carla ha invitato anche don Dino De Antoni, arcivescovo emerito di Gorizia e Aquileia, e io sono molto curiosa di sapere che cosa ne pensa lui di questo librino: poco più di 100 pagine, dedicato alla madre Lidia Bresciani, il primo scritto da una donna sulla storia della Comunità dell’Isolotto di Firenze. Un libro che ha sollevato un putiferio nelle Comunità Cristiane di Base, che è stato criticato, attaccato, ritenuto perfino offensivo e, tuttavia, continua a circolare.

 

Oggi non è più tempo di tacere

Il libro ormai c’è e va per la sua strada, presentandosi non come una semplice autobiografia, ma come testo di “storia vivente”. Mi riferisco al nuovo modo di fare storia sperimentato e messo in parole dalla Comunità di storia vivente della Libreria delle donne di Milano (DWF La pratica della storia vivente, ed. Utopia, Roma 2012), che punta sulla verità soggettiva e fa venire al pettine nodi, conflitti che erano stati messi a tacere, ma che, se non li mettiamo in parole, ritornano insistenti nel corso della nostra vita. Dopo cinquant’anni di silenzio, l’autrice prende finalmente la parola. C’è ancora chi la invita al silenzio. Questo, però, per noi donne, non è più tempo di tacere.

 

Una storia vera

Perché è importante il librino di Mira? Qual è la sua attualità? Quali nodi e questioni cruciali affronta? A chi si rivolge principalmente e a chi può servire praticamente?

L’autrice racconta com’è nata all’Isolotto di Firenze la prima Comunità cristiana di base in un susseguirsi di fatti, assemblee e avvenimenti, fino alla denuncia del 14 gennaio 1969 con l’imputazione di “istigazione a delinquere e turbamento di funzioni religiose del culto cattolico” nei confronti di nove persone: cinque sacerdoti, tre laici e una laica, cioè la stessa Casimira Furlani, detta Mira.

A livello profondo, il libro mostra quanto sia difficile per un uomo riconoscere autorità a una donna, come “per un cammello passare attraverso la cruna di un ago”, e racconta quanto lungo, pieno di trappole e di rischi, di incomprensioni e difficoltà sia il percorso che deve fare una donna per stare dentro la Chiesa, senza perdersi e rinunciare alla propria differenza.

 

Un libro che passa di mano in mano

Dopo aver letto questo libro, un anno fa, forte anche della relazione appena iniziata con Mira, mi sono messa subito in movimento e l’interesse suscitato in tante donne e in alcuni uomini mi ha convinta a continuare. A poco a poco, mi sono trovata coinvolta in una vicenda il cui personaggio storico principale è Mira Furlani, cofondatrice con don Enzo Mazzi della Comunità di base dell’Isolotto. Ecco allora i due incontri di discussione a Mestre l’anno scorso, di cui è rimasta traccia perché li ho trascritti, poi una lunga recensione per la rivista trimestrale di azione Mag e dell’economia sociale di Verona (n. 3/4 luglio-dicembre 2017), infine le presentazioni alla Libreria delle donne di Padova, alla Feltrinelli di Parma, a Chioggia, prossimamente a Mirano, forse a novembre a Reggio Emilia. Per dare continuità nel tempo a questo libro ho messo in atto la mia rete di relazioni e conoscenze e, con l’aiuto prezioso dell’amica Désirée Urizio, ho fatto ricerche, ho raccolto documenti, foto, immagini, scritti, brevi filmati.

 

Il percorso di formazione dei preti

Con il gruppo “Donne e uomini in cammino”, di cui faccio parte e che si riunisce a casa di don Gianni Manziega, direttore della rivista Esodo, dopo aver discusso questo libro si è deciso di organizzare in autunno una giornata di riflessione aperta a credenti e non credenti, proprio a partire dalle tante questioni che il libro pone. Una di queste è la necessità, l’urgenza che gli uomini cambino radicalmente, adesso che le donne sono cambiate e affermano concretamente, in ogni campo della vita sociale, politica e lavorativa la propria libertà.

C’è un numero della rivista Esodo intitolato appunto Donne e uomini in cammino (n.3, 2015) che precede la pubblicazione del libro di Mira ma ne anticipa alcuni nodi. Nell’editoriale, firmato da Paola Cavallari e Gianni Manziega, è posta la questione della “relazione tra clero e donne”. Qui ho trovato due testimonianze molto significative che vorrei citare: una di Pierluigi Di Piazza, parroco di un paese in provincia di Udine, e l’altra dello stesso don Gianni Manziega. Entrambi parlano della loro formazione come sacerdoti e del loro rapporto con le donne. Il primo racconta della sollecitazione continua, quando era giovanissimo seminarista, a non incontrare nessuna ragazza, a rifuggirla come potenziale pericolo. In nome della legge del celibato obbligatorio per i preti, la donna è stata il soggetto deliberatamente escluso nella sua vita di uomo e di prete. Si è trattato di un percorso di “subdola violenza e repressione”, una dolorosa negazione. Il secondo scrive che non faceva parte della preparazione al ministero il problema “donna”, come se la Chiesa fosse “una comunità di soli uomini maschi”. Il giorno dopo l’ordinazione, ciascun prete doveva arrangiarsi per trovare nel rapporto con la donna il giusto equilibrio, tra imbarazzo, errori, timori. Di fatto, il seminarista era espropriato della propria corporeità, considerata fonte di peccato. C’era disprezzo per la donna, figlia di Eva che offrì all’uomo il tragico frutto. Altro che collaboratrice! La donna doveva essere una variabile insignificante e marginale all’interno della comunità cristiana, anzi un pericolo da evitare. “Questo tipo di educazione – continua don Gianni – suscitava in me un duplice sentimento: da una parte il desiderio represso della conoscenza di un ignoto da cui mi sentivo attratto e, dall’altra, la negazione e persino demonizzazione del mondo femminile”.

Questi testi sono prime forme di autocoscienza maschile che sarebbe molto importante si moltiplicassero tra gli uomini, dentro e fuori la Chiesa. Le donne hanno preso coscienza della condizione di non libertà in cui si trovavano, hanno detto pubblicamente la verità soggettiva e adesso è veramente tempo che anche gli uomini prendano le distanze dai meccanismi di potere interiorizzati, riconoscano l’altra, la donna, come uno dei due soggetti della storia umana, assolutamente libera, indipendente dai giochi del potere maschile. Ciò che deve cambiare è la forma mentis, un intero sistema di simboli e linguaggi, di criteri e valori, di pratiche e tradizioni di origine maschile. Solo così l’attuale conflitto tra i sessi può tradursi su un piano più alto e nuove forme di relazione tra uomini e donne si rendono possibili.

 

Un cambiamento necessario

Invece di accontentarci di luoghi separati, da tempo molte di noi hanno capito che, perché le cose cambino a livello profondo, conviene fare un cammino condiviso, donne e uomini, fuori dai ruoli e dai pregiudizi sessisti, senza separazioni o inclusioni. Di qui la necessità che inizi anche nella Chiesa cattolica, comprese le Comunità di base, una pratica di autocoscienza, soprattutto maschile.

Non è strano, quindi, che una donna come me, impegnata da molti anni nella politica e nel pensiero della differenza, si appassioni a questo libro e faccia in modo che non rimanga isolato come una voce nel deserto, ma sia letto, passi di mano in mano, sia messo in pratica.

Ci sono anche altre motivazioni che riguardano la mia storia politica e di vita e si collegano ad alcune figure femminili della mia famiglia, rimaste vive dentro di me. Non trovo necessario definirmi atea, mi colloco oltre la divisione tra credenti e non credenti, sul piano della libertà femminile e da qui cerco di interpretare i fatti che mi capitano e di comprendere che cosa sta succedendo intorno a me e nel mondo. Sono consapevole che con il femminismo rivendicativo di sinistra nei primi anni Settanta ho rischiato di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”. Avevo ragione allora a protestare contro il sistema di potere che si incarnava in figure ben precise di uomini di Chiesa, di Legge o di Scienza, in seguito però ho capito che, se restavo sul piano della critica, della lotta “contro” questo o quel sistema, non avrei trovato risposte al mio bisogno di infinito, di bellezza e di senso, il mio campo d’azione sarebbe rimasto chiuso dentro un orizzonte ristretto. Per fortuna, negli anni Ottanta donne più libere di me mi hanno indicato il tesoro della mistica femminile (dice Mira: “Non dimentichiamo le radici cristiane dell’Europa. Sono radici di libertà e di amore che ci conducono direttamente alle mistiche del Medioevo, alle Beghine e a Margherita Porete”). Poi c’è stata la lettura durata anni dei Quaderni e degli scritti di Simone Weil, il Diario e le Lettere di Etty Hillesum, gli scritti di Luisa Muraro su Margherita Porete, le Beghine, Il Dio delle donne (Mondadori 2003 e Il Margine 2012). Infine la ricerca dell’amica Nadia Lucchesi su Maria (Frutto del ventre, frutto della mente. Maria, madre del Cristianesimo, Tufani 2002) e su Sant’Anna (Anna. Una differente trinità, Tufani 2014). Scopro così straordinarie fonti di sapienza femminile e la mia vita da diversi anni si è aperta alla dimensione del soprannaturale.

 

Dallo storico conflitto tra donne e preti a nuove forme di relazione tra i sessi dentro e fuori la Chiesa

Il percorso religioso, spirituale e politico di tante giovani donne che si coinvolsero nelle lotte e nei movimenti degli anni Sessanta, quando il femminismo non era ancora un movimento di massa, si concentrò attorno a figure carismatiche di sacerdoti coraggiosi e radicali che volevano mettere in pratica il Vangelo, “uomini che credevano fermamente, oltre che in Dio, nella giustizia, nella libertà e nell’uguaglianza tra i popoli e tra i sessi” (dalla prefazione di Doranna Lupi e Carla Galetto della Cdb di Pinerolo a Le donne e il prete). Agli occhi di quelle ragazze “rappresentavano il meglio del genere maschile”, ma ben presto esse fecero i conti con un conflitto indicibile e molto antico che tornava a presentarsi dopo secoli di silenzio e dovettero affrontare concretamente il problema enorme del “posto fatto alle donne dalle imprese maschili, anche quelle più giuste”. Il ricatto, l’aut aut che fu posto loro fu questo: tacere, restare in ombra, lavorare tantissimo, dedicarsi alla comunità senza lamentarsi mai, sottomettersi a un’autorità maschile che si presentava come sacra, intoccabile ma, di fatto, agiva potere, oppure andarsene e sparire per sempre. Il racconto di Mira mette a fuoco questo conflitto storico tra donne e uomini dentro la Chiesa, innalzandolo sul piano della presa di coscienza radicale femminile e mettendo in evidenza la mancata presa di coscienza maschile. Mostra la necessità che si creino nuove forme di relazione tra i sessi, relazioni vere, forme di comunità in cui le donne non siano più semplici “collaboratrici di imprese maschili”, sostenitrici dei desideri degli uomini, e gli uomini cessino di credersi unici soggetti della storia, smettano di giudicare e teorizzare, rinuncino alla loro grandezza immaginaria e siano finalmente, semplicemente se stessi, solamente uomini, appunto. Quando gli uomini scenderanno dal piedestallo in cui si sono collocati, dando misura al loro ego, cominceranno finalmente a parlare in modo autentico, a partire da sé, senza vergognarsi se balbettano di fronte all’autorità femminile, attenta da millenni alla vita materiale, dalla nascita alla morte, esperta nello spirito e nel sapere pratico delle relazioni.

Ecco perché, allora, il libro ha incontrato tanta ostilità: radicalizza il conflitto con la Chiesa come istituzione che assegna alle donne un posto che oggi molte non vogliono più occupare, dà loro compiti e attribuisce “vocazioni” che non rispondono alla vera natura dei loro desideri. Il libro invita le donne a prendere la parola e a dire come stanno le cose, a non tacere in nome della pace e del quieto vivere, a non sacrificare se stesse per il bene della famiglia e della comunità.

Mira afferma che nella Chiesa cattolica ogni conflitto derivante dal nostro essere di due sessi viene falsato, la donna fatta sparire e caricata di colpe. Accanto allo “scacco del silenzio” delle donne nella Chiesa (ne parlano Doranna Lupi e Carla Galetto nel n. 110 di Via Dogana, settembre 2014, e nel n. 111, dicembre 2014), credo che si debba tener conto anche del grande “esodo” femminile dalla Chiesa avvenuto negli ultimi cinquant’anni. Entro questo scenario vanno collocati gli innumerevoli percorsi di donne che, senza rinunciare a Dio e alla propria spiritualità, si sono poste “altrove”, Al di là di Dio Padre, titolo del bellissimo e attualissimo libro di Mary Daly (Editori Riuniti, 1990, recentemente ristampato). Dai molti percorsi femminili di “esorcismo” e di trasformazione si è aperta la ricerca del divino femminile.

 

Il contesto

Le vicende narrate da Mira vanno collocate negli anni che hanno preceduto e seguito il Sessantotto, un’epoca di profonde trasformazioni, di forti aspirazioni di libertà e istanze di giustizia, in cui lo spirito ribolliva e si muoveva velocissimo. Intorno alla storia di Mira ruota l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, un intero mondo di rapporti, di speranze e di progetti che scommette sul rinnovamento spirituale e politico della società. L’Isolotto è il luogo in cui si svolse gran parte delle vicende narrate. L’Isolotto era un quartiere periferico di Firenze, immerso nel verde, costruito negli anni Cinquanta secondo criteri di nuova edilizia popolare, per volontà del sindaco La Pira che, infatti, nel 1954 assegnò i primi alloggi popolari a 3000 persone: donne, uomini, bambini, famiglie, giovani coppie che, provenendo dai quartieri popolari di Firenze, dall’Italia del Sud, dall’Istria e dalla Grecia, si trovarono di fronte al compito di dare vita al quartiere allora ancora privo di servizi. Quello stesso anno arrivò all’Isolotto il nuovo parroco don Enzo Mazzi, giovane e desideroso di impegnarsi anima e corpo nella costruzione di una comunità.

Parte della Chiesa cattolica era allora attraversata dagli aneliti di giustizia e dalle istanze di cambiamento che provenivano da diverse parti della società italiana. In particolare, la Chiesa fiorentina era ricca di fermenti preconciliari e vi operavano figure straordinarie e carismatiche di preti, filosofi, pensatori, teologi, poeti, presbiteri, politici che negli anni ’50 e ’60 misero in discussione i privilegi e i fondamenti su cui si reggeva da secoli la Chiesa cattolica, collocandosi dalla parte degli ultimi, dei poveri. Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Ernesto Baroni, don Milani, don Bruno Borghi, Giovanni Vannucci, Giorgio La Pira, detto il sindaco “santo”, erano contemporanei e amici di don Mazzi. La Toscana fu in quegli anni un laboratorio politico e religioso originalissimo e l’Isolotto, terreno vergine, recepì lo spirito di rinnovamento dell’epoca. Non a caso, nacque proprio lì, nel 1968 la prima Comunità cristiana di base.

 

Il nodo irrisolto

Appena arrivato all’Isolotto, don Mazzi chiamò a raccolta i giovani del quartiere nelle “riunioni del giovedì”. Quando Mira lo incontrò aveva vent’anni ed era al suo primo impiego. Di famiglia socialista, iscritta alla CGIL, sapeva poco o nulla di religione, ma aveva dentro un senso di vuoto e un forte desiderio di verità. Quel giovane parroco le dava fiducia. Nacque tra loro una profonda amicizia. Fu così che iniziò l’impegno sociale, politico e religioso di Mira e la sua partecipazione alle vicende dell’Isolotto: la nascita delle prime case-famiglie, la lettera di solidarietà in occasione dell’occupazione del duomo di Parma, il conflitto aperto dal vescovo Florit con don Mazzi e con tutta la comunità dell’Isolotto che lo sosteneva, fino alla rimozione d’ufficio di don Mazzi, il processo, l’interrogatorio in tribunale.

Mira, attraverso don Mazzi, incontrò la forza e l’attualità del Vangelo e da lì condivise con lui una scelta di vita, di partecipazione e solidarietà verso gli ultimi. L’incontro tra loro diede il via a un cambiamento che coinvolse altre e altri. Non aveva alcun sospetto Mira, all’inizio del rapporto con don Mazzi, fiduciosa e innamorata di Gesù, del prezzo alto che lui le avrebbe fatto pagare: la cancellazione del suo impegno materno nelle case-famiglia.

Come tanti uomini, anche i preti, posti di fronte a donne come Mira, capaci di pensiero autonomo e di indipendenza simbolica, invece di stare nello spazio autentico della relazione con l’altra da sé, prendendo atto dei suoi desideri e della sua concreta realtà di vita, hanno agito strategie di negazione, si sono difesi dalla libertà di una donna, nascondendosi dietro l’universale maschile che include il femminile, cancellandolo o inglobandolo e incanalandolo in forme “addomesticate” e controllabili.

La storia del rapporto con don Mazzi e con la Comunità dell’Isolotto è rimasta dentro Mira come un nodo irrisolto che solo cinquant’anni dopo riesce a sciogliere, autorizzata e incoraggiata da alcune donne: Luisa Muraro della libreria delle donne di Milano, Carla Galetto e Doranna Lupi della Comunità cristiana di base di Pinerolo.

 

Un divino in cui riconoscersi

Il libro di Mira ci fa vedere che anche i preti, come tutti gli uomini, non vedono il lavoro di cura e la fatica delle donne per sostenere il ritmo e le difficoltà della vita quotidiana dentro e fuori la Chiesa. Quel lavoro, da un lato, lo esaltano come espressione dell’amore materno, dall’altro, lo danno per scontato, rimanendo così fuori dalla realtà. I preti si comportano come se non sapessero niente dell’amore che ci vuole per portare avanti e tenere unita una famiglia, crescere figli e figlie, lavorare dentro e fuori casa.

Ecco perché penso sia urgente che gli uomini in generale, e quelli di Chiesa in particolare, si aprano alla realtà e provino gratitudine, riconoscenza per la vita ricevuta da una donna.

Mira con il suo racconto ci invita a collocarci oltre l’imperativo cattolico di amare tutti in egual modo, ricordandoci che, nel perseguire l’uguaglianza a tutti i costi, una donna perde se stessa e la propria soggettività perché esce dall’ordine simbolico della madre che costituisce la sua esistenza. Bisogna allora che nella Chiesa cessi la retorica dell’amore materno, inteso come dono gratuito e sacrificio di sé, insieme alla rigida divisione dei compiti e dei ruoli.

Ricordiamoci, infine, che nessun uomo, come dice Mira, potrà mai soddisfare il desiderio smisurato di una donna che aspira al divino come bisogno di infinito. Senza un divino in cui riconoscersi – scrive Mira, richiamandosi a “Donne divine” di Luce Irigaray (Mestre 1984) – una donna perde il senso di sé e della propria differenza e costruisce la propria vita attorno a un falso Dio.

 

(www.libreriadelledonne.it, 30 aprile 2018)

 

 

Video dell’incontro del 27 ottobre 2017 con Marirì Martinengo: La pratica della Comunità di storia vivente, presso l’Associazione Sofonisba Anguissola – Galleria delle donne (Torino, via Fabro 5). “Per essere totalmente e veramente umana la storia dovrà scendere fin nei luoghi più segreti dell’essere fino alle viscere; le viscere sono la parte meno visibile, non semplicemente perché non lo sono, ma perché fanno resistenza a diventarlo. E le viscere sono la sede dei sentimenti… Il sentire ci costituisce più di qualsiasi altra delle funzioni psichiche. Potremmo dire che le altre le possediamo, mentre il sentire lo siamo (María Zambrano, Per una storia della pietà, in “aut aut”, 279, 1887, pp. 63-69).” Le parole della filosofa spagnola ispirano la pratica della Comunità di storia vivente, che consiste nell’interrogare il segreto sentire di ognuna – alla presenza e partecipazione di tutte – fino a farlo emergere, tradurlo quindi in parola e infine in scrittura, sempre con attenzione alla sua contestualizzazione nel tempo in cui si è verificato e si è strutturato. Gli obiettivi della pratica sono il raggiungimento da parte di ciascuna di una soggettività più libera e di immettere le donne, con la loro storia, nella storia.


Domenica 28 gennaio 2018, presso la Libreria delle donne di Milano si è tenuto un incontro fra donne appartenenti ai Gruppi donne delle Comunità di Base cristiane italiane, al Graal-Italia, alla Sororità di Mantova, a Thea-Teologia al femminile e la Comunità di storia vivente.

 

Introduzioni di Carla Galetto e Doranna Lupi

 

1) Prima di tutto un grazie di cuore alle donne della pratica di “Storia vivente” che ci ospitano qui in Libreria e che ci accompagneranno in questa giornata. Per noi (Doranna e io) la Libreria delle donne di Milano è il luogo simbolico di una rivoluzione ancora in atto, tanto per citare il sottotitolo del libro Mia madre femminista di Luciana Tavernini e Marina Santini.

Avere a disposizione parole nuove per dire la verità sulla nostra esperienza e per dire il mondo è già molto e qui ci sono queste parole. Però per creare nuova realtà condivisa, per creare nuovo simbolico non è sufficiente condividere testi e parole di altre donne, ma è necessario attraversare quel vuoto, quel silenzio da cui tutte noi siamo partite e trovare soggettivamente il pensiero che sa decifrare ciò che si sente, in relazione con le parole e con i corpi (in carne e ossa) delle altre donne.

2) Da cosa nasce il desiderio di incontrarci con voi? La proposta è nata da Doranna, a cui subito ho aderito, dopo la sua partecipazione al Convegno sulla “Pratica della storia vivente” dell’11 Marzo 2017 qui, nella libreria delle donne Milano, a cui eravate presenti tutte: Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Marina Santini, Luciana Tavernini, Laura Modini, Giovanna Palmeto, Marie-Thérèse Giraud. Abbiamo subito condiviso questa proposta con le nostre amiche delle cdb, compagne da trent’anni di un percorso condiviso su donne e divino, proposta estesa anche ad altre che fanno parte di gruppi donne che in questi ultimi anni si sono unite a noi.

I motivi principali che ci hanno spinte a sentire la necessità di questo incontro sono due:

  1. a) l’esigenza più volte espressa nei nostri collegamenti di lasciare traccia scritta del nostro percorso
  2. b) l’obiezione silenziosa sul libro di Mira Furlani (di cui vi parlerà Doranna).
  3. a) Mi sembra innanzitutto importante riprendere alcuni accenni a questo desiderio, emersi negli ultimi anni del nostro percorso.

Già nel coordinamento del 12/1/13 c’è stata la proposta di “portare fuori, ad altre, le cose che abbiamo capito e vissuto”. Si è sentita la necessità di usare parole vere per dire la realtà che si vive, cioè partire da sé. Le parole delle donne, le nostre parole, si sentono troppo poco. Bisogna renderle pubbliche, renderci visibili.

Noi non siamo le rappresentanti della “questione femminile” delle Cdb, ma siamo in un percorso in cui si manifesta il senso libero della nostra differenza. Autorità che ci riconosciamo, forza che ci dà parola pubblica.

Successivamente, nei Coordinamenti nazionali del 2014 (2/3/14) veniva evidenziata la necessità di una persona esterna a noi (insieme a qualcuna interna) che collaborasse con noi per rileggere la nostra storia (fare un articolo, scrivere un testo…), per “bucare il muro”. Si è detto che è poco conosciuto il nostro percorso e abbiamo difficoltà a comunicarlo.

Un nodo fondamentale segnalato era come gestire i conflitti per poter costruire una “sottile striscia di futuro”. Conflitto sì, ma anche desiderio di mantenere la relazione.

Nel Coordinamento nazionale 19/11/16 ancora una volta emergeva il bisogno di ripercorrere un percorso fatto, per rimettere in movimento il presente: rileggere il passato serve per capire il presente, ma ciò che conta è il presente. Occorre rimettere in gioco il presente, a partire da sé, soggettivamente; documentare adeguatamente la presenza di libertà femminile.

E infine nell’ultimo Coordinamento nazionale di ottobre (7/10/17) il nostro gruppo donne di Pinerolo ha portato una proposta da cui riprendo alcuni passaggi che, secondo me, sono fondamentali:

Possiamo iniziare a scrivere senza avere la pretesa della perfezione: è una crescita, una maturazione, un cammino, perché cresce la consapevolezza di quello che abbiamo fatto e stiamo facendo. È difficile scrivere in tante, è vero, però potremo trovare delle modalità più adatte.

A volte, per paura delle divisioni interne, si cerca un’autorità esterna che scriva, che dica qualcosa al posto nostro, mentre è meglio fare dialogare le differenze con diversi testi di narrazioni…

Ci sono già molti testi scritti da donne che applicano questo metodo.

Occorre scrivere la storia di un periodo che ha coinvolto e tuttora coinvolge le soggettività, cioè cominciare a raccontare che senso ha avuto, perché c’è stata questa svolta, ad es. quella di creare gruppi di donne delle cdb; perché alcune di noi siamo tuttora dentro le cdb…

È stato possibile fare una ricerca dentro le cdb, parlare con verità…? Quali conflitti ha aperto e quali conseguenze nel bene e nel male? Quali relazioni sono state necessarie per acquisire forza e autorità?

Noi dobbiamo fare in modo che il nostro diventi un racconto di storia vivente, non un asettico racconto fatto da un’altra esterna a noi. Dobbiamo smetterla di pensare che sia necessario raccontare la storia con obiettività, prendendone le distanze. È la nostra storia e dobbiamo raccontarla noi intrecciandola alla storia, ai fatti e alla nostra esperienza soggettiva. La misura ce la dà la nostra relazione, che in questo senso è politica. I gruppi di autocoscienza ci hanno insegnato molto. Dobbiamo trovare parole nostre!

Questa nostra proposta è stata accolta, come vedete…

Ecco: a partire da questi desideri, interrogativi, pensieri e a partire dalla relazione preziosa tra di noi che ci ha dato forza in una ricerca che ha trasformato radicalmente la nostra spiritualità, sostenendo la nostra libertà… abbiamo pensato a un lavoro in cui emerga la “Storia vivente”, scritta da noi.

Non autocelebrazione del nostro percorso (che Luciana Tavernini chiamava monumento funerario) come se fosse un’esperienza conclusa, bensì la storia di come le nostre storie e i nostri percorsi si sono intrecciati. Dove? Nelle specifiche realtà, negli specifici contesti. Come poi i contesti specifici si sono modificati in conseguenza ai percorsi delle donne.

Come le pratiche elaborate nel percorso comune e separato delle donne sono andate a modificare, a interferire, anche a confliggere negli specifici contesti.

Quali pratiche di relazione con donne (con quali donne) hanno rafforzato entrambe le parti nei singoli contesti e a livello nazionale. Per esempio a livello territoriale le donne del gruppo di Pinerolo hanno stretto relazioni di scambio con pastore valdesi e con il Centro studi e pensiero femminile di Torino (Aida Ribero, Ferdinanda Vigliani); a livello nazionale abbiamo avuto relazioni con teologhe cattoliche e protestanti (Letizia Tomassone, Elisabeth Green, Daniela di Carlo), donne con altri percorsi di spiritualità (Antonia Tronti, Antonietta Potente), con filosofe di questa Libreria e della comunità di Diotima (Luisa Muraro, Chiara Zamboni).

Penso sia importante ripercorrere questa nostra storia senza fretta, prendendoci tutto il tempo necessario per rivisitare un cammino trasformativo molto lungo… ponendoci domande, confrontandoci ciascuna a partire da sé, attraversando i nodi che abbiamo dovuto o dobbiamo ancora prendere in mano e dipanare con pazienza e cura, mantenendo viva la relazione tra di noi. Più che il prodotto finale è importante tutto il processo con cui cercheremo di tentare questa pratica di storia vivente. Sarà sicuramente occasione per esprimere, e speriamo anche di realizzare, il nostro desiderio vivo.

Carla Galetto

 

 

“Quando appare sulla scena un testo che ci racconta la storia dal punto di vista dell’esperienza femminile c’è, prima di criticare, da rallegrarsi e poi da capire cosa faccia ostacolo alla rappresentazione del mondo dal punto di vista femminile” (Luisa Muraro, “Testimonianze”, 514, 2017).

Uno dei presupposti della pratica di storia vivente è che qualsiasi storia collettiva sia imprescindibile da ciascun soggetto. Luciana Tavernini, autrice con Marina Santini del libro Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, sostiene che la storia vivente non è l’unica storia da raccontare, ma se si riesce a fare questa pratica e a trovare il proprio nodo, si riesce meglio a fare l’altra storia. È così che la nostra carne diventa parola.

È necessario quindi dire le cose con parole che rispondano alla nostra esperienza. Teniamo presente il Sottosopra Rosso del 1996 intitolato È accaduto non per caso. È finito il patriarcato non vuol dire che sono finite, sparite di colpo e del tutto le forme e le strutture create dal patriarcato, bensì che è finito il sostegno delle donne a questo ordine simbolico, è finita la loro complicità, il silenzio-assenso, e questo ha aperto un’enorme crepa in quel sistema, da cui è già passata molta libertà femminile. Certamente da questo passaggio si è immessa anche l’ondata di donne americane che ha reso pubblica la denuncia delle molestie sessuali maschili in tutti gli ambiti, portando alla luce il contrasto tra i sessi e restituendo un fatto, che veniva considerato personale, a una dimensione pubblica. Abbiamo visto, però, che ci può volere molto tempo, come diceva Marisa Guarneri (presidente onoraria della Casa delle donne maltrattate di Milano) nel suo intervento introduttivo in occasione dell’incontro di Via Dogana 3 del 14 gennaio 2018: ci vuole il tempo necessario per rimettere in ordine ciò che è prioritario per la libertà di una donna e questa necessità va riconosciuta dalle altre donne. La libertà femminile è anche un rischio, come ogni movimento di libertà può provocare delle reazioni e a questo dobbiamo essere pronte.

Perché Carla e io, sostenute dalle donne del nostro gruppo di Pinerolo e dagli uomini della redazione di Viottoli, abbiamo raccolto in un dossier tutto ciò che è stato fino ad ora scritto sul libro di Mira Furlani Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei? Libro che lei ha scritto dopo 50 anni dai fatti che racconta. Lo abbiamo fatto perché era in ballo qualcosa di grande per la nostra libertà, cioè la credibilità delle nostre parole e la legittimazione necessaria per dirle, in una narrazione della storia che introduce elementi nuovi e un punto di vista nuovo rispetto a quello maschile tradizionale. Il racconto di Mira Furlani risponde con forza alla necessità di raccontare la storia di una donna dal proprio punto di vista, andando anche a scovare nodi profondi che, inevitabilmente, portano a galla qualcosa di rimosso e suscitano reazioni. In questo caso l’autrice indaga e mette in luce aspetti impensati del suo periodo storico.

Il dossier era necessario per rompere e spiegare, prima di tutto a noi stesse, quella che Laura Minguzzi ha definito l’obiezione silenziosa che ha provocato il libro all’interno delle comunità di base e soprattutto tra le donne delle cdb.

In questo caso si è verificata una circostanza particolarmente fortunata. Non c’è voluto molto tempo né grandi sforzi poiché, contemporaneamente all’obiezione silenziosa, molte e molti altri, dentro e fuori dalle cdb, hanno parlato legittimando e rilanciando i contenuti della narrazione di Mira. Questa differenza di punti di vista e di modi di agire ci ha mostrato concretamente l’efficacia della pratica politica delle relazioni tra donne e del riconoscimento di autorità femminile anche da parte maschile. In un secondo tempo infatti, la proposta della pubblicazione del nostro dossier sulla rivista Viottoli è venuta da un uomo della redazione, Memo Sales, marito di Luisa Bruno e facente parte del gruppo uomini di Pinerolo.

Nei luoghi dove questo avviene, si ha un rilancio. Mentre il silenzio ha l’effetto di rimuovere, depotenziando la libertà soggettiva, la pratica politica delle relazioni tra donne è orientata all’ascolto attento di ciò che l’altra ha da dire, attraversando i conflitti, valorizzando il di più che si mostra nelle parole dell’altra, cercando e trovando schegge di simbolico che confluiscano nella corrente viva di pratiche e pensiero di una rivoluzione ancora in atto.

Il libro di Mira si può considerare a tutti gli effetti un testo di storia vivente. Cosa lo rende tale? Sempre sulla rivista Testimonianze, Franco Quercioli, nell’intervista a Mira, mette in risalto questioni fondamentali rilevate nel testo e, nelle sue domande, parte dalla genealogia materna, dalla pratica delle relazioni tra donne, dalla cultura della differenza che ha messo in moto processi di autocoscienza maschile, arrivando ad affermare che, per questo, il libro di Mira guarda al futuro di tutti, non solo alla dimensione religiosa e della chiesa. Secondo Giuseppina Vitale, nel suo articolo sul numero 9/2016 di MicroMega, l’autrice si lascia alle spalle il tema della democratizzazione ecclesiale, aprendo spiragli di discussione sulla maternità e sul ruolo (attivo) della donna nella Chiesa, argomenti di indiscussa attualità.

Tutto questo può già essere considerato come il risultato scaturito dalla narrazione di una storia vivente che, come dice ancora Luisa Muraro, “fa emergere la verità soggettiva, la fa risultare nel quadro generale e la fa lavorare simbolicamente, per avere una rappresentazione più vera della realtà storica”.

Non è sul piano dei principi che scorrono i ricordi di Mira, bensì sull’esperienza pratica di un vissuto che si è scontrato con la disparità dei rapporti tra uomini e donne. Il suo racconto mette in evidenza che senza il femminismo dell’autocoscienza e la scoperta dell’ordine simbolico della madre non sarebbe mai riuscita a uscire da quella sottomissione.

Dalla storia delle case famiglia emerge il nodo che per tanti anni ha travagliato Mira. Le case famiglia dell’Isolotto non sarebbero esistite senza le madri affidatarie e senza l’iniziale collaborazione/accettazione di Mira Furlani a tale progetto. Ma è proprio su questo che a un certo punto è avvenuto lo scontro più profondo, quello tra autorità maschile e autorità femminile, in pratica tra Mira e coloro che volevano ridurre l’autorità femminile a servizio oblativo.

L’imprevisto fu che Mira e sua madre si ribellarono a quella che era una vera e propria sottrazione di autorità e disconoscimento del simbolico materno.

Doranna Lupi

 

 

(www.libreriadelledonne.it, 16 febbraio 2018)

di Luisa Muraro

 

Si rimprovera all’autrice di Le donne e il prete il ritardo con cui ha raccontato certi fatti che hanno al centro un uomo da molti ammirato com’è stato e rimane Enzo Mazzi, fatti che, in parte, non gli fanno onore. E, soprattutto perché raccontarli ora che è morto e non può dire la sua, non può rendere conto di sé a quelli che custodiscono la memoria del suo nome?

La prima domanda che viene da porsi è proprio questa. Perché Mira Furlani, che è stata una protagonista nella storia dell’Isolotto, come fu evidente nel celebre processo del 1971 che la vide unica – e combattiva – donna tra i nove imputati per la rivolta dei fedeli di don Mazzi contro il diktat del vescovo Florit, perché ha aspettato tanti anni, quasi cinquanta! a darci il racconto di fatti che riguardavano la sua partecipazione a una storia che appassionò molti e che non pochi ancora ricordano?

Non so la risposta, ma di questo sono piuttosto sicura: ha scritto non prima di aver trovato la misura giusta per raccontare. Il tanto tempo trascorso da allora le è stato necessario per trovarla e forse ci voleva tutto…

Ho fatto la conoscenza di Mira Furlani su un treno che riportava lei a Firenze, me a Milano, entrambe di ritorno da un convegno femminista romano. Erano gli anni Ottanta, anni buoni per il femminismo in Italia. Nel corso della conversazione, in piedi nel corridoio, quasi subito lei mi parlò del suo impegno nel progetto delle case-famiglia dell’Isolotto, una vicenda che mi risultò oscura. Conoscevo la storia di Enzo Mazzi, prete progressista e conciliare, perseguitato dal vescovo reazionario di Firenze e difeso dai cattolici del dissenso, oltre che dai suoi parrocchiani, con il seguito delle messe celebrate in piazza, fino al processo terminato con l’assoluzione di tutti. Ma di case-famiglia non sapevo nulla. Mi colpì che era proprio questa la faccenda che stava a cuore alla mia interlocutrice, era lì che lei voleva portare la mia attenzione.

Chi ha letto Le donne e il prete, riconoscerà che anche nel libro c’è questo spostamento di attenzione rispetto ai racconti correnti sull’Isolotto. Ma nel libro viene esposto con una fermezza di sguardo che non c’era nel racconto del treno. “Racconterò i fatti così come li ho vissuti”, leggiamo nel primo dei capitoli dedicati a questa parte della narrazione, che non a caso sono quelli centrali nel libro. Va detto che ci troviamo in presenza di un’autrice che, senza avere speciali titoli di studio né passate pubblicazioni, scrive bene e sa raccontare, abbreviando e allungando secondo le esigenze della narrazione.

Il significato dello spostamento da lei operato, ci ho messo del tempo a capirlo.

Come risulta dalla lettura del libro (e risultò al processo), Mira ha vissuto e ricorda l’intera, appassionante vicenda di quel quartiere. Questo era in costruzione quando lei, giovanissima, ci arrivò, nel 1955. Dunque, l’attenzione preferenziale che lei porta sulla nascita delle case-famiglia, è deliberata. Devo dire che, ascoltandola la prima volta, di ciò mi resi conto, sì, ma l’ho interpretata nel peggiore dei modi, come sintomo deteriore di un soggettivismo tipicamente femminile. Mi parve una storia di “donne che non vanno d’accordo” e ciò mi diede fastidio. Dentro di me ho cercato di scusarla, nient’altro.

La lentezza della mia mente gravata da pregiudizi misogini interiorizzati, cosa che capita anche a una femminista, c’entra. Insieme ad altro, però, che riassumo alla buona: non è facile per una donna vedersi e farsi vedere come personaggio storico anche quando lo è al cento per cento. Pensate a Hillary Clinton.

Quello di Mira Furlani è un caso tutt’altro che unico ma per certi versi esemplare della dis-crepanza tra la verità soggettiva e la versione che diventerà storica, quando si tratta di protagonismo femminile. Le donne sono presenti e attive nella storia umana, chi più chi meno e a vario titolo, ma per tutte c’è una crepa che si apre al momento della ri-presentazione, similmente a quello che può capitare quando si secca un manufatto d’argilla o, peggio, si raffredda il bronzo fuso.

I libri di storia sono pieni di uomini perché l’esperienza di “lei” non fa testo, letteralmente. Dunque, se un testo per finire appare, come questo che ci racconta un tratto importante della storia italiana, dalla ricostruzione al movimento femminista, c’è da rallegrarsi, prima di qualsiasi critica. E poi da capire che cosa faccia ostacolo alla rappresentazione del mondo dal punto di vista femminile.

In tutti i libri che raccontano l’Isolotto – così comincia il capitolo 4 di Le donne e il prete – l’argomento delle case-famiglia è stato presentato frettolosamente. Come mai? L’autrice risponde con poche parole sulle quali bisogna fermarsi: “la nascita delle case-famiglia per bimbi orfani e abbandonati è stata sempre liquidata frettolosamente, col timore che parlarne più di tanto significasse intaccarne il privato” (io sottolineo). Se si presta un ascolto attento, qui si sente il punto cieco di una sofferenza. Sarebbe sbagliato, secondo me, imputare la reticenza esclusivamente a chi scrive. Chi legge deve fare la sua parte.

Mi sono chiesta: il progetto delle case-famiglia obbediva a scopi di propaganda? Mira Furlani non è sfiorata da un pensiero simile, e lei c’era. Il progetto, dice, era per l’Isolotto un concreto impegno di carità evangelica, e per i tempi di allora fu un passo avanti nel superamento degli istituti di assistenza ai minori.

Ma c’è dell’altro, mi pare evidente dalle parole citate. Forse, nell’ideazione del progetto o nella sua realizzazione, l’intensa amicizia tra Enzo e Mira conobbe un salto di qualità che non fu accettato, non dico: da lui o da lei, perché si tratta di una relazione ed è troppo difficile fare le parti – senza tuttavia ignorare che, in quel contesto, lui aveva un’autorità superiore a quella di lei. Forse, il nuovo non fu accettato perché la comunità non lo avrebbe accettato. E fu in questa direzione che si arenò lo slancio trasgressivo che animava tutta l’impresa dell’Isolotto.

Ecco il significato dello spostamento di attenzione che ho già segnalato. È un problema non da poco! Riguarda il senso di quel che può capitare a esseri umani e la direzione in cui procedere per il meglio desiderato e desiderabile. Si tratta di far emergere la verità soggettiva, di farla risaltare nel quadro generale, di farla lavorare simbolicamente per avere una rappresentazione più vera della realtà storica. Non dico soltanto al passato ma soprattutto al presente-passato/futuro, ossia man mano che la realtà stessa si pro-duce: viene avanti.

Nel racconto storico, in questo caso e in generale, la presenza delle donne, quale che sia il loro contributo, si usa ormai dire che viene messo ai margini. Non è esatto, sarebbe più giusto dire che la presenza viene obliterata, e il contributo mangiato, cioè “lei” resa illeggibile e il suo contributo assimilato, tutto in vista di una rappresentazione unitaria, senza le complicazioni di una alterità irriducibile.

Apro una parentesi. La cultura femminista ha tanti meriti ma ha anche tanta strada da fare. La sparizione delle donne dai libri di storia, non è l’effetto della loro discriminazione dalla scena pubblica, ma, al contrario, di un’integrazione che arriva alla consumazione, e non si può dire che sia finita.

Sulle pagine di Testimonianze non è tempo perso, spero, aggiungere che, in conseguenza di questa semplificazione unitaria, tutto ne viene offuscato, non escluso il sentimento religioso, che si forma malamente senza un forte senso della differenza dell’altro. Quando un uomo dice “io sono solo un uomo”, troppo spesso sottintende che il suo altro sarebbe Dio. Non dovremmo consentirci quest’abbreviazione, ne va di Dio, che per me non è cosa da poco.


(“Testimonianze”, n. 514, dicembre 2017, pp. 98-100)

di Anna Turri Vitaliani

 

Intervenire a questo punto mi sembrava superfluo; solo l’incoraggiamento di alcune amiche e la pratica politica del partire da sé mi hanno fatto superare la ritrosia a espormi pubblicamente nel dibattito e a motivare la mia partecipazione e attenzione alla storia delle Comunità di base, dei Gruppi Donne Cdb e, in particolare, per lo scritto di Mira.

La pubblicazione del libro di Mira Furlani (Le donne e il prete, Gabrielli 2016), nel quale narra la sua esperienza all’Isolotto, ha suscitato, sin dalla presentazione che l’autrice ne fece al Convegno Gruppi donne Cdb del novembre 2016, un interessante dibattito, che è poi proseguito in vari ambiti: sul sito delle Cdb, su varie riviste, alla Libreria delle donne di Milano, con l’autorevole presenza di Luisa Muraro, al Centro Donna di Mestre, con un intervento della storica Alessandra De Perini che, ripercorrendo sinteticamente ma molto efficacemente la vicenda, ha evidenziato i motivi per cui l’Autrice si è risolta a narrarla.

Per comprendere le origini del mio interesse per tutto ciò ho dovuto ripercorrere la mia storia, andando a ritroso nel tempo, per cercare negli anfratti della memoria, dei ricordi, a volte nitidi, talora un po’ sfocati, per constatare come essa, a un certo punto si sia intrecciata con la storia delle Comunità cristiane di base italiane.

Tutto ha inizio più di tre decenni fa quando un familiare, a me molto caro, prete diocesano, venne inviato dalla Chiesa veronese, come Fidei Donum, in terre Latinoamericane. Seguendo da vicino la sua esperienza ho iniziato ad avere dei contatti molto intensi con le Comunità di base di quel continente, a quel tempo assai fiorenti, molto attive, ispirate dalla teologia della liberazione e da grandi teologi e ideatori come L. Boff, P. Freire, G. Gutierrez, come pure dai Gesuiti dell’UCA (Università del Centroamerica), questi ultimi purtroppo uccisi, come altri, perché scomodi e invisi a chi era abituato a dominare e non ammetteva che la gente comune desiderasse liberarsi dall’oppressione e dallo sfruttamento.

Sovente mi ero chiesta, nel decennio in cui ho vissuto a stretto contatto con le realtà ecclesiali di base del Continente latinoamericano, se non ci fossero realtà analoghe anche in Italia, ma inizialmente non ne avevo trovato traccia finché, tramite amicizie, venni a sapere dell’esistenza delle Comunità di base italiane e incominciai a interessarmene. Leggevo tutte le notizie che mi arrivavano per conoscerle meglio e, appena possibile, partecipavo alle conferenze di quei preti che erano le figure carismatiche delle rispettive comunità.

Osservai una diversità: mentre in America Latina le Comunità di base cristiane erano composte prevalentemente da laici e il prete era figura importante ma non sempre presente, data l’esiguità numerica di religiosi o di preti in tutto il continente (tanto che un vescovo brasiliano, in visita in Italia e invitato a un incontro di preti veronesi, aveva esclamato stupefatto come in tutto il Brasile non ve ne fossero, neppure lontanamente, tanti quanti quelli della sola Diocesi veronese!), in Italia mi sembrava che le Cdb facessero riferimento prevalentemente a un prete, che ne era l’ispiratore e animatore.

L’incontro con la Teologia della Liberazione mi aveva entusiasmato e fatto scoprire nuovi orizzonti. Avevo imparato, anche con l’aiuto di preti illuminati, che tornavano dall’esperienza latinoamericana, a leggere il Vangelo e a cogliere nella Buona Novella di Gesù di Nazareth il messaggio liberante. Lentamente iniziavo a liberarmi dai molti condizionamenti che avevo ricevuto negli ambiti cattolici parrocchiali, che fino ad allora avevo frequentato. La teologia della liberazione mi aveva aperto nuovi orizzonti e con questo bagaglio ero pronta a incontrare le esperienze delle Cdb italiane; così, poco alla volta, ho iniziato a conoscere le storie di Pinerolo, Verona, Firenze, Roma e le altre e a costruire relazioni con donne e uomini di quelle Comunità.

Nel 1994, grazie alle amicizie femminili che si andavano formando, sono approdata per la prima volta a un Convegno dei Gruppi Donne delle Cdb, nel veronese. Per parecchio tempo di quella prima esperienza con le donne ho avuto un ricordo vago, però ho continuato a frequentare i Convegni successivi, perché mi affascinava il pensiero delle donne, che avvertivo in sintonia con il mio sentire profondo. Sentivo parlare di Pensiero della differenza sessuale, di Autorità femminile, di Libertà femminile; inoltre si rifletteva su come fosse improrogabile per noi rielaborare, sia sul piano filosofico che teologico, il pensiero sul DIVINO, e costruire un simbolico femminile; abbracciavo quelle riflessioni perché comprendevo che quella era la strada che volevo percorrere.

In quel contesto ho iniziato a conoscere Mira, il suo modo di esprimersi schietto, lucido, la sua fermezza nel sostenere le proprie posizioni. Avevo seguito un po’ la storia dell’Isolotto e del suo Parroco don Enzo Mazzi, avendo letto qualche suo scritto; la figura era carismatica e interessante. Frequentando i Convegni dei Gruppi donne e i coordinamenti sentivo narrare qualche episodio della vita dell’Isolotto, ma erano sempre racconti isolati, parziali. Non riuscivo ad avere un quadro completo della storia; dall’insieme di quelle testimonianze avevo la sensazione che mi mancasse sempre qualcosa.

Quando Mira ci informò che stava scrivendo la “narrazione” della sua esperienza vissuta in quella Comunità, ne fui contenta. Compresi ciò che mi mancava: era la voce femminile di chi, di quelle vicende, era stata una protagonista. Non entro nel merito di quelle vicende. Non le ho vissute direttamente e non potrei farlo. Vorrei però mettere in evidenza un aspetto che mi sta a cuore: che la voce delle donne prenda corpo, e assuma una dimensione pubblica, politica. Troppe volte l’esperienza delle donne è caduta nel silenzio, se non nell’oblio.

Mira ha atteso a lungo prima di scrivere: la bloccava il timore di non essere compresa, di essere giudicata, come ha scritto nel suo libro. Solo l’incoraggiamento di alcune amiche, tra le quali la filosofa Luisa Muraro, che le hanno riconosciuto AUTORITÀ, ha fatto cadere le sue esitazioni. Nel libro Mira affronta alcuni nodi cruciali, uno dei quali è il mancato riconoscimento dell’Autorità femminile da parte maschile, ma anche da parte di molte donne che hanno come punto di riferimento il simbolico maschile.

L’incoraggiamento delle amiche l’ha autorizzata a scrivere, aiutandola a superare la soglia del silenzio. Così è venuto alla luce il suo libro, un testo che in un modo o nell’altro riguarda tutte noi, perché parla del rapporto pubblico/privato, di libertà femminile e di simbolico materno, partendo dalla propria verità soggettiva. Scrive Doranna Lupi nel suo bel “Primo Piano” del 16 maggio 2017: «Solo il superamento della dicotomia pubblico/privato ci ha permesso di riconoscere la politicità della vita personale. Tutto questo non sarebbe stato possibile se non fossimo partite dal dare valore alla verità soggettiva femminile. Oggi sono proprio le donne che si sentono parte attiva di questa storica evoluzione, donne che rispondono positivamente, e colgono appieno il senso di rivolta che il testo di Mira ha voluto trasmettere contro la cancellazione dalla storia dell’esperienza femminile».

Facendo appello, aggiungo io, a quel senso di libertà irrinunciabile, che permette di attuare le proprie scelte quando non temiamo i conflitti. Sappiamo che i conflitti fanno paura ma sono occasioni. Sono proprio questi gli aspetti per cui ritengo sia stato importante per tutte noi la pubblicazione del testo di Mira.

Più avanti, sempre nello stesso “Primo Piano”, Doranna ricorda le parole che la filosofa Chiara Zamboni ha pronunciato in occasione del Convegno Gruppi Donne Cdb e altri gruppi del novembre 2016 a Verona: «Siamo noi con la nostra scommessa simbolica a mostrare come il significato di avvenimenti, apparentemente secondari o visionari che ci hanno toccato, hanno un valore che occorre condividere con altri, sia donne che uomini. Si tratta di avere fedeltà nei segni che ci coinvolgono ma, in più, avere fiducia che con le nostre parole rendiamo condivisibile il significato di ciò che ci ha messo in movimento, perché lì c’è una verità implicita. Non importa se a prima vista questo ad altri possa sembrare di poca importanza o se il simbolico dominante non lo veda del tutto o lo consideri marginale o lo interpreti in maniera per noi stridente, inadeguata. Assumere autorità è sentire l’importanza di questo lavoro simbolico».

È da queste parole di Chiara Zamboni che il mio pensiero trova il coraggio di esprimersi pubblicamente. Per troppo tempo le parole di molte donne e i loro vissuti sono rimasti racchiusi «come in un bozzolo di silenzio». È tempo che vedano la luce, dispieghino le ali e prendano il volo, consapevoli dei rischi che il volo comporta, ma consapevoli pure di poter respirare in tal modo profumo di libertà.

(www.cdbitalia.it, sito delle Comunità Cristiane di Base, “Primo Piano”, agosto 2017)

di Doranna Lupi

 

Anche se è passato un po’ di tempo, anzi forse proprio perché è passato il tempo necessario per rifletterci su e osservare le diverse reazioni dentro e fuori le comunità di base, sento l’urgenza di riprendere il discorso iniziato dalla Comunità dell’Isolotto sul nostro sito www.cdbitalia.it, in occasione della riflessione di Beppe Pavan sul libro Le donne e il prete di Mira Furlani.

Il nodo, che vorrei riprendere e tentar di dipanare, si trova in queste righe del loro Primo Piano dell’11 dicembre 2016: «A questo proposito vogliamo sottolineare come i ricordi di un passato, peraltro in questo caso così lontano, siano sempre fortemente connotati a livello soggettivo e dall’emozione personale, che è quella che tiene in vita il ricordo, per cui gli stessi eventi che Mira ha vissuto nel modo riportato nel libro, da altre/i di noi sono ricordati in modo diverso, con altri particolari, altre situazioni, altre emozioni. Riteniamo sia importante tener conto di questo e considerare lo scritto di Mira relativo non solo al contesto di quel momento storico, ma anche alla personalità di Mira: una delle tante voci possibili, appunto, come recita il sottotitolo, raccontato da lei».

Sta proprio qui il punto cruciale, nel liquidare la memoria soggettiva come qualcosa di non oggettivo, di relativo, non valido per tutti. Ma su questo la politica delle donne ha da dire qualcosa di molto importante. Si tratta della pratica politica del partire da sé, dalla propria esperienza soggettiva, proprio per parlare delle cose da loro ritenute storicamente importanti, di valore politico/simbolico per entrambi i sessi. La pratica del partire da sé consiste nel trovare le parole per dire il reale, tornando ai vissuti, ai desideri, ai sentimenti e alle contraddizioni in cui ci dibattiamo. Questa pratica, adottata dal femminismo degli anni ’70 nei gruppi di autocoscienza, ha eliminato la separazione tra pubblico e privato, tra personale e politico.

Da tale presa di coscienza molto è cambiato nella società e non soltanto sul piano della legge e dei diritti. Soprattutto è cambiato l’ordine simbolico maschile che all’epoca dell’esperienza di Mira imperava, soprattutto nella chiesa. Perché le società, in ogni epoca, sono mosse da precisi ordini simbolici e il vero cambiamento, avvenuto in quegli anni, è stato lo sgretolarsi del patriarcato come ordine simbolico. E proprio dietro il concetto di “famiglia” venivano scaricati su noi donne i ruoli dove si nascondevano, nel privato, tutte le esperienze umane fondamentali, come la sessualità e la maternità, considerate cose “non politiche”.

Solo il superamento della dicotomia pubblico/privato ci ha permesso di riconoscere la politicità della vita personale. Tutto questo non sarebbe stato possibile se non fossimo partite dal dare valore alla verità soggettiva femminile, dentro le relazioni familiari, coniugali, come in quelle sociali e comunitarie, soprattutto nel campo della sessualità, della salute del nostro corpo, dalla gravidanza al problema dell’aborto, tutte cose allora considerate molto private.

Ci fu immediatamente, soprattutto da parte maschile, una grande disapprovazione sociale per questa irriverente sfacciataggine femminile. Ma oggi io e Carla Galetto, autrici della prefazione al testo di Mira Furlani, come Mira stessa e tantissime altre donne, possiamo esprimere un sapere e una coscienza di noi che ha le sue radici in una grande e storica comunità femminile che attraverso pratiche di pensiero innovative e pratiche di relazioni efficaci, ha trasformato l’intera società.

Oggi sono proprio le donne che si sentono parte attiva di questa storica evoluzione, donne che rispondono positivamente, cogliendo appieno il senso di rivolta che il testo di Mira ha voluto trasmettere contro il silenzio e la cancellazione dalla storia dell’esperienza femminile.

Giuseppina Vitale, nel suo articolo su Micromega di gennaio 2017, mette in risalto il rapporto conflittuale e critico con l’autorità religiosa, ancora non libera dai suoi condizionamenti clericali. Mariangela Mianiti, sul Manifesto del 26 aprile 2017, nella sua interessante recensione, entra nel merito del dibattito tenutosi il 4 marzo scorso alla Libreria delle donne di Milano, in cui Luisa Muraro ha parlato di “una rivolta nella rivolta” poiché, anche in una stagione rivoluzionaria, è possibile “scartare” percorsi femminili di libertà, perché inediti e dirompenti. Inoltre non mancheranno, prossimamente, altri preziosi contributi attualmente in cantiere.

Al nostro ultimo convegno “Gruppi donne Cdb”, tenutosi a Verona nel novembre 2016, la filosofa Chiara Zamboni ha detto: «Siamo noi con la nostra scommessa simbolica a mostrare come il significato di avvenimenti, apparentemente secondari o visionari, che ci hanno toccato hanno un valore che occorre condividere con altri, sia donne che uomini. Si tratta di avere fedeltà nei segni che ci coinvolgono ma, in più, avere fiducia che con le nostre parole rendiamo condivisibile il significato di ciò che ci ha messo in movimento, perché lì c’è una verità implicita. Non importa se a prima vista questo ad altri possa sembrare di poca importanza o se il simbolico dominante non lo veda del tutto o lo consideri marginale o lo interpreti in una maniera per noi stridente, non adeguata. Assumere autorità è sentire l’importanza di questo lavoro simbolico».

Le storie sono storia: raccontiamole: questo era il titolo di una rubrica di Via Dogana, storica rivista femminista della Libreria della donne di Milano. In effetti la storia raccontata da LEI assume un diverso spessore. Quando le donne sono libere e consapevoli della propria differenza tirano in ballo ciò che è sempre stato fuori dalla narrazione maschile, ristabilendo una verità dei fatti e riconsegnando alla storia i vissuti femminili. La loro presenza inedita mette in scena qualcosa di completamente nuovo. Ma il loro operato spesso è anche un attacco frontale al simbolico patriarcale e l’immagine maschile ne risente, uscendone un po’ ammaccata, diseroicizzata. È un lavoro che aggiunge qualcosa che non c’è e toglie qualcosa di illusorio. Queste narrazioni non hanno lo scopo né la necessità di infangare figure maschili autorevoli che oggi non sarebbero in grado di controbattere: mettono invece in evidenza la necessità, ancora molto attuale, di una seria autocoscienza maschile.

Narrando la propria storia, le donne restituiscono un contesto storico arricchito da una differenza sessuale rimossa. Serve alle donne che possono rispecchiarsi in una narrazione che le comprende, dando giusto valore alla parzialità maschile, cosa necessaria in una società di pari-differenti.

Si tratta di un percorso dinamico e trasformativo che richiede la disponibilità ad attraversare i conflitti in maniera non distruttiva, rimettendosi continuamente in discussione.

(www.cdbitalia.it, 15 maggio 2017)

di Marirì Martinengo

Il Convegno ha messo in moto energie: i racconti di storia vivente, presentati da alcune di noi appartenenti alla Comunità, organizzatrice della giornata di studio, hanno suscitato attenzione, accompagnata da vivissimo interesse.

La sala del Circolo della rosa era zeppa di amiche, conoscenti, estranee e estranei, venute da ogni parte dell’Italia e dalla Spagna, tanto che abbiamo dovuto chiedere a prestito delle sedie, l’atmosfera era calda, gioiosa, vibrante, corporea.

La prima considerazione che sono costretta a fare è che le due relazioni introduttive, molto ricche di spunti per una discussione, sono state un po’ trascurate: le storie erano più coinvolgenti! Nel dibattito successivo al primo giro di racconti non è mancata l’osservazione secondo cui noi corriamo il rischio di non fare storia e di scivolare nell’autocoscienza, vecchia cara autocoscienza!

Non c’è da stupirsi. Occorre fare uno sforzo e dimenticare i parametri storiografici maschili. La storia vivente propone una radicale rivoluzione: la storia a partire da sé: la storia della propria storia , segnata dal tempo, dal luogo geografico in cui si nasce e si vive, dalla classe sociale di appartenenza, dal livello culturale, dal credo religioso, che sono dati storici. La radice della nostra pratica è l’autocoscienza degli anni settanta, che aveva un suo progetto politico, la storia vivente ne ha un altro; il metodo, la pratica, è quello di andare a fondo dentro di sé fino ad individuare il nucleo, il nodo profondo che ha fatto di ciascuna di noi quello che è diventata: il narrarlo e lo scriverlo ne è la storiografia. L’esposizione, prima orale, poi scritta di quanto viene fuori, va contestualizzata e legata saldamente con i fatti di cui dicevo sopra. Occorre rifuggire dallo psicologizzare e mantenersi saldamente ancorate,i al terreno della politica.

La nostra cultura, nella quale siamo immersi, è così aliena dall’immaginare che le donne possano raccontare e scrivere la loro storia, che alcune chiamano con altri nomi, presi a prestito da movimenti politici del passato femminista, è così prigioniera del concetto e della definizione di storia e di storiografia maschili, che non riconosce – non sa vedere – i modi innovativi e inventati della storia e della storiografia femminili.

Forse nel dibattito, sia della mattina sia del pomeriggio, è rimasta implicita un’affermazione essenziale: estrarre dalla propria interiorità l’esperienza femminile e darle parola e poi scrittura, significa narrare la storia dei condizionamenti violenti imposti alla vita delle donne dall’organizzazione simbolica e sociale patriarcale, acquistarne consapevolezza e contemporaneamente studiare il modo di mettere al mondo le vie per sottrarvisi, avviando un movimento politico e storico in cui vi sia libertà e autorità femminili. Proponiamo una storia a partire da sé – valida per donne e uomini – da un sé profondo, che la filosofa Maria Zambrano e la storica Maria Milagros Rivera Garretas chiamano le viscere,“forse l’universale come mediazione”. Far parlare le viscere è anche un modo di canzonare l’“oggettività” della storia tradizionale; raccontare la propria storia a partire dal corpo, da sé, dal proprio inconfessato vissuto, è un modo di fare storia indubbiamente non oggettiva. Noi della Comunità di storia vivente commenteremo fra di noi a lungo i guadagni ottenuti, valuteremo e assaporeremo il rilancio ricevuto, terremo conto dei dubbi emersi l’11 marzo, pubblicheremo un resoconto ragionato con le relazioni introduttive e i nostri racconti scritti in questi dieci anni di attività, ma al momento mi piace notare e mettere in evidenza che la giornata è stata appassionante, rallegrata da un buffet straordinario, allestito nel fresco del giardino, che ha giustamente soddisfatto e ritemprato, ristorandole, le viscere di quante e quanti hanno partecipato al Convegno.

(www.libreriadelledonne.it, 6 aprile 2017)

PROLOGO

 

di María-Milagros Rivera Garretas

(Traduzione di Silvia Baratella e Luciana Tavernini)

 

 

La scoperta della storia vivente

 

La storia vivente è nata nel 2005, nel contesto della Libreria delle donne di Milano, in un gruppo di politica delle donne che allora si chiamava Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica. Come ogni vera nascita, non è scaturita dal nulla ma da una gestazione lenta e appassionante condivisa tra una madre (Marirì Martinengo) e le poche che facevano parte di questa comunità di storiche e di amiche: Luciana Tavernini, Laura Minguzzi e Marina Santini, accompagnate a volte da altre che entravano o entrano ancora nel gruppo, o anche che ne escono, quando la posta è troppo alta o per altri motivi. Poche e amiche, “Poche e sufficienti,”[1] come nelle fondazioni rivoluzionarie di Teresa di Gesù (Teresa d’Ávila, 1515-1582)[2] o del femminismo radicale dell’ultimo terzo del XX secolo, come per esempio Rivolta femminile (1970).[3]

 

La storia vivente è nata dalla pubblicazione da parte di Marirì Martinengo del libro intitolato La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta. Ricordi immagini documenti.[4] Il libro ricostruisce la storia della nonna paterna di Marirì, Maria Massone, una donna che, trentunenne e dopo cinque maternità in sei anni, fu rinchiusa (1895) in una cosiddetta “casa di cura” fino alla sua morte (1924). Così Maria Massone fu cancellata dalla memoria della famiglia che lei stessa aveva fondato, sottratta silenziosamente al suo mondo e alla storia per qualcosa nel suo essere donna che minacciava nelle sue strutture le pretese della classe sociale a cui apparteneva, la borghesia. In apertura del libro, Marirì Martinengo scrisse la sua idea essenziale: “C’è una storia vivente annidata in ciascuna/o di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; non penso che abbia valore storico solo quello che sta fuori di noi, che qualcun altro ha certificato, la famosa storia oggettiva. Io racconto una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo cognitivo.”[5]  Io lessi subito questo libro perché alcune di noi del Centro di Ricerca Duoda dell’Università di Barcellona avevamo già allora una relazione politica con Marirì Martinengo. Qualche mese più tardi lo presentai alla Libreria delle donne di Milano e, nel preparare il testo, ricordo che restai per un po’ sulla traduzione del paragrafo citato, e precisamente sulle parole «storia vivente», senza capire perché la parola “vivente” non fosse in corsivo, come mi pareva dovesse essere perché che quella fosse storia mi era evidente, l’aspetto rivoluzionario era invece l’idea di una storia vivente. Per un pezzo rimasi in dubbio se essere fedele come traduttrice o essere fedele alla genialità dell’idea. E alla fine lasciai l’incertezza.

L’incertezza era il segno dell’importanza stessa dell’idea: la traccia dell’ombra, dell’oscurità ormai mescolata alla luce. Il libro, in realtà, è una dimostrazione di quello che ancor oggi (2016) fa più problema accettare, cioè che la storia vivente sia storia, non che sia viva e che vivifichi. Fa problema accettarlo alla storiografia maschile tradizionale, e anche a una parte importante della storiografia delle donne, quella nata dagli studi di genere. Ed è così nonostante la storia vivente non abbia pretese totalizzanti, cioè nonostante non pretenda di essere l’unico modo di scrivere la storia: non pretende di riempire un vuoto e neppure di proporre un nuovo paradigma.

 

La vita delle viscere

 

Quello che pretende la storia vivente è, secondo me, di cercare e di trovare la verità storica attraverso la strada della differenza sessuale, cioè attraverso la strada del senso libero dell’essere donna o uomo: la strada delle viscere, per usare le parole indispensabili di María Zambrano, poiché è nelle viscere dove la differenza sessuale mette le sue radici, dove radica il suo sentire. Ma le viscere non rientrano nella conoscenza universitaria: sono troppo sporche, inaffidabili, puzzolenti, deformi, volubili, taglienti, oscure e moleste. Sono moleste proprio per il loro legame inevitabile con la verità della madre e della lingua materna. La madre non rientra o rientra con grande fatica nel sapere universitario attuale. L’università alla fine del XII secolo concepì se stessa come Alma Mater (madre nutrice), e fatica a cedere il posto alla madre.

 

Così la Storia si scinde oggi tra la verità pattuita, ossia la verità del linguaggio concordato dagli Stati, e la verità della madre e della lingua materna. La verità del linguaggio concordato è sicura, assicurata com’è dalla forza degli Stati che la concordano; la verità della lingua materna è incerta e delicata, proprio come siamo delicate e incerte noi madri. Oggigiorno, però, l’ossessione per la sicurezza denuncia qualcosa di brutto. In questo stato di cose la verità incerta e delicata delle madri suscita una curiosità che preoccupa la verità pattuita. Per questo si può dire che stiamo vivendo nella storiografia e nella politica una battaglia per il simbolico in cui lottano per il senso della verità storica la storia di impostazione positivista e sociale da un lato e dall’altro la storia vivente. Non perché siano due storie antagoniste, ma perché il paradigma del sociale pretende fin dalla sua nascita di scrivere una storia totalizzante, e in questo ha fallito, fortunatamente, per quanto fatichi a riconoscerlo. Ha fallito perché era una pretesa vana, presa forse senza saperlo dalle ideologie totalitarie del XX secolo. C’è molto nella vita umana che non trova posto nel paradigma del sociale e che sta oltre, non contro il sociale, e che non ha mai cessato di esistere, benché fosse oscuramente presente al suo fianco, al fianco del sociale. In questo oltre (non contro) c’è, tra le altre cose, la storia vivente.[6]

 

Per questo, perché la storia sociale e la storia vivente non sono un’antinomia del pensiero ma sono due proposte o due scommesse dispari, la battaglia per il simbolico nella storiografia non si configura come una contrapposizione dialettica ma come un movimento delle viscere: un movimento delle viscere che non porta ad accordi o disaccordi che si possano mettere per iscritto, bensì a incontri spirituali riusciti o falliti alla maniera delle affinità elettive. In questo libro, per esempio, si discutono e si confutano nel dibattito cose che non sono neppure state dette. Non è follia ma aurora, aurora dell’oscuro che lascia a bocca aperta, nella quale il bianco, il grigio e il rosa non si connettono ancora.

 

All’oscuro delle viscere è stato dato, tra pensatrici del XX secolo e di oggi, il nome di vita passiva.[7] E, con la vita passiva, la chiamata delle viscere.[8] In uno dei suoi testi autobiografici, María Zambrano disse della propria filosofia: “Io sono sempre andata in direzione del riscatto della passività, della ricettività. Io non lo sapevo, ma da molti anni anch’io stavo facendo alchimia.”[9] La vita passiva è quello che in me non mi lascia fare con successo quello che non è necessario sia fatto da me, per quanto lo sembri, e me lo impedisce, custodendo al tempo stesso un mio desiderio vitale che non può venire alla luce lì; è quello che in me non mi lascia essere felice quando faccio molto bene le cose sbagliate, custodendo passivamente il mio desiderio di grandezza nel fare attivo che in quel momento è alla mia portata.

 

Fare i conti con la vita passiva è necessario per fare simbolico. La stessa parola “simbolico” lo indica, deriva dal greco συν-βαλλειν, che significa “lanciare con”: il “con” è l’oscuro delle viscere, oscuro inseparabile dalla parola che, lanciata, fa simbolico. Questo ha conseguenze importanti nell’azione e, pertanto, nella storia e nella politica. Quando le parole vengono lanciate in aria senza il peso delle viscere, senza la loro sporcizia e impotenza, volano, ideologiche, e immolano vite, sacrificate all’idea smaterializzata. La sporcizia non tenuta in conto allora straripa terrificante sotto forma di distruzione e sangue.

 

La storia vivente riscatta e redime la vita passiva, la vita delle viscere.[10] E non dalle viscere di chiunque, non da quelle delle “altre”, ma dalle proprie. Questa è una rivoluzione nella scrittura della Storia: una rivoluzione che lascia finalmente dietro di sé la pretesa ottocentesca di obiettività, senza minimamente intaccare l’uso, per scrivere storia, della più squisita erudizione.

 

Perché riscattare la vita delle viscere? Perché la storia non dimentichi la vita passiva, l’impossibilità dell’azione a fianco della sua possibilità e, così, faccia simbolico e sia feconda. Tutti i testi di questo libro che trattano di storia vivente, che sono quelli di Laura Minguzzi, Luciana Tavernini, Marina Santini, Marirì Martinengo, e in modo promettente, quelli di Marina Canal, Piera Moretti e Désirée Urizio, sono nati e sono stati scritti dopo un difficile processo di indagine sulla propria esperienza profonda, indagine in cerca dei nodi, degli ostacoli e dei grumi oscuri del disordine simbolico che impedivano l’interpretazione libera della Storia da parte ogni storica in carne e ossa. Quest’indagine non è solitaria, anzi è stata condotta sempre in relazione: in relazione all’interno della Comunità di storia vivente, o fuori di essa in una relazione duale di affidamento. Che l’indagine in profondità della vita delle viscere venga svolta in relazione è importantissimo, perché da questo dipende che la pratica della storia vivente sia politica. Che sia politica implica allo stesso tempo che la storia che alla fine viene scritta è storia comune, non solo storia personale, per quanto sia anche questo. La relazione crea il contesto e contestualizza gli avvistamenti di luce che ogni autrice persegue e ottiene indagando i nodi della sua esperienza. Così le autrici di questo libro offrono e propongono interpretazioni generali di periodi e di avvenimenti storici come la riurbanizzazione e le migrazioni degli anni Sessanta in Europa, le guerre del XX secolo, il genocidio in Istria alla fine della seconda guerra mondiale o l’influenza sulla perpetuazione del patriarcato degli abusi sessuali diffusi e quasi indicibili da parte di uomini socialmente rispettabili e, con questa, sulla difficoltà femminile a prendere parola in quanto donna.[11]

 

Il metodo vivente

 

Così la storia vivente pianta i semi di un metodo di conoscenza che si può chiamare il metodo vivente, intendendo la parola metodo per ciò che è: un cammino in movimento. È un metodo di ricerca della verità nella pratica di relazione più che nella pretesa di obiettività e nel rigore positivista. È un metodo femminile che interpreta la Storia a partire dalla propria storia, passata attraverso il vaglio del confronto con altre donne che sono impegnate nello stesso processo. È un metodo che misura la Storia sulla libertà femminile e sui risultati della misurazione fonda interpretazioni degli avvenimenti orientate dall’ordine simbolico della madre. È un metodo che, allentando o sciogliendo i nodi vitali della storica stessa, intende liberare sia il senso della vita e della verità della storica, sia la veridicità storica.

 

È un metodo che risponde alla necessità personale, condivisa con un numero indeterminato di donne e uomini di oggi, che la storia sia la storia delle donne[12], che, come scrisse María Zambrano nel 1958 parlando della democrazia, “la società sia adeguata alla persona umana; uno spazio a lei adeguato e non un luogo di tortura”.[13] Per questo non separa la storia della storica dalla storia che la storica scrive, così come non separiamo, nel parlare o nello studiare la lingua, il significante dal significato, lasciando così en passant cadere lo strutturalismo linguistico, che ha reso un’antinomia ciò che non lo è.[14] Per questo il metodo vivente non pretende di giungere a una storia totalizzante ma di mantenersi aderente all’incertezza e alla delicatezza della verità della madre e della lingua materna. La madre è la materia, la sostanza. “E come la sostanza – ha scritto María Zambrano – inesauribile, prolifica, traboccante da ogni forma, piena di promesse. Perché le sostanze viventi, essendo atto, possiedono una potenza mai interamente attualizzata; segnale di vita. Il cristallo appare come l’identificazione piena di forma e materia, di potenza e atto; il cristallo è l’immagine dell’atto puro. Ma non vive. Ciò che è vivente non si attualizza mai del tutto e solo quando è passato completamente lascia un’immagine fissa. Ma anche questa immagine si sfoca, cambia come dotata di vita propria, quando la guardiamo e a seconda del punto di vista da cui la guardiamo. E cambia, ma non come l’immagine di una montagna a cui giriamo intorno. Tutto ciò che era vivo, dal momento in cui lo guardiamo, torna a esserlo, lo restituiamo alla vita solo con il prestargli attenzione un istante. Ciò che è vivo, benché non lo sia più, rivive al contatto con la vita.”[15]

 

Di conseguenza nei testi che fanno parte di questo libro si dicono cose sfocate e, proprio per questo, appassionanti, della vita e della Storia. Ne scelgo alcune: “Tra i guadagni simbolici della pratica della storia vivente, voglio annoverare, oltre a quello di aver ricevuto voce e parola sulla mia esperienza, l’aver avuto giustizia, un bisogno universale che ha trovato uno sbocco positivo, attraverso un percorso politico di crescita e non rivendicando né aprendo conflitti distruttivi (Laura Minguzzi, p.23). “So di aver raggiunto qualcosa di vero perché è avvenuto un cambiamento visibile in me. La pratica della storia vivente è trasformativa. Riesco a parlare a partire da me e le citazioni di altre e di altri, che pure uso, non sono più un nascondimento ma un dialogo in cui io sono il soggetto che apre l’interlocuzione” (Luciana Tavernini, p. 29). “La pratica della storia vivente apre la possibilità di rileggere diversamente la storia dal punto di vista femminile, indagando sui nodi personali che con fatica andiamo a ritrovare dentro di noi e diciamo alle altre che, a loro volta, ci rimandano, in un continuo dialogo, in una continua ripresa, le nostre parole. Ci impegniamo a distillare un racconto che vale anche per altre e altri” (Marina Santini, p. 31). “Qualsiasi possa essere la risposta a questo che per me rimane un enigma, forse la sua rinuncia, anche se le è costata molto e le ha impedito una comunicazione fluida con noi figlie e figli, sicuramente le ha permesso di preservare la sua unica forma di libertà: la capacità di stare presso di sé, di nutrirsi con la musica, la lettura di libri spirituali, le belle foto di famiglia, i ricordi, il silenzio” (Marina Canal, pp. 58-59). “La lettura del numero di DWF sulla Storia vivente ha riportato a galla questo nodo del rapporto con la mamma che credevo ormai risolto e mi ha fatto capire che andava indagato ancora più in profondità per capire chi sono io adesso. Tutte le volte che vado a Fratta Polesine dalle mie sorelle e vedo i loro occhi che luccicano di gioia, penso che ho mantenuto la promessa fatta alla mamma e questo mi dà forza (Piera Moretti, pp. 63-64). “Adesso il mio desiderio è ancora più grande: c’è un significato simbolico, universale da guadagnare dall’esodo istriano e dai gravi fatti accaduti alla fine della seconda guerra mondiale lungo il confine italiano orientale, in Istria, Dalmazia e Venezia-Giulia. Ora lo scopo della mia ricerca è di andare oltre gli innumerevoli racconti, i ricordi, le testimonianze, gli scritti letterari, oltre il piano dei sentimenti e delle rivendicazioni di giustizia e liberare da false interpretazioni questa storia che ha segnato pesantemente non solo la vita di mio padre e dei suoi parenti esuli, i cui discendenti oggi sono sparsi in tutto il mondo, ma anche la mia e quella dei miei fratelli. L’esodo dall’Istria, regione italiana, abitata da gente che parlava Italiano, in dialetto veneto-triestino, è un nodo non solo della mia vita e della mia famiglia, ma della storia. Vorrei che emergesse in tutta la sua complessità, nella fiducia che solo la verità potrà restituire senso e sbocco positivo a quelle tragiche vicende” (Désirée Urizio, p.68).

 

Questo bel libro rivoluzionario inizia con l’invito dell’Associazione Le Vicine di casa, promotrice dell’incontro, e un’introduzione di Alessandra De Perini. I due testi riassumono gli aspetti essenziali e innovatori della pratica della storia vivente e ricostruiscono amorosamente i venti anni di riflessione, scambio e ricerca che hanno portato le componenti della Comunità al momento decisivo che qui si presenta. Li segue una infelice lettura di Tiziana Plebani, in cui, confondendo anche gli esempi di biografia e storia personale che le autrici avevano incluso nel numero della rivista DWF proprio per evidenziarne le differenze, tenta di dimostrare che la storia vivente di cui sta parlando non esiste, perché – scrive – “in conclusione, l’affermazione delle nostre amiche milanesi sull’imprescindibilità della relazione tra la storica e il suo oggetto di ricerca procede nell’alveo già segnato della migliore tradizione della riflessione sul fare storia” (p.14). Certo, quello di cui lei scrive non è storia vivente. È piuttosto una mescolanza contraddittoria di alcune parole trovate nel libro con la storiografia patriarcale, con la storia di genere e con il paradigma del sociale, di cui considera immutabile il quadro, riducendosi dentro di esso la libertà di confronto. Di conseguenza le autrici del libro non dialogano direttamente con la sua lettura; quello che fanno è mostrare e rendere concreto il senso della loro pratica e i cambiamenti che questa ha generato, evitando contrapposizioni sterili e preferendo l’interlocuzione con le donne presenti all’incontro, come appare dagli interventi del dibattito. La lettura di Tiziana Plebani, tuttavia, è utile come esempio di quello che succede quando la storia moribonda si confronta con la storia vivente: né la sfiora né la raggiunge.

 

 

[1]Emily Dickinson, Poemas 1201-1786. Nuestro Puerto un secreto, traduzione e lettura delle poesie in spagnolo di Ana Mañeru Mendez e María-Milagros Rivera Garretas, con un Epílogo di quest’ultima, Sabina Editorial, Madrid 2015, pp.639 + CD formato mp3, poema 1639, p.439.

 

[2]Una biografia femminista, la mia Teresa de Jesús / Teresa of Ávila, edizione bilingue spagnolo-inglese con traduzione inglese a cura di Laura Pletsch Rivera, Sabina editorial, Madrid 2014.

 

[3]Nacque a Milano con il “Manifesto di Rivolta Femminile”, in Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale e altri testi, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974, ora anche edito da et al, Milano 2010; (Escupamos sobre Hegel, La mujer clitórica y la mujer vaginal, trad. Francesc Parcerisas, Anagrama, Barcellona 1981; prima LaPléyade, Buenos Aires 1975).

 

[4]Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna “sottratta”. Ricordi immagini documenti, Genova, ECIG, 2005. In spagnolo è disponibile una recensione in DUODA, Estudios de la Diferencia Sexual, n. 31 (2006), pp. 205/208. DUODA è una rivista cartacea a libero accesso in http://www.raco.cat/index.php/DUODA/ .

 

[5]Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna “sottratta”. Ricordi immagini documenti, op. cit. p.21. La citazione si trova anche in “La voz del silencio. Me llama desde siempre” (La voce del silenzio. Mi chiama da sempre) in DUODA, Estudios de la Diferencia Sexual, n. 40 (2011), 42/49, pag. 44 http://www.raco.cat/index.php/DUODA/

Le sue riflessioni più recenti in: Marirì Martinengo, “Me llama desde siempre: la respuesta a la llamada” (Mi chiama da sempre: la risposta alla chiamata) in DUODA, Estudios de la Diferencia Sexual, n. 49 (2015), pp. 68/94, http://www.raco.cat/index.php/DUODA/ .

 

 

[6]Ho toccato questo argomento nel mio “La vida de las mujeres: entre la historia social y la historia humana” (La vita delle donne: tra la storia sociale e la storia umana), in Flocel Sabaté e Joan Farré, eds., Medievalisme: noves perspectives, Pagès editors, Lleida 2003, pp. 109-120.

 

[7]Luisa Muraro, “Vita passiva”, in Annarosa Buttarelli, Giannina Longobardi, Luisa Muraro, Wanda Tommasi, Iaia Vantaggiato, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Pratiche editrice, Milano 1997, pp. 65-83, pag. 77. Si veda anche Chiara Zamboni, L’azione perfetta, Centro Virginia Woolf, Roma 1994.

 

[8]Si può vedere il mio “Madres e hijas: la llamada de las entrañas” (Madri e figlie: la chiamata delle viscere), in Isis Internacional, portale MujeresHoy, 2015 (Cile) www.mujereshoy.com/secciones/portada.shtml e www.mujereshoy.com/secciones/3091.shtml

 

[9]“María Zambrano, pensadora de la aurora” (Maria Zambrano, pensatrice dell’aurora), in Anthropos, n. 70/71 (1987), pp. 37-38. Intervista pubblicata in Cuadernos del Norte, n. 38 (1986), pag. 6.

 

[10]María-Milagros Rivera Garretas, “La historia que rescata y redime el presente”, in DUODA, Estudios de la Diferencia Sexual, n. 33 (2007), pp. 27-39; “History that rescues and redeems the present”, in Imago Temporis. Medium Ævum, n. 2, 2008, pp. 17-25; “La storia che riscatta e redime il presente”, in Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, eds.,  Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 343-357.

 

[11]Laura Mercader Amigó y María Milagros Rivera Garretas, “Hablar como mujeres. Una elección” (Parlare in quanto donne. Una scelta), atti del laboratorio di Duoda (con Gloria Luis Peralvo) in Radicalment feministes. 40 Anys de Feminisme a Catalunya (2, 3 e 4 giugno 2016), in corso di stampa.

 

[12]Luisa Muraro, “La politica è la politica delle donne”, in Via Dogana, n. 1, giugno 1991, pp. 2-3.

 

[13]María Zambrano, Persona y democracia. La historia sacrificial (1958), Anthropos, Barcelona 1988, p. 136; Persona e democrazia. La storia sacrificale, Paravia Mondadori, Milano 2000, p.161.

 

[14]Un esempio prezioso del fatto che non è un’antinomia lo danno i seguenti versi della poesia n. 446 di Emily Dickinson: «Destilla sentido asombroso / De Significados Corrientes» [Distilla senso stupefacente/ Di Significati Correnti], in Emily Dickinson, Poemas 1-600. Fue – culpa – del Paraíso, prologo, traduzione e lettura in spagnolo delle poesie a cura di Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas, Sabina editorial, Madrid 2012, pp. 940 + CD formato mp3, p. 691.

 

[15]María Zambrano, Persona y democracia. La historia sacrificial (1958), op. cit., pp.136-137; Persona e democrazia. La storia sacrificale, Paravia Mondadori, Milano 2000, p. 161.


(www.libreriadelledonne.it, 9/12/2016)

di Marisa Milesi

Di recente ho letto la storia di Lina Scalzo raccolta da Franca Fortunato.

La storia, raccontata attraverso un racconto-intervista, ripercorre una vita in cui crescita personale e consapevolezza critica riferite a sé e alla propria esperienza lavorativa vanno di pari passo.

L’esperienza vissuta dalla protagonista è riletta dall’intervistatrice con un riferimento consapevole e meditato al pensiero della differenza e alla pratica politica delle donne da entrambe condivisa. Così come costante è il confronto e il sostegno reciproco tra le due amiche nel loro percorso personale e politico.

Nella presentazione al testo Franca Fortunato ripercorre la propria vicenda intrecciandola e confrontandola con quella di Lina Scalzo, soffermandosi in particolare sull’esperienza del legame di ognuna con la propria madre. Mentre Franca rintraccia in questo legame un vissuto di incomprensione e di rottura a cui solo da adulta, attraverso l’incontro con altre donne autorevoli, ha potuto e saputo riparare, Lina ha trovato continuità e senso con la scelta che sua madre aveva fatto per lei da ragazza.

Nelle due storie c’è un continuum tra la relazione con la propria madre e come entrambe sono riuscite a declinare questo rapporto nel corso della loro vita.

Anche per questo lo scritto mi ha coinvolto. Rintraccio nell’esperienza di Franca alcune similitudini a quello che è stato il mio percorso e questo passaggio mi aiuta a riflettere sulla mia esperienza: anch’io mi sono allontanata da mia madre, senza conflitti ma senza condividere con lei le mie scelte.

Mi ritrovo nell’oggi ad interrogarmi sulla peculiarità della relazione con lei e constato come questa mi rafforzi ora che, attraverso il pensiero della differenza, riesco a collocarla in un continuum genealogico che le restituisce potenza e valore. Questa consapevolezza mi fa da guida. Così ho potuto tornare indietro nel tentativo di comprendere alcune zone d’ombra della nostra relazione.

Mia madre è cresciuta negli anni della seconda guerra. Scolara brillante, è stata orientata a proseguire gli studi e sua madre ha acconsentito ad affidarla a un istituto religioso molto distante da casa. L’incertezza degli eventi legata all’incombere della guerra unita al sentimento di nostalgia per gli affetti lontani hanno fatto sì che rinunciasse, dopo alcuni anni, a completare la formazione scolastica. Mi chiedo quanto la sua rinuncia sia stata determinata dal percepire una lontananza anche simbolica dal suo contesto di appartenenza, per lei allora difficile da sostenere. Ha ripercorso quindi la traiettoria di una vita già percorsa da altre, da sua madre, dalla sue sorelle. È rimasta a continuare il lavoro dei genitori e si è sposata.

Io invece ho potuto andare altrove. Nella relazione con mia madre quando ho deciso di andarmene, non ci sono stati conflitti ma neppure dialogo, così che non ho mai saputo cosa lei condividesse o rifiutasse delle mie scelte. Da adulta ho visto la sua difficoltà a riconoscere valore al mio lavoro di studio e di scrittura.

Dopo gli studi ho scelto un lavoro nel sociale. In questo ambito la possibilità di sostenere altre madri colloca il mio lavoro nell’istituzione in una prospettiva di senso. Prendo in prestito le parole di Letizia Bianchi che collegandosi alla sua esperienza infantile di affidamento, ripercorsa a sua volta da adulta, dice: «Il sapere che mi viene da queste esperienze ha fortemente orientato il modo in cui in seguito me ne sono occupata da un punto di vista professionale e di ricerca… Questo interesse – che mi pare di avere sempre avuto – di recente ho capito meglio dove mi ha portato e da dove mi viene […]».1

Così per me Il desiderio di aiutare le madri e i loro figli e figlie ha sicuramente orientato il mio fare professionale e ha origine nella mia storia. Sono madre a mia volta e a mia volta sono figlia.

Tuttavia mi sono chiesta quanto della storia di mia madre e della sua rinuncia mi appartenga. Nel mio percorso mi sono soffermata a lungo, anche attraverso un lavoro analitico, a voler comprendere perché fatico a volte a riconoscermi possibilità e valore e a liberarmi da vissuti di passività che mi indeboliscono.

Ma poiché nella vita le relazioni femminili mi hanno sempre sostenuto e accompagnato, fino a condurmi verso luoghi dove la pratica politica delle donne ha costruito autorità e libertà femminile, sono riuscita a ritrovare forza, e in più ho re-imparato ad amare mia madre e a bonificare dentro di me la nostra storia.

Mi rende felice e ricca riuscire a sentire la forza di questo legame che con il suo amore a lungo mi ha nutrita, mi ha permesso di crescere e anche di andare lontano. Così vado avanti. Nelle donne che sono state protagoniste del femminismo e che ancora sono testimoni in carne e ossa, pensiero e parola, del valore della differenza femminile, ho trovato autorità e genealogia.

Mi accompagna la consapevolezza che: «nell’ombra del materno c’è di tutto amore, odio, fiducia, sfiducia, elementi differenti che devono essere tenuti assieme. Ora mi chiedo se questo filo di fiducia guadagnato di fatto esistenzialmente possa essere portato a livello politico». Il quesito di Laura Colombo a conclusione del suo scritto La passione di esserci2 apre ad una nuova possibilità: rinsaldarsi al legame materno, per ritrovarne la forza simbolica accettandone le sue parti oscure, può consentire di andare oltre, più avanti nella ricerca di un nuovo modo di essere nel mondo, che porti con sé un guadagno di libertà per sé e per tutte le donne.

(www.libreriadelledonne.it, 1 dicembre 2016)


A cura della Comunità di Storia vivente*

L’Associazione delle Vicine di casa di Mestre ha dato alla luce un prezioso libretto dal titolo “La pratica della Storia vivente”, disponibile anche presso la Libreria delle donne di Milano; si tratta degli Atti dell’incontro del 26 settembre 2014 al Centro Culturale Candiani di Mestre per discutere il numero 95 (2012) della rivista DWF in aperto confronto con altre modalità di scrittura della storia.

Perché prezioso?

Prezioso è il racconto amoroso, preciso e ragionato di Alessandra De Perini della storia della  Comunità, nata negli anni Ottanta, mostrandone i passaggi di svolta e le invenzioni. Prezioso è lo scambio con Tiziana Pleblani, della Società italiana delle Storiche, autrice di due libri importanti “Il genere”dei libri (Franco Angeli, 2001) e Storia di Venezia, città delle donne, (Marsilio, 2008), perché ha fatto una lettura attenta e critica delle nostre proposte mettendole a confronto con la sua esperienza e altre recenti modalità di fare storia;  ci ha dato così l’occasione di proseguire nella nostra ricerca e di chiarirne le caratteristiche. La Comunità è nata dall’idea di Marirì Martinengo di portare alla luce la storia vivente nascosta in ciascuna/o di noi, concretizzatasi con la scrittura della storia della nonna, La voce del silenzio, Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta” (Ecig, 2005), nonna che la famiglia borghese aveva sepolto in un istituto e cancellata dalla memoria familiare. Questa invenzione, come ha detto la storica María Milagros Rivera Garretas, rappresenta il possibile inizio di un cambiamento per la storiografia europea. Una nuova pratica ha preso il via, il cui fulcro è l’indagine di un nodo irrisolto, di chi si occupa di storia a vario titolo, che attraverso l’ascolto e il dialogo attento con le altre della Comunità, porta a una scrittura femminile della storia. Potrebbero delinearsi nuove categorie interpretative per leggere la vita di donne e uomini in diversi periodi. Un’esigenza che ci sembra risuonare già nelle riflessioni di Simone Weil in Oppressione e Libertà (Orthotes, 2015): infatti una narrazione soggettiva, vera agente storica, ci orienta e ci aiuta a inventare nuove istituzioni, perché quelle esistenti non corrispondono ai bisogni e alle necessità dell’animo umano e schiacciano i soggetti. Nuove istituzioni ispirate da verità, bellezza, giustizia e amore, invece che dai rapporti di forza e di potere.  Il libretto restituisce ciò che è stato un intenso scambio di idee sulle nuove modalità di narrazione storica, sulla memoria, sull’autocoscienza e le pratiche originarie del femminismo tra donne di differenti collocazioni e linguaggi, donne che nel dibattito sono intervenute a partire dalle loro esperienze di storiche di professione, insegnanti, filosofe, impiegate, bibliotecarie, funzionarie del Comune, appassionate di storia. Gli Atti rendono conto del ricco contradditorio e di alcune obiezioni. Tiziana Plebani ha riscontrato che un eccesso di narrazioni soggettive produce un calo di attenzione; troppa emotività rischia di consegnarci all’indifferenza, come sta accadendo per la Shoah; la nostra metodologia può apparire poco scientifica poiché non basta riconoscere autorità ed essere in relazione di scambio con Milagros Rivera per fare Comunità scientifica; ci sono ancora poche narrazioni che hanno fatto proprio il metodo della storia vivente. Nadia Lucchesi ha rilevato che a lei “la storia ha insegnato a stare in contatto con la realtà, non dimenticare i rapporti di forza”. A queste osservazioni critiche fa seguito un testo a testimonianza della continuità dello scambio. Apprezzamenti nel corso del dibattito sono venuti da Grazia Sterlocchi de La settima stanza, profonda conoscitrice della filosofa María Zambrano, a cui abbiamo fatto riferimento nel momento sorgivo della Comunità, e da Adriana Sbrogiò di Identità e Differenza che considera valido riprendere elementi dell’autocoscienza per questa pratica storica. Le curatrici hanno dato spazio anche a tre racconti di Desirée Urizio, Marina Canal e Piera Moretti. Il racconto di Desirèe presenta interessanti elementi di storia vivente reintepretando con la lente della genealogia femminile l’esodo istriano della sua famiglia, mentre quelli di Marina Canal e Piera Moretti, pur traendo spunto da nodi irrisolti approdano al genere della storia personale. Inoltre il volumetto è prezioso perché mostra una pratica politica, quella di restituzione di valore alle imprese delle altre che le Vicine perseguono da anni attraverso un lavoro di elaborazione e di divulgazione. Colpisce la cura che hanno posto nella preparazione dell’incontro: si tratta di quella materia prima necessaria ma spesso invisibile di cui è fatta la politica delle donne e che continua nel far rimbalzare il senso oltre l’accadimento per non lasciarlo cadere nella dimenticanza. Un’alchimia che nasce nel lavorio delle relazioni di vicinanza e di lontananza, che si tramuta con la scrittura in riconoscimento simbolico. È così avvenuta una doppia restituzione: della pratica della Comunità e di quella delle Vicine di casa, una pratica che, come loro stesse la definiscono, fa umana la città. La città che, citando Chiara Zamboni in Abitare la vita, abitare la storia (Marietti 1820, 2015, pag. 31), “è un ponte verso altro”.

(www.libreriadelledonne.it, 1 aprile 2016)

*Laura Minguzzi, Luciana Tavernini, Mariri Martinengo, Marina Santini, Laura Modini, Giovanna Palmeto