di Barbara Bertoncin


Cristina Gramolini, insegnante di Storia e Filosofia, ha fatto coming out nel 1989 e l’anno seguente è diventata attivista del movimento lesbico. È stata tra le promotrici delle tre “Settimane Lesbiche Italiane” nel 1991, 1996 e 1998. Nel 1996 ha partecipato alla fondazione dell’associazione nazionale Arcilesbica e ne è stata la presidente dal 2002 al 2005, e di nuovo dal 2017 a oggi. Il libro di cui si parla nell’intervista è Noi, le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo (AA.VV.), Il dito e la luna, 2021.


Puoi raccontarci qual è stato il tuo tragitto?

Sono nata nel 1963 in una città di provincia e l’omosessualità è stata sempre la mia condizione. Ovviamente non l’ho subito accettata, mi ha anche un po’ spaventata quando ero adolescente. Prima di grandi innamoramenti o fantasie romantiche, comunque, non ero stata una ragazzina aderente al modello femminile. Poi sono arrivate le prime cotte e lì mi sono un po’ preoccupata, sinceramente. Nel senso che mi sono resa conto che avrei dovuto affrontare una difficoltà grande. Essendo stata sempre un po’ anticonformista, il fatto di essere diversa era qualcosa che potevo sopportare tranquillamente. Ma quella cosa lì, mi sono chiesta: la reggerò? Insomma, mi ha fatto paura. All’inizio ho pensato: chissà, magari è temporaneo, però mi succedeva sempre! A un certo punto me lo sono detta. In effetti, nel movimento noi dicevamo che prima di tutto il coming out bisogna farlo con se stesse. Questa riflessione però è venuta dopo. In quel momento ero sola. Quindi mi sono detta: vabbè, è così, cercherò di proteggermi. Perché mi sentivo molto minacciata.

Non so quanto fosse reale quella percezione, o quanto ingigantita. Avevo paura di cosa potesse succedere in casa, mi sembrava una cosa che non sarebbe mai stata dicibile. Sto parlando dell’inizio degli anni Ottanta. Era una cosa troppo mia, non sapevo con chi affrontarla. Quindi ho deciso che l’avrei vissuta con molta discrezione. Però non ho mai fatto finta di essere altro. All’epoca ero anche un’attivista nel movimento degli studenti. Mi è sempre interessato fare un po’ di agitazione. È stato così che ho incontrato il movimento delle lesbiche, che a quel tempo era separatista. È accaduto in modo casuale: sul foglio del “Paese delle Donne” c’era un invito a una vacanza lesbica del Cli, il Collegamento delle lesbiche italiane. Così io e la mia compagna ci siamo andate. Per me era una cosa completamente inaspettata, perché quelle donne non erano facili da trovare. Io leggevo i giornali dei movimenti, della sinistra, andavo alle manifestazioni, ma non le incontravo mai! Ecco, in quella vacanza ho visto che loro esistevano e ho subito capito che mi interessava quello che facevano: in sostanza mettevano in atto forme di visibilità prudente, comunque coraggiosa, ma un po’ protetta. A quel punto ho pensato: beh, questo lo posso reggere. Rimaneva il fatto che conducevo una doppia vita: quando andavo a quei convegni, a quegli appuntamenti, ero dichiarata, però mi guardavo sempre un po’ le spalle rispetto al controllo delle informazioni su di me nella vita di tutti i giorni.

Nel frattempo ero diventata un’insegnante, mia madre mi diceva: «Se lo scoprono, cosa ti succederà?».

Ai tuoi genitori quando l’hai detto?

A un certo punto gliel’ho detto, purtroppo in un momento di rabbia. Comunque ero già grande, avevo ventisette anni.

Loro lo sapevano, secondo te?

Facevano finta di non saperlo, però non sono trasecolati. Non hanno detto: «Ah, certo, è la scoperta dell’acqua calda!», però non si sono neanche stupefatti. Purtroppo, come dicevo, è avvenuto in un contesto di rabbia, non è stata una cosa serena. Comunque dopo ho iniziato a ricevere questa raccomandazione costante di stare attenta. Insomma, non è stato motivo di gioia familiare, ma neanche chissà quale catastrofe, come fantasticavo prima.

Nel 1994 il Parlamento europeo ha fatto una risoluzione che sollecitava gli Stati membri, quindi anche l’Italia, a promulgare delle leggi per equiparare la posizione dei cittadini omosessuali. Era una notizia da telegiornale in prima serata, che ha provocato una grande discussione, un grande turbamento anche sui giornali, finalmente.

Questo avvenimento ha fatto decollare il movimento gay, nel senso che sono cominciati i pride, quelli con i cortei. Prima c’erano, ma erano celebrazioni che avvenivano in circuiti di cui sapevi solo se facevi parte del giro. A Milano si era fatto qualcosa già nel ’92, avevano inscenato dei matrimoni in piazza della Scala, officiati da Paolo Hutter che era consigliere comunale. Però normalmente non facevano notizia nazionale. Invece quel provvedimento dell’Ue ha proprio dato una spinta, non tanto alle lesbiche femministe ma all’associazionismo gay, per uscire fuori, proprio in mezzo alla strada. Ecco, ricordo di aver provato un’attrazione fortissima per una visibilità piena: sentivo che era quello che desideravo. Non volevo più vivere nell’ansia della doppia vita: basta!

Mi sono quindi allontanata dal movimento delle lesbiche femministe perché mi sono come ubriacata della piazza, del corteo, del coming out, dell’andare ai convegni presentandomi per quello che ero. Devo dire che non sono tanto coraggiosa, però, pur continuando ad aver paura, sentivo il forte bisogno di vivere una vita fuori dalla clandestinità. In questo senso dico sempre che ho un debito con tante realtà e tante persone e certamente con il movimento gay. La spinta alla visibilità l’ho presa da lì.

Dopodiché è venuto il momento in cui l’ho detto a scuola. Certo, tutte le volte con timore, perché non sai mai… Nel corso di una discussione sui provvedimenti dell’Unione europea mi è stato chiesto come la vedessi e ho risposto: «Penso questo e questo, perché mi riguarda». Mi sarebbe sembrato ambiguo e ipocrita non espormi. Poi, ripeto, non ne potevo più e quindi l’ho detto. Però se prima avevo avuto paura in famiglia, dopo ho avuto paura a scuola. Ho pensato: «Mi chiameranno? Ci sarà qualche famiglia che…». Perché non era come adesso. Comunque non è mai successo niente. I colleghi? Per lungo tempo, ma in fondo anche adesso, fanno finta di niente, perché non sanno come trattare la materia. È capitato che facessero delle domande sulla mia situazione familiare perché non sapevano e dopo erano pentiti di avere chiesto.

Devo dire che mi considero fortunata. Non a tutte è andata bene. Se penso al mio percorso, so di aver avuto tanta paura, ma poi non mi è mai capitato di essere veramente in pericolo. Altre persone, donne e uomini, hanno dovuto affrontare delle ostilità. Nel mio caso, una volta che l’hanno saputo tutti, giovani e vecchi, parenti vicini e lontani, è passata anche la paura. Chi non c’è passato non lo capisce: è come se qualcuno potesse minacciarti, scoprirti o colpevolizzarti in qualunque momento. È stata una brutta vita. È durata fino a ventisette, ventott’anni e poi per fortuna è finita!

Da allora raccomando il coming out a tutti. È meglio affrontare il problema invece che vivere con questo fantasma. Va anche detto che rispetto ai miei racconti antidiluviani nel frattempo è cambiato tutto.

Nel libro Noi, le lesbiche, ripercorrendo il vostro percorso, individuate una data cruciale, quella delle unioni civili, dopo la quale alcuni nodi cominciano a venire al pettine…

Chiaramente dentro la comunità Lgbt c’era già chi voleva metter su famiglia con i figli, chi andava a fare l’inseminazione artificiale, oppure c’era chi voleva fare la transizione e chi l’aveva fatta. C’è sempre stata tutta una gamma di tematiche. Tuttavia per molto tempo la questione di punta era il riconoscimento delle coppie, quindi le altre cose rimanevano un po’ in secondo piano.

Anch’io, rispetto a cose sulle quali avevo dei dubbi, non stavo lì a dire: «Su questo vorrei dei chiarimenti», perché – appunto – la battaglia era concentrata su un altro obiettivo. Quello che è uscito fuori dopo le unioni civili, quindi, non è piovuto dal cielo. Semplicemente, una volta raggiunto quel traguardo venivano avanti le altre questioni. Solo che non c’è stato il tempo di discuterne; è stato dato tutto per scontato, invece c’erano cose su cui non c’era accordo. E poi, di punto in bianco, è cambiato il clima. Anche prima delle unioni civili c’erano state delle divergenze all’interno del movimento, ad esempio tra chi voleva il matrimonio, chi l’unione civile e chi non voleva niente perché era omologante. C’era addirittura un’associazione gay di destra, berlusconiana. Poi c’erano gli omosessuali credenti… insomma, c’era un panorama frastagliato, però si conviveva, nessuno è stato mai cacciato, stigmatizzato o allontanato con infamia, ostracizzato perché portatore di istanze particolari. E ti assicuro che ce n’erano di tutti i gusti…

Invece sulla questione di come avere figli e di come determinare la propria identità di genere è subentrata improvvisamente l’intransigenza. E io, che nel 2016 avevo già una certa età e che nel movimento avevo passato tutta la mia vita adulta, nel giro di un anno mi sono ritrovata delegittimata e infine estromessa.

Pensavo che davanti a disaccordi avrebbero potuto mandarci a quel paese, ma non essere addirittura cacciate.

Puoi raccontare cos’è successo?

Noi avevamo già manifestato alle Famiglie Arcobaleno che dentro Arcilesbica c’erano delle forti perplessità, che a un certo punto avevamo messo nero su bianco. Le famiglie Arcobaleno sono nate con l’obiettivo di tutelare le coppie dello stesso sesso con figli avuti da precedenti matrimoni, o avuti altrimenti. In quella fase (2012) ero anche stata invitata a un loro appuntamento per discutere proprio di questo. In prima battuta il mio pensiero era: se la Gpa [gestazione per altri, Ndr] è una cosa fatta gratuitamente, va bene, perché se una donna lo fa senza ritorno economico vuol dire che ti vuole bene, e quindi chi sono io per dire: no, tu non devi? Siamo andate avanti per alcuni anni cercando di stare su questo crinale. Intanto però si era iniziato a parlare di rimborsi. Ricordo anche chi diceva: «Beh, se vengono da noi dei padri che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri all’estero, noi comunque li accogliamo».

Già nelle ultime manifestazioni a favore delle unioni civili c’era stata una polemica sulla stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner), perché Renzi l’aveva tolta dalla proposta di legge per evitare il riconoscimento automatico dei figli nati da Gpa all’estero, e questo aveva suscitato malumori.

Ecco, ricordo l’ultima manifestazione prima dell’approvazione della legge con tutti gli interventi sul palco che esplicitamente rivendicavano la gestazione per altri. Devo dire che la cosa mi aveva turbato per la leggerezza di certi approcci. La madrina della manifestazione, dal palco, si era detta disposta a farla lei la gestazione per altri.

Insomma, ero lì di sotto ed ero rimasta piuttosto imbarazzata. In Arcilesbica facciamo periodicamente dei congressi. In uno di questi la sociologa Daniela Danna ci ha messo in guardia su come anche la Gpa gratuita in realtà tale non fosse, producendo documenti sui rimborsi erogati alla “gestante per altri” per guadagni non conseguiti, e dimostrando che sono una forma di pagamento. A quel punto abbiamo detto: «No, allora niente». Cioè, bisogna pensare ad altre soluzioni. Lo abbiamo scritto, lo abbiamo dichiarato e lì sono cominciati i guai. Questo infatti non è stato accettato. Ci hanno accusato di avere una posizione omofobica. L’argomento era: «Voi accettate le madri lesbiche e non accettate i padri gay». Noi abbiamo risposto: «Scusate, ma la donna che va a fare l’inseminazione artificiale, certo, prende il seme dal donatore, ma il figlio lo fa lei! Non mette nessuno a fare lavoro riproduttivo». Un falso paradigma egualitario ha fatto sì che noi sembrassimo discriminatorie: per noi donne i figli sì, per voi uomini no. Ci hanno accusato di odiare gli uomini.

La produzione del seme per l’uomo e l’estrazione degli ovociti e poi la gravidanza e il parto per la donna sono due procedure radicalmente diverse.

Tra l’altro l’uso di due donne, della donatrice e della portatrice, è un modo per tutelarsi da un ripensamento, perché, attenzione, se l’ovocita è il mio, posso anche firmare un contratto, ma se ci ripenso, essendo il genitore genetico, non c’è contratto che tenga. Se invece la portatrice porta un ovocita non suo non c’è legame genetico. Io a un certo punto mi sono proprio scandalizzata: più apprendevo come avveniva realmente la pratica più la trovavo sbagliata. Non rispetta la salute e l’integrità della gestante, va solo a vantaggio dei committenti.

Nel 2015 c’è stato un appello da parte di un gruppo di femministe di Roma intitolato «Quale libertà» e io ho l’ho firmato a titolo personale. Pensare che un soggetto con reddito forte potesse ottenere un servizio riproduttivo retribuito o rimborsato, regolato da un contratto che monetizza i rischi per la salute, mi evocava sempre più una pratica coloniale. Per non parlare della questione dell’assistenza psicologica alla gestante, che alcuni contratti raccomandano, altri impongono. Una specie di affiancamento a garanzia che il tutto vada a buon fine, che si presta a varie riflessioni.

Devo dire che tutto questo non me lo aspettavo. Il nostro era un movimento libertario, critico della sessualità, critico della propaganda, demistificante… e all’improvviso ci ritrovavamo con il raccontino della famigliola felice. Mi è stato detto: se uno ha i soldi, e invece di comprare un appartamento preferisce portare a casa un neonato grazie a una donna disponibile, qual è il problema?

Ecco, noi siamo passati dall’essere un movimento di liberazione a questa cosa qui.

E poi c’è la questione del senso del limite. Voglio dire, qui non parliamo di persone sterili. Basterebbe “collaborare”, per così dire. Un tempo esisteva l’autoinseminazione. La casa editrice Il Dito e la Luna ha pubblicato un libello, in traduzione dall’inglese, che si intitola appunto Autoinseminazione, di Lisa Saffron. Grazie a questo libro, c’è della gente che ha fatto nascere dei bambini. Eravamo una comunità. In una comunità ci sono delle amicizie. L’amicizia non è un amore, ma è una relazione e quindi si faceva questa cosa, che non erano rapporti sessuali occasionali, era proprio l’autoinseminazione. La donna rimaneva incinta e il bambino aveva due genitori. Costo zero, senza manipolazione medica, né contratti. Qui a Milano conosco più di un caso di bambini nati così, che hanno avuto la possibilità di crescere stando un po’ con la madre lesbica e un po’ col padre gay. Per dire che non è vero che non ci siano altre strade. In fondo, se una donna vuole proprio dare un figlio a un amico, oggi lo può fare: esiste il parto anonimo; lui è il padre genetico e in quanto tale può assumere la responsabilità genitoriale. Mi dispiace dirlo, ma quando si parla di Gpa io vedo un racconto falso di solidarietà mentre si parla di commercio.

Ora sono troppo vecchia, ma ho considerato un percorso accettabile quello di mettere al mondo un bambino o una bambina con un amico, poi non l’ho fatto. Certo, non c’è niente di facile, perché puoi non andare d’accordo, però è una dimensione umana, di rapporto, di responsabilità. Si rischia in un rapporto d’amore, si rischia in un rapporto di amicizia, ma almeno non si compra.

Un discorso critico non riguarda solo gli uomini, perché anche le donne lesbiche, temendo che, specularmente, l’amico donatore potesse rifarsi avanti, hanno immaginato di avere una figliolanza senza un padre che potrebbe improvvisamente diventare un nemico. Poi hanno cominciato anche loro a concepire l’idea di un figlio di due donne. Allora, per carità, si sa che la relazione di cura non passa tramite il Dna, però se convivo con una donna e vogliamo fare questa esperienza, una delle due la fa nel corpo, l’altra la assume come piena responsabilità, però resta una differenza radicale tra le due.

Io non so che farci, ma non riesco a concepire un certificato che dice che qualcuno è nato da due persone dello stesso sesso. Nessuno nasce da due persone dello stesso sesso. Come fai a scriverlo? Una donna è madre, l’altra è madre adottiva. Ora invece si vuole il riconoscimento alla nascita. A me sembrerebbe più logica l’adozione: se il partner del padre vuole assumere la responsabilità genitoriale, sarà genitore adottivo.

Comunque sono tutte discussioni dove si può essere più moderati, o più utopisti, più conservatori, però mi sembrano riflessioni legittime. Invece è diventato tutto tabù: se solo dici che, secondo te, il secondo genitore deve adottare, sembra che tu voglia nuocere ai bambini.

Se dici che due madri e due padri rappresentano condizioni diverse, sei omofobica. Insomma, tutto questo ha creato dei dissapori immensi. Dopodiché è uscita fuori la questione dell’identità di genere e lì il conflitto è deflagrato.

Com’è avvenuta la spaccatura nel movimento?

Il conflitto è divampato dentro Arcilesbica, che è una rete di tanti circoli locali. Quando siamo andate a discutere di come riconfigurare la richiesta dei diritti ci siamo spaccate. Una parte era più allineata con la piattaforma pride; l’altra parte, dove mi sono collocata anch’io, era per mettere dei paletti. Questa discussione, che ci ha dilaniate, è stata seguita dall’esterno da tutto il movimento che faceva il tifo per la parte più affine. Alla fine ha prevalso, di misura, la parte che ha assunto delle posizioni, diciamo, femministe. Il movimento, che aveva scommesso sulla vittoria dell’altra parte, è ricorso a delle contromisure. Il nostro congresso si è tenuto a dicembre del 2017, a maggio del 2018 ci hanno mandato via dal Cassero, la sede Lgbt di Bologna.

Già prima del nostro congresso, mentre divampava la polemica interna, il circolo Mario Mieli di Roma aveva chiesto il nostro allontanamento dal pride. Abbiamo fatto piuttosto casino: ho chiamato il Comune, l’assessore alle pari opportunità di Bologna, ma non c’è stato niente da fare. Non hanno trovato neanche un’altra soluzione. Il Cassero è stato concesso all’inizio degli anni Ottanta e quindi c’è un rapporto consolidato, per cui l’amministrazione di sinistra ha creduto alla versione secondo la quale noi eravamo un piccolo gruppo ideologizzato. Sergio Lo Giudice ha dichiarato a La Repubblica che l’involuzione ideologica di Arcilesbica non era più compatibile con quella sede. Però quella sede era stata compatibile con i gay di destra quando c’era Berlusconi!

Quello che francamente mi ha ulteriormente infastidito è che hanno preteso di spiegare a noi che cos’è femminista, e cioè l’autodeterminazione della donna che vuole fare la Gpa per loro. Insomma, alla fine noi eravamo dipinte come bigotte che volevano impedire alle donne l’uso del loro corpo. Siamo finite su tutti i giornali di Bologna. È stata una cosa pesante da reggere per tutte le parti contendenti.

Quando i gay sono, per così dire, saliti in cattedra, diverse donne li hanno confermati. Anche perché non confermarli voleva dire doversene andare, e molte non se la sono sentita. Io però non ce l’ho fatta a far finta di non capire quello che stavano dicendo. Per la mia storia politica e per l’idea che ho della libertà ho dovuto andarmene. Pensa che una mia amica, Lucia, che non ha mai voluto firmare nulla per discrezione, che diceva sempre: «Firmiamo come associazione», beh, da quando c’è questa polemica vuole firmare tutto con nome e cognome, perché dice: «Voglio che un domani si sappia da che parte stavo».

Capisci? Questo movimento per un sacco di anni si è presentato come di sinistra, perfino di estrema sinistra, anticapitalista, femminista e poi guarda adesso…

È venuta al pettine anche una gerarchia tra gay e lesbiche. Un capitolo del vostro libro è emblematicamente intitolato: “Le lesbiche non sono le mogli dei gay”.

Ci sono delle partecipazioni femminili alle imprese maschili, miste, che sono partecipazioni collaborative. Accade anche nei partiti, cioè le donne danno una mano, magari sono anche brave, più brave, ma fanno quella cosa lì. Noi, da che siamo nate ci siamo chiamate “Arcilesbica” perché ci consideravamo portatrici di una alterità rispetto ai gay, e anche di una indisponibilità. Cioè non eravamo sempre pronte a seguire: ci riservavamo di sostenere o meno le iniziative di volta in volta.

Ci sono donne che sono rimaste nell’Arcigay perché a loro non piaceva la separazione delle donne. Quelle più femministe volevano invece un’organizzazione propria. Finché siamo andati d’accordo o in presenza di pochi dissidi, ha funzionato, quando è scoppiato lo scontro tra i fratelli e le sorelle, alcune donne hanno scelto i fratelli. Quindi, anche se abbiamo vinto il nostro congresso, siamo rimaste solo noi, perché quelle che lo hanno perso sono andate via.

Oggi le piazze sono piene di donne. Ci sono anche molte giovani lesbiche che ci disprezzano perché ci credono discriminatorie. Il fatto è che in questo frangente la differenza tra gli interessi maschili e quelli femminili è venuta fuori, per chi l’ha voluta vedere.

Anche nelle ultime vicende sulla trascrizione dei certificati di nascita dei figli è riemersa l’idea che non sia rilevante la differenza tra i sessi, che le coppie dello stesso sesso, a prescindere da quale, sarebbero equivalenti nella genitorialità e quindi debbano avere pari diritti. Ma il paradigma egualitario nell’attività generativa, riproduttiva, nella funzione materna o paterna, non funziona. Non a caso nella Gpa la gestante non deve allattare, per evitare che si rafforzi l’attaccamento che già esiste tra il neonato e la donna che l’ha partorito. In nome di un’uguaglianza intesa come livellamento, non si vuole distinguere tra ruoli differenti di madre e padre. Molte giovani lesbiche pensano che noi siamo discriminatorie perché diciamo questo.

Oggi il movimento si definisce transfemminista…

È un termine ombrello, ci stanno dentro anche gli etero. Per me è un discorso che viene dai centri sociali. Transfemminismo ha questo prefisso, “trans”, che non vuol dire transessuale, bensì che travalica le norme di genere. Chiunque travalica quelle norme è già trans, capisci?

Hanno creato questa cornice in modo da avere dei movimenti di ribellione in grado di accogliere il numero più alto di persone. Io ci vedo anche la volontà di ricomposizione di un blocco antagonista. L’altra caratteristica tipica dei centri sociali è l’idealizzazione della marginalità in chiave antisistema. Infatti alle transfemministe non interessa tanto la coppietta coi bambini, interessa di più la sex worker o la trans perché quella è una figura antisistema. Nell’orizzonte psicologico e politico degli antagonisti si deve sempre tirar fuori qualcosa di eversivo, e quindi hanno creato queste icone. Poco gliene importa se la realtà fuori dall’icona è lo sfruttamento della prostituzione. Loro dicono: «sex work is work» [‘il lavoro sessuale è lavoro’]. A me sembra che vogliano più che altro scioccare i benpensanti.

Sono piuttosto delusa da questo ambiente, che pure è stata la mia parte politica. Io sono sempre stata di sinistra. I centri sociali non erano il luogo del mio impegno, ma facevano parte della grande famiglia, e adesso mettono in atto delle pratiche che non mi piacciono affatto.

Sono cresciuta pensando che la sinistra fosse il luogo del pensiero illuminato, adesso ci ritroviamo che non si può né pensare né parlare. La sinistra moderata ha abdicato a tutte le cose socialiste, quindi, ripeto, sono piuttosto delusa, però questo non mi ha in nessun momento portato a guardare a destra o alla Chiesa. Sono una donna di sinistra senza rappresentanza, senza un luogo. È stato anche per questo che con altre, per non essere messe in un angolo, tacitate, abbiamo iniziato a cercare compagne e compagni di strada che, in base a principi progressisti, di sinistra, libertari, rifiutassero certi propositi che per noi sono falsi diritti. Rimaniamo una minoranza, pure abbastanza negletta, però ora una rete c’è. Va anche detto che quelli che invece prima erano marginali, nel frattempo sono diventati mainstream e tengono in pugno anche le forze politiche progressiste. Il pensiero critico oggi è minoritario. Io non ho paura di essere minoranza, sono rammaricata per il fatto che le donne che osano sollevare critiche oggi sono censurate in tutti gli ambienti Lgbt. Anche uomini importanti per il movimento sono stati sacrificati e messi da parte per le loro posizioni. A volte sento che potremmo in qualche modo essere in pericolo; voglio dire, se ci presentassimo in certi luoghi, beh, non so come andrebbe a finire. Esiste un video di una recente manifestazione a Bologna dove c’è una performance con degli attori mascherati che srotolano dei sacchi neri dove ci sono delle facce; c’è un secchio di vernice viola, loro ci mettono i piedi dentro e poi calpestano le facce dei “potenti del mondo”. Ebbene c’è la faccia di Erdoğan, di Salvini, di Meloni… e c’è pure la mia! Capisci cosa voglio dire? C’è un livello di tensione che può diventare pericolosa.

Come ti spieghi questa violenza, queste pratiche cosiddette di “deplatforming” con cui si mettono delle persone al bando, le si zittisce?

Purtroppo sono pratiche che vengono dall’estrema sinistra. I fascisti non devono parlare, punto. «Fuori i fascisti dall’università»: quante volte l’abbiamo detto? Il problema è che se tutti quelli che non la pensano come te diventano fascisti… Questa modalità è farina del nostro sacco, nostro in quanto sinistra. Sicuramente non è farina del sacco Lgbt, perché soprattutto i gay hanno sempre usato l’ironia, la parodia, come arma polemica. Quando frequentavo il Cassero i primi anni, c’era un gay che diceva: «Ah, quella lì mi ha trattato male, allora le volevo dare… una sventagliata!», cioè un colpo con il ventaglio. Questo era il modo di fare invettiva, quindi figurati.

Questa enfasi sulla famiglia è una novità nel movimento.

È così, il movimento è cambiato. D’altra parte cambiano i climi culturali; adesso in effetti c’è molto familismo. Quando c’è stata l’ondata della contestazione si è messo in discussione tutto, poi c’è stato un refluire, un rientrare un po’ nell’alveo, e anche gli omosessuali hanno voluto trovare una dimensione di normalità. Si può ben capire.

Come ricordavo prima, quando ero molto giovane, il passaggio dall’essere clandestina al non esserlo più ci ha fatto scoprire il piacere di essere finalmente normali. Passati i faticosi anni del coming out, dell’“oddio, cosa succederà?”, visto che alla fine non succedeva niente, si cominciava a uscire con la propria compagna, ad andare a casa dei genitori. Per un po’ ci siamo godute la tranquillità. Lo stare sempre contro, sempre fuori, è anche sfibrante. Nell’attuale contesto, credo che una parte della comunità abbia pensato: anche se sono omosessuale non vuol dire che non possa dare un nipotino ai miei genitori, in qualche modo si può dire che ha voluto “tutta la normalità”.

Guarda che prima era proprio brutto, nel passato molti rapporti non stavano in piedi perché la gente combatteva intimamente contro se stessa, quindi nascevano degli amori, delle relazioni che però magari non reggevano perché uno dei due fuggiva. Abbiamo molto sofferto, perciò se qualcuno oggi sogna una normale famiglia felice, io non ho niente da dire. Mi oppongo a che si aprano varchi ad abusi, violenze, sfruttamenti. Mi va bene che ognuno scelga e cerchi la felicità dove vuole, purché non si legittimino rapporti sociali ingiusti o nocivi.

Non ho fatto tutta questa strada per arrivare qui! Cioè, quando vedo le foto di donne puerpere per altri, quelle di colore che costano di meno, oppure i cataloghi dove puoi scegliere la portatrice… io mi vergogno!

Mi dispiace che siamo arrivati qua. Forse semplicemente i movimenti, quando vincono, cambiano pelle. Mica è successo solo a noi. Certe volte penso anche alla storia del socialismo, al fatto che un movimento nel vincere manca la promessa. Però non è che per questo sono state battaglie sbagliate. Bisogna rimettersi in moto.

Io poi non ho soluzioni, ti sto raccontando quello che ho visto succedere. Forse se le persone transessuali accettassero di essere persone transessuali, se ognuno trovasse un suo posto nel mondo, senza prendere il posto di qualcun altro, se si accettassero le differenze, potremmo ritrovarci. Non so quando accadrà, però io spero che prima o poi sarà possibile mettersi attorno a un tavolo e discutere di come tutelare i diritti di tutte le persone senza che ne vada però dei diritti delle donne, che da sempre sono i soggetti sacrificabili.

Come spieghi questa adesione di tante giovani donne al transfemminismo? È una questione di generosità femminile?

Non credo. Da giovane, se mi avessi chiesto se preferivo occuparmi dei campesinos [contadini, Ndr] salvadoregni o delle donne, ti avrei risposto: dei campesinos!

Il fatto è che impegnarsi per migliorare la condizione delle donne vuol dire assumere la differenza come il punto da cui tu parti, e invece noi donne spesso da lì vogliamo sloggiare! Per questo io, qui, più che la generosità vedo un desiderio di fuga dalla differenza femminile.

Questa esplosione di un apparente desiderio di diventare uomini da parte di ragazze giovani fa molto pensare…

Sono d’accordo. Il fatto è che essere donna non è tanto conveniente. Io oggi mi sto dedicando a ricreare una rete, non solo come protezione per chi non può parlare, ma anche per parlare nonostante altri non vogliano. Una volta che immetti nel corpo sociale dei pensieri, questi faranno la loro strada, anche se si vorrebbe metterli a tacere. Il nostro obiettivo è di riaprire un canale di comunicazione con le sinistre per richiamarle a un ruolo più critico, perché poi spetterebbe a loro trovare una sintesi. Io sono portatrice di una differenza, sono lesbica e non voglio che nei cortei mi si dica che esistono le lesbiche col pene. Questo proprio no.

Nel documentario Human adult female, una delle intervistate, vigile del fuoco inglese, racconta di essere stata bannata da un sito di appuntamenti lesbici perché nelle tre righe di presentazione aveva segnalato la sua preferenza per «donne biologicamente femmine».

È questo il paradosso: per salvaguardare le possibilità dell’autodefinizione, in qualche modo io non posso più esistere. Perché lui si possa autodefinire donna, io non mi posso più definire tale. Ripeto, penso che sia anche compito della politica intervenire. Io non voglio scomparire, dopodiché non è solo compito mio trovare la sintesi.

Dopo aver vissuto un tempo in cui l’omosessualità era un grave handicap, ora mi trovo a vivere in un tempo in cui sono emerse delle contraddizioni che vanno affrontate con il massimo di intelligenza possibile. Ogni periodo ha un tema urgente. Ai tempi dell’università, con le mie amiche e compagne ci interrogavamo su quale potesse essere il nostro ruolo per incidere nella realtà. Io ho risposto impegnandomi a dare visibilità a questa condizione, mi sono esposta personalmente. Mi sembrava che di libri ce ne fossero tanti e di facce poche, così ho deciso di metterci la faccia. Oggi di nuovo si tratta di capire cosa ha senso fare e in qualche modo risolveremo anche la contraddizione del presente perché la strada intrapresa ha degli aspetti di totale assurdità: le lesbiche non accetteranno mai di fare sesso con uno che ha il pene, anche se si cerca di farle sentire in colpa. Ci sono in campo delle pretese che non hanno nessuna chance di avere corso. Forse possono riuscire a colpevolizzare una sedicenne dicendole che non è abbastanza accogliente e inclusiva, ma noi no.

Molti compagni e compagne non vogliono starci a sentire, ma non possono liquidarci definendo fasciste delle donne che hanno settant’anni e hanno passato la vita nell’Udi; così perdono di credibilità loro. Noi per un po’ siamo rimaste sotto schiaffo, perché è stato tutto molto doloroso, si sono rotte delle amicizie, poi però ci siamo riprese.


(Una Città n° 300/2024, 1° maggio 2024)

di Maria Chiara Franceschelli


I dissidenti in Russia non hanno vita facile, e la situazione sembra solo peggiorare. Il 22 marzo scorso, la Russia è stata vittima di un feroce attacco terroristico. L’attacco, durato in totale 18 minuti, ha causato 139 vittime. Nonostante la rivendicazione dell’attacco da parte dell’ISIS-Khorasan, il ramo dell’organizzazione terroristica attivo principalmente in Afghanistan e nel Caucaso, il presidente russo Vladimir Putin non ha esitato a strumentalizzare quanto accaduto alludendo a possibili responsabilità da parte ucraina. Per quanto riguarda la politica interna, conseguenza immediata dell’attentato è l’inasprimento del governo russo nei confronti delle questioni relative alla sicurezza.

Le leggi russe relative al terrorismo sono state a lungo un’arma efficace contro il dissenso. Infatti, la legge sul terrorismo varata nel 2006, così come quella sull’estremismo, è stata spesso strumentalizzata per sopprimere il dissenso e controllare il dibattito pubblico, lasciando poco spazio a istanze di opposizione.

Sono 3.738 le persone condannate ai sensi della legge contro il terrorismo nel periodo che va dal 2013 al 2023. Ma tanti sono anche i casi antecedenti a quella data. Tra questi c’è la storia di Ivan Astashin, attivista per i diritti umani che per anni si è battuto contro gli abusi in divisa e contro le condizioni disumane imposte nelle carceri russe. Nel 2009, Ivan lanciò una molotov contro una stazione dell’FSB, il servizio di sicurezza federale russo. Il gesto, più simbolico che realmente tattico, non causò vittime né feriti, né danni sensibili agli uffici: si limitò a rompere una finestra. Ciononostante, Ivan fu accusato di terrorismo e condannato a tredici anni di carcere. Anche in virtù della propria esperienza, Ivan si è impegnato nell’attivismo a tutela dei diritti umani, e a raccontare la tragica situazione delle carceri russe, in cui gli abusi in divisa sono all’ordine del giorno e i dirittihttps://www.rivistastudio.com/sheila-heti-intervista/ dei detenuti sono sistematicamente lesi.

Ivan Astashin è uno dei protagonisti di La Russia che si ribella. Repressione e opposizione nel Paese di Putin (Altreconomia) , libro scritto a quattro mani dalla scrivente e da Federico Varese [. Astashin è uno dei cinque oppositori del regime di Putin di cui abbiamo raccontato le vicende: i protagonisti del libro sono persone reali, che si sono raccontate in lunghe interviste ripetute a distanza di mesi, così da coprire un arco temporale vasto e sensibile ai cambiamenti che la Russia ha attraversato dal lancio dell’invasione su larga scala scala dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022. Ogni storia svela un aspetto specifico della società russa, e soprattutto di cosa vuol dire essere dissidenti nel Paese di Putin.

Apriamo il volume con la storia di Ljudmila, una blokadnica (dal russo blokada, “assedio”), vale a dire una sopravvissuta all’assedio di Leningrado (1941-1944). In risposta all’invasione dell’Ucraina, Ljudmila è scesa in strada a manifestare contro la guerra, ed è stata arrestata nonostante l’età avanzata. Ljudmila racconta degli scambi che ha avuto con i giovani soldati. Lei che la guerra l’ha vissuta davvero e ne ha sofferto gli orrori sulla propria pelle ha spiegato, con comprensione e umanità, come la retorica bellicista di Putin, fondata sulla mitizzazione della vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale, sia un dispositivo per giustificare altrettanti orrori, anziché per rendere omaggio agli eroi del passato.

La seconda storia del volume ci porta invece in periferia, nelle campagne moscovite, dove padre Ioann, un pope ortodosso, è stato arrestato per aver denunciato i crimini russi in Ucraina durante un’omelia a una platea di dodici persone. La storia di Ioann rivela come la Chiesa ortodossa russa sia un importante alleato politico del Cremlino, sposandone le politiche violente e imperialiste e diffondendo propaganda bellicista tra i fedeli. L’assurda storia di Ioann, però, ci ricorda anche come sia sempre più difficile trovare spazi sicuri nella Russia di oggi: i delatori possono nascondersi anche fra una platea di una manciata di persone in un villaggio di campagna.

Grigorij Judin è la terza figura chiave del libro. Ricercatore e docente, con lui svisceriamo le difficoltà di sondare l’opinione pubblica nella Russia di Putin e, in generale, in contesti non democratici. Numerosi studi dimostrano come i sondaggi possano essere influenzati molte variabili, che in contesti non democratici acquisiscono peso maggiore: la formulazione delle domande, il luogo e il momento in cui vengono poste, la familiarità dei partecipanti con l’argomento in questione, la misura in cui essi si sentono liberi di esprimere la propria opinione in sicurezza, l’ente che conduce il sondaggio, e così via. In questo scenario fumoso è difficile misurare il consenso popolare di un regime, e quindi rispondere a una domanda che dal lancio dell’invasione su larga scala ha impensierito molte persone in Russia e non: quanto di quello che sta succedendo in Ucraina è colpa di ciascun cittadino russo? La questione chiama in causa i concetti di colpa e di responsabilità collettiva, e la relazione di accountability che lega governanti e governati, ossia il vincolo di responsabilità bidirezionale degli uni verso gli altri.

A chiudere il volume c’è la storia di Doxa, rivista indipendente nata in seno alla Higher School of Economics, ateneo moscovita di fama liberale, raccontata da Katja, redattrice. La parabola di Doxa e del collettivo di ragazze e ragazzi che la animano mostra il tentativo da parte delle autorità russe di soffocare il dibattito politico all’interno delle università, ma anche di imporre un modello di giornalismo “neutrale”, che in questo contesto significa non critico nei confronti del potere. Di erodere, dunque, spazi che storicamente sono stati culle di dibattiti, cambiamenti e rivoluzioni.

Il filo rosso che lega le storie di Ljudmila, Grigorij, Ioann, Ivan e Katja sono le tattiche di resistenza quotidiane di chi si trova a lottare in un paese in cui fare opposizione è pressoché impossibile. Il processo storico che ha attraversato la Russia dal crollo dell’URSS ai giorni nostri, infatti, ha fatto sì che il paese si ritrovi ad oggi privo di infrastrutture che possano canalizzare il dissenso entro un fronte coeso, e fare opposizione sistematica al Cremlino. Questa situazione non è dettata dal caso, ma dalla combinazione di circostanze preesistenti l’ascesa di Putin, e dalla precisa volontà di Putin di esacerbare una situazione non favorevole allo sviluppo democratico della società civile sin dal suo primo mandato presidenziale. Analizziamo nel dettaglio la questione in un saggio conclusivo, a cui seguono poi due appendici. Nella Cronologia elenchiamo nel dettaglii i momenti fondamentali della dialettica fra opposizione e repressione dal duemila ad oggi. Nel Glossario della resistenza, invece, illustriamo metodi alternativi che cittadini e cittadine russe hanno escogitato per continuare a esprimere il loro dissenso in un contesto così soffocante.

Con La Russia che si ribella ci siamo posti l’obiettivo di mostrare dinamiche interne alla Russia di Putin che spesso rimangono lontano dalle cronache giornalistiche. Attraverso le voci dei nostri intervistati, abbiamo voluto mostrare le difficoltà e le sfide che attendono quella parte di popolazione che non si trova d’accordo con le politiche del Cremlino, e le soluzioni che sono state trovate per farvi fronte. Osservando da vicino le esperienze molto diverse fra loro di cinque dissidenti, il volume rivela passo passo i nodi e i dilemmi fondamentali della popolazione contraria al regime di Putin, facendo luce sul volto di una Russia che difficilmente si riesce a scorgere oltre le maglie della repressione putiniana.


(Valigia Blu, 20 aprile 2024)

di Francesca Coin e Francesca Gabbriellini


Era il 2021 quando la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni parlava del collettivo di fabbrica della Gkn. In quei giorni, il tribunale del lavoro di Firenze aveva accolto il ricorso contro il licenziamento collettivo dei 422 operai dello stabilimento di Campi Bisenzio, Firenze, lasciati a casa da un giorno all’altro dal fondo d’investimento Melrose attraverso un’email. «Bene la sentenza del tribunale del lavoro di Firenze sul caso Gkn», aveva detto in quell’occasione Meloni. «Difendere l’economia reale e il lavoro, combattere le delocalizzazioni selvagge delle multinazionali e impedire che casi simili si possano ripetere continueranno ad essere priorità di Fratelli d’Italia», aveva aggiunto.

Sono passati due anni. Nel frattempo, Giorgia Meloni è approdata alla guida del governo e ha cambiato la denominazione del ministero dello sviluppo economico, che ora si chiama ministero delle imprese e del made in Italy. Tuttavia, niente è servito a risollevare le sorti del tessuto produttivo del paese. Al contrario, la situazione è sempre più preoccupante. In un’intervista di qualche giorno fa la sottosegretaria Fausta Bergamotto ha addirittura screditato il piano di reindustrializzazione e ha chiamato fuori il governo.

In questi due anni, ben tre esecutivi si sono avvicendati al governo. Nessuno ha saputo dare risposte agli operai della piana fiorentina, né impegnarsi per una vera transizione ecologica nel settore automobilistico. L’ex ministro del Movimento 5 stelle Roberto Cingolani l’aveva descritta come un “bagno di sangue”, suggerendo che la riduzione dell’impatto ambientale del nostro sistema produttivo avrebbe prodotto una perdita significativa di posti di lavoro, anzitutto nell’industria automobilistica. La decisione di chiudere lo stabilimento di Campi Bisenzio era l’antesignano di un destino pronto a colpire l’intero settore.

Poco tempo dopo, una procedura di licenziamento simile è stata annunciata alla Gianetti Ruote a Ceriano Laghetto, Monza, che ha licenziato 152 dipendenti, sempre per email; alla Bosch a Bari, che nel 2022 ha annunciato settecento licenziamenti in cinque anni; e nello stabilimento Marelli di Crevalcore, Bologna, che a settembre ha delineato la chiusura della fabbrica di componentistica. La logica è sempre la stessa, “chiusura e spezzatino”, come l’hanno definita gli economisti della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa Giovanni Dosi, Andrea Roventini e Maria Enrica Virgillito: “spacchettare” le imprese per darle in pasto ai migliori offerenti.

La logica dello spezzatino

Una logica che nell’agosto 2021 dominava anche gli 87 tavoli di crisi aziendale sul tavolo del ministero dello sviluppo economico, che coinvolgevano circa centomila lavoratori. Secondo gli economisti del Sant’Anna, i licenziamenti di massa sono una scelta politica. Delocalizzazione e privatizzazioni sono vantaggiose per i privati ma costose per le casse dello stato, perché richiedono ammortizzatori sociali per gli operai. Ma a farne le spese sono anche i territori, perché queste operazioni lasciano dietro di sé un deserto produttivo in cui proliferano disoccupazione e crisi sociali. Ma la transizione ecologica nel settore automobilistico non deve essere un bagno di sangue. Non deve sostenere le fantasie di speculazione di aziende e fondi d’investimento: può dotarsi di misure d’intervento statale per creare alternative percorribili.

Proprio per questo si è costituito un gruppo di ricerca interdisciplinare a cui partecipano anche gli economisti del Sant’Anna. L’obiettivo è aiutare il collettivo di fabbrica della Gkn a elaborare un «piano multilivello per la stabilità occupazionale e la reindustrializzazione del sito di Campi Bisenzio», pubblicato sui Quaderni della fondazione Feltrinelli. Come si legge nel rapporto, il gruppo ha voluto elaborare il piano di reindustrializzazione seguendo le traiettorie di sviluppo sostenibile previste da organizzazioni internazionali come il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) e l’International energy agency.

Il cuore del progetto, coerente con il Pnrr, è la mobilità sostenibile e la produzione di energia pulita, a partire da una prospettiva sinergica di sviluppo economico e sociale, in cui innovazione tecnologica e alta formazione vanno di pari passo con la tutela del territorio e delle comunità. Questa proposta rappresenta un’alternativa concreta a una strada certa di deindustrializzazione e declino validata da Artes 4.0, uno dei centri di competenza attivati nel 2018 dal ministero dello sviluppo con il piano nazionale Industria 4.0 e incaricati di promuovere il trasferimento tecnologico nel tessuto produttivo, collegando università e aziende.

Uscire dall’immobilismo

Purtroppo questo progetto non è mai stato discusso né al ministero né nelle istituzioni regionali, nonostante sia stato presentato ai diretti interessati. Da più di due anni il collettivo di fabbrica della Gkn chiede alla politica di uscire da decenni di immobilismo. Per gli operai, che lo scorso 9 luglio hanno celebrato due anni di assemblea permanente, questa necessità si è fatta ancora più urgente dopo l’acquisizione dello stabilimento da parte dell’imprenditore Francesco Borgomeo, il cui arrivo nel dicembre 2021 ha segnato l’inizio di una fase di limbo fatta di inerzia, attese e tavoli di trattativa disertati.

Il piano di reindustrializzazione dell’imprenditore, che emblematicamente chiama “QF Spa” la nuova Gkn (“Qf” sta per “Quattro f”: fiducia nel futuro della fabbrica a Firenze), presto è disatteso. Come ha ricostruito la testata di giornalismo investigativo Irpimedia, le promesse fatte da Borgomeo – tra cui investimenti per ottanta milioni di euro, «produzioni customizzate nel settore della mobilità elettrica», e trasformazione dello stabilimento in un «cuore molto importante di ricerca e sviluppo», «perché siamo riusciti a convincere i grandi player industriali» – dopo pochi mesi si dissolvono nel nulla.

Nel febbraio 2023, dopo un anno di tavoli di trattativa disertati da Borgomeo e mesi senza stipendio, l’azienda è messa in liquidazione. Bisognerebbe chiedersi come mai un progetto industriale mai nato possa essere stato annunciato con tale fanfara anche se privo di investitori. Fatto sta che, anche in questo caso, i lavoratori non sono stati con le mani in mano e hanno costruito un’alternativa.

I progetti

Pur continuando a chiedere l’intervento pubblico, nel marzo 2023 il collettivo di fabbrica e il gruppo di ricerca interdisciplinare hanno fatto partire la campagna di raccolta fondi per il progetto Gkn for future, che ha raccolto 175mila euro in poco più di un mese. Nei mesi precedenti era stato aperto il dialogo con una start up italo-tedesca interessata a sviluppare in Italia la produzione di pannelli fotovoltaici e batterie di nuova generazione in materiale organico, per essere competitivi sul mercato e lontani dallo sfruttamento del sud globale per reperire le terre rare fondamentali per queste tecnologie.

Oltre a questa iniziativa, c’è il progetto cargo-bike per un mezzo di trasporto ideale in grado di ripensare la logistica leggera nelle nostre città congestionate e mettersi al servizio delle nuove realtà dei servizi di consegna etici. Dal punto di vista dell’assetto proprietario, la fabbrica pubblica e socialmente integrata a cui aspirano le lavoratrici e i lavoratori dello stabilimento di Campi Bisenzio ha assunto la forma di una cooperativa, con prevalente attività mutualistica, partecipata da coloro che l’hanno difesa: una realtà ecosostenibile in cui il primo azionista è il territorio e le sue reti solidali.

Lo consente la legge Marcora del 1985, che facilita la creazione di nuove cooperative da parte di lavoratrici e lavoratori di aziende in crisi o soggette a liquidazione, con lo scopo preciso di consentirgli di non arrendersi alla disoccupazione e di non ricorrere agli ammortizzatori sociali, che rappresentano un costo per lo stato. Le imprese recuperate dai lavoratori sono un win-win, scrivono Paola De Micheli, Stefano Imbruglia e Antonio Misiani in Se chiudi, ti compro (Guerini e Associati 2017). La legge Marcora, del resto, è uno strumento efficace di politica attiva, capace di «evitare il rischio di inaridimento industriale» e «di favorire la ripartenza del capitalismo di territorio italiano» senza ricorrere ad ammortizzatori sociali.

In questo caso, la legge consentirebbe allo stabilimento di Campi Bisenzio di diventare un polo della mobilità sostenibile e della logistica decarbonizzata, e libererebbe lo stato dall’onere dei sussidi e dell’assistenzialismo. Per questo il collettivo di fabbrica ha istituito la campagna per l’azionariato popolare “100×10.000”, che punta a raccogliere un milione di euro entro la fine dell’anno per consentire ai singoli e alle organizzazioni che lo desiderano di diventare parte integrante di questo progetto e di contribuire alla piena attuazione del piano industriale. Al posto del bagno di sangue fatto di licenziamenti e disoccupazione a cui sembrano destinati i territori che per decenni hanno lavorato nel settore automobilistico, l’alleanza tra la lotta operaia, i movimenti ambientalisti e il mondo della ricerca è riuscita a progettare e, entro certi limiti, perfino a trovare i finanziamenti necessari per restituire una prospettiva di sviluppo sostenibile ai territori coinvolti.

È per questo che sorprende, in questo contesto, l’intervista di Bergamotto. Tocca alla regione reindustrializzare, dice la sottosegretaria, facendosi portavoce del governo. Il governo intervenga e non scarichi questa vertenza sul territorio, replica il presidente della regione Toscana, Eugenio Giani. Sembrerebbe una brutta partita di pingpong, ma è una nuova e tragica pagina di deresponsabilizzazione politica nella quale le istituzioni affermano che occuparsi di lavoro e di reindustrializzazione è responsabilità d’altri.

È chiaro che siamo a un punto di svolta. Mentre Borgomeo rompe il silenzio e annuncia l’imminente riapertura dei licenziamenti per l’ex Gkn, bisogna decidere se lo stabilimento sarà l’ennesima vittima di una lunga tradizione d’immobilismo istituzionale o meno. Le alternative sono due: lasciare che l’inerzia del governo condanni un’altra area alla disoccupazione e alla crisi sociale, com’è successo già troppe volte. O sostenere il collettivo di fabbrica nel suo tentativo di difendere l’economia reale e il lavoro dalle delocalizzazioni selvagge. Lo scopo che, a parole, si era preposta l’attuale presidente del consiglio. E che può ancora essere realizzato, per dare un futuro diverso al territorio e a tutti noi.


(Internazionale, 2 ottobre 2023)

di Roberto Ciccarelli


Intervista. Parla Renata Puleo, già dirigente scolastica e oggi socia dell’Associazione lavoratori scuola (Alas) che partecipa alla mobilitazione contro la digitalizzazione imposta dal piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): «Serve una critica all’uso capitalistico delle piattaforme digitali impiegate anche nella didattica in funzione di una loro concezione democratica, solidale e conviviale»

Qualcuno potrebbe dire che si tratta di luddismo. Cosa rispondete? Più che altro questa è una critica all’uso capitalistico della tecnologia in funzione di una sua concezione cooperativa, solidale e conviviale. Ma voglio cogliere la provocazione e rilanciarla. Dato che è inevitabile usare le macchine parlerei al limite di un «luddismo riflessivo». Si tratta cioè di imparare a governare le macchine e il tempo. Non è la macchina che gestisce il mio tempo, ma sono io che decido quando la macchina mi serve.

Si parla anche di diffondere luso del software libero nelle scuole. Crede sia possibile farlo oggi? Non sono un’informatica, come tutte le persone della mia generazione sono approdata tardi all’uso delle tecnologie digitali. Ma conosco la storia e i problemi del software libero. Al fondo mi sembra che ci sia un problema di cambio di una mentalità strutturata, non solo nei giovani, ma anche negli adulti. Il trattamento amichevole che riserva Google, o lo stesso registro elettronico, è seduttivo, mentre il software libero ha bisogno di formazione. Dev’essere più semplice da usare, è vero. Ma è questo che andrebbe insegnato nella scuola. L’accesso e gli strumenti tecnici ed intellettuali vanno garantiti a tutti. In fondo i docenti affrontano problemi assai complessi, è il loro lavoro. Che va valorizzato e riconosciuto diversamente da quanto accade oggi. La cooperazione con gli studenti potrebbe sviluppare le tecnologie liberate. Sarebbe un modo per garantire il ruolo democratico e pluralistico della scuola pubblica.

Quali sono gli obiettivi della mobilitazione alla quale partecipate? Cercare di mantenere i collegamenti tra scuole, docenti, genitori e studenti organizzando un coordinamento sulla digitalizzazione problematica del Pnrr. E poi lavorare sul dialogo istituito all’Albertelli, e in altre scuole in Italia, tra il consiglio di istituto, quello dei docenti e le organizzazioni studentesche su questo e altri problemi. Dalla pandemia la vita democratica nella scuola sembra che si sia spostata online. Sempre meno è possibile usare le assemblee sindacali (quando si tengono) per fare informazione. Non è facile quando quasi tutto il sistema mediatico è indifferente o attacca chi critica la trasformazione neoliberale che ha investito la scuola e il mondo della riproduzione sociale. E propone di sperimentare le alternative. Oggi è importante restare svegli.


(Il manifesto, 27 giugno 2023)

di Corrado Speziale


Un corteo partecipatissimo, denso di temi e motivazioni, sabato 17 giugno ha percorso le vie del villaggio Torre Faro nel segno del dissenso verso la realizzazione del ponte sullo Stretto.

Un successo che premia il movimento No ponte, nell’insieme dei comitati che lo compongono e che hanno fatto da traino a tantissime associazioni, partiti, movimenti, sindacati, centri sociali, ma soprattutto a una “marea” di gente comune, fuori da sigle politiche e organizzazioni, che ha voluto urlare il proprio No al ponte per difendere il territorio. I colori No ponte hanno fatto bella mostra di sé anche su una barca a vela che ha solcato il bellissimo mare azzurro dello Stretto all’inizio della manifestazione.


Una manifestazione così intensa e partecipata a Torre Faro (Messina) non si era mai vista. Tremila persone, giusto per quantificare la folla, è un numero che neppure descrive l’effetto di una marea umana i cui colori si stagliavano tra l’azzurro del mare e del cielo, in un bel pomeriggio di partecipazione, di festa e di protesta.

Gli effetti dello Stretto, la spiaggia del Faro, il popolo No ponte che ha invaso con colori e slogan le vie del villaggio, il coinvolgimento della gente del luogo, hanno costituito un tutt’uno che sabato pomeriggio ha spostato la “geografia” e la politica del territorio verso un deciso No alla realizzazione dell’opera più controversa della storia, “riesumata” dal governo, attraverso la riedizione della società Stretto di Messina.

Cosicché, se da un lato il governo è ripartito a suon di provvedimenti urgenti per riavviare le procedure, dall’altro il dissenso dei No ponte non si è fatto attendere. «Sabato prossimo scriveremo la storia», era la sfida lanciata da tanti attivisti in vista della manifestazione, e così è stato. Ed era “solo” il primo corteo della nuova stagione. Secondo i tempi dettati da Salvini la fase apicale sarà raggiunta a luglio 2024, data della fatidica “prima pietra”.

Ciò, al netto delle complesse procedure che ancora il progetto deve affrontare, quantunque sia oggetto di apparenti semplificazioni.

Intanto, la gente del luogo si chiama a raccolta: «Forza faroti, tutti fuori, prima che il ponte ci divori», recitava uno dei tanti slogan che risuonava in maniera veemente tra le vie del villaggio. Anche perché la cosa avrebbe il sapore di un «futuro amaro» da evitare ad ogni costo, perché «il ponte sullo Stretto distruggerebbe Faro…», con tanto di dati alla mano illustrati, tra l’altro, nella conferenza stampa di mercoledì scorso, e non solo. Un altro fatto a prova di smentita, alla luce della storia che si ripete, è stato urlato dai manifestanti: «Valutate i vostri danni, il cantiere durerà centanni”. E ancora, un tema sul quale si potrebbe scrivere un romanzo, quello dei posti di lavoro: «Ma che progresso, ma che occupazione, il ponte sullo Stretto è solo distruzione». Aspetto supportato da un appello alla comunità locale: «Difendete il vostro mestiere, in questo posto ci va un cantiere». Dopodiché: «Il ponte sullo Stretto è un disastro, al posto delle case ci va un pilastro». Dunque, motivazioni, esempi e temi sono stati intercalati nella protesta anche in frasi essenziali, simboliche, ma dal grande effetto. Ma visto il momento che stanno vivendo gli abitanti di Messina in una zona del centro storico cittadino, lo slogan che più risaltava era tra quelli più longevi: «Vogliamo lacqua dal rubinetto, vaff… al ponte sullo Stretto». In questo momento, dai rubinetti di centinaia di appartamenti fuoriesce acqua inquinata da idrocarburi, nella fattispecie gasolio.

Per cui la domanda è ovvia, al netto della comprensibile rabbia: come si fa a lasciar realizzare una tale mega opera, secondo volontà ben distanti dalla città, quando Messina ha persino condotte idriche fatiscenti che creano disagi intollerabili e mettono seriamente a rischio la salute dei cittadini?

Tornando nel cuore del corteo, «Non rovinate lo Stretto», ammoniva uno striscione, «Salvini levici manu», si leggeva in un altro. E al ministro non sono mancati neppure alcuni inviti “affettuosi” e “propositivi”, affinché si rechi in riva allo Stretto. Ma sulla terraferma, non certo su una nave “blindata” come lo scorso 6 giugno.

Il corteo, partito alle 18 dall’inizio di via Palazzo, si è concluso intorno alle 21 dinnanzi al parco Horcynus Orca, dove hanno preso la parola alcuni rappresentanti delle organizzazioni che hanno partecipato alla manifestazione. Alla partenza, i colori No ponte sono stati esibiti anche da una barca a vela e da un surf a pedali che hanno solcato il bellissimo mare azzurro dello Stretto, mentre alle loro spalle faceva capolino una feluca.

Per la prossima manifestazione bisognerà attendere gli esiti di altre assemblee e riunioni programmate dal movimento No ponte.


(https://www.scomunicando.it/, 19 giugno 2023

di Gianpaolo Contestabile


La salute mentale è oggi uno degli argomenti più discussi, spiegati, promossi, venduti e raccontati dai mezzi di comunicazione. Esistono psicologhe influencer che forniscono consigli dai loro canali e pazienti che condividono le loro testimonianze attraverso video, libri e opere d’arte. Il boom della salute mentale è sicuramente una buona notizia se pensiamo al superamento dello stigma e alla possibilità di informare un pubblico ampio rispetto alla gestione di alcuni disturbi avvolti da pregiudizi. La sovraesposizione mediatica, però, porta con sé anche il rischio di “psicologizzare” la società, cioè spiegare tutti i fenomeni sociali a partire da processi mentali e di voler cambiare il mondo partendo dalla nostra psiche individuale.

Nel suo articolo La meditazione che fa bene al capitale, Ronald Purser spiega come la tecnica buddista della Mindfulness sia diventata la ricetta perfetta da vendere sul mercato perché ci rende pacifici, cioè “vuole convincerci che le cause della nostra sofferenza vanno ricercate soprattutto dentro noi stessi, e non nel contesto politico ed economico che determina il modo in cui viviamo”. In questo caso si tratta di una forma mercificata della mindfulness, che di per sé può invece essere un utile strumento per gestire lo stress, l’ansia e modificare alcuni automatismi mentali che ci fanno soffrire. Il problema si presenta quando viene ridotta a una ricetta per il successo e si trasforma nella panacea di tutti mali, o addirittura come una filosofia rivoluzionaria necessaria per cambiare il mondo.

Qualcosa di simile potrebbe succedere con le terapie psicologiche quando si paventa la possibilità di risolvere qualsiasi problema semplicemente iniziando una terapia. Quando problemi strutturali come la povertà, la violenza domestica, lo sfruttamento, la disoccupazione o la distruzione dell’ecosistema diventano questioni personali, allora il campo d’azione si riduce alla depressione, al self empowerment, allo stress da lavoro correlato, all’abuso di sostanze o all’ansia. Il contesto sociale rimane sospeso, lasciando spazio esclusivamente all’interpretazione e gestione dei sintomi della paziente. Il processo clinico della terapia è un’ottima risorsa che aiuta le persone a conoscersi e curarsi ma non può essere la bacchetta magica per risolvere i conflitti che riguardano la collettività. Per esempio, una campagna di sensibilizzazione sul burnout lavorativo lanciata su Instagram propone come unica soluzione rivolgersi a un servizio di psicoterapia online a prezzi calmierati. Organizzarsi per migliorare le condizioni di salubrità, i ritmi di lavoro, la cultura aziendale, ridurre i turni e la competizione sfrenata rimangono invece rimossi dai possibili scenari d’azione.

Se la radice di tutti i malesseri diventa un problema dell’individuo e della sua mente allora la scienza psichiatrica è in grado di fornire spiegazioni sempre più raffinate sul funzionamento dei processi chimici del nostro cervello. Nella serie televisiva italiana Tutto chiede salvezza vengono raccontati i sette giorni di un trattamento sanitario obbligatorio (TSO), a cui viene sottoposto il giovane Daniele. Durante il primo giorno di internamento coatto il protagonista chiede spiegazioni alla dottoressa responsabile del reparto psichiatrico; questa gli risponde chiedendogli se sa cos’è la serotonina: “è un neurotrasmettitore” gli spiega, Daniele potrebbe avere un deficit e quindi “si tratta di ripristinare i valori. A volte le cose sono più semplici di quelle che sembrano”.

La sovraesposizione mediatica porta con sé il rischio di spiegare tutti i fenomeni sociali a partire da processi mentali.

Semplificare è rassicurante, e agire sulle correlazioni chimiche può, in alcuni casi specifici, aiutare ad alleviare sintomi gravi e offrire un po’ di serenità per iniziare un percorso di cura, ma ridurre la sofferenza psichica a uno scompenso di valori comporta una serie di rischi. Primo fra tutti, quello di trasformare le persone nelle loro diagnosi, o in deficit da aggiustare meccanicamente. Non stupisce, quindi, che una volta trasformati i pazienti in macchine da riparare, li si possa, come succede nella serie e nella realtà degli ospedali italiani, sedare, legare, far reprimere dalla polizia, togliere la libertà, incarcerare e lasciar morire. La normalità dell’assistenza psichiatrica in Italia, infatti, è la contenzione meccanica dei pazienti in reparti a porte chiuse: solo in 19 dei 318 Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura sul territorio italiano non si legano le persone.

Proprio l’Italia, paradossalmente, è conosciuta nel mondo per aver esportato un modello di cura esattamente contrario a questa tendenza, cioè contrario alla patologizzazione di chi soffre di disturbi mentali. Uno dei mantra del movimento che ha lottato per la chiusura dei manicomi nel nostro Paese negli anni Settanta era quello di “mettere tra parentesi la diagnosi” per far emergere la persona con la sua storia e il suo contesto socioeconomico. Si trattava, cioè, di fare il contrario del manicomio, nel quale ci si interfacciava con la malattia mentale e il soggetto e le sue condizioni di vita rimanevano nell’ombra . Nelle parole di Franca Ongaro Basaglia, una delle principali intellettuali che guidarono quel movimento, il modello medico egemonico crea “un’organizzazione dell’assistenza ospedaliera tutta incentrata sulla «riparazione», atta a confermare e a trattare la malattia come semplice fenomeno naturale, non potendo interferire nel processo storico-sociale che la produce”.

Alla medicina relegata “al suo compito di rimedio dei danni”, Ongaro oppone un approccio capace di andare alla radice dei problemi per prendersi cura delle sue cause. In questo senso, negli anni Settanta, i manicomi, da luoghi di tortura e annichilimento, si trasformarono nello scenario di innumerevoli assemblee ed eventi culturali dove pazienti, medici, operatrici, artisti e attiviste partecipavano alla vita politica dell’ospedale e riflettevano sulle cause del proprio malessere. Quando Daniele, il protagonista della serie, fugge sul tetto dell’ospedale con la sua amante, inizia a riflettere ad alta voce: “A me le malattie di tutti quelli che stanno qui dentro mi sembrano come un’unica malattia. Però non nostra. Del mondo.”

Curarsi durante la catastrofe

Nel libro Cattive acque. Contaminazione ambientale e comunità violate, Marialuisa Menegatto e Adriano Zamperini raccolgono una serie di studi incentrati su uno dei più gravi disastri ambientali della storia d’Europa: il rilascio di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nelle falde acquifere venete. Una catastrofe ecologica che interessa le province di Verona, Padova e Vicenza e una popolazione di quasi 800mila abitanti. Nel volume si presentano gli effetti psicologici dei disastri ambientali, tra cui lo stress acuto, l’ansia, la depressione, i pensieri intrusivi, l’insonnia, l’aumento del consumo di tabacco e alcool, ma anche problematiche sociali come l’aumento dei conflitti coniugali, la sfiducia verso le istituzioni e la corrosione del tessuto sociale. Tra le comunità danneggiate dai Pfas serpeggia un sentimento di impotenza, di rassegnazione e incertezza riguardo al futuro, al proprio lavoro, alle condizioni di salute dei propri cari e delle future generazioni.

Una volta trasformati i pazienti in macchine da riparare, li si può sedare, legare, far reprimere dalla polizia, incarcerare e lasciar morire.

Di fronte a questo scenario sconfortante le comunità possono però decidere di reagire partecipando nella gestione collettiva della catastrofe. In Veneto, le cosiddette “Mamme NoPfas” hanno deciso di attivarsi per sensibilizzare la popolazione, chiedere giustizia di fronte alle istituzioni e far sì che “la rabbia individuale diventi legittimazione di azioni collettive e [restituisca] una quota di potere”. Come viene ripetuto spesso nel testo, la cura al malessere generato dalla contaminazione va oltre il trattamento individuale dei sintomi psicologici: “nei casi di contaminazione ambientale il recupero psicologico coincide, sovente, con il recupero ambientale del sito inquinato”. Detto in altre parole, per curare i nostri disturbi mentali abbiamo bisogno di incontrarci, partecipare attivamente e curare l’ecosistema in cui viviamo per evitare che le industrie sversino i propri veleni nelle nostre fonti idriche.

Un’altra organizzazione di madri è diventata famosa in tutto il mondo per aver trasformato il loro trauma personale in una battaglia sociale: le Madres de Plaza de Mayo. Le mamme argentine dei quasi 30mila desaparecidos del regime militare degli anni Settanta si sono trasformate in un emblema internazionale dei diritti umani quando hanno sfidato il coprifuoco iniziando a incontrarsi ogni giovedì pomeriggio nella piazza pubblica di Buenos Aires. La dittatura dei militari e il successivo regime democratico hanno implementato una vera e propria guerra psicologica nei loro confronti chiamandole locas (pazze), responsabilizzandole di non aver educato a dovere i propri figli, invitandole al silenzio, ad accettare la morte dei cari scomparsi e a dimenticare il passato per favorire un clima di riconciliazione nazionale.

Questo tipo di politiche ha generato una serie di sintomi come la dissociazione di fronte al messaggio che nega la violenza, la autocolpevolizzazione e la fantasia di non aver fatto abbastanza per salvare il proprio figlio. Le psicoterapeute Diana Kordon e Lucilia Edelman hanno lavorato al fianco de Las Madres durante diversi anni per aiutarle a gestire il trauma. Il loro intervento ha preso la forma di gruppi liberi e autogestiti di riflessione sull’esperienza comune delle madri.  Facilitando questi spazi di discussione hanno notato che il riconoscimento di una situazione comune ha permesso l’identificazione e l’empatia reciproca per evitare una chiusura narcisistica in sé stesse e ha favorito la catarsi del trauma attraverso la drammatizzazione dei conflitti con le istituzioni. Organizzarsi in gruppi per cercare i propri figli ha significato partecipare attivamente nella tragedia, mantenendo il rispetto verso di sé e tutelando la propria autostima, riducendo l’angoscia e il sentimento di colpa. Focalizzarsi sulla storicizzazione della violenza e non unicamente sulle storie personali genera una comprensione intellettuale della situazione che funziona come una difesa dell’Io, evita cioè che una catastrofe sociale diventi una catastrofe psichica. Un’affermazione comune tra le madri argentine è: “sono passata dal preoccuparmi per mio figlio a preoccuparmi per i figli di tutte”.

La partecipazione attiva ha permesso non solo di limitare le conseguenze psicologiche individuali ma ha fatto sì che Las Madres dessero vita, negli anni, a un’università popolare, una casa editrice, una rivista, un caffè letterario e molteplici altri progetti. Anche se come dice una delle fondatrici, Hebe de Bonafini, “la maggior parte delle madri non siano mai andate in terapia”, il loro attivismo le ha portate e impegnarsi in prima persona per la chiusura dei manicomi psichiatrici e organizzare il Congresso Internazionale per la Salute Mentale e Diritti Umani in cui si afferma che “la salute mentale nel quadro della lotta per la difesa dei diritti umani ci invita a recuperare le nuove soggettività del nostro tempo puntando sulle pratiche di gruppo, istituzionali e collettive che riscattano l’essere storico sociale”.

Focalizzarsi sulla storicizzazione della violenza genera una comprensione della situazione che funziona come una difesa dell’Io, evita cioè che una catastrofe sociale diventi una catastrofe psichica.

È interessante notare che le dottoresse Kordon e Edelman hanno riscontrato dei tratti simili nei gruppi spontanei che sono sorti durante la crisi finanziaria estrema del 2001 quando in Argentina i conti correnti vennero congelati, i bancomat limitati, l’inflazione schizzò alle stelle e i risparmi di una vita di molte persone persero improvvisamente di valore. Le assemblee che sorsero nei quartieri, i gruppi organizzati di disoccupati e le fabbriche autogestite dalle lavoratrici permisero di sostenere le persone durante la crisi svolgendo una “funzione proteica”, cioè fornendo un grembo per lo sviluppo di nuovi aspetti della psiche che ancora non si erano costituiti. Il gruppo offre quindi una protezione durante le crisi limitando l’angoscia, il panico, il sentimento di impotenza e permettendo di mantenere i vincoli sociali che sostengono la nostra salute mentale.

Ripartire dal mondo

Nella serie Maid, ispirata alle memorie di Stephanie Land, Donna delle pulizie: Lavoro duro, paga bassa, e la voglia di sopravvivere di una madre, Alex, la protagonista, fugge nel cuore della notte con la sua neonata per sottrarsi a una relazione violenta con il proprio partner. Durante i 10 episodi in cui si sviluppa la trama, Alex si trova a fare i conti con condizioni di lavoro umilianti, con la degradazione dei servizi sociali statunitensi, una famiglia disfunzionale e i propri traumi infantili che rischiano di farla ritornare tra le braccia del suo ex. Un occhio “puramente” clinico e decontestualizzato potrebbe interpretare le sue continue ricadute come il risultato dei suoi modelli di attaccamento infantili, come la ripetizione di un trauma non elaborato, oppure la mancanza di autostima o del senso di autoefficacia così come un sintomo di un disturbo da stress post-traumatico.

L’originalità della serie, però, sta nell’introdurre un elemento contestuale fondamentale. In sovraimpressione, infatti, durante gran parte delle scene appare il bilancio dell’economia di Alex. Man mano che la cifra si avvicina agli zero dollari il suo campo d’azione si limita sempre di più e, per dare da mangiare a sua figlia, diventa sempre più verosimile chiedere aiuto a un padre abusante, alla madre manipolatrice o all’ex compagno violento. Come scriveva Freud già nel 1921, nel suo Psicologia delle masse e analisi dell’Io, quando si studia attentamente una situazione concreta i limiti tra i processi intrapsichici e le dinamiche sociali si sfumano: “Nella vita dell’individuo l’altro rappresenta sempre un modello, un oggetto, un amico od un nemico, e sin dall’inizio la psicologia individuale è anche, sotto un certo aspetto, una psicologia sociale”.

Nonostante da più di un secolo la tradizione psicoanalitica abbia messo la questione sociale e collettiva al centro del dibattito, il discorso istituzionale sulla salute mentale continua a ricostruire una fantasia in cui esistono solo sintomi individuali. La crisi economica, i disastri ambientali, la violenza politica o quella domestica si trasformano in fantasmi che rimangono fuori dal setting terapeutico, del reparto psichiatrico e anche dal centro di meditazione. Inoltre, la diagnosi, che dovrebbe essere uno strumento utile al processo di cura, diventa invece l’obiettivo finale dello specialista, un’etichetta che dà senso alla nostra identità o una certificazione per non dover competere con gli alti livelli di rendimento richiesti dal mercato.

La diagnosi, da strumento utile al processo di cura, diventa invece l’obiettivo finale, un’etichetta che dà senso alla nostra identità o una certificazione per non dover competere con gli alti livelli di rendimento richiesti dal mercato.

Nell’ottobre del 2022, l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) si è riunita a Roma per presentare il report intitolato Trasformare la salute mentale per tutti. Nel testo, i ricercatori dell’OMS scrivono che: “una cattiva salute mentale interferisce con la capacità di lavorare, studiare e apprendere nuove competenze. Essa ostacola i risultati scolastici dei bambini e può avere un impatto sulle prospettive occupazionali future”. Il danno economico provocato dalla depressione e l’ansia viene calcolato nell’ordine di mille miliardi di dollari annui a causa dell’assenteismo lavorativo, il presenzialismo e il turnover del personale.

Se, come scrive l’Assemblea Antipsichiatrica in Il capitalismo nuoce gravemente alla salute, ci si concentra sui sintomi perché “occuparsi delle cause non genera profitto” allora la salute mentale si riduce a una tecnica per renderci più adatti, competitive e funzionali a un mondo ingiusto, inquinato e violento. Il rischio è che le politiche di salute mentale promosse dalle istituzioni mediche abbiamo un obiettivo pacificatorio più che curativo. Come recitava uno striscione esposto al presidio di protesta durante la riunione dell’OMS a Roma: “non vogliono che stiamo bene, vogliono che stiamo buonə”. Al nuovo mantra della salute mentale individualista vale la pena rispondere recuperando le pratiche che hanno portato l’Italia al centro del dibattito internazionale e tornare a trasformare la nostra salute mentale trasformando il mondo.

Allucinazione n. 2: l’IA fornirà un governo saggio

Questa allucinazione evoca un futuro prossimo in cui i politici e i burocrati, attingendo alla vasta intelligenza aggregata dei sistemi di IA, sono in grado di “vedere i modelli di bisogno e sviluppare programmi basati su prove” che hanno maggiori benefici per i loro elettori. Questa affermazione proviene da un documento pubblicato dalla fondazione del Boston Consulting Group, ma trova eco in molti thinktank e società di consulenza manageriale. Ed è significativo che proprio queste società – quelle assunte dai governi e da altre aziende per individuare i risparmi sui costi, spesso licenziando un gran numero di lavoratori – siano state le più veloci a salire sul carro dell’IA. PwC (ex PricewaterhouseCoopers) ha appena annunciato un investimento di 1 miliardo di dollari, mentre Bain & Company e Deloitte sarebbero entusiaste di utilizzare questi strumenti per rendere i loro clienti più “efficienti”.

Come per le affermazioni sul clima, è necessario chiedersi: il motivo per cui i politici impongono politiche crudeli e inefficaci è che soffrono di una mancanza di prove? Un’incapacità di “vedere gli schemi”, come suggerisce il documento del BCG? Non capiscono i costi umani dell’affamare l’assistenza sanitaria pubblica in mezzo alle pandemie, o del non investire in alloggi non di mercato quando le tende riempiono i nostri parchi urbani, o dell’approvare nuove infrastrutture per i combustibili fossili mentre le temperature salgono? Hanno bisogno che l’intelligenza artificiale li renda “più intelligenti”, per usare il termine di Schmidt, o sono abbastanza intelligenti da sapere chi finanzierà la loro prossima campagna elettorale o, se si allontanano, finanzieranno i loro rivali?

Sarebbe molto bello se l’intelligenza artificiale fosse davvero in grado di recidere il legame tra il denaro delle aziende e la politica sconsiderata, ma questo legame ha tutto a che fare con il motivo per cui aziende come Google e Microsoft sono state autorizzate a rilasciare i loro chatbot al pubblico nonostante la valanga di avvertimenti e i rischi noti. Schmidt e altri hanno condotto per anni una campagna di lobbying per dire a entrambi i partiti di Washington che se non saranno liberi di andare avanti con l’IA generativa, senza essere gravati da una seria regolamentazione, le potenze occidentali saranno lasciate nella polvere dalla Cina. L’anno scorso, le principali aziende tecnologiche hanno speso la cifra record di 70 milioni di dollari per fare pressione su Washington – più del settore petrolifero e del gas – e questa somma, osserva Bloomberg News, si aggiunge ai milioni spesi “per la loro vasta gamma di gruppi commerciali, organizzazioni non profit e thinktank”.

Eppure, nonostante la loro intima conoscenza di come il denaro plasmi la politica nelle nostre capitali nazionali, quando si ascolta Sam Altman, l’amministratore delegato di OpenAI – creatore di ChatGPT – parlare degli scenari migliori per i suoi prodotti, tutto questo sembra essere dimenticato. Sembra invece che abbia un’allucinazione di un mondo completamente diverso dal nostro, in cui i politici e l’industria prendono decisioni basate sui dati migliori e non metterebbero mai a repentaglio innumerevoli vite per profitto e vantaggio geopolitico. Il che ci porta a un’altra allucinazione.


(Il Tascabile, https://www.iltascabile.com/societa/oltre-la-salute-mentale/, 4 maggio 2023)

di Sara Bigardi e Livia Alga


Essere in fuorigioco non è di per sé un’infrazione. Secondo le regole del calcio, il fuorigioco è una condizione, meglio: una posizione. Tre sono gli elementi che la determinano: la posizione dell’attaccante, del pallone, e di chi difende. La regola vuole impedire che l’attaccante sosti sola oltre la linea dei difensori nei pressi della porta avversaria, quando le viene passata la palla. Più precisamente: una giocatrice è in fuorigioco quando si trova nella metà campo avversaria, quando tra lei e la porta si trovano meno di due giocatrici avversarie (portiere inclusa), e prende parte attiva all’azione, toccando la palla, o traendo vantaggio dalla sua posizione.

Questione di attimi, centimetri, questione di linee. Io non ho mai visto questa linea sul campo. È una linea invisibile, chi guarda la partita la immagina. Non avevo idea che il campo da calcio avesse delle linee oltre quelle tracciate in bianco che ne delimitano il perimetro, le aree, il centro. E invece, ci sono sempre delle linee invisibili che regolano i territori in cui giochiamo, note spesso solo agli esperti o ai nativi. Imparare a giocare significa imparare a vedere le linee invisibili.

Una linea immaginaria è una linea che può esistere e non esistere. È la flessibilità di una separazione. È una linea fatta da corpi in movimento, per questo è mobile. Non è una linea del paesaggio. È una linea d’ombra che si crea tra chi difende e chi attacca. Il fuorigioco è una condizione del loro conflitto che ferma il gioco e richiede l’intervento esterno dell’arbitro, una punizione, un riequilibrio. Proprio perché si esaurisce nell’azione, il fuorigioco non è pienamente teorizzabile: da qui la difficoltà di spiegarlo in modo esplicito e chiaro. Difficoltà aggravata dal fatto che alla norma, con il tempo, sono stati aggiunti una serie di commi di non facile interpretazione. Tutto questo, oltre a creare una confusione tale da indurre l’IFAB (International Football Association Board) e la FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio) a sperimentare la moviola in campo, rende discrezionali le valutazioni e la lettura della posizione di fuorigioco: trovarsi in linea o non in linea, prima o dopo “quella” linea invisibile.1

Il fuorigioco non è una teoria, ma una tattica, anzi un insieme di tattiche pensate e organizzate per dare vita a movimenti che creano conflitto. Questo insieme di tattiche favoriscono una postura liminare, sempre disposta a esporsi, tempi e movimenti sincronici, invitando a leggere con attenzione il complesso situazionale, smarcamenti e inserimenti non prevedibili. Il fuorigioco invita ad agire facendo uno “scarto”.2 Secondo Françoise Jullien «fare uno scarto significa uscire dalla norma, procedere in modo inconsueto, operare uno spostamento rispetto a ciò che ci si aspetta e a ciò che è convenzionale. In breve, vuol dire rompere il quadro di riferimento e arrischiarsi altrove».3

Una tattica, non una strategia, perché non prevede schemi collaudati a priori o del tutto predeterminati. Il comportamento tattico è inventivo, rischioso: si concretizza in una serie di iniziative che devono essere decise rapidamente in una situazione caratterizzata da un notevole grado di incertezza. È questione di velocità: un passo avanti della difesa nel momento “giusto”, e tutte ferme: è fuorigioco. La difesa infatti può attuare la trappola del fuorigioco per bloccare sul nascere l’azione offensiva avversaria, recuperare palla e guadagnare spazio. Il fatto che esista la possibilità di utilizzare la tattica del fuorigioco permette alla squadra che difende di “rimanere corta”, talmente compatta da impedire agli avversari di avvicinarsi alla porta. In questo modo durante la fase di non possesso palla si riducono le dimensioni del campo, «sempre troppo grandi quando si tratta di difendere».4 Poi, come tutte le tattiche, c’è la possibilità di trovare delle contromisure per eluderla. Una di queste è il gioco corale e aperto sulle fasce: si tratta di creare una situazione di grande respiro, in una manovra avvolgente che non dia tempo alle avversarie di risalire velocemente e lasciarti così in fuorigioco.5 Dove sta la lealtà di un conflitto? Se penso al fuorigioco mi sembra in sé una regola ingiusta. La giocatrice è riuscita ad arrivare, grazie a passaggi e scambi ben riusciti, vicino alla porta e viene bloccata da una norma. Si ritrova in una posizione potenzialmente vincente che, essendo riconosciuta come problematica, viene censurata. È la tua voglia di vincere che ti fa pensare in questo modo, o forse il disagio o la frustrazione di non potere andare liberamente, senza ostacoli, verso ciò che desideri? Io credo che il fuorigioco sia la regola che per eccellenza rende il gioco, gioco. Sembra paradossale che “fuorigioco”, un’espressione apparentemente così chiara nell’indicare la fine, l’esterno del gioco, l’esclusione definitiva, così vicina alla formula “essere fuori dai giochi”,6 indichi, invece, secondo me, proprio il contrario. Lo scopo di questa norma è infatti quello di rendere il gioco più avvincente e meno prevedibile, obbligandoti a riprendere il gioco, a pensare un altro movimento, a negoziare ancora con l’avversaria perché la relazione sia più viva possibile. Come ti sentivi quando finivi in fuorigioco? Sono sempre tornata dal fuorigioco, sorridendo. Un sorriso sarcastico perché sai di esserti spinta oltre, di avere superato il limite. E che il gioco riprende.

Fuorigioco è una rubrica di tattiche, movimenti e conflitti. Raccoglie interviste e racconti autobiografici di vissuti sportivi da un punto di vista non strettamente agonistico. Intende valorizzare pratiche sportive come esperienze di condivisione, trasformazione e potenziamento in cui i corpi sono pienamente in gioco. Fuorigioco è uno spazio per parlare delle dinamiche di gruppo nei giochi di squadra, dei non detti, delle relazioni dentro e fuori gli spogliatoi, dei vissuti emotivi in campo nel corpo a corpo con le altre, le compagne e le avversarie. Per giocare bisogna avere o assumere un ruolo. Quanto costa viverlo? Come giochiamo in un ruolo che non sentiamo congeniale? Che relazione si stabilisce con il maschile (allenatore, società, terna arbitrale, pubblico)? Come ci autorappresentiamo come sportive all’interno della squadra e fuori? Diciamo che giochiamo per passione. Ma di chi o di cosa lo esplicitiamo raramente.

Questa rubrica è la proposta di un’alternativa filosofico-esperienziale ai discorsi circolanti sulle modalità di vivere lo sport da parte delle donne. Dopo anni di inattività dal calcio, quest’estate mi è venuta l’idea di creare una squadra di calcetto. Pensavo fosse un fuoco fatuo, visto che è sempre più difficile conciliare gli impegni quotidiani con una attività sportiva serale, soprattutto d’inverno. Invece le cose sono andate diversamente: la squadra gioca ogni settimana da un anno. Pensando al freddo, volevamo premiarci con una felpa, così, con una amica, sono andata a chiedere supporto al titolare di un bar, chiedendogli esplicitamente di farci da sponsor.

“Ascolta, noi abbiamo una squadra di calcetto, ci daresti una mano per farci una muta per l’inverno?”. “Che tristezza una squadra di calcetto femminile!”, è stata la sua risposta. Anch’io una volta pensavo che giocare a calcetto fosse triste, vuoi mettere il calcio a undici? Il campo largo, il gioco in profondità, il lancio lungo, le accelerazioni, le verticalizzazioni, il fuorigioco! Tutto questo nel calcetto non esiste. Con il tempo non mi sono ricreduta, ma ho scoperto le potenzialità che il gioco a cinque offre, e mi diverto ancora, in modo diverso. “Ti capisco, ho giocato a calcio per tanti anni, il calcetto è un’altra cosa”. “Sinceramente mi fa tristezza una squadra femminile qualsiasi tipo di calcio pratichi”. Sì, avevo capito, idiota. Non ho ribattuto perché mi sono mancate le parole. Me ne sono andata. In quel momento ero impreparata a confrontarmi con una posizione come la sua, ma posso parlare a lungo della prestazione fisica, del talento, dell’eleganza e delle intuizioni delle donne in campo.

Nell’universo discorsivo mainstream, mediatico, escluse dal business che il calcio è perlopiù diventato7, le donne che giocano sono poco note, o rientrano in un confronto svalutante con il maschile. Donne che giocano a calcio suscitano ancora curiosità, ilarità e, a volte, come ha ribadito il mio interlocutore, tristezza. Lo sport che praticano rimane in una dimensione di svago, spazio di mero divertimento, spazio alieno di cui spesso non si interroga il senso. O si scade nella promozione della partecipazione e della valorizzazione del femminile in una tendenza omologante al maschile, oppure negli stereotipi della calciatrice, e della sportiva in generale, come eccezione perlopiù sexy.

L’intento di questa rubrica è creare nuove narrazioni, che accolgano esperienze e pratiche che si sottraggono al linguaggio del simbolico dominante di cui la cultura italiana è impregnata.

Siamo consapevoli che, come sostiene Silvia Jop, «la soluzione non si possa esaurire in uno spazio confinato in cui discutere il rapporto tra le donne e il calcio. Va sradicato il dato per scontato che il calcio è uno sport maschile che di tanto in tanto praticano anche alcune donne».8 La giornalista propone di farci promotrici di «una risemantizzazione della narrazione complessiva dell’universo calcistico», e propone «una riqualificazione a partire dalla matrice: rimbalziamo assieme».9

La rubrica è un tentativo di rimessa in gioco, a partire da una posizione di dislocamento, di pensieri e pratiche che tendono a non scadere né nello scimmiottamento di comportamenti già esistenti, né nella logica dell’astraente neutralità.

Lo sport spesso è espressione di sogni. Non a caso in tante abbiamo sognato di diventare calciatrici.

Recentemente alcune ragazze hanno voluto portare all’attenzione, con web serie, festival e tornei autogestiti, la loro passione di giocatrici e il disagio di giocare uno sport ancora emblema della virilità (S&C: Sesso&Calcio, di Maria Beatrice Alonzi e Giorgia Mazzucato, su web channel repubblica.itA qualcuna piace il calcio, prodotto da Stanza 101, racconta la squadra della Res Roma, Equipe Les dégommeuses, transfemifestesportiu). Le citiamo per dire che non siamo sole in questa operazione di risignificazione delle pratiche sportive, ma anche perché una delle puntate di S&C: Sesso&Calcio di Maria Beatrice Alonzi e Giorgia Mazzucato si intitola “Cosa è il fuorigioco?”. C’è un pregiudizio condiviso che rivendica la comprensione del fuorigioco solo da parte degli uomini: le donne sarebbero riluttanti -incapaci- a capire la regola. Senza falsa retorica, potremmo scardinare questo senso comune con un’azione simbolica significativa: ripartiamo dal fuorigioco.


Note:

  1. «Una regola pilastro (ha appena compiuto 90 anni) del calcio – scrive Francesco Ceniti su La Gazzetta dello sport– è stata snaturata e depenalizzata con il solo scopo di favorire qualche rete in più». Sono stati introdotti una serie di elementi di valutazione che hanno fatto perdere quello che era «lo spirito originario dell’offside che non lasciava margini di dubbio: sei davanti ai difensori? Gioco da interrompere. Sei in linea oppure dietro? Si può continuare». Francesco Ceniti, “Un rompicapo inapplicabile. Il fuorigioco è da cambiare”, La Gazzetta dello sport, 16.01.2015
  2. Françoise Jullien, Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Un altro accesso all’alterità, a cura di Marcello Ghilardi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2014.
  3. Ivi, pp. 45-46.
  4. Walter Bragagnolo, Marco Gaburro, Paolo Romagnoli, Dentro il gioco. Comportamenti e gestualità. Nuove proposte metodologiche per l’allenamento del calciatore, Calzetti & Mariucci, Ponte San Giovanni (PG), 2004, p. 204.
  5. «Avvolgere significa condurre attorno circolarmente. Nel caso calcistico il condurre attorno va visto come orientare la propria manovra in zone di campo adiacenti alla concentrazione difensiva degli avversari che, essendo raggruppati per difendere la zona del tiro in porta, lasciano libere le fasce laterali. Si possono distinguere due tipi di avvolgimento: uno basso e uno alto, a seconda che l’azione sia condotta con trame di gioco dove le traiettorie del pallone sono basse oppure con passaggi alti», W. Bragagnolo, M. Gaburro, P. Romagnoli, Dentro il gioco. Comportamenti e gestualità. Nuove proposte metodologiche per l’allenamento del calciatore, cit., p. 145.
  6. “Fuorigioco” si intitola un documentario di Davide Vigore e Domenico Rizzo sulla vita del calciatore Maurizio Schillaci, cugino di Salvatore, noto come Totò, l’eroe di Italia ’90. «Oggi Maurizio Schillaci ha 52 anni, è un barbone che chiede l’elemosina alla Stazione centrale di Palermo, dorme in un treno abbandonato e non ha più sogni. Lo hanno scovato due giovani registi siciliani, Davide Vigore e Domenico Rizzo, che sulla sua storia hanno realizzato il docufilm: Fuorigioco», in Lucio Luca, “La Storia”, Repubblica, 1.12. 2014). L’intervista a Davide Vigore si può leggere al link:http://www.loraquotidiano.it/2014/11/21/maurizio-schillaci-da-star-a-barbone-il-film-sul-calciatore- dimenticato13495/
  7. Tranne poche eccezioni (calcio, basket, motociclismo, golf e pugilato), lo sport In Italia è dilettantistico, cioè lo si pratica per diletto. Ma se per gli sport menzionati, gli uomini sono dei professionisti, le donne, in nessuna disciplina sportiva, lo sono. Questo significa che per loro lo sport non può essere una fonte principale di reddito: un lavoro. Alle donne atlete è imposto per legge il dilettantismo: la legge 91 del 1981, che regola il professionismo sportivo, esclude di fatto le donne.
  8. Silvia Jop, freelance writer, collaboratrice giornalistica e attualmente coordinatrice redazionale presso “Il lavoro culturale”, Su Fùtbologia: riflessioni sparse in brevi accenni autobiografici, consultabile online a questo link: http://www.lavoroculturale.org/su-futbologia-riflessioni-sparse-in-brevi-accenni-autobiografici/. Questa riflessione fa parte di un interessante dibattito sorto intorno al convegno di Fùtbologia: «Considerato che il livello del discorso sul calcio in Italia è molto basso e il sistema del business globale del calcio è nella merda fin sopra i capelli, da tempo ci divertiamo meno. Però abbiamo un piano: una tre giorni per ripensare il calcio»: httt://blog.futbologia.org/.


(Per amore del mondo, n.13, 2015)

di Giovanna Borrelli


Nei conflitti contro progetti estrattivi di materie prime, le donne non sono solo vittime ma prendono parte in maniera attiva alle azioni di protesta, opposizione e denuncia delle conseguenze ambientali e sanitarie di questi progetti. Assumendo un ruolo predominante nell’opposizione all’industria estrattiva, le donne stanno rimodellando le pratiche esistenti, creando nuove possibilità di lotta che rifiutano l’imposizione della cultura dominante e di un’unica narrazione del progresso.

Una recente pubblicazione, apparsa sulla rivista Journal of Political Ecology, ha analizzato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale (Environmental Justice Atlas – EJA) con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte per la giustizia ambientale. Si tratta della prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva. I ricercatori hanno incluso nell’analisi progetti di estrazione di materie prime come oro, argento, rame, ferro, alluminio, piombo, metalli rari per la produzione di prodotti tecnologici, petrolio, ma anche diamanti e miniere di carbone. La mappatura dei conflitti comprende zone da tutto il mondo, in tutti e cinque i continenti.

L’Atlante è il più grande inventario esistente di conflitti socio-ambientali, con oltre 3.800 casi segnalati a marzo 2023. Circa il 23% di questi (896 casi) identifica le donne come attori importanti nelle proteste. È il risultato di un lavoro collaborativo da parte di accademici, singoli attivisti e organizzazioni che contribuiscono con approfondimenti per ciascun caso. Alle informazioni dell’Atlante i ricercatori hanno aggiunto, quando disponibili, quelle contenute in testi accademici pubblicati su riviste specialistiche, rapporti istituzionali e altre pubblicazioni di organizzazioni internazionali e locali coinvolte. I conflitti legati all’attività estrattiva possono verificarsi come conseguenza degli impatti socio-ambientali sulla terra, sull’acqua e sui mezzi di sussistenza, come reazione all’esclusione delle donne dai processi decisionali e quindi come proteste contro gli ostacoli all’autodeterminazione femminile, oppure a causa di compensazioni giudicate insufficienti.

I risultati dell’analisi mostrano che le attività estrattive producono sulle donne quattro tipi di impatti diversi: sulla loro salute e sul lavoro di cura che svolgono; sulle attività legate al sostentamento e al reddito; producono inoltre maggiore violenza nei loro confronti e influenzano le relazioni sociali all’interno delle comunità locali. Le quattro categorie di impatti non si escludono a vicenda, ma possono intrecciarsi tra loro. Di tutti i casi analizzati, il 67% indica conseguenze negative visibili o potenziali che riguardano specificamente le donne.

In molte comunità rurali, infatti, i compiti quotidiani delle donne sono determinati dalla divisione di genere del lavoro. Occupandosi della produzione di cibo e della gestione dell’acqua, le donne sono particolarmente consapevoli degli impatti che le industrie estrattive hanno sul territorio e sull’ambiente, e sono spesso le prime a denunciarne le conseguenze negative. Le conseguenze sulla salute si devono principalmente alle fonti d’acqua contaminate con cui entrano in contatto che determinano malattie della pelle, problemi legati alla salute riproduttiva come perdita di fertilità e malformazioni durante la gravidanza, problemi respiratori dovuti all’inquinamento da polveri fino allo sviluppo di cancro. Impatti dello stesso tipo possono manifestarsi anche sulla salute di figli e di altri componenti della famiglia, aumentando così il carico del lavoro di cura svolto esclusivamente dalle donne.

L’occupazione dei terreni coltivabili da parte delle industrie riduce inoltre l’accesso alle risorse, fonti tradizionali di reddito per loro. In questo modo la sicurezza economica delle donne diminuisce, mentre aumenta la dipendenza economica dal lavoro salariato degli uomini, alcuni dei quali lavorano proprio nei luoghi di estrazione.

Attraverso questi meccanismi, la presenza delle industrie estrattive rafforza le dinamiche patriarcali esistenti nei territori, accrescendo il privilegio maschile e rafforzando il dominio degli uomini. Una condizione che porta le donne a perdere lo status economico, sociale e culturale e a subire anche diverse forme di violenza. Sono minacciate fisicamente, uccise per la loro opposizione all’attività mineraria o sopravvissute a tentativi di assassinio. È il caso di Nasreen Hug che stava preparando una causa internazionale contro il progetto minerario di Phulbari in Bangladesh quando è stata assassinata. Diodora Hernández e Yolanda Oqueli sono entrambe sopravvissute a tentativi di omicidio per il loro attivismo contro i progetti Marlin e El Tambor in Guatemala. Inoltre, la violenza sessuale è usata sia da chi lavora nelle compagnie estrattive sia dalle forze di sicurezza.

Eppure, dai dati raccolti dalla pubblicazione, emerge che le donne non subiscono passivamente, ma partecipano attivamente all’organizzazione dell’opposizione alle industrie. Il documento distingue otto diverse modalità di protesta: azioni dirette come blocchi stradali, proteste e scioperi; organizzazione di eventi pubblici, come mostre o esibizioni artistiche; vigilanza del territorio, anche per monitorare gli impatti ambientali; promozione di campagne di sensibilizzazione e informazione; avvio di procedimenti legali contro le aziende responsabili di inquinamento; creazione di spazi per lo svolgimenti di attività sociali e politiche; pressione politica nei confronti delle autorità locali, del governo e delle stesse industrie per sensibilizzare alla loro causa e per garantire norme ambientali più severe; gestione dei bisogni materiali, sanitari ed emotivi della comunità come la preparazione di cibo durante le azioni di protesta.

La pubblicazione è ricca di esempi di donne che hanno lottato e continuano a lottare per la difesa dell’ambiente in cui vivono. Alcune attiviste si sono distinte per aver rifiutato di vendere la terra alle aziende e per aver resistito ai tentativi di esproprio, come nel caso dell’opposizione di Máxima Acuña alla compagnia Yanacocha, promotrice del progetto Conga per l’estrazione di oro e rame in Perù. In Guatemala, Estela Reyes ha bloccato da sola l’avanzata di un trattore, scatenando la resistenza alla miniera d’oro di El Tambor. Altre forme di resistenza comprendono le attività portate avanti da Mukta Jhodia, in India, che ha attraversato i villaggi del Kashipur per informare la popolazione dei potenziali effetti negativi che la miniera di Baphlimali avrebbe avuto sui terreni coltivabili, e quelle di Lorraine Kakaza che in Sudafrica ha lanciato una serie di podcast sui costi che l’estrazione del carbone avrebbe avuto sulla vita delle persone nella provincia di Mpumalanga. Alcune attiviste hanno anche deciso di proseguire il loro impegno entrando in politica: Francia Márquez, leader che si opponeva all’estrazione illegale di oro a La Toma, è stata eletta a giugno 2022 vicepresidente della Colombia.

Le donne svolgono molto più che un semplice ruolo di supporto, ma la loro capacità di impegnarsi nell’opposizione alle attività estrattive è spesso ostacolata. Se devono far fronte a compiti quotidiani che richiedono tempo, come la produzione di cibo, le faccende domestiche e la cura dei figli, hanno meno tempo da dedicare alla protesta. A volte subiscono pressioni da parte di familiari e di componenti della comunità ad abbandonare l’attivismo. L’analisi, infatti, mostra che esistono relazioni patriarcali anche all’interno dei movimenti di resistenza, che contribuiscono a riprodurre la disuguaglianza di genere anche all’interno dei gruppi di protesta. Le donne devono così affrontare sia le compagnie estrattive sia i partner maschili all’interno della comunità che in alcuni casi organizzano azioni di boicottaggio nei confronti dell’attivismo femminile.

La volontà di affermare la propria voce nei processi decisionali anche all’interno dei movimenti di opposizione, ha spinto molto spesso la formazione di gruppi di protesta formati da sole donne, alleati a livello locale e internazionale con altri movimenti. Per gli autori della pubblicazione, l’attivismo anti-estrattivista delle donne può contribuire a sfidare le tradizionali percezioni di genere all’interno delle comunità e a promuovere cambiamenti collettivi più ampi in alcuni contesti. È il lavoro, per esempio, portato avanti dalle afrocolombiane di La Toma, in Colombia, e dalle boliviane di Huanuni e Corocoro. Il loro attivismo sta recuperando pratiche ancestrali ripensandole attraverso nuove relazioni con il territorio e all’interno delle comunità, affermando la possibilità di una leadership anche femminile.


(Altreconomia, 22 marzo 2023)

di Bruna Bianchi


Finestre, balconi, abiti e zaini, vie principali delle città, stazioni della metropolitana, teatri, palazzi governativi, monumenti sono i luoghi nei quali continuano improvvisamente ad apparire cartelli e striscioni spesso con messaggi in codice, si svolgono azioni di protesta, vengono strappate o danneggiate le lettere Z, appaiono richiami a libri come 1984, ormai introvabile nelle librerie, di George Orwell. Come nei mesi precedenti, le proteste femminili, individuali e di gruppo, si rivelano le più creative e coordinate. Naturalmente la repressione nei confronti di chi protesta contro la guerra cresce. «Ho paura, ma non taccio» ha scritto Julia sul cartello che teneva tra le mani a San Pietroburgo il 12 giugno. Un resoconto di quanto accaduto negli ultimi due mesi in Russia


Mentre decine di migliaia di uomini fuggono dalla Russia per non partecipare a una guerra atrocele proteste all’interno del paese continuano. Secondo gli ultimi dati (No to War. How Russian Authorities are Suppressing Anti-War Protests1), dall’inizio del conflitto al 13 aprile i casi di arresto in base al decreto che punisce il “discredito” alle forze armate sono stati almeno 993 in 78 regioni. Sfuggono ai provvedimenti repressivi molti autori di graffiti o installazioni in vari edifici e luoghi cittadini e coloro che hanno messo in circolazione monete e banconote con messaggi contro la guerra2.

I provvedimenti adottati o entrati in vigore ad aprile hanno inasprito le pratiche repressive, i controlli, aumentato gli importi delle multe e allungato l’elenco dei reati. Ne rende conto il rapporto aggiornato di OVD-info No to War (cit.)Continuano, infatti, le chiusure dei siti internet per qualsiasi vago accenno alla guerra, le minacce e gli arresti di giornalisti e giornaliste, le pressioni per il licenziamento di attivisti e i loro amici e congiunti, la persecuzione dei collaboratori di Naval’nyj, mentre multe elevatissime colpiscono periodici, tra cui il giornale indipendente Vecherniye Vedomosti, e radio per costringere alla bancarotta e sono state inflitte le prime confische dei beni a chi è stato accusato di diffusione di false notizie (almeno quattro di questi casi sono venuti a conoscenza dell’organizzazione per i diritti umani Agora, resoconto 4-10 giugno).

Contemporaneamente, si spinge la popolazione a rendere esplicito il proprio sostegno alla guerra apponendo una sui social o sulle auto. Nella società civile non vi deve essere più alcuno spazio per i dubbi o il tacito dissenso; se non si è a favore del conflitto si è contro il conflitto, il governo, lo stato, l’esercito, e pertanto si è sempre perseguibili.

È sempre più difficile, infatti, evitare il proibito; qualsiasi accenno alla pace, anche nelle conversazioni private, può essere sanzionato. Valga per tutti l’esempio della frase citata nei social “siamo amici” pronunciata da uno dei personaggi del cartone animato per bambini “Il gatto Leopoldo”. Citarla è considerato un atto di “discredito”.

Mentre la repressione si inasprisce, i caratteri della protesta stanno in parte cambiando.

Nelle pagine che seguono – sulla base delle segnalazioni quotidiane a OVD in lingua russa –, e ai resoconti settimanali delle cause penali e civili in inglese (Russian Protest against the War with Ukraine. A Chronicle of Events, 15aprile-11giugno), tracciano un breve quadro delle proteste degli ultimi due mesi.

Letti uno dopo l’altro questi resoconti si fondono in un unico alto grido contro la guerra. Accanto a queste manifestazioni di protesta sui social e per le strade, oggi si possono leggere anche gli scritti di poeti e poetesse, scrittori e scrittici russi-e nella raccolta di testi a cura di Mario Caramitti e Massimo Maurizio, ***/*****. Voci russe contro la guerra, Università degli studi di Torino, 2022, liberamente scaricabile su collane.unito.it.

Attori, luoghi, simboli e messaggi in codice

Non sempre resoconti e segnalazioni riportano l’età e la condizione sociale degli arrestati, ma le immagini suggeriscono che appartengono a ogni classe di età – con una prevalenza di giovani, uomini e donne, spesso con bambini – e a ogni ceto sociale. Sono incappati nelle maglie della repressione giornalisti/e, artisti/e, studenti e studentesse, attivisti/e dei diritti umani, di organizzazioni giovanili e vegane, come il giovane che appare in una fotografia con il cartello “Vegan contro la guerra. Finisca questa follia” (foto).

Hanno manifestato la loro opposizione alla guerra anche due suore, un prete, un ex poliziotto e un candidato alle elezioni per il partito comunista.

Come nei mesi precedenti, finestre, balconi, abiti e zaini, vie principali delle città, stazioni della metropolitana, teatri, palazzi governativi, monumenti e altri spazi simbolici sono stati i luoghi in cui sono apparsi cartelli e striscioni, si sono svolte le performance di protesta, sono state strappate o danneggiate le lettere Z, sono stati tracciati graffiti, intonate canzoni in ucraino – talvolta prendendo a prestito il microfono da un musicista di strada – e sono stati distribuiti distintivi con la scritta «No alla guerra» o «La Russia sarà libera» (foto).

La bandiera a strisce bianca-blu-bianca, al posto di quella russa bianca-blu-rossa, è diventata il simbolo del movimento contro la guerra e ha fatto da sfondo a scritte e slogan (foto).

Tra coloro che hanno messo in atto le proteste c’è chi si è fatto arrestare più volte; l’attivista che compare in questa foto è al suo settimo arresto.

Sempre più numerosi i casi in cui i manifestanti hanno tenuto tra le mani un foglio bianco con 8 asterischi *** *****, quante sono le lettere di нет войне (No alla guerra): foto.

Evitare di scrivere qualsiasi parola sui cartelli e striscioni ha avuto lo scopo di evitare l’arresto oltre a quello di deridere. In un primo momento, infatti, gli agenti accorsi sul luogo della protesta, restavano perplessi, si consultavano sull’esistenza degli estremi per una sanzione, ma la repressione in Russia evolve rapidamente, spostando sempre in avanti i limiti del proibito e gli attori di queste forme di protesta sono stati comunque arrestati.

In un mondo in cui non si possono mai prevedere i motivi di un’accusa, i messaggi stanno diventando non solo indiretti, ma espressi in un linguaggio in codice. Per aggirare i controlli sempre più stringenti sui social, quando si vuole annunciare un’azione in cui si prevede di essere arrestati si usa la frase “vado a fare un passeggiata con il passaporto”.

Anche gli autori dei graffiti evitano messaggi espliciti. Il significato di queste opere non è stato ancora “decodificato” dalle autorità, non è stato discusso nelle aule dei tribunali e pertanto non appaiono nelle segnalazioni quotidiane di OVD. «Sono messaggi meno universali, occorre avere una certa cultura per comprenderli», ha detto in una intervista del 15 aprile Alexandra Arkhipova, la studiosa del Wilson Center che sta conducendo una ricerca sulla protesta in Russia.

Ne sono un esempio i graffiti che ritraggono le ballerine del lago dei cigni di Čajkovskij. Quando Leonid Brežnev morì, spiega Arkhipova, la televisione di stato non ne diede subito l’annuncio in attesa di trovare un accordo sul successore e trasmise in continuazione Il lago dei cigni. Le ballerine, dunque, comunicano l’auspicio che la situazione politica possa mutare radicalmente in seguito alla morte di Putin. Lo stesso auspicio è espresso dalla frase: «Brindiamo alla sciarpa e alla tabacchiera» che si riferisce all’assassinio dello zar Paolo I, strangolato con una sciarpa e finito da un colpo alla testa con una tabacchiera.

«Quando la verità è vietata, è cento volte più necessaria»

Di fronte alla volontà di mettere a tacere ogni voce di dissenso, non stupisce che molti episodi di protesta vertano sulla libertà di parola.

«Ho paura, ma non taccio» ha scritto Julia sul cartello che teneva tra le mani a San Pietroburgo il 12 giugno (foto).

«Ho il diritto di parlare» è quanto si legge sul cartello di un giovane uomo che il 26 maggio si è recato sulla Piazza Rossa, portando con sé il figlio in passeggino.

Per denunciare la censura, alcuni post sui social hanno raffigurato una Z apposta su una bocca cucita.

A Ekaterinburg il 4 maggio Nadežda Sayfutdinova con ago e filo la bocca se l’è cucita davvero e per questo ha rischiato l’internamento in ospedale psichiatrico. Sul poster che teneva tra le mani era scritto:

«Tacere! Non si può! Non si può tacere! 
La guerra non è pace! 
La libertà non è schiavitù! 
L’ignoranza non è forza!». 
Eccola lì la vostra ideologia 3 (foto).

Il simbolo dell’operazione speciale, la Z, è stata al centro di molte azioni di protesta; il simbolo è stato di volta in volta rimosso, strappato, bruciato, coperto di vernice rossa, oggetto di sputi e altre manomissioni, come quella di disegnarle accanto “un calcio dimostrativo”, come è accaduto a Čeboksary.

«Togliete quella Z, è il simbolo dell’omicidio. Non c’è niente di che essere orgogliosi, è una vergogna!» si poteva leggere il 12 giugno, la giornata della Federazione russa, sul pezzo di carta esibito da un manifestante di fronte al Teatro di Mosca.

Un caso che ha fatto sensazione è quello di Natalia Filonova, giornalista di Ulan-Ude, città della Siberia orientale, arrestata il 26 aprile per aver chiesto all’autista di un autobus di rimuovere la Z. L’uomo, al contrario, ha fatto scendere tutti i passeggeri e ha portato con la forza Natalia al posto di polizia.

Gli studenti dell’Università di Ekaterinburg, invece, hanno deciso una raccolta di firme per ottenere la rimozione della Z dalla facciata dell’Università. Dal 19 aprile alla fine del mese le persone che hanno firmato sono state 570, 300 delle quali studenti e studentesse.

«E il Signore disse: “cosa hai fatto?”»

Più la guerra si prolunga e più numerosi sono i cartelli che gridano il numero dei morti, in particolare di civili e bambini. Il 26 maggio è stata arrestata a Soči Anna Goretskaya che nei pressi del partito nazionalista e conservatore “Russia unita” aveva esposto il cartello: «Mariupol è completamente distrutta. In termini numerici, era uguale a Soči».

A Ekaterinburg Ivan Ljubimov ha esposto un manifesto di denuncia della violenza all’infanzia; il disegno raffigurava una bambina sul punto di essere colpita dallo scarpone di un soldato. Ha scritto Ivan: «Il male non riuscirà a trionfare. Genesi 4.11. E il Signore disse: “Cosa hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra”». «Vergogna ai criminali di guerra. Bisogna perseguire i saccheggiatori, gli stupratori e gli infanticidi» (foto).

Nella stessa città il 23 giugno un manifestante ha voluto porre sotto agli occhi dei concittadini la realtà della guerra occultata nella comunicazione pubblica: «Dal 24 febbraio in Ucraina sono morti o sono stati feriti 10.308 abitanti».

L’orrore per i crimini contro i civili ha indotto anche un prete di San Pietroburgo a diffondere un video in cui affermava che i soldati russi morti in Ucraina non sarebbero “andati in Paradiso”. Il religioso è stato arrestato per aver screditato l’esercito; due icone, un crocifisso di legno e una tonaca gli sono stati sequestrati. Con la stessa accusa un cittadino sordomuto di Tambov è stato multato di pari a oltre 500 euro per un post che raffigurava una donna in costume tradizionale ucraino nell’atto di sferzare un soldato russo. Sotto all’immagine la scritta: «Quando batto un soldato russo con un ramo di salice, è un gran giorno».

Una multa pari a 3.500 euro è stata inflitta a una giornalista di Ekaterinburg per i suoi post contro Putin, sulle stragi di Buča e Mariupol e per aver scritto: «È strano: i russi non credono alle statistiche di mortalità per Covid, ma per qualche ragione credono in una guerra che non fa vittime, né tra i russi, né tra i civili».

La drammatica realtà delle distruzioni in Ucraina è stata messa in evidenza da Valerij Myazdrikov il 22 maggio a Mosca. Questo il suo commento: «Occupanti, predoni e assassini di Putin, andate via dall’Ucraina! La Crimea è anche Ucraina! Libertà per i prigionieri politici!» (foto).

La sofferenza delle madri ucraine è stata rappresentata in un’opera di grandi dimensioni dell’artista Yelena Osipova esposta in una via di San Pietroburgo il primo maggio e accompagnata dalla scritta:

«1° maggio: Solidarietà internazionale (in alto) 
No alla guerra, no alla guerra (ai lati) 
XXI secolo! (al centro) 
La morte dell’umanità è la conseguenza della guerra» (in basso). (foto)

Una settimana dopo, il 9 maggio, giornata della vittoria, l’anziana artista è stata fermata sulla soglia di casa per impedirle di manifestare contro la guerra. Non sappiamo quale opera Yelena Osipova intendeva portare con sé, ma, a proposito degli eroi, il 27 febbraio in uno dei suoi dipinti aveva rappresentato un soldato bendato a cui la madre strappava l’arma dicendo: «Non combattere questa guerra, figlio» e l’artista aveva aggiunto le parole: «Soldato, getta il fucile. Questo è ciò che fa di te un eroe» (fonte).

Nelle segnalazioni di OVD troviamo solo un esempio di rifiuto del servizio militare, ma significativo per gli echi di un’altra terribile guerra nelle sue dichiarazioni. Saveli, un giovane di Stavropol’, nella Russia meridionale, all’inizio di aprile aveva chiesto l’esenzione e avanzato richiesta di servizio alternativo. Convocato all’ufficio di reclutamento e invitato a esporre le sue ragioni, così ha riassunto la sua risposta: «Ho spiegato la mia convinzione che la vita umana abbia un immenso valore. Ho anche raccontato che mia madre aveva fatto l’esperienza della guerra a Groznyj, che era stata sotto i colpi dell’artiglieria per un mese e che miracolosamente si è salvata, che mi diede alla luce quando era già avanti negli anni e che io non voglio mettere a rischio la mia vita». Tratto in arresto, di lui non abbiamo trovato altre notizie.

A commento del reclutamento e della sua ideologia omicida, a San Pietroburgo ha scritto il 16 giugno sul suo poster Aleksej Dudinsky:

Forse che augurare ai nostri ragazzi di tornare vivi dalle loro madri e mogli significa screditarli? 
E mandarli sotto le pallottole e i proiettili significa sostenerli? 
Russia sei sana di mente? 
Fermate la guerra!

«Uccidete tutte le guerre, maledite tutte le guerre»

Tra coloro che hanno protestato c’è chi ha voluto comunicare il suo messaggio con le parole di grandi poeti e scrittori per affermare verità universali, richiamarsi alle tradizioni culturali russe e in particolare alle parole di Tolstoj. Il 23 giugno a Ekaterinburg, un uomo è stato arrestato – fonte – per aver riprodotto nel suo poster una poesia di John Donne (1572-1631), Meditazione XVII:

Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te1.

A Pskov Ivan Kulesh è stato arrestato il 21 giugno per un post con una lunga citazione di Tolstoj tratta dallo scritto Ricredetevi! (1904) contro la guerra russo-giapponese:

E centinaia, migliaia di uomini in uniforme e con diversi strumenti di morte – la carne da cannone – storditi dalle preghiere i sermoni, gli appelli, le processioni, le immagini, i giornali, con l’angoscia nel cuore, in un coraggio apparente, lasciano parenti, mogli, figli e vanno là dove, arrischiando la loro vita, commettono l’atto più terribile: la strage di uomini che non conoscono e che non hanno fatto loro alcun male2.

Alexander Kapustin a Krasnoyarsk il 28 maggio ha voluto sferzare gli apatici con una citazione di Albert Einstein: «Il mondo sarà distrutto non da coloro che fanno il Male, ma da coloro che lo guardano senza fare nulla».

Ma il libro che è diventato il simbolo della protesta è 1984 di George Orwell. L’opera, che è andata a ruba in pochi giorni, rivela ai lettori della Russia di oggi le analogie tra la visione distopica del romanzo con la realtà del regime putiniano. Portare il libro con sé è diventato un segnale di riconoscimento. Così il 31 maggio, il giovane Aleksej Zorin si è recato davanti alla Duma con un cartello in cui aveva scritto «1984 – Possiamo replicare» (foto).

Il giorno successivo, a San Pietroburgo, Oleg Klimenchuk ha citato la poesia di Robert Roždestvenskij, Requiem, dedicata ai soldati russi morti nella Seconda guerra mondiale e che termina con le parole: «uccidete tutte le guerre, maledite tutte le guerre». Per questo Oleg è stato aggredito non lontano dalla sua abitazione.

«Mio nonno non ha combattuto per un futuro del genere»

Il 9 maggio, giornata della vittoria, si sono svolte le proteste più numerose e di aperta e dura condanna della guerra. In quel giorno sono state arrestate 125 persone; almeno 50 attivisti e attiviste, note per aver partecipato a precedenti manifestazioni di protesta, sono state quelle fermate nelle stazioni delle metropolitane, individuate attraverso il riconoscimento facciale. Un numero imprecisato di persone sono state intimidite da minacce e insulti affissi alle porte delle loro abitazioni da parte di volonterosi collaboratori del regime.

A Mosca, ma anche in altre città, su molti cartelli e striscioni spiccavano le fotografie di coloro che avevano combattuto nella guerra di liberazione in divisa militare e medaglie sul petto. Le reggevano tra le mani i nipoti.

«Ha combattuto per la pace!», ha scritto Ekaterina Voronina, «Non voleva che si ripetesse». Il nonno diceva: «Se solo non ci fosse la guerra!», «Pace al mondo!», «Non voleva la guerra!». (foto).

«Mi vergogno di voi, nipoti. Abbiamo combattuto per la pace, tu hai scelto la guerra» (Novosibirk, 9 maggio, foto).

«Hanno combattuto per la Patria. E noi?» ha scritto sul suo poster un attivista per i diritti umani che ha manifestato a Mosca di fronte al ministero della difesa (foto).

Rabbia, indignazione e desiderio di sfida hanno animato la protesta del 9 e del 12 giugno, festa della Federazione russa.

«Russia, arrestami, non me ne frega un cazzo!» (Mosca, 9 maggio, foto).

«Putin, inizia la denazificazione da te stesso» (Vladivostok, 12 giugno, foto).

Né è mancato qualche tentativo di manifestazione eclatante. L’artista e fotografo Danila Tkatchenko aveva pianificato di far esplodere 140 ordigni, installati nei condizionatori di un edificio nei pressi della Piazza Rossa che avrebbero diffuso fumo azzurro e giallo durante la parata. Scoperto, l’artista è riuscito a fuggire dalla Russia.

«Non possiamo lavarci il sangue»

Come nei mesi precedenti, le proteste femminili, individuali e di gruppo, si sono rivelate le più creative e coordinate. Il tema ricorrente è il sangue versato, le vittime della guerra. «Io sono contro la guerra, l’Ucraina è inondata di sangue» (Maria, Krasnodar, 16 maggio).

«La Russia ha le mani insanguinate fino al gomito. #No guerra» (Alexandra, 9 maggio, Samara al Monumento della gloria).

Davanti al ministero degli affari esteri della federazione russa Ljudmila Annenkova, che già aveva scontato una pena di una settimana, è stata nuovamente arrestata il 7 giugno per aver manifestato contro la guerra in abito bianco sul quale aveva sparso vernice rossa: «Non possiamo lavarci il sangue» (fonte).

A San Pietroburgo il 9 maggio, sulla prospettiva Nevsky, si è svolta una manifestazione delle Donne in Nero. Tenevano tra le mani una rosa bianca e una copia del libro di Svetlana Aleksievič, Ragazzi di zinco, una raccolta di testimonianze sulla guerra afghana dedicata agli almeno quattordicimila giovani soldati che tornarono in Russia chiusi nelle casse di zinco, e che furono sepolti di nascosto. L’azione era stata proposta dalla “Resistenza femminista contro la guerra” (foto).

Un altro tema che ricorre nelle proteste femminili è la denuncia delle distorsioni del discorso mediatico. L’8 maggio, nel Parco della Vittoria a Ekaterinburg, Svetlana Moleva e Galina Bastrygina sono state arrestate per aver distribuito volantini contro la guerra in cui si rivolgevano ai cittadini affinché non guardassero i notiziari televisivi, ritrovassero il proprio giudizio, la propria voce e riconoscessero il vero motivo dell’invasione: le ambizioni di Putin.

Con lo stesso scopo a San Pietroburgo Anna Anisimova si è ammanettata a una televisione con l’immagine del giornalista putiniano Vladimir Solovyov (foto).

Tra coloro che sono coraggiosamente scese in strada ci sono state anche due suore. «Pace nel Mondo» e «Noi siamo per la pace» sono stati i loro messaggi (Krasnodar, 16 maggio).

«La polizia faceva battute sullo stupro»

A inasprire la condizione di chi incappa nelle maglie della “giustizia” si sono moltiplicati abusi di ogni sorta; perquisizioni e minacce si sono estese a coinquilini sospettati di complicità, a mogli e mariti, ai figli, ai tassisti, colpevoli di aver portato i manifestanti ai luoghi delle proteste. Né mancano ritorsioni ancora più vili, come quella che ha colpito il giovane uomo che sulla Piazza Rossa il 26 maggio aveva protestato per la libertà di parola portando con sé il figlio in passeggino. Poiché l’uomo non aveva con sé il certificato di nascita, il bambino gli è stato sottratto ed è stato portato in un istituto.

Alle minacce, alla reclusione in luoghi completamente bui, al rifiuto di chiamare gli avvocati ai posti di polizia, si sono aggiunte le torture, le minacce di strangolamento, le pressioni violente sulla persona arrestata affinché firmasse una dichiarazione di aver agito “per odio politico” aggravando così la sua posizione giuridica. Le violenze hanno colpito soprattutto donne e ragazze. Nelle stanze chiuse dei posti di polizia, lo spettro della violenza sessuale è sempre incombente. «Gli agenti facevano battute sullo stupro». È quanto è accaduto a tre giovani attiviste, Anastasia, Elena e Natalia, arrestate il 24 maggio sulla Piazza Rossa benché in quel momento non stessero compiendo alcuna azione di protesta. Natalia è stata portata in una stanza separata e da lì le compagne hanno sentito urlare.

Né è mancata la volontà di infierire su persone con disabilità. Amir Amaireh, dopo essere stato minacciato di detenzione speciale in un centro per criminali, quando gli agenti si sono accorti della sua disabilità, lo hanno costretto a stare a lungo in piedi per causargli dolore alle gambe (9 giugno, Irkutsk).

Tali crudeltà non soffocheranno la protesta, lo hanno dimostrato coloro che fin dall’inizio del conflitto hanno levato la loro voce contro la guerra, e, forse, il coraggio e la forza dei loro messaggi riusciranno a scuotere l’apatia e lo scoraggiamento che affliggono la nostra società, come l’appello, semplice, ma profondo, lanciato da Ekaterina Vorobyova il 22 maggio di fronte alla cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca:

«Не привыкай к войне»: «Non abituarti alla guerra» (foto).


Note

1 Per i casi riportati da questa fonte non è sempre facile risalire con esattezza alla data in cui si è verificato l’episodio di protesta. Le imprecisioni nel testo sono dovute a questa difficoltà.

2 Sui graffiti e la protesta in Russia si veda: https://serenoregis.org/2022/04/01/graffiti-contro-la-guerra-in-ucraina/.

3 Sono queste le frasi leggibili.

4 Cito dalla traduzione italiana che compare in numerosi siti tra cui: http://www.claudiomalune.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2450:john-donne-nessun-uomo-e-unisola-meditazione-xvii&catid=768:donne-john&Itemid=86.

5 Cito dalla traduzione italiana recentemente ripubblicata da Gruppo Abele Edizioni, Torino 2022, p. 25.


(comune-info.net, 29 giugno 2022)

di Umberto De Giovannangeli


Ha dedicato la sua vita alla difesa dei più indifesi. Nell’amata Africa come nella Napoli diventata oggi la sua città. Per lui, solidarietà, pace, giustizia sociale non sono solo parole ma valori da praticare là dove s’incontra la sofferenza, la rabbia ma anche la voglia di riscatto dei “dannati della terra”, come quelli da lui incontrati, “vissuti”, a Korogocho (“Caos, confusione”), una delle baraccopoli che attorniano Nairobi, capitale del Kenya. Questo e tanto altro è Alex Zanotelli, 84 anni portati benissimo, missionario comboniano, icona vivente del pacifismo italiano. Sulla guerra ha idee molto chiare.

Si dice: senza le armi fornite alla resistenza ucraina dagli Stati Uniti e dall’Europa, i russi avrebbero già conquistato l’Ucraina. Padre Alex, lei che all’invio di armi si è sempre dichiarato contrario, si sente per questo un “sodale di Putin”?

In questa lista di proscrizione dovrebbero mettere anche Papa Francesco. Ma non si azzardano a farlo, semmai provano a silenziare le sue vibranti denunce contro la guerra e le spese militari. Quello che è avvenuto lo riassumo in pochissime parole. Chi ha vinto è il complesso militare-industriale. Prima di tutto degli Stati Uniti e poi dei nostri complessi militari-industriali. Sono i produttori di armi che hanno vinto. E adesso avranno una gran fortuna in avanti. Ci hanno portato alla guerra in Ucraina, ma non si fermeranno qui. Si arriverà quasi certamente ad una nuova cortina di ferro, i blocchi. Ci stiamo già armando adesso e se ci si arma ci si prepara ad altre guerre. È questa la follia umana. Siamo pazzi. Io non ho altre parole.

Ai pacifisti s’imputa una equidistanza, di fatto, fra gli aggrediti e l’aggressore…

Ci sono due cose importanti da tener presenti. Prima di tutto cominciamo col dire che questa storia dell’equidistanza è una gran balla. Perché la prima cosa che noi diciamo è la condanna completa della Russia o per meglio dire del governo di Putin. Non parliamo della Russia tout-court altrimenti continuiamo a demonizzare quel Paese e quel popolo tutto. È il complesso militare-industriale russo, e coloro che ne sono capo, il responsabile di quanto sta avvenendo. E non il popolo russo, e questo va tenuto sempre ben presente. Quel sistema lo condanniamo senza se e senza ma. Hanno invaso una nazione, facendo una guerra orrenda. C’è poi un secondo aspetto altrettanto importante… Vale a dire?

Riguarda la non violenza. Non si può parlare di non violenza adesso in Ucraina. Come fai a farla! La non violenza richiedeva che prima avessimo fatto tutto un lavoro per preparare il popolo ucraino a reagire. A reagire prendendo coscienza, anche facendo tesoro delle lezioni della Storia. Voglio essere molto chiaro su questo. Molto, e male, si è discusso sulla resa. So delle accuse rivolte ai pacifisti dagli interventisti in divisa: allora cosa volevate, che si arrendessero… La storia, dicevo. Pensiamo a cosa ha fatto la Danimarca nella Seconda guerra mondiale. Ben strana “resa” ai nazisti la loro. Il re girava per Copenaghen con la stella di David, e hanno portato tutti gli ebrei in Svezia, e li hanno salvati. Hanno fatto una resistenza, meglio che hanno potuto, dal basso. Hanno salvato un popolo, altrimenti Hitler avrebbe schiacciato tutto. Questa presa di coscienza, per tornare all’oggi, non è stata fatta con la Russia. Si è invece preferito imboccare un’altra strada…

Quale?

Quella di armare l’Ucraina. Il terreno è stato preparato molto bene, dal 2014 in avanti. Con un sacco di armi da parte degli Stati Uniti, degli inglesi… E allora è chiaro che si sono sentiti ringalluzziti. Ecco il lavoro della non violenza. Bisognava prima aiutare un popolo, seriamente, a capire che non poteva accettare di rimanere sottomesso, e quindi indirizzare e organizzare dal basso la resistenza non violenta. Come hanno fatto Nelson Mandela e Desmond Tutu in Sudafrica. Quello è stato un esempio di lotta popolare non violenta che ti fa scontrare con i poteri forti. Uno scontro che accetti ma senza il ricorso alle armi. Il rifiuto delle armi è tutto il contrario di una resa. Tu non puoi sottomettere a lungo un popolo che ha preso coscienza e rivendica e si batte per i propri diritti. Ma questo deve essere preparato. Un altro esempio molto bello è quello delle Filippine, quando fu abbattuta la dittatura di Marcos. Allora, i vescovi, comprendendo la gravità di una situazione che stava precipitando, chiamarono due specialisti bravissimi, che conosco personalmente, dell’Austria…

Cosa accadde, Padre Alex?

Accadde che i due passarono una settimana intera con tutti i vescovi delle Filippine ad aiutarli nell’organizzare una lotta non violenta. I vescovi “usarono” le diocesi fino a che non chiamarono nella piazza centrale di Manila una folla immensa. Marcos rispose schierando i carri armati con l’ordine di sparare. La gente, preparata alla non violenza, ha smontato tutto. Ed è caduta la dittatura di Marcos. Il popolo ha un potere enorme, una volta però che è educato. La non violenza doveva partire prima. Io non ho mai giudicato la resistenza dell’Ucraina. Loro hanno tutto il diritto a resistere. Senza gli aiuti, anche d’intelligence, che noi abbiamo fornito loro, è chiaro che un popolo non poteva resistere ad una potenza militare qual è la Russia. La non violenza attiva richiede un lavoro che parte prima. Ed è un lavoro che ha bisogno tempo e di un impegno costante. Quando un popolo scende in piazza, non c’è nessuno che possa, alla lunga, soggiogarlo. O abbracciamo la non violenza o è finita, non c’è più spazio per le guerre giuste.

Se dico Nato, lei che risponde?

Rispondo con le parole di una delle menti più profetiche che abbiamo avuto in questo Paese. Di uno che è stato l’anima della Costituzione italiana: Giuseppe Dossetti. Dossetti è stato uno dei due della Democrazia cristiana che quando si trattò di votare sull’adesione dell’Italia alla Nato, nel ’49, votò contro. Dando pubblicamente la spiegazione del suo no. Dicendo, in buona sostanza, carissimi deputati, io voto contro, per la semplice ragione che se noi aderiamo alla Nato d’ora in poi l’Italia non sarà più un Paese sovrano. La nostra politica estera la farà qualcun altro. Ha spaccato con De Gasperi e poi si è ritirato dalla politica ed è diventato monaco, dando un importante contributo teologico, assieme al cardinal Lercaro, al Concilio Vaticano secondo. Quella che dette Dossetti è l’unica risposta. Si dice, a ragione, che l’Europa non ha una politica. Non ce l’ha, ma questo sono in pochi a dirlo, perché siamo prigionieri dell’America. Son loro che fanno la nostra politica.

Si dice che la pace si fa con il nemico. Ma quando si definisce il capo dei tuoi nemici, un “macellaio” per giunta genocida. Che cosa si può dire?

Vuol dire che Biden non vuole la pace. Ecco perché la guerra si prolunga. Ed ecco perché stiamo chiedendo che siano Biden e Putin a incontrarsi. Sono loro i due responsabili. E la comunità internazionale deve spingere perché venga trovata una soluzione equa ad una situazione che non nasce il 24 febbraio ma otto anni fa. Cercando di non umiliare Putin. Purtroppo è quello che stanno facendo: creare il mostro. Questa demonizzazione non aiuta la ricerca di una pace equa. E poi, per favore, non andiamo a cercare i crimini o additare criminali. È come se noi non li avessimo fatti, in Afghanistan, in Iraq, ovunque abbiamo portato guerre. È la guerra che è criminale. Quando si usano termini come quelli utilizzati da Biden allora vuol dire che non c’è volontà. Adesso sembra che si stia aprendo qualche spiraglio. Mi auguro che loro due possano sentirsi al telefono e poi vedere come fare a sedersi poi assieme agli ucraini per trovare un quadro giuridico che permetta al popolo ucraino di andare avanti. Ognuno dovrà rinunciare a qualcosa, ma la pace val bene sacrifici. Nonostante tutto, un negoziato è sempre possibile, ci si può mettere d’accordo. Ma i combattimenti devono cessare. La posta in gioco è altissima, rischiamo grosso, una guerra nucleare, l’inverno nucleare.

Noi parliamo giustamente della sofferenza del popolo ucraino. Ma, e penso soprattutto ai grandi mass media, non s’ignorano colpevolmente altri conflitti in corso, oscurando dolori indicibili e guerre “dimenticate” come quella in Yemen…

È un tema importantissimo, questo. Fondamentale. Questa copertura mediatica incredibile che si fa della guerra in Ucraina, mostrando tutte le cose più orrende, è fatta per uno scopo ben preciso, quello di assolutizzare questo conflitto, come se fosse l’unico sulla faccia della Terra.

Invece?

Leggevo proprio ieri su Le Monde diplomatique un articolo molto ben documentato, in cui si parla di 166 zone di conflitto. 166 a livello mondiale! Alcune sono guerre che vanno avanti da anni. Lei ha menzionato lo Yemen. C’è solo da vergognarsi. L’Onu definisce quella in atto in quel Paese la crisi umanitaria più terribile che esista al mondo. Eppure noi italiani continuiamo a vendere le bombe all’Arabia Saudita che le usa poi per bombardare lo Yemen facendo strage di civili. Su questo, silenzio. E soprattutto l’Africa. Io parlo del Congo. Sono milioni e milioni i congolesi morti. È una guerra che va avanti dal ’99. E perché questo? Perché vogliamo i minerali che ci servono per i telefonini, per le batterie per le nostre macchine adesso che diventeranno elettriche. E via di questo passo. Non se ne parla. Si dice: in Russia non c’è opposizione. Come se da noi ci fosse piena libertà d’informazione. Ma quando, ma dove? Se la televisione fosse davvero un servizio, soprattutto quella pubblica, dovrebbe mettere sotto gli occhi di tutti quello che avviene. Ma ci si guarda bene dal farlo.


(Il Riformista, 18 maggio 2022)

di Katrin Kuntz


L’estate scorsa, mentre i taliban avanzavano verso Kabul, una giovane politica afgana ha organizzato una protesta davanti al ministero della difesa. È scesa in strada con un cartello di cartone su cui aveva scritto un messaggio rivolto agli abitanti delle province che stavano capitolando una dopo l’altra: “Siate forti”. Shagufa Noorzai, 29 anni, a quel tempo era una delle parlamentari più giovani dell’Afghanistan. Di lì a poco Noorzai ha dovuto lasciare Kabul per fuggire dai taliban. Per dieci giorni si è nascosta in casa di amici, poi è rimasta chiusa nel suo appartamento per un mese. I taliban l’hanno cercata e l’hanno quasi catturata. Una mattina, quando suo padre ha aperto la porta di casa, l’hanno picchiato e hanno rubato la macchina blindata di servizio usata ogni giorno dal suo autista per portarla al parlamento, che da quando i taliban hanno ripreso il potere non si è più riunito. Noorzai ha perso il suo ufficio, il lavoro e quindi il reddito, e infine anche il suo paese. Ormai vive ad Atene, in Grecia, ed è qui che ci racconta la sua storia.

Una mattina di poco tempo fa, Noorzai e altre politiche afgane hanno attraversato i sobborghi della capitale greca a bordo di un minibus. Due ore dopo, il veicolo si è fermato in una strada stretta vicino alla centralissima piazza Omonia. Le donne sono scese. Noorzai indossava un coloratissimo soprabito ricamato, un foulard e tacchi alti. Era arrivata al nuovo posto di lavoro: la sede della Rete delle parlamentari afgane. Il suo compito ora è far sentire la sua voce affinché certe cose non siano dimenticate. È entrata nell’edificio dove ha sede il parlamento afgano in esilio e si è diretta al secondo piano, dove un’organizzazione umanitaria greca, la rete Melissa, ha messo a disposizione uno spazio. Con lei c’erano più di venti donne che fino a poco tempo fa avevano un seggio nel parlamento di Kabul. Chiacchieravano in un’atmosfera rilassata.

C’erano donne giovani e meno giovani, alcune provenienti da famiglie politicamente in vista, altre rappresentavano le minoranze presenti in Afghanistan. Erano lì per discutere come responsabilizzare e dar voce da lontano alle loro connazionali. Sanno bene che in Afghanistan la libertà delle donne è sempre più limitata. E non hanno nessuna intenzione di arrendersi.

Un luogo centrale

Per le parlamentari che hanno dovuto lasciare Kabul, Atene è diventata un luogo importante e centrale. Fino a quando i taliban hanno preso il potere nell’agosto 2021, tra camera bassa e senato le donne occupavano 69 seggi. Circa un quarto di loro oggi vive in Grecia. La Bbc ne ha rintracciate altre nove che sono rimaste in Afghanistan ma vivono nascoste. Le altre sono andate in Albania o in Turchia. Di solito, quando scappano dal loro paese, queste parlamentari rimangono ad Atene solo qualche mese, prima di ottenere nuovi visti e proseguire alla volta degli Stati Uniti, del Canada o del Regno Unito.

È sorprendente, però, che tra tanti posti siano finite proprio qui. In fondo la Grecia sembra fare il possibile per tenere fuori i profughi: per le strade si vedono spesso senzatetto provenienti dalla Siria, e quanto agli afgani, quando tentano di entrare via mare dalla Turchia, è noto che la guardia costiera greca spinge molti dei loro gommoni in acque internazionali. A causa di quei respingimenti, che violano il diritto internazionale, il governo di Atene è stato criticato da vari paesi. Tuttavia, ha accettato di accogliere le deputate afgane. In Grecia c’è perfino chi sospetta che il governo le voglia usare come paravento. Al tempo stesso, varie organizzazioni greche si sono attivate per mettere in salvo le attiviste dopo caduta di Kabul. Tra loro c’è la rete Melissa, che ha stilato un elenco di 150 afgane influenti e le ha aiutate a lasciare il paese. È così che la maggioranza è arrivata ad Atene insieme ai familiari: in tutto, circa ottocento persone.

Nell’ufficio della direttrice della rete Melissa, Noorzai, che ha fondato il parlamento in esilio insieme alla collega Nazifa Bek, racconta la sua storia. In modo fermo ma gentile, indica alle partecipanti dove sedersi. All’inizio ignora l’interprete. Ha la sicurezza di una donna che, in una società patriarcale, è riuscita ad arrivare molto in alto. «Vengo da una famiglia in cui gli ostacoli erano molti», racconta Noorzai: una famiglia pashtun dell’Helmand, una provincia molto conservatrice. I suoi genitori erano dipendenti pubblici: la madre lavorava a scuola, il padre nel settore agricolo. Entrambi l’hanno sostenuta mentre si faceva strada in politica, ricorda, «il problema erano i miei fratelli e sorelle, e i parenti». Quand’era più giovane Noorzai si è sentita spesso ripetere: «Non uscire così tardi», «Smetti di studiare e sposati! », «Questo le donne non possono farlo». Una volta, uno dei fratelli le ha addirittura offerto dei soldi perché abbandonasse gli studi. «Io però ho continuato a cercare di migliorare», racconta. Fin da bambina le piaceva leggere.

Dopo il diploma, ha seguito un corso da infermiera e accettato un lavoro con Medici senza frontiere. Si è iscritta a giurisprudenza e dal 2015 ha fatto la coordinatrice provinciale di un’organizzazione umanitaria locale attiva nella promozione dei diritti delle donne. Tra i suoi compiti rientrava l’organizzazione di laboratori per incoraggiare le donne ad avviare attività imprenditoriali a casa. Noorzai ha anche partecipato come osservatrice a processi contro uomini accusati di crimini contro le donne; è andata a parlare con giornalisti che raccontavano di quei reati da una prospettiva puramente maschile; ha anche discusso con mullah favorevoli al matrimonio forzato. «Il mio orizzonte si è allargato sempre più», dice, «e la mia rabbia è cresciuta».

Nell’Helmand Noorzai è diventata una celebrità, derisa e rispettata al tempo stesso. Qualcuno ha chiesto a suo padre se giudicasse la figlia adatta a rappresentare la provincia al parlamento nazionale. Ricorda di aver detto: «Non sono sicura». E il padre le ha risposto: «Almeno provaci». È cominciata allora quella che lei definisce «l’esperienza più forte della mia vita». Durante la campagna elettorale, tra le altre cose un attentatore suicida ha provato a farsi saltare in aria davanti a casa sua e un funzionario dell’ufficio elettorale le ha fatto capire che per assicurarsi più voti bastava passare due notti con lui, oppure dargli una bella somma di denaro. «Io però», dice Noorzai mentre gli occhi le si gonfiano di lacrime, «ce l’ho fatta senza mafia, senza soldi e senza diventare una vittima degli uomini».

La notte delle elezioni, per motivi di sicurezza, ha mandato la sua famiglia a casa di alcuni parenti. E così, nell’estate del 2018, a 26 anni, ha occupato il suo seggio nel parlamento di Kabul. In Afghanistan quell’evento ha fatto scalpore. Il suo ex ufficio è ancora visibile nelle foto su Facebook: sulla pesante scrivania di legno con decorazioni dorate spiccano pile di libri, un vaso di fiori e un computer portatile. Nelle foto Noorzai porta un foulard verde e rivolge alla camera uno sguardo disteso. All’epoca, ricorda, aveva tre segretarie e una guardia del corpo, per via delle minacce ricevute. «Nonostante questo», racconta, «ogni giorno ricevevo visitatori e mi occupavo dei loro problemi».

Conquiste vanificate

Ad Atene è venuta a trovare le politiche afgane in esilio una parlamentare europea, la tedesca Hannah Neumann, vicepresidente della sottocommissione diritti umani. Neumann si rivolge a loro da collega: «Questo è un parlamento eletto, dunque loro sono legislatrici a pieno titolo». Quando l’Unione europea discute di aiuti umanitari, dice Neumann, dovrebbe parlare con loro almeno tanto quanto con i taliban. Lei è venuta a sentire in che modo le parlamentari afghane ritengono che l’Europa dovrebbe comportarsi nei confronti del governo guidato dai taliban.

La prima a prendere la parola è Amena Afzali, ex ministra del lavoro nel governo di Hamid Karzai. Quando ha lasciato l’Afghanistan era senatrice: «Non so se parlare del paese al passato o al presente”, dice. «Eravamo un paese di persone molto istruite, di poeti, di scienziate, di menti geniali. I taliban hanno vanificato tutte le nostre conquiste». Per giunta, osserva, il paese ha enormi problemi economici, a cominciare dalla minaccia della carestia. «Vogliamo parlare anche per chi è rimasto in Afghanistan e soffre». Poi si fa avanti Malalai Ishaqzai, vestita completamente di bianco, e comincia un’accesa discussione sostenendo che l’occidente dovrebbe revocare le sanzioni contro l’Afghanistan affinché il governo possa ricominciare a pagare lo stipendio a medici e insegnanti. Invece Aziza Jalis sostiene la necessità di accelerare le evacuazioni: «Tutte quante abbiamo parenti rimasti in Afghanistan che non riescono a ottenere i documenti per partire», dice. A quelle parole una di loro, che è dovuta andar via senza la figlia, ancora priva delle carte necessarie, esce dalla sala in lacrime. A questo punto si alza Noorzai. «Chi di noi è qui in esilio», dice, «deve alzare la voce e protestare, perché serve a proteggere le donne rimaste in Afghanistan. Se il mondo tiene gli occhi puntati sulle afgane, i taliban non oseranno ucciderle».

La discussione dura due ore. Le donne parlano a voce alta, ogni tanto piangono insieme, finché una si alza in piedi con fare deciso e dichiara che le deputate sanno di non avere più potere ma i loro gesti, il loro modo di fare dimostrano che hanno fiducia in sé stesse. Hanno ancora reti solide: conoscono ambasciatori, organizzazioni umanitarie e hanno contatti con i governi. Certo, le addolora sentirsi così impotenti di fronte al disastro umanitario del loro paese. Giudicano un tradimento il ritiro delle potenze occidentali che le proteggevano. Una delle partecipanti riassume così la situazione: «Da una parte non ci ascoltano e dall’altra ci fanno fuori». In altre parole, l’Unione europea non sta facendo abbastanza per l’Afghanistan e intanto, nel paese, i taliban mettono a tacere le donne.

Al termine della riunione Noorzai si mette alla guida e ci conduce a Glyfada, il sobborgo di Atene dove le organizzazioni umanitarie le hanno messo a disposizione l’appartamento in cui abita insieme alla madre, alla sorella e a uno dei fratelli. Lungo il tragitto ci mostra al telefono alcune vecchie foto che la ritraggono – unica donna circondata da uomini – nel suo ufficio, mentre prende parte a ricevimenti ufficiali ma anche a manifestazioni di protesta di fronte al ministero della difesa. A quel tempo, per la sua campagna contro l’avanzata dei taliban, aveva scelto questo slogan: «La mia natura non accetta il silenzio».

È ormai sera quando Noorzai arriva a Glyfada. È il momento di uscire per la passeggiata quotidiana, tra negozi di lusso e ristoranti di sushi. Noorzai è giovane e sta cominciando una nuova vita. Ha chiesto un visto per il Canada, dove ha intenzione di frequentare l’università e forse aprire un sito dove vendere abiti tradizionali afgani. «Guardo avanti», dice. Ma il suo sguardo rimarrà per sempre rivolto anche al passato.


(Internazionale, 8 aprile 2022)

di Emanuela Grigliè


Le città non sono neutre, anzi. Vengono plasmate per i bisogni di un cittadino tipo che però coincide quasi sempre con il maschio bianco eterosessuale di una certa età. Con la conseguenza che le necessità delle donne non vengono quasi mai prese in considerazione. Per esempio i bagni pubblici: pochini, ecco perché spesso le ragazzine una volta che hanno il ciclo smettono di frequentare i parchi. Anche lasciare le aree gioco senza strutture penalizza le bambine: i maschi tendono a essere più invadenti e trasformare ogni prato in un campo da calcio, spingendole ai margini. I mezzi di trasporto non sempre sono pensati per chi si trascina in giro un passeggino, a cominciare dagli “individualisti” monopattini e bike sharing. Marciapiedi sconnessi, strade poco illuminate, porte di uffici pubblici che pesano tonnellate.

La non considerazione delle donne nella pianificazione degli spazi urbani non è casuale, ma ripropone una struttura della società che si fonda sulla reclusione del femminile nell’ambiente domestico. E non tiene conto del fatto che le donne svolgono il 75% del lavoro non pagato di caregiving, assistendo bambini e genitori anziani con il risultato che il loro modo di navigare le città è molto differente – e molto meno lineare – di quello maschile. I loro viaggi sono a zig-zag, con tante tappe intermedie. Senza dimenticare che le donne in media guadagnano meno degli uomini e quindi per loro spostarsi con mezzi privati può essere proibitivo.

Ma progettare in modo più inclusivo si potrebbe, l’antidoto si chiama urbanistica di genere. «Ovvero includere la prospettiva femminile all’interno della progettazione. Non tanto per costruire città solo a misura di donna, ma inclusive per tutte e tutti», spiega Azzurra Muzzonigro, architetta, che insieme a Florencia Andreola, dottora di ricerca in Storia dell’architettura all’Università di Bologna, è autrice di Milano Atlante di Genere commissionato da Milano Urban Center (Comune di Milano e Triennale Milano), esito di due anni di osservazione della città di Milano da una prospettiva di genere.

La loro associazione si chiama «Sex and The City» e ha lo scopo di promuovere, attraverso una mappatura critica della città, contesti urbani sensibili più alle differenze che alle standardizzazioni. «Milano se la cava meglio del resto del Paese» dice Muzzonigro, «del resto qui il 50% delle donne lavora e questo significa che lo stereotipo “donna casalinga-uomo in ufficio” è meno applicato. Anche, perché, diciamolo, oggi Milano è economicamente inaccessibile a famiglie con meno di due stipendi. Emerge così una buona distribuzione di tutta una serie di servizi che sono anche abbastanza capillari, anche se dipendono in gran parte dal terzo settore e quindi tendenzialmente volatili. Ottimi esempi sono la rete antiviolenza, gestita dal comune mettendo insieme tanti soggetti diversi tra loro. Un modello decisamente da esportare». Sul fronte trasporti, dalla ricerca emerge che a Milano il 76% delle stazioni della metro ha l’ascensore. Male invece per quel che riguarda i consultori, che stanno sparendo e sono molti meno di quelli previsti per legge, così come gli asili pubblici dove i posti disponibili scarseggiano. Mentre il 50% delle donne intervistate ha dichiarato di sentirsi in pericolo di notte per le strade. Insomma, progressi da fare ce ne sono ancora parecchi.

E l’occhio è rivolto all’esempio delle città europee più virtuose in questo senso: Barcellona, Parigi e Berlino. Ma soprattutto Vienna, incoronata più volte la città più vivibile del mondo grazie anche al

progetto iniziato trent’anni fa per sviluppare quella che sulle rive del Danubio chiamano Fair Shared City, a misura di tutti, dove addirittura dal 1992 esiste l’Ufficio per le Donne, dedicato alla parità di genere e all’empowerment. Il primo progetto coordinato da questo dipartimento fu la Frauen-Werk-Stadt, un blocco di 360 appartamenti di nuova concezione, disegnati da Franziska Ullmann, Elsa

Prochazka, Gisela Podreka e Lieselotte Peretti, quattro architette selezionate attraverso un concorso riservato a sole donne. Motore dell’impresa la volontà di facilitare al massimo la vita quotidiana

delle donne con soluzioni abitative che si adattano alle varie fasi della vita di una famiglia, oltre a servizi e spazi comuni per agevolare la socialità e gli spostamenti a piedi.

C’è anche però chi obbietta che un approccio gender-specific possa consolidare in certi casi le già enormi differenze di genere, identificando la cura domestica come un lavoro da donne. Purtroppo l’architettura da sola non può certo cambiare tutto e portare a una più equa distribuzione dei compiti all’interno della famiglia, ma può sostenere chi se ne occupa rendendolo un po’ meno complicato.


(La Stampa, 4 marzo 2022)

di Guido Santevecchi 


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Si chiama «tangping»: è il nuovo manifesto nel quale si riconosce quella parte della gioventù cinese che si sente schiacciata da una società sempre più competitiva, dove contano solo la carriera e il potere d’acquisto. «Tangping» significa «stare sdraiati» ed è diventato sinonimo di rifiuto della rincorsa del successo, del denaro, del consumismo. Una forma di resistenza passiva al materialismo sfrenato. 
L’espressione ha preso piede da aprile, quando un millennial anonimo ha descritto su un forum online il suo stile di vita degli ultimi due anni. «Ho rinunciato ad avere un impiego fisso, lavoro solo pochi mesi, quello che basta per avere lo stretto necessario. Poi sto saggiamente disteso, faccio buone letture, non voglio comprare niente che non sia indispensabile. In Cina non abbiamo mai avuto una corrente ideologica che esalti la soggettività dell’essere umano, siamo in piena involuzione, così ho deciso di fare “tangping”». Il giovane deve aver studiato, perché ha citato nel suo ragionamento il filosofo greco Diogene, famoso per aver scelto di vivere in una botte e descritto così da Plutarco nelle Vite parallele: «Il re in persona (Alessandro Magno) andò a cercarlo e lo trovò disteso al sole… gli chiese se avesse bisogno di qualcosa e Diogene rispose: “Sì, spostati che mi togli il sole”». Il giovane cinese ha aggiunto al post una foto che lo mostra felicemente disteso sul letto di giorno. 
L’hashtag #Tangping ha cominciato a correre sul web mandarino. Si è creato un forum di discussione sul tema con commenti di questo tenore: «Inviare il proprio curriculum per trovare lavoro è come mettere un messaggio in bottiglia e affidarlo all’oceano»; «chi ha detto che ogni bravo cinese deve impegnarsi per accrescere la produttività, avere successo, acquistare un’auto, fare un mutuo per la casa, sposarsi e avere dei figli?»; «sì, rilassiamoci e sdraiamoci tutti per un po’». I social network hanno cominciato a popolarsi di meme con gatti e cani allungati supini su letti e divani. 
La diffusione del tormentone «tangping» è stata notata dalle autorità, che si sono preoccupate. Anzitutto perché ogni aggregazione intorno a un pensiero non ispirato dal Partito è vista con sospetto a Pechino. E poi, i pianificatori dell’economia statale temono che i tangpingisti diano il cattivo esempio alle masse giovanili, togliendo slancio patriottico al «Sogno cinese» di Xi Jinping, che non si stanca di ordinare ai cinesi di moltiplicare gli sforzi per produrre di più e consumare di più «per costruire una società prospera». Si inquadra in questa visione anche la nuova legge che permette alle coppie sposate di avere tre figli: i bambini crescendo diventano lavoratori e consumatori. Risposta via web di un ribelle del «tangping»: «Noi tutti pensiamo a sdraiarci e loro vorrebbero spingerci a riprodurci, non capiscono proprio». 
La stampa di Pechino ha cominciato a scrivere che «è una vergogna sentire ragionamenti rinunciatari e disfattisti nella nostra società socialista». Sono stati intervistati esperti come il professor Li Fengliang della prestigiosa Università Tsinghua che ha sottolineato come «stare sdraiati» sia un concetto irresponsabile, contrario all’etica socialista che permette all’economia di svilupparsi. Si è schierata anche la Lega della gioventù comunista, che in tono severo ha ricordato come «migliaia di giovani medici e infermieri si sono battuti senza risparmio per fermare il coronavirus: non si sono sdraiati supini, loro». 
Dopo questo pronunciamento ufficiale si è mossa la censura, che ha oscurato l’hashtag #Tangping e bloccato i forum che ne discutevano esaltando la tendenza come forma di resistenza a un sistema che vuole tutti uguali.


(Corriere della sera, 7 giugno 2021)

di Carola Frediani


Per giustificare la decisione di aver obbligato un volo di linea Ryanair ad atterrare a Minsk – per poi arrestare in tal frangente il giornalista Roman Protasevich insieme alla fidanzata Sofia Sapega – la Bielorussia si è aggrappata alla minaccia di una bomba sull’aereo. E in particolare a una presunta email inviata da militanti di Hamas (il gruppo ha negato qualsiasi coinvolgimento). Ma quando alcuni ricercatori di Dossier Center hanno ottenuto e pubblicato quella che sembrava essere l’email in questione, mandata da un indirizzo del fornitore di mail cifrate Protonmail, la data di invio ha smentito Minsk. Era infatti successiva al momento in cui le autorità bielorusse avevano avvisato l’aereo della possibile bomba.

Protonmail e la Bielorussia

La parte interessante di questo dettaglio tecnico all’interno di una più ampia vicenda geopolitica è che, poco dopo, lo stesso servizio di email crittografate, Protonmail, che si trova in Svizzera, è uscito allo scoperto, decidendo di confermare quelle rivelazioni giornalistiche. Pur non potendo accedere ai contenuti dei messaggi delle sue caselle di posta, l’azienda ha potuto e voluto confermare la data e soprattutto l’ora di invio della mail, successiva alla segnalazione della bomba all’equipaggio Ryanair. “Non abbiamo visto alcuna prova credibile che quanto dichiarato dalla Bielorussia sia vero”, hanno aggiunto, dicendosi pronti a collaborare con le indagini europee (a quel punto le autorità bielorusse hanno dichiarato che le email ricevute sarebbero state due). 
“A causa dell’utilizzo di Protonmail da parte di cittadini bielorussi per proteggere la loro privacy, il governo di Lukashenko ha tentato di bloccare l’accesso a Protonmail dall’estate 2020”, ha sottolineato il servizio svizzero in una nota. “Condanniamo queste azioni e anche quelle recenti legate al volo Ryanair”.

La repressione di media e strumenti di comunicazione

È una presa di posizione che ha colpito qualche osservatore, ma che non stupisce. La Bielorussia non ha solo cercato di bloccare Protonmail, ma anche testate giornalistiche indipendenti. Pochi giorni prima del dirottamento del volo Ryanair, il sito bielorusso di notizie Tut.by, che ha coperto le manifestazioni anti-regime esplose lo scorso agosto dopo le accuse di brogli elettorali, è stato bloccato, dopo un raid della polizia nei suoi uffici. A fine maggio è stato invece fermato dalla polizia e poi interrogato il direttore di un altro sito di notizie, Hrodna.life, per aver pubblicato contenuti “estremisti”. E sono almeno 27 i lavoratori dei media attualmente in prigione, condannati o in attesa di processo, secondo l’associazione bielorussa dei giornalisti. 
Lo stesso Protasevich era il direttore di due canali sulla app di messaggistica Telegram che veicolavano informazioni sulle proteste antigovernative e che raccoglievano milioni di iscritti. Canali e app che sono rimasti accessibili ai cittadini malgrado la repressione statale e i blocchi di Internet. 
Nexta Live, uno dei canali cofondato da Protasevich, e che pubblicava notizie e informazioni in tempo reale sulle proteste, è cresciuto da 300mila iscritti a 2 milioni nei tre giorni successivi alle elezioni di agosto. Le autorità hanno cercato di perseguire gli amministratori dei canali, mentre Telegram cambiava in corsa le sue funzionalità permettendo agli stessi di pubblicare nei gruppi in modo anonimo. “L’amministratore in incognito sarà nascosto nella lista dei membri del gruppo, e suoi messaggi nella chat verranno contrassegnati con il nome del gruppo, in modo simile ai post dei canali”, ha annunciato la app a settembre. 
“Fin dall’inizio Telegram è diventata parte integrale delle proteste bielorusse (..) e la stessa app non è timida sul proprio allineamento politico”, ha scritto tempo fa l’Institute for Internet & the Just Society.

Le app pro-privacy e la politica della minimizzazione dei dati

Protonmail e Telegram non sono gli unici esempi di servizi di comunicazione che hanno preso di petto regimi autoritari o chi è accusato di fare affari con gli stessi. 
Signal, altra app di messaggistica cifrata, particolarmente rispettata da esperti di cybersicurezza e giornalisti, ha sparato ad alzo zero contro una nota società israeliana, Cellebrite, che vende alle polizie di vari Stati degli strumenti per l’analisi forense e l’estrazione di dati e messaggi dai telefoni (e sospettata, secondo alcune inchieste giornalistiche, di vendere anche a Stati autoritari). Signal è arrivata al punto di dichiarare di aver hackerato uno dei prodotti di questa società, tanto da indurre la stessa a inviare un aggiornamento di sicurezza ai propri clienti allo scopo di mitigare una vulnerabilità, ha riferito la testata Vice.

Threema, altra app di messaggistica cifrata che non richiede né un numero di telefono né una email, nata in Svizzera e diffusa soprattutto fra utenti tedeschi, austriaci e svizzeri, ha da poco ottenuto una vittoria legale. La Corte suprema federale elvetica ha confermato una precedente sentenza secondo la quale la società non può essere equiparata a una compagnia di telecomunicazioni, con la conseguenza di non essere obbligata a conservare una serie di dati sugli utenti. “Il tentativo delle autorità di espandere la loro sfera di influenza per ottenere accesso ad ancora più dati degli utenti è finalmente fallito”, ha dichiarato Roman Flepp, a capo della divisione vendite e marketing della app.

Una linea – quella della minimizzazione dei dati degli utenti – fieramente sostenuta anche dalla stessa Signal. Che a fine aprile, sul suo blog, scriveva di aver ricevuto un’ingiunzione da un tribunale americano che richiedeva una serie di informazioni “che ricadono in questa categoria inesistente, tra cui indirizzi degli utenti, la loro corrispondenza, il nome associato all’account”. Ma Signal non poteva fornire alcun dato, non avendolo. “È impossibile fornire dati che non hai”, ha scritto sul suo blog. A parte la data di creazione di un account e la data di quando si è connesso al servizio l’ultima volta.

Le crescenti richieste degli Stati

Malgrado questo gruppetto di società o organizzazioni pro-privacy (Signal, in particolare, è una fondazione non profit) che sembrano avere, per ragioni di business o di principio, posizioni molto nette nella difesa del diritto alla libertà di espressione e alla riservatezza, la realtà è che in questo momento gran parte delle piattaforme digitali, specie quelle più grandi, sono messe alle strette dagli Stati. Anche con richieste che limitano fortemente questi diritti.

A partire da gennaio, con il crescere delle proteste antigovernative e delle manifestazioni a favore dell’oppositore politico Alexey Navalny, la Russia ha intensificato le pressioni su Google, Twitter e Facebook. Non solo il governo ha ordinato alle piattaforme di conservare tutti i dati su utenti russi nel paese entro il primo luglio, ma ha aumentato le richieste di rimozione di contenuti giudicati illegali. E se le aziende non eseguono, rischiano delle multe oppure che venga rallentato l’accesso ai loro servizi. Anche TikTok è stata multata per non aver tolto dei post che, per il governo, incoraggiavano i giovani a partecipare a manifestazioni ritenute illegali. 
Nel mentre in Nigeria il governo ha appena annunciato di voler sospendere le operazioni di Twitter nel paese (presumibilmente con dei blocchi a livello di telco e Isp, Internet service provider) perché il social ha cancellato dei tweet del presidente Buhari che minacciavano di violenza alcuni gruppi.

L’India, Twitter e WhatsApp

Ma lo scontro più duro in questo momento sta avvenendo in India, grande democrazia e soprattutto enorme mercato. A febbraio il governo ha annunciato nuove regole per piattaforme digitali e servizi di messaggistica (Information Technology (Guidelines for Intermediaries and Digital Media Ethics Code) Rules), in vigore da fine maggio. Prevedono che le piattaforme abbiano delle persone di contatto sul territorio, e residenti in India, di fatto legalmente responsabili. Che forniscano meccanismi di verifica degli account, ad esempio attraverso il numero di telefono. Che siano pronte a eliminare contenuti ritenuti dannosi o pericolosi da uno specifico organismo governativo. Se le piattaforme non ottemperano a quanto prescritto rischiano di perdere la protezione legale per i contenuti che ospitano.

Queste regole sono arrivate subito dopo un braccio di ferro fra governo e Twitter, quando il social, non senza incertezze iniziali, aveva infine opposto resistenza a censurare una serie di account e tweet legati alle proteste contadine. Braccio di ferro recentemente culminato in una visita della polizia di Delhi agli uffici dell’azienda. In questo caso, Twitter aveva etichettato come “media manipolati” alcuni tweet di politici di primo piano del partito nazionalista BJP (al governo), dopo che anche dei fact-checker li avevano giudicati fuorvianti. Ma al governo la mossa non è piaciuta, e in risposta ha inviato dei poliziotti alle sedi locali per consegnare un avviso di indagine sulla faccenda. Lo scorso mese, l’India aveva anche chiesto a Facebook, Instagram e Twitter di eliminare contenuti che criticavano la gestione della pandemia da parte del primo ministro Narendra Modi. 

La cifratura end-to-end nel mirino

Ma in gioco non c’è solo la rimozione di contenuti pubblicati sui social. Infatti, fra le richieste avanzate dalle nuove regole, ce n’è una in particolare che ha allarmato i servizi di messaggistica cifrata: ovvero che debbano identificare il primo autore di un’informazione o messaggio diffuso attraverso il loro servizio, se richiesto da un tribunale o da un ordine del governo. Ma tale meccanismo di tracciabilità è incompatibile con la cifratura end-to-end, ovvero quel tipo di cifratura in cui solo mittente e destinatario possono leggere i messaggi, implementata da Whatsapp, Signal, Telegram, e altre app e servizi. La tracciabilità richiederebbe infatti di rompere la cifratura. “Il minuto in cui costruisci un sistema che può andare indietro nel tempo e smascherare alcuni utenti che hanno inviato un certo contenuto, hai costruito un sistema che può smascherare chiunque invii qualsiasi contenuto”, ha commentato Wired Usa il crittografo Matthew Green. 
Questo spiega perché il 26 maggio Whatsapp abbia preso una iniziativa inedita, decidendo di fare causa al governo indiano su queste regole, che secondo l’app di messaggistica sarebbero incostituzionali in quanto violerebbero il diritto alla privacy dei cittadini. 

Un’escalation globale

Siamo di fronte a una escalation, scriveva Bloomberg in un articolo di qualche giorno fa, riferendosi a Russia e Bielorussia, ma anche ad altri Stati. E aggiungeva: non possiamo permettere ad autocrati di riplasmare Internet dopo la Covid. Eppure, il problema è che, come abbiamo visto in India, anche le democrazie stanno intervenendo in modo sostanziale e con conseguenze che potrebbero pesare su libertà di espressione e diritto alla privacy. La censura è la nuova crisi dei social network, e i governi stanno adottando sempre di più delle misure draconiane per impedire l’espressione di dissenso dei cittadini, ha scritto il giornalista Casey Newton, che nella sua newsletter Platformer analizza il rapporto fra politica e piattaforme. “Mentre è da tempo la norma in Paesi come la Cina o la Russia, il movimento più recentemente si è diffuso anche a governi democratici”, ha aggiunto.

La Gran Bretagna e la cifratura

La Gran Bretagna, ad esempio, sta cercando di ostacolare il progetto di Facebook di implementare la cifratura end-to-end anche in Messenger e Instagram (oltre a Whatsapp, dove, come detto, è già presente). Sul piatto c’è una proposta di legge, l’Online Safety Bill, secondo la quale le piattaforme devono dimostrare di agire in modo concreto per contrastare la diffusione di contenuti dannosi. E questo ha già destato preoccupazioni fra chi teme che possa trasformarsi in un eccesso di censura da parte dei social media, tralasciando il contenzioso su cosa debba essere definito “dannoso”. Ma in queste iniziative di contrasto ai contenuti dannosi rischia di essere inclusa anche la crittografia end-to-end. Per altro, c’è anche uno scenario alternativo e probabilmente peggiore: che il ministero dell’Interno possa emettere un ordine con cui obbligare Facebook ad assistere con una richiesta di intercettazione. In gergo, un Technical Capability Notice (TCN) che nel caso specifico assomiglierebbe a una ingiunzione con cui impedire all’azienda di applicare la cifratura end-to-end. In un simile scenario, nota Wired UK, Facebook non potrebbe neanche farlo sapere.

Le proposte dell’Unione europea

Per quanto riguarda l’Unione europea ci sono due passaggi delicati. Il primo è una proposta di regolamento per una deroga ad alcune protezioni della riservatezza delle comunicazioni previste dalla direttiva ePrivacy. La deroga servirebbe a contrastare più efficacemente gli abusi sessuali su minori. “La proposta potrebbe obbligare servizi di email e messaggistica a scansionare tutti i contenuti in cerca di possibili materiali illegali”, commenta a Valigia Blu Patrick Breyer, parlamentare europeo membro del Partito Pirata tedesco e relatore della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni. “Ma questi meccanismi producono molti errori, includono anche materiali legali. La Commissione non ha ancora deciso se i servizi di comunicazione cifrati end-to-end debbano essere inclusi. Se lo fossero, app come Whatsapp dovrebbero implementare delle backdoor, delle vie di accesso, nei loro client per scansionare i contenuti prima che vengano inviati. Questo sistema creerebbe di fatto una backdoor che potrebbe essere usata anche per altro o che potrebbe creare rischi per la sicurezza”. 
Il secondo passaggio cruciale è il nuovo Digital Services Act (DSA), ovvero la nuova proposta di regolamento in materia di servizi digitali e responsabilità delle piattaforme, che modifica la direttiva e-Commerce, con nuove disposizioni su trasparenza e accountability per la moderazione dei contenuti. 
“Il DSA non ha a che fare direttamente con la cifratura ma richiede che le piattaforme debbano mitigare i rischi sistemici. Questa definizione potrebbe portare a un attacco indiretto alla cifratura”, commenta ancora Breyer. “Inoltre la Commissione incoraggia l’uso di filtri automatici, ma questo è un rischio per la libertà di espressione perché quello che è illegale in un contesto, potrebbe essere legale in un altro (pensiamo alla foto di un attacco terroristico, che può essere interpretata come propaganda se condivisa da terroristi o diritto di cronaca se condivisa da media). I filtri non differenziano e il risultato è che eccedono nella censura”. 

Breyer ha presentato degli emendamenti al Digital Services Act per garantire una maggiore protezione dei diritti fondamentali nell’era digitale. Questi includono: la possibilità di usare servizi digitali in modo anonimo; la limitazione del tracking, cioè della raccolta di dati sulle attività online degli utenti; la salvaguardia della cifratura sicura (le autorità non dovrebbero poter limitare la cifratura end-to-end, in quanto essenziale alla sicurezza online). Inoltre il parlamentare chiede che sia solo l‘autorità giudiziaria a poter decidere sulla legalità dei contenuti; che non siano richiesti filtri preventivi; che materiali pubblicati legalmente in un paese europeo non siano cancellati solo perché in violazione delle leggi di un altro paese Ue (una richiesta che vuole evitare che leggi illiberali di certi Stati – Breyer fa l’esempio di Polonia e Ungheria – cancellino contenuti pubblicati altrove).

Automazione e censura collaterale

Come scrive Jillian York, direttrice per la libertà di espressione della Electronic Frontier Foundation, nel suo recentissimo libro Silicon Values. The Future of Free Speech under Surveillance Capitalism, tecnologie di intelligenza artificiale (machine learning) sono sempre più usate per applicare le policy delle piattaforme e quindi per decidere quali espressioni siano accettabili, assistendo o rimpiazzando i moderatori umani. Questo spostamento verso la quasi piena automazione, abbinato a un intenso controllo e a crescenti pressioni statali per eliminare contenuti ritenuti dannosi, hanno reso ancora più difficile una moderazione accurata, col risultato di incrementare la “censura collaterale”.

Tra le vittime recenti di questo processo ci sono stati molti utenti palestinesi o filo-palestinesi che hanno visti rimossi i propri post da Facebook, Instagram o Twitter, semplicemente perché magari usavano un certo hashtag o delle parole associate in automatico a “organizzazioni violente o pericolose” (un caso riportato dal Washington Post e da Slate è il nome della moschea Al-Aqsa).

Trasparenza e diritti umani come guida

“Credo che qualsiasi regolamentazione delle piattaforme debba essere in linea con il quadro normativo internazionali sui diritti umani, e questo vale soprattutto per qualsiasi restrizione dell’espressione”, commenta a Valigia Blu la stessa Jillian York. “Da parte dei governi, oltre a ciò, mi aspetterei soprattutto una richiesta di maggiore trasparenza alle piattaforme. Questo lo abbiamo visto nel Digital Services Act, e nei principi di Santa Clara sulla trasparenza e accountability in relazione alla moderazione dei contenuti”.

Questi ultimi sono alcune raccomandazioni di base evidenziate da organizzazioni ed esperti di diritti digitali per fare in modo che la moderazione di contenuti sia giusta, senza pregiudizi, proporzionale e rispettosa dei diritti degli utenti. Questi principi prevedono che le piattaforme debbano fornire innanzitutto i dati dettagliati sulle rimozioni di contenuti; debbano informare gli utenti sulla ragione precisa della rimozione, e se la segnalazione iniziale sia di tipo automatico, derivante da altri utenti, frutto di un procedimento legale o di una richiesta governativa; e infine debbano garantire la possibilità di un appello, gestito da una persona diversa rispetto alla prima decisione. 
“Dall’India all’Australia fino alla Palestina, ogni giorno ci arrivano nuove storie di indignazione in merito alla rimozione di contenuti”, ha scritto ancora Casey Newton. “In alcuni casi, queste rimozioni sono state fatte su richiesta del governo. In altri, le policy delle piattaforme giocano a sfavore delle minoranze, rendendo più difficile vedere i loro post. Ma quale che sia la causa, le lamentele per la censura stanno solo diventando più forti – e il modo in cui le piattaforme risponderanno avrà enormi implicazioni nel mondo”. 
Ma anche il modo in cui le democrazie daranno l’esempio.


(Valigiablu, 6 giugno 2021)

Intervista di Piero Maestri a Layla Sit Aboha


Le rivolte, gli scioperi, le manifestazioni in Palestina contro l’occupazione israeliana sono portate avanti da giovani stanchi dell’Anp e di Hamas, oltre qualsiasi appartenenza di fazione o partito. Così inizia a essere anche in Italia.


«La mia biografia e quella della mia famiglia sono un classico esempio della storia vissuta da centinaia di migliaia di palestinesi, una storia comune». È Layla Sit Aboha a raccontare. Attivista delle e dei Giovani palestinesi in Italia, è tra le organizzatrici delle manifestazioni che dalla scorsa settimana hanno portato nelle piazze milanesi – così come in altre città – qualche migliaio di persone, soprattutto giovani, e in gran parte cosiddette «seconde generazioni». La incontriamo prima dell’accordo di cessate il fuoco, mentre si stanno organizzando le proteste sotto le sedi Rai in Italia, per farci raccontare chi sono le e i giovani palestinesi che si sono presi le piazze mostrando una grande consapevolezza di sé e della causa palestinese.

Laila, sei nata in Italia da una famiglia italo-palestinese. Come si intreccia la resistenza palestinese alla tua biografia e quando questo è diventato importante per te? 

Ho vissuto come gran parte dei ragazzi di seconda generazione con un’identità ibrida tra l’Italia e il paese di origine della mia famiglia. Fino all’adolescenza provavo addirittura fastidio verso la mia parte araba che negavo; soprattutto mi dava fastidio avere un cognome straniero che le persone leggono sempre in maniera sbagliata. Soprattutto alle medie desideravo avere un cognome italiano e ho scoperto – confrontandomi con altre ragazze con origini simili alla mia – che tutte abbiamo vissuto questa fase, la fase del non sentirsi come le altre, malgrado mia madre sia italiana e io sia nata in Italia. 

Ho avuto la fortuna di avere un padre attivista, impegnato con l’Olp e la storia della Palestina è sempre stata presente per me e le mie sorelle. I miei genitori si sono conosciuti a Napoli negli anni Ottanta perché mia madre era un’attivista per la Palestina e mio padre lavorava lì per l’Olp. Ma la consapevolezza vera di quello che succede in Palestina l’ho avuta quando ci sono stata, in particolare con l’ultimo viaggio fatto a Gaza. Già per poterci andare ho avuto difficoltà, dato che Israele non mi concedeva il visto – a differenza dei miei compagni con nomi e famiglie italiane. All’entrata nella Striscia di Gaza ho dovuto subire un trattamento ancora più violento e umiliante delle altre – per esempio dover rimanere in mutande e reggiseno per ore in uno sgabuzzino, passata con una specie di scopino per scoprire se avevo dell’esplosivo, con i soldati israeliani che non accettavano che io fossi italiana, si rivolgevano in arabo, chiedendomi di parlare in arabo.

Quello che a me ha fatto più male – per il mio percorso di scoperta e accettazione dell’identità palestinese – è stato dover negare la mia identità. Mentre qui in Italia dico di esser palestinese e le persone capiscono cosa vuol dire, in Israele, soprattutto davanti a un soldato, devo dire che mio padre e mio nonno sono cittadini giordani – perché effettivamente lo sono diventati. Anche a livello psicologico questa negazione crea una forte frustrazione. Mio nonno – il padre di mio padre – era di Haifa; nel 1948 si sono trovati in piena Nakba e la loro famiglia contadina fu espulsa e costretta a fuggire a Jenin, dove ha conosciuto la nonna e dove si sono stabiliti. Mio padre, nato in Palestina nel 1964, non ha un certificato di nascita, perso insieme a tutti i documenti; dopo la guerra del ’67 e l’occupazione della Cisgiordania la sua famiglia è scappata in Giordania. Come centinaia di migliaia di palestinesi conserviamo il documento delle Nazioni unite che ci riconosce come rifugiati e quando verrà attuta la risoluzione 194 potremo tornare nelle nostre case.

Prima di questi giorni convulsi stavo leggendo Ghassan Khanafani – scrittore di grandissima potenza e capacità espressiva e per questo neutralizzato, ucciso dai servizi israeliani. Il suo Ritorno ad Haifa racconta il dolore e tocca la parte intima di ogni palestinese, ognuno si identifica in quella storia. Nel 2017 con mio padre siamo stati ad Haifa, abbiamo cercato la casa di mio nonno e l’abbiamo trovata, nel quartiere di Wadi Salif, una zona gentrificata, meta di turismo europeo.

La generazione di mio padre è una generazione distrutta dalla vita, sono quelli andati a combattere in Libano, che hanno fatto la prima e seconda intifada, hanno creduto negli accordi di Oslo e dopo il loro fallimento si sono trovati con nulla. La mia generazione, noi giovani palestinesi italiani, abbiamo rotto con quella precedente e con una rappresentanza palestinese che non ci rappresenta affatto – così come non rappresenta le e i giovani palestinesi in Israele e nei territori occupati. 

In tutta la Palestina in questi giorni le rivolte, gli scioperi, le manifestazioni sono organizzate e portate avanti dai giovani palestinesi, slegati da qualsiasi appartenenza di fazione o partito. Le manifestazioni a Milano e in moltissime altre città italiane hanno creato un parallelismo con quello che succede in Palestina: noi siamo stanchi dell’Anp, siamo stanchi di Hamas, siamo stanchi dell’occupazione israeliana, come qui siamo stanchi del Partito democratico e di Salvini, di una concezione razzializzante ed eteronormata della politica. Salvini dal palco della comunità ebraica romana ha voluto attaccare le seconde generazioni. Le piazze, riempite dalle seconde generazioni, sono le piazze del futuro, sono l’Italia del futuro.

Chi sono le e i Giovani palestinesi in Italia? Come nascono e che relazioni politiche avete con le generazioni precedenti? Qual è stata la trasmissione di memoria e politica che vi è arrivata?

Le e i Giovani palestinesi nascono da questa frattura che c’è qui in Europa come in Palestina. A un certo punto abbiamo deciso di rompere con la tradizione dei nostri genitori, perché veniamo da quella frustrazione, dalla corruzione del governo dell’Anp nella sua collaborazione con l’occupazione israeliana, e dal fallimento delle espressioni politiche palestinesi. Per quanto mi senta di appartenere alla sinistra palestinese, quella esistente non mi rappresenta politicamente e se condivido con loro percorsi di lotta penso debba essere superato e profondamente trasformato il panorama partitico palestinese. Non lo diciamo noi dall’Europa, ce lo stanno dicendo da Haifa, a Nazareth, Lod, a Jenin, Nablus, Gerusalemme, da chi sta combattendo. Chi ha organizzato i riot dei giorni scorsi non sono i partiti ma le persone che vivono e soffrono l’occupazione quotidiana 24 ore su 24.

La politica palestinese ha sempre escluso i palestinesi residenti nei territori del ’48, considerandoli privilegiati mentre invece vivono nel ventre della bestia, sono loro che possono far nascere un cambiamento. Se Israele in Europa continua a presentarsi come uno stato di diritto, la loro vita racconta cosa significa davvero essere palestinesi in quello stato. Sta girando in questi giorni su Instagram un video di un palestinese cittadino di Israele con la casa circondata da coloni armati che chiama la polizia israeliana che gli risponde di rimanere in casa. E lui dice «sono cittadino di questo paese, anche se voi non avete previsto la mia presenza, io ho i documenti di questo paese».

Abbiamo rotto politicamente con la generazione precedente (anche se per fortuna molte persone di questa ci ascoltano e sostengono) e sottolineiamo che ogni parola della nostra sigla – Giovani palestinesi italiani – ha un forte significato. Non abbiamo un’appartenenza politica e siamo all’inizio di un percorso di consapevolezza e presa di parola. Questa rottura è molto evidente adesso, in queste settimane si è accelerata. La maggioranza di noi è stanca, si è stufata di una situazione di stallo; quasi tutti i nostri genitori hanno una storia politica, ogni famiglia ha una storia politica, difficile che qualcuno sia fuori da questi meccanismi di diaspora, di familiari ammazzati, imprigionati ecc. Prendere parola diventa necessario per la sopravvivenza. Certamente più avanti sarà necessario stilare un manifesto politico, trovare alcune linee di indirizzo, perché evidentemente non siamo d’accordo su tutto.

La generazione dei vostri padri certamente si sente ancora legata alla Palestina, è la loro identità e la loro ragione di esistenza, ma allo stesso tempo sembra che in qualche modo si siano «adattati», abbiano subito troppo forte il colpo della frustrazione e della disillusione…

Noi che siamo nate qui abbiamo strumenti di comunicazione che non avevano i nostri padri. Loro erano considerati arabi, stranieri, qualcosa di diverso; noi dalla nostra abbiamo il fatto che siamo italiani e italiane, abbiamo fatto le scuole qui, parliamo perfettamente la lingua, conosciamo i nostri diritti e il diritto internazionale. La nostra forza è la consapevolezza. Conosciamo anche la storia e i fallimenti della sinistra italiana nel suo rapporto con la causa palestinese e oggi vogliamo essere i protagonisti. Nei giorni scorsi mi ha chiamato un esponente dei Verdi che ha organizzato la manifestazione di sabato (22 maggio) per chiedermi se volevo parlare; ma non sei tu che chiedi a me di parlare, siamo noi che prendiamo la parola, a questo giro la voce deve essere la nostra.

Per questo a Milano la scorsa settimana non abbiamo voluto fare un corteo ma abbiamo preferito rimanere in piazza, per poter far esprimere chi era presente, perché le ragazze e i ragazzi hanno bisogno di parlare, di esprimersi. A Milano, per esempio, è intervenuto Karim dicendo che per lui parlare davanti a 5.000 persone di suo cugino ammazzato a un check-point era importante, anche sul piano psicologico. Se una ragazza o un ragazzo marocchino, egiziano ecc. torna a casa avendo capito qualcosa in più di quello che succede in Palestina, è già un successo. E al nostro fianco vogliamo quelli che ci fanno parlare, che non si sovrappongono alla nostra partecipazione. 

Come stavi appunto dicendo, quelle piazze hanno visto una fortissima partecipazione di giovani e di seconde generazioni del mondo arabo e afrodiscendenti. Perché quella presa di parola – molte di loro avevano cartelli autoprodotti – avviene oggi e per la Palestina?

Sicuramente c’è un bisogno sociale che va oltre la causa palestinese. Non era solo la Palestina a motivare la partecipazione in quella piazza – anche se certamente vivono quello che succede in quel territorio come un’ingiustizia. Le persone di seconda generazione però vivono e sentono una discriminazione anche qui e ora: non va avanti la legge sulla cittadinanza, il loro accesso ai diritti è sempre complicato, la trafila di permessi, documenti è sempre difficile, conoscono la questione dei Cpr…

La loro presenza in piazza è anche legata al mondo dei social. Con personaggi diventati leader sulla scena pubblica senza appartenere a movimenti sociali o partiti, ma semplicemente perché hanno postato e rilanciato l’evento per la Palestina. Tra questi Ghali che ha una sua consapevolezza di essere italiano-tunisino, sa cosa succede in Palestina e fa anche una scelta coraggiosa visti i suoi contratti con le major. Esiste a Milano una scena trap, di seconde generazioni, dalla Barona, al Gratosoglio, a San Siro. La realtà ha superato le strutture istituzionali, urbanistiche, sociali. Questa scena musicale – che viene vissuta anche come forma di resistenza – è direttamente patrimonio di quelle giovani e giovanissime generazioni. È importante che si stia creando questa consapevolezza verso la questione palestinese ma in quelle piazze non c’erano solo palestinesi, c’erano ragazze e ragazzi della regione araba, delle comunità afrodiscendenti, razzializzate anche attraverso i mezzi di comunicazione; c’era la comunità colombiana, che oggi è mobilitata in solidarietà alla rivolta nel loro paese. Oltre a riconoscere l’ingiustizia palestinese, in quella stessa ingiustizia ne riconoscono altre e provano a prendere parola su quelle.

Sono le e i giovani delle periferie ed è importante far venire le periferie nel centro di Milano. A San Siro abitano 80.000 «stranieri» ed è un numero importante. Anche questa composizione urbanistica e sociale spiega cosa sta succedendo. I Giovani Democratici del Municipio 1 (centro storico) scrivono sulle loro pagine social che sostengono i diritti dei palestinesi ma anche il diritto di difendersi di Israele… i Giovani Democratici sono in grande maggioranza bianchi occidentali con pieni diritti – chi vogliono rappresentare, a chi stanno parlando? Questa parte dell’elettorato non la vedono. Il sindaco Giuseppe Sala – che aveva invitato Ghali a Palazzo Marino, sfruttandone la visibilità per avere appeal su quell’elettorato – aveva un’iniziativa a poche centinaia di metri dal nostro presidio e non si è fatto vedere e ha taciuto. Come se si vivessero due realtà parallele, quella reale e quella delle dinamiche di potere.

Quella e altre piazze si sono distinte per un’alta partecipazione femminile. C’erano gruppi numerosi di ragazze, molte portavano il velo, molte altre no, e in tante hanno preso parola. 

È una sfida diretta alla rappresentazione orientalista e stereotipata della donna araba, sottomessa, con il velo, bisognosa che qualcuno prenda parola per lei… Certamente – qui come in Palestina e nel mondo arabo – c’è un problema di patriarcato, come esiste ovunque nel mondo. Ma le donne palestinesi e arabe non devono essere salvate né dall’occidente né da nessuno. La maggior parte di interventi in quella piazza erano di ragazze arabe e palestinesi, con o senza velo. Purtroppo in altri luoghi – per esempio a Roma – la maggior parte degli interventi è stato fatto da uomini, dai cinquant’anni in su, e le e i giovani palestinesi gli hanno dovuto strappare il microfono. Milano e altre piazze hanno rappresentato quello che succede nel paese, con centinaia di ragazze giovanissime, non accompagnate come nella narrazione stereotipata dal padre o dal marito, realtà che esiste indubbiamente ma la piazza ha comunicato qualcos’altro e non si può nascondere questa realtà. Piazze simili a quelle di Black Lives Matter in Italia lo scorso anno che rappresentavano chi vive in questo paese, chi ha bisogno di tutela dei propri diritti in questo paese. La politica non può rimanere indifferente a tutto questo. 

Attenzione, so benissimo che c’è una strumentalizzazione patriarcale della donna palestinese che subisce canoni culturali e sociali molto forti – essere madre di famiglia, produrre figli per la patria ecc. È fortissimo il patriarcato ed è forte la visione eteronormativa, ma tra le e i cittadini palestinesi di Israele e ora anche in Cisgiordania ci sono tante associazioni che lottano contro tutto questo come Al Aswat, come tantissimi collettivi queer che cercano di distruggere la versione «gay friendly» di Israele. In questi giorni ho visto i post di molti e molte compagne palestinesi che recitavano «Palestine is a queer issue». Trovo tutto questo molto potente, e ho imparato che se le lotte sono intersezionali non esisterà liberazione per nessuno.

Cosa pensi della solidarietà politica e umana verso la Palestina che in Italia non manca? Che legame avete con questa storia e cosa manca a queste aree? Nelle manifestazioni in questi giorni abbiamo sentito ancora slogan come «Palestina rossa» e abbiamo visto la presenza di settori politici con cui sembra non abbiate molti legami.

Quello slogan è autoreferenziale da parte della sinistra italiana e non solo, non parla a nessuno, non è sentito come nostro. Quello che resta della sinistra «extraparlamentare» racconta cose che non esistono, spesso frutto di un posizionamento ideologico. L’altro giorno una persona che si ritiene solidale, probabilmente mai andata in Palestina, è venuta a spiegarmi che Hamas sta facendo la resistenza e che tutti i palestinesi stanno con Hamas… C’è qualcosa che non va nella percezione di quello che sta succedendo in quel paese. Se tu definisci resistenza il bombardamento – che ha portato al risultato di 58 mila sfollati e centinaia di morti – significa non aver capito nulla.

Per me resistenza è quello che stanno facendo nei territori del ’48, riconoscere la propria identità di palestinese dentro lo stato di Israele – non lanciare missili e fornire il pretesto di non parlare più di quello che avviene a Gerusalemme. L’altro giorno hanno decretato Sheik Jarrah zona militare, come Shuaada Street ad Al Khalil/Hebron. Solo gli israeliani potranno entrare a Sheik Jarrah a parte i palestinesi già residenti. Noi dobbiamo avere attenzione su quello, sul progetto di pulizia etnica attraverso la deportazione di palestinesi dai loro quartieri. Naturalmente associazioni di solidarietà e Ong sono importantissime, per la loro solidarietà diretta con le persone in Palestina e per quello che tornano a raccontare qui in Italia. Però abbiamo bisogno di qualcosa di più. L’altro giorno abbiamo contattato un giornalista del Corriere della sera chiedendogli di raccontare cosa sta succedendo, dandogli i contatti di giornalisti di Al Jazeera e Associated Press a Gaza. Come giornalista dovresti prendere parola, soprattutto dopo il bombardamento del palazzo della stampa. La sua risposta più o meno è stata: «ma la linea editoriale del giornale è un’altra. Se volete potete raccontare una storia, magari quella dei bambini che soffrono ecc.». Questo episodio mi ricorda il monologo di Rafeef Ziadah. Ogni volta che bombardano Gaza ci chiedono di raccontare una storia «umana», non di parlare di politica. Parlaci di un bambino morto, di un bambino mutilato… ma perché non possiamo parlare di politica, della pulizia etnica, delle deportazioni che abbiamo subito, dell’esistenza ancora di campi profughi dopo 73 anni (in Libano come in Cisgiordania)? Possiamo parlare dei bambini e delle loro sofferenze ma abbiamo bisogno che qualcuno ci dia delle risposte politiche. 

Alle e ai solidali chiederei innanzitutto di ascoltare le e i giovani palestinesi, quelli che si stanno rivoltando in Palestina, ascoltare quello hanno da dire; poi di utilizzare tutti i mezzi disponibili per raccontare la verità, far circolare una narrativa differente da quella del momento: prendere parola sull’ingiustizia – come insegna il lavoro della sociologa Linda Tabar. Dobbiamo insieme costruire una struttura di rivendicazione politica.


(Jacobinitalia.it, 24 maggio 2021)


*Piero Maestri, attivista, è stato redattore di Guerre&Pace ed è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre 2013). 

di Serena Tarabini

A cento anni dalla nascita, un libro racconta la vita di Laura Conti, partigiana e ambientalista. Senza di lei non avremmo compreso la gravità dell’incidente di Seveso. Intervista con l’autrice Valeria Fieramonte (La via di Laura Conti. Ecologia, politica e cultura a servizio della democrazia, Enciclopedia delle Donne 2021, p. 336, € 19).

La maggior parte dei problemi ambientali nasce dal saper fare che cammina più in fretta del sapere». Con queste parole, in un articolo apparso su l’Unità nel 1985 dal titolo «Fermate lo sviluppo, voglio scendere», Laura Conti esprimeva una delle sue preoccupazioni centrali, quella per i rischi legati all’incapacità di un’umanità in corsa di concepire il finito. Pensiero acuto e premonitore, quello della «scienziata che non si riteneva tale», la cui visione critica e azione concreta hanno avuto un ruolo fondamentale nella nascita di una sensibilità ecologica in Italia. Senza il lavoro di documentazione, analisi e denuncia senza precedenti di Laura Conti, il disastro di Seveso non ci sarebbe apparso nella sua gravità sanitaria, ecologica e sociale; ma fermarsi a quello che è stato il suo contributo più famoso significa perdersi, come è stato in parte fatto, l’inestimabile patrimonio rappresentato dalla sua capacità di osservare i fenomeni nella loro globalità e complessità e dalla volontà di comunicare a un pubblico più vasto possibile. A cento anni dalla sua nascita un libro, La via di Laura Conti, scritto dalla giornalista scientifica Valeria Fieramonte, raccontandoci le tappe di una vita straordinaria durante la quale fu partigiana, medico, studiosa, scrittrice, militante politica, ambientalista, divulgatrice, parlamentare, ci restituisce le idee all’avanguardia, l’impegno appassionato e la profonda umanità di uno dei personaggi più importanti del novecento.

Quanto è stato impegnativo scrivere un libro su un personaggio così intenso?

È stata una lunga ricerca che mi ha tenuto una grande compagnia per anni al punto che mi è dispiaciuto quando per forza di cose ho dovuto smettere. Sono convinta che Laura Conti sia ancora una bussola per orientarsi, anche se è drammatico vedere quanto non sia stato fatto, quanto non si sia dato seguito alle discussioni che lei aveva animato e guidato. Ho scritto questo libro anche come una forma di ribellione alla sottovalutazione della portata del suo pensiero, affinché la sua eredità non venga persa o travisata bensì possa essere trasmessa integra.

Laura Conti, come tutti gli eretici, è stata anche un personaggio scomodo: in cosa dava fastidio il suo pensiero?

Laura non si conformava al pensiero politico dominante. Quello dell’epoca correva in parallelo alla fiducia nel progresso e nello sviluppo industriale, di cui già aveva individuato i pericoli grazie anche alla sua esperienza concreta: come medico dell’Inail furono l’analisi delle condizioni di lavoro nelle fabbriche che fecero nascere il suo impegno ambientalista, in quanto riscontrava sull’uomo i danni provocati all’ambiente. Il suo messaggio ecologico non era compreso perché era troppo avanzato. Per fare un esempio, per lei erano evidenti anche altri rischi, quelli legati alle «possibilità praticamente illimitate di osservazione e registrazione consentite dall’elettronica» in grado di consegnare al potere una capacità di controllo sempre più capillare.

In che cosa è stata particolarmente anticipatrice?

Fu fra le prime, con la sua visione globale, ad avvertire dell’importanza e dell’urgenza di tutelare la biodiversità, in tutte le sue forme. Il suo approccio è stato di fatto quello di un’ecologa. A differenza delle scienze dure, l’ecologia, che studia le relazioni fra gli esseri viventi e fra gli esseri viventi e l’ambiente, è una scienza di sistema e di esperienza. L’ecologia osserva e correla i fenomeni e questo è infinitamente più complesso dello studio di uno specifico ambito, che se avulso da una visione integrale, rischia di non rilevare i danni che una determinata attività può provocare. Laura si preoccupava dell’inquinamento industriale come dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi, della deforestazione come dell’impoverimento dei suoli, dello smaltimento dei rifiuti come del dissesto idrogeologico, della produzione di anidride carbonica come dei consumi energetici. Il tutto, essendo un medico, partendo dal corpo umano ma senza mai assegnare all’umanità un ruolo centrale. Era fra i pochi, a qui tempi, a considerare la specie umana come un aspetto del sistema vivente, non suo padrone. Per questo era in grado di vedere i pericoli che la scienza non aveva saputo ancora identificare. E il suo metodo, di fronte ai problemi ambientali, era quello di del coinvolgimento della popolazione nella ricerca di una soluzione che fosse non solo scientificamente efficace, ma anche socialmente accettata.

Intensa fu la collaborazione con un altro grande del pensiero scientifico legato all’ecologia, il fisico di fama internazionale Enzo Tiezzi. Che rapporto avevano?

Enzo Tiezzi, più giovane di vent’anni, stimava enormemente Laura, di sicuro è stato la persona che più ne ha riconosciuto e compreso la genialità. Condividevano la stessa visione e le stesse preoccupazioni per il sovrastare dell’evoluzione tecnologica su quella naturale, il proliferare di risposte semplici a problemi complessi. Avevano in comune anche il desiderio di divulgazione dei temi ecologici, idearono una collana di libri che per la prima vota riuscì a trasmettere tra i giovani e il pubblico l’interesse per le scienze naturali. Erano pari anche nell’impegno a diffondere la consapevolezza dei grandi problemi ambientali e di affermare l’urgenza di un’azione politica per risolverli. Anche per questo nel 1980, con pochi altri, fondarono la Lega per l’Ambiente diventata poi Legambiente.

Eletta nelle liste del Pci, con cui non mancò di polemizzare, la sua lungimiranza e capacità di comprensione si sono viste anche in parlamento

Oltre ad aver sostenuto ed accompagnato l’uscita dal nucleare, fu ispiratrice e promotrice di molte leggi importantissime: per l’eliminazione di alcune sostanze chimiche, per la conservazione della natura, l’istituzione di aree protette e la tutela della vita selvatica, per l’uso razionale del suolo e delle acque, per l’implementazione dei depuratori. Era molto impegnata anche sul fronte delle donne, battendosi per le pari opportunità fra uomo e donna, per la salute delle donne nei luoghi di lavoro, per l’indennità di maternità anche per le lavoratrici a tempo determinato. Purtroppo non tutti i progetti di legge presentati furono approvati: come da lei stessa ammesso, la quantità di lavoro e fatica era stata molto superiore ai risultati ottenuti.

Lei ha avuto modo di conoscere Laura Conti: cosa emergeva della sua persona?

Era una persona estremamente affascinante, ti avvolgeva in una scia magica. Quando l’ho sentita parlare la prima volta avevo solo 16 anni e mi si è aperto un mondo. Nonostante appartenesse a un’altra generazione era diventata per me un riferimento, cercavo di andare a sentirla ogni volta che potevo, era molto coinvolgente nei suoi discorsi. Era una persona molto diretta, schietta, ostinata, anche le persone che nel tempo si sono magari scontrate con lei quando è scomparsa hanno sentito il bisogno di trovarsi tutti insieme per celebrarla. Era anche una persona molto umana, con il carisma del leader naturale, anche se non aveva nessuna propensione al comando.

Perché abbiamo ancora bisogno di Laura Conti?

Ne abbiamo bisogno più che mai perché la sua era una visione chiara, umana e politica, di tutti problemi fondamentali; per rallentare questa corsa verso il disastro dovremmo ancora seguire le sue indicazioni.

(il manifesto – l’Extra Terrestre, 1° aprile 2021)

di Annalisa Ramundo


ROMA – C’è una donna, tra le altre, che in Italia si è battuta strenuamente per la decostruzione della teoria di una presunta inferiorità biologica femminile, concetto chiave su cui nei secoli si era fondata l’esclusione delle donne dalla scena pubblica. Risponde al nome di Franca Ongaro, coniugata Basaglia, anima teorica e comunicativa della coppia che liberò i malati di mente dall’infamia sociale e medica dei manicomi, dando il via a una rivoluzione copernicana nel trattamento dei disturbi psichiatrici in Italia a partire dalla legge 180 del 1978, conosciuta come ‘legge Basaglia’. Ma anche scrittrice, due volte senatrice (dall’83 al ’92), e femminista ante litteram, critica di alcuni pilastri del patriarcato che sarebbero poi stati centrali negli anni 70 per la riflessione del movimento delle donne, di cui colse tra le prime alcuni concetti-chiave.

Lattività di scrittrice e lincontro con Franco Basaglia

“Nata a Venezia nel 1928 da una famiglia borghese, perde il padre quando è alla fine del liceo classico e questo non le consentirà di iscriversi all’università, come avrebbe voluto”, spiega all’agenzia di stampa Dire Vinzia Fiorino, professoressa di Storia contemporanea all’università di Pisa nel secondo appuntamento dello speciale DireDonne-Società Italiana delle Storiche (Sis) ‘Donne da ricordare’. “All’indomani della seconda guerra mondiale, nel ’45, conosce Franco Basaglia, studente di Medicina a Padova con cui si sposerà e avrà due figli”. La carriera di Franco Basaglia “non decolla e nel ’61 il medico filosofo” viene inviato a dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia. “Lei segue il marito con i bambini e si occupa di letteratura – continua Fiorino – Scrive racconti per bambini, per il ‘Corriere dei Piccoli’ e riduzioni per grandi classici come ‘Piccole donne’ e comincia a studiare sociologia”.

Nella rivoluzione Basaglia rappresenta il legame con il fuori

Definita “segretaria del marito” dallo psichiatra Giovanni Jervis o sua “collaboratrice” dal presidente della provincia di Trieste (1970-77), Michele Zanetti, in realtà Franca Ongaro “è pienamente autonoma nel pensiero e nella capacità di scrivere testi importanti”, chiarisce Fiorino, che legge cosa diceva lei stessa di questo rapporto di vita e di lavoro con Basaglia: “‘So che ogni parola scritta era una discussione senza fine con lui per farmi capire meglio’”. E “capovolge uno stereotipo: descrive lui come estroverso, irrazionale, passionale, imprevedibile”, osserva la storica, mentre “ritaglia per sé uno spazio ad hoc, tutto incentrato sulla parte logica e razionale”. Una cifra che la vedrà “attivissima nelle relazioni con le istituzioni, in primo luogo la provincia” e curiosa osservatrice del modello scozzese di Maxwell Jones “il primo ad aver teorizzato la comunità terapeutica”, dove Ongaro realizza “una grande esperienza di pratica”. Ma è a partire dall’esperienza di Gorizia che il suo lavoro di “pubblicista e teorica” prende corpo, diffondendo “il senso della rivoluzione dei Basaglia. Per lei – precisa la studiosa – la fine delle istituzioni manicomiali avrebbe avuto un senso solo se legata alla trasformazione sociale, quindi alla fine di una precisa percezione che aveva eretto barriere contro la diversità, come la voglia di difendere la società dal malato o la paura generalizzata verso qualsiasi forma di diversità. Rappresenta, quindi, il legame con il fuori, ma lavora moltissimo anche dentro”.

Limpegno come comunicatrice e senatrice

È proprio “il sociale”, insieme a “comunicazione”, la parola chiave attorno alla quale ruota il contributo di Ongaro come scrittrice, nell’intreccio con l’attività del marito. “Il sociale a ribadire questo nesso tra dentro-fuori, cruciale in tutta la vicenda della dismissione del manicomio – osserva Fiorino – e la comunicazione, perché ha saputo indubbiamente comunicare all’esterno tutta la portata della loro critica”. È lei a adoperarsi per la realizzazione di Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, il libro-denuncia sui manicomi italiani “che ha sensibilizzato l’opinione pubblica su quella realtà orrenda e violenta verso le condizioni in cui vivevano i malati reclusi”. E a tentare di “spiegarla ai ragazzi” con Manicomio perché?, in cui “cerca di dimostrare la continua mortificazione dei malati, dimostrando una grande abilità nel decodificare i rapporti di potere”. Il suo impegno continua anche da senatrice, che la vedrà occupata in “Commissione Sanità su temi diversi, dai trapianti alle disposizioni sul fine vita, alle tossicodipendenze”, e, soprattutto, nella difesa “dell’applicazione della riforma psichiatrica. Ci sono negli Anni 80 alcuni disegni di legge che tendono a scardinare i principi della riforma e lei si oppone con successo – ricorda la storica – Non era felice dell’applicazione della legge Basaglia e della riforma più in generale, perché la loro grande intuizione era che il malato di mente non ha bisogno di un letto di ospedale, ma di altri servizi, su cui chiedeva un maggiore investimento”. Per questo è molto attiva “nella rete associativa delle famiglie, che legittimamente in una prima fase, dopo la legge del ’78, non avendo ricevuto le risposte che meritavano, si erano mobilitate e avevano manifestato una certa ostilità rispetto alla legge. Poi con un’opera di mediazione, attivando servizi, formando diversamente gli operatori, si è ricomposta quella frattura”.

Nel 68 parla di politicità del quotidiano, anticipando il pensiero femminista

Non da meno il contributo di Franca Ongaro alle battaglie delle donne. “Nel ’68 parla di ‘politicità del quotidiano’ e scrive: ‘Io mi rifiuto di essere relegata a preparare il latte caldo ai rivoluzionari’ – ricorda Fiorino – Sua la prefazione di un testo cult del femminismo italiano, Processo per stupro, lavoro collettaneo dal documentario di Loredana Rotondo trasmesso nel ’79”. E ancora, “introduce Le donne e la pazzia, testo del ’77, una delle prime riflessioni sulla specificità della violenza che la cultura patriarcale ha operato sulle donne, e promuove il libro di Giuliana Morandini E allora mi hanno rinchiusa, aprendo il tema della specificità della violenza manicomiale e delle ricadute della cultura misogina in questo ambito”. Altro scritto cruciale, “l’introduzione a Linferiorità mentale della donna del neurologo tedesco Moebius, che per Franca Ongaro sarà l’occasione per ribadire alcuni concetti chiave che la storiografia femminista avrebbe sviluppato, cioè la costruzione di un’inferiorità biologica delle donne”. Radicalità, nel senso di “andare alla radice dei problemi”, autocritica da parte della categoria dei medici, e rapporto tra salute e malattia, contro la separazione che tiene il malato “fuori da ciò che la scienza costruisce sul suo corpo”, sono, secondo Fiorino, i tre aspetti più preziosi dell’eredità con cui Franca Ongaro, scomparsa nel 2005, dialoga col nostro presente. “È una donna da ricordare perché essendo protagonista di una grande battaglia che fa onore al nostro Paese, laver chiuso quei luoghi orrendi che sono stati i manicomi, ha guardato a ciò che cera attorno, al contesto di riferimento, invitandoci a rifuggire da quegli atteggiamenti di esclusione e non accettazione della diversità che hanno costruito le discriminazioni”.


Per approfondire:

Salute/malattia. Le parole della medicina, di Franca Ongaro Basaglia

Una voce. Riflessioni sulla donna, di Franca Ongaro Basaglia

Lutopia della realtà, di Franco e Franca Basaglia, a cura di Maria Grazia Giannichedda


(Agenzia DiRE – www.dire.it, 16 marzo 2021)


Il documento che vi proponiamo nasce dalla riflessione di donne appassionate alla politica, e si rivolge a donne già presenti nelle istituzioni o interessate a farne parte, a quelle che aspirano a intraprendere unazione di governo, a quelle che operano in gruppi, associazioni e movimenti, proponendo 10 pratiche che possono accompagnare e rendere maggiormente consapevole il desiderio politico di ognuna. Ve lo proponiamo come un dono tenendo anche presente loccasione delle imminenti elezioni amministrative in molte città italiane.


PREMESSA


Questo documento firmato da 25 donne è frutto di un percorso di discussione sulle pratiche di autorità femminile dentro e fuori le istituzioni politiche, che si è svolto a Mestre tra il 2018 e il 2019 e si è articolato in cinque incontri, coinvolgendo anche donne di altre città (Venezia, Mirano, Chioggia, Vicenza).

Dopo i mesi del lockdown, è stata messa a punto la forma definitiva e adesso il documento è pronto per andare oltre il contesto in cui è nato. La scommessa condivisa è che sia uno strumento utile per far conoscere il senso di una politica inventata dalle donne, all’altezza delle sfide del presente, qui articolata in dieci pratiche elementari che possono combinarsi tra loro e moltiplicarsi nei diversi contesti della vita sociale, politica e lavorativa, dando vita a nuove narrazioni.

Hanno partecipato al confronto donne appassionate di politica che si sono riconosciute preziose l’una per l’altra, la cui formazione è avvenuta in contesti diversi: il femminismo della differenza, lassociazionismo, il movimento ecologista e pacifista, lamministrazione locale, alcuni partiti della sinistra, la partecipazione al governo della propria città o del Paese, limpegno nelle professioni, nellarte, nella ricerca filosofica e spirituale.

Tutte le firmatarie hanno una storia segnata dalla presa di parola pubblica nella propria città e ognuna ha sperimentato in luoghi, tempi e modi diversi la forza dellautorità di origine femminile, riconoscendone la straordinaria efficacia insieme alle difficoltà e agli ostacoli.

Lassociazione “Preziose” di Venezia ha avviato la discussione sulle pratiche. La relazione politica con la filosofa Annarosa Buttarelli ha condotto alcune a coinvolgersi in prima persona nel progetto Scuola Alta Formazione Donne di Governo”, impegnandosi nella trasmissione dei saperi di origine femminile da sempre all’opera nella storia.

La scrittura del documento delle dieci pratiche presuppone percorsi relazionali di sperimentazione e trasformazione soggettiva, anni di lavoro politico, letture e incontri in grado di aprire a una più alta ricerca di senso. E ancora, progetti realizzati, battaglie attraversate, passaggi e simboli ritrovati.

Il documento si rivolge, in particolare:

Ci auguriamo che questo documento, con le opportune mediazioni, susciti unampia discussione tra generazioni politiche diverse e favorisca processi di presa di coscienza e trasformazione soggettiva.


DIECI PRATICHE IN CUI CI RICONOSCIAMO


* La pratica di fare la differenza

La differenza si fa innanzitutto dentro di sé. Si pratica concretamente quando si entra in relazione con donne e uomini che ne sono consapevoli. Fare la differenza significa costruire giorno per giorno il senso libero del proprio essere donne o uomini. Il femminismo a cui ci richiamiamo afferma il valore della differenza e mette la vita al centro della politica anziché lesercizio della forza e del potere in tutte le sue forme. I sessi sono due, non riducibili luno allaltro, differenti, non uguali. Le donne non sono una classe né una categoria né tantomeno un “genere” da includere nel concetto di “umanità”. Ognuna e ognuno parla non per astrazioni universali ma a partire da sé: capire questo è essenziale per sprigionare la forza della differenza.

* La pratica della radicalità

Radicalità è andare oltre la posizione rivendicativa o di contrapposizione alle logiche e ai giochi del potere e mettersi in relazione con altre o altri, assumendo la posizione affermativa del desiderio. A partire dal desiderio e dalle relazioni si possono pensare nuove istituzioni, percorsi più incisivi per la trasformazione della realtà, del modo di rappresentarla, pensarla e nominarla. Siamo radicali, per esempio, quando ci chiediamo se i problemi ci toccano da vicino, ci riguardano direttamente, rinunciando a parlare in generale e in astratto. Siamo radicali se entriamo concretamente nel merito delle questioni, avendo chiaro il contesto reale in cui si sono presentate, ascoltando donne e uomini che le vivono, confrontando tra loro le diverse soluzioni proposte. Ognuna di noi ha tolto consenso e credito al sistema patriarcale e scommette sulla possibilità già in atto di un governo femminile della realtà” che fa leva sulla vita reale e sulle relazioni.

* La pratica della libertà femminile

Praticare la propria libertà è lesercizio più alto della nostra soggettività. La libertà come la intendiamo è relazionale, non individuale. È legata alla cura delle relazioni e non si pone come valore assoluto. Si rafforza quando riconosciamo la libertà dell’altra e dell’altro. Si manifesta sul crinale tra libertà e necessità, nel riconoscimento dei limiti e nella consapevolezza che la nostra libertà dipende da quella di altre donne. Non pensiamo alla libertà come diritto dell’individuo sancito dalla Legge o dalla democrazia, ma come guadagno dell’umanità femminile che nel corso della storia ha lottato per essere fedele a se stessa e realizzare i propri desideri.

* La pratica delle relazioni

Le relazioni femminili, luogo di scambio tra due che sono sempre “dispari” l’una nei confronti dell’altra, sono la forza che possiamo mettere in campo per essere più felicemente e fedelmente noi stesse. In questa disparità, e non sullappiattimento dell’“una vale una”, corre il più dellenergia, della libertà e della politica femminili. Il primo passo necessario è prendere coscienza del legame profondo con la madre, nostra origine reale e simbolica, su cui si fonda il desiderio di intrecciare relazioni privilegiate con altre donne. Le relazioni non sono già date. Non basta dichiarare di essere in relazione: c’è un percorso da fare, si passa per un lavoro onesto e rigoroso su di sé che rende disponibili alla trasformazione soggettiva. Due donne in relazione tra loro non formano un luogo chiuso, escludente o autosufficiente, sono invece la leva più efficace perché di due in due cresca nel mondo una rete di forza femminile in grado di contrastare la logica del potere.

* La pratica delle genealogie femminili

Praticare una genealogia vuole dire fare riferimento alla parola e alle azioni di altre donne che prima di noi hanno saputo dire la verità e regolarsi secondo le proprie ragioni, in fedeltà all’esperienza soggettiva. Si tratta di una relazione “verticale” che integra le relazioni nel presente. Quanta indipendenza di pensiero e autonomia di azione hanno esercitato le donne che sono venute prima di noi? Quali mediazioni hanno messo in atto? Partendo da queste domande si ritrova il filo delle genealogie femminili rese invisibili dal primato della parola maschile. Quando ci dobbiamo orientare nei diversi campi in cui siamo impegnate o quando siamo chiamate a prendere decisioni, riferiamoci alle genealogie del sapere femminile, chiediamo aiuto alle donne autorevoli, non solo quelle del presente ma anche quelle del passato. Facciamo tesoro delle loro indicazioni per il nostro agire. Esiste un ordine simbolico femminile, una ricchezza di pratiche creative, di linguaggi sapienziali e spirituali, di insegnamenti a cui ogni donna può riferirsi in ogni momento della sua vita, “fonti” a cui attingere e da cui ricevere “doni” preziosi.

* La pratica della riconoscenza

Riconoscenza è saper onorare il “debito” di gratitudine nei confronti della madre e di tutte quelle donne che nel corso della nostra vita ci hanno incoraggiate, sostenute, e hanno saputo costruire mediazioni che per noi sono state importanti. È fondamentale chiederci a chi dobbiamo la consapevolezza che abbiamo raggiunto, riconoscere il bene che riceviamo da altre donne e anche da alcuni uomini, dal territorio, dall’ambiente. È importante rendere visibili le relazioni che ci sostengono e ci autorizzano ad andare avanti e a rilanciare nei contesti in cui agiamo. Riconoscenza” è una parola femminile universale che indica il passaggio a un piano più alto di civiltà. Di qui passa lamore per il mondo da cui muove la politica vera.

* La pratica di promuovere autorità sociale femminile

C’è autorità di origine femminile ovunque ci si prenda cura del vivere insieme, si sanino le ferite, si compiano gesti pieni di significato, si trovino le parole giuste nei momenti di conflitto, si inventino mediazioni efficaci avendo come prima motivazione non il vantaggio personale ma il desiderio di migliorare il mondo. Promuovere autorità femminile significa anzitutto fare attenzione alle donne (e agli uomini) che operano nei contesti reali con competenza, generosità e capacità di tessere relazioni. Non basta volgere lo sguardo a queste figure sociali positive, che sono tante benché spesso invisibili e anonime. È necessario indicarle come esempi e promuovere concretamente la loro opera.

* La pratica dellamore per la città e per il luogo in cui si vive

È una pratica che nasce da un radicale cambiamento di sguardo: superata lestraneità nei confronti della città e del territorio e lindifferenza per chi ci vive accanto, il nostro sguardo si orienta verso la comunità di cui siamo parte. Questa pratica d’amore si realizza nei contesti, qui e ora, a partire dallo spazio vicino alle case che abitiamo, senza rigide separazioni tra dentro e fuori, tra pubblico e privato, tra c che accade nel “piccolo” dei contesti reali e ciò che capita nel “grande” del mondo.

Il vincolo di prossimità, l’attenzione a quelle e quelli che abitano accanto a noi, alle vicine e ai vicini di casa e nei diversi contesti della vita sociale, politica e lavorativa diventano così il fondamento dell’azione politica. Amare il luogo che abitiamo comporta il prendersene cura, garantire una presenza consapevole che ha attenzione per la vita materiale e al tempo stesso ha a cuore la qualità della vita pubblica. Le cose possono cambiare in meglio quando sono all’opera donne attente e sensibili – ma anche uomini liberi dal bisogno di primato -, consapevoli della fragilità e dellinterdipendenza tra viventi.

* La pratica del desiderio

Si tratta di non smettere mai di interrogarsi su ciò che ci muove a livello profondo, anche inconscio, e saper ricondurre il confronto politico con altre e altri alle ragioni del desiderio. Quando, per esempio, ci si candida a elezioni: qual è il desiderio che ci spinge? L’amore per il mondo? Provare a rispondere alle richieste di libertà e giustizia? Lavorare per la salvaguardia dell’ambiente e la cura del territorio? Quanto, invece, pesa l’ambizione di potere o il semplice protagonismo personale? Il desiderio femminile di libertà apre la strada a un’azione politica che dia spazio all’immaginazione creativa, al pensiero fecondo, alle pratiche artistiche.

* La pratica della trascendenza e della spiritualità

Le donne che oggi intendono impegnarsi nel governo di un’impresa, di una città o di una nazione con l’intento di restituire dignità alla politica e all’economia, strappandole alla gestione brutale del potere e alle logiche onnivore del profitto, non possono prescindere da un cammino interiore che le conduca a unautentica trasformazione, in relazione con altre donne libere e consapevoli. È politico sentirsi in connessione con la terra e con gli altri viventi, con la bellezza naturale, con quella delle espressioni artistiche. È politico saper tenere conto dei limiti. In molte pratiche femminili, come la ripetizione dei gesti di cura, la pazienza di insegnare a parlare, il silenzio, coltivare un orto, raccogliere erbe medicinali, e ancora la tessitura, la calligrafia, si è sempre manifestato un legame inscindibile tra spiritualità e sapienza materiale. Queste pratiche hanno tenuto le donne vicine a un’idea di ciò che è sacro e ad un tempo alle necessità dell’esistere, senza gerarchie né divisioni tra spirito e materia, conducendo alle fonti della vita stessa, generando un incontro imprevisto con il presente vivo e con il respiro che attraversa la storia. Queste pratiche sono politiche perché contrastano la perdita di umanità che stiamo patendo in questo presente.


Alessandra De Perini, Franca Marcomin, Maria Teresa Menotto, Luisella Conti, Luana Zanella, Nadia Lucchesi, Désirée Urizio, Silvana Giraldo, Renata Cibin, Luciana Talozzi, Carla Neri, Antonella Cunico, Laura Guadagnin, Grazia Sterlocchi, Lucia Catalano, Paola Morellato, Annalisa Faverin, Grazia Guarenti, Paola Pattaro, Cristina Bergamasco, Laura Bellodi, Daniela Bettella, Maria Voltolina, Stefania Bertelli, Renata Mannise.



(https://feministpost.it/ 30 gennaio 2021)

di Simonetta Patanè


Resoconto del convegno


Il 27 settembre scorso si è svolto – online – il convegno annuale delle Città Vicine dal titolo «Le Città Vicine nell’era dell’emergenza climatica… e pandemica» già rimandato una volta dato che il 1° marzo, giorno in cui avrebbe dovuto tenersi in presenza, eravamo all’inizio della pandemia. Purtroppo, la recrudescenza dei contagi ci ha costretto all’ennesimo incontro “virtuale” e abbiamo dovuto rinunciare, ancora una volta, alla calda accoglienza della Casa Mag di Verona e a tutti quei momenti di convivialità che, accanto allo scambio di idee ed esperienze, nutrono le nostre relazioni e che quest’anno avrebbero dovuto trasformarsi in una vera a e propria festa per i vent’anni delle Città Vicine. Il convegno, dunque, si colloca tra la prima e la seconda ondata di Covid 19, un tempo di sospensione – come stanno a indicare i puntini aggiunti al titolo originario – in cui ci siamo trovate/i e ci troviamo fronteggiare un’emergenza ancora più dirompente di quella climatica ma ad essa strettamente connessa. Di ciò che è successo in questo tempo sospeso ne rende conto ampiamente il numero speciale di AP – Le Città Vicine alla luce di questo presente – che ha raccolto le riflessioni sulle trasformazioni che stavano avvenendo dentro di sé e nella città durante il tempo della quarantena, così come gli auspici, i desideri, le nuove prospettive. L’edizione speciale ha fatto da base per l’intera discussione il cui filo rosso si è snodato intorno al tema del cambiamento: quello che non dipende da noi eppure ci trasforma, quello che dipende dai nostri desideri, dal nostro impegno e dalla forza che riusciremo a mettere in campo.

Delle trasformazioni indipendenti dalla nostra volontà, introdotte prima dal lockdown e poi dalla convivenza con il virus, sono state messe in rilievo soprattutto quelle che riguardano il piano intimo delle relazioni: se per alcune l’isolamento è stato vera e propria solitudine, non essendo stata colmata la lontananza fisica delle amiche con gli strumenti tecnologici insufficienti nel restituire l’intimità (Rosanna Macrillò) o insopportabili da usare (Maria Concetta Sala), per altre invece è stata l’occasione per fare una selezione delle proprie amicizie e renderle più profonde (Luciana Tavernini). Anche la relazione con la città sembra aver subito un’intensificazione: tanto nei racconti contenuti nel numero speciale di AP quanto dagli interventi nel dibattito, emerge con forza il «legame d’amore» che ciascuna/o intrattiene con la sua città, un legame «quasi spirituale» (Bianca Bottero). La spiritualità ancor di più sembra caratterizzare il rapporto con la natura: quella “selvatica” che viene osservata dalla finestra riprendersi il suo spazio sul cemento e tra gli alberi sporchi di città, quella della campagna e dei boschi in cui molte si sono rifugiate per la quarantena e per «trovare parole di risveglio cercate, non a caso, nell’opera di María Zambrano “Chiari del bosco”» (Stefania Tarantino). La riscoperta della misura umana del paese, della possibilità di una vita spartana in cui si può vivere con poco, di una comunità femminile in rapporto con la terra (R. Macrillò), della generosità degli orti «che non ci hanno fatto mancare niente» (S. Tarantino), fino al silenzio delle passeggiate tra gli alberi (Adriana Sbrogiò) sono tutte esperienze che parlano di raccoglimento e introspezione, di un tempo lento di riflessione sulle proprie trasformazioni interiori. Tutti argomenti di cui in genere «non si riesce a parlare, perché non trovano spazio nei webinar, negli appelli, nei documenti» (Antonietta Lelario) e che, viceversa, ricevono un’«accoglienza materna» nelle Città Vicine perché da sempre «hanno impostato la difesa della città non solo dal punto di vita dei servizi e degli aspetti funzionali ma su un’interpretazione vasta e su valori vasti» (B. Bottero). L’idea di una «città materna» costituisce, senz’altro, un «salto simbolico ed esistenziale» rispetto alla concezione funzionalista (A. Lelario). Per le donne più avanti con gli anni, definite nel dibattito pubblico più a rischio o più “sacrificabili”, che si sono sentite chiamate in causa, l’introspezione si declina come un moto di stizza di fronte alla scelta di favorire i giovani nelle cure «dopo una vita passata a pagare le tasse!» (R. Macrillò), o come pungolo a «prepararsi alla morte» e a fare un bilancio della propria vita per scoprirne la bellezza e la ricchezza e sentire il bisogno di un riconoscimento verso quelle relazioni, politiche e affettive, che l’hanno resa possibile (A. Sbrogiò). Tra i cambiamenti che stanno modificando le nostre abitudini è stato affrontato anche quello inerente l’uso massiccio della tecnologia che è stata riconosciuta, è indubbiamente utile per continuare a mantenere vivi gli scambi fra noi e, addirittura, ci ha permesso di avere relazioni con persone lontanissime nello spazio che probabilmente non avremmo mai incontrato altrimenti, ma, proprio per questo, anche pericolosa perché rischia di fomentare un certo «attivismo fordista» (partecipare a quel webinar, seminario ecc. tutto il giorno) (Marina Santini) e di farci vivere un’esperienza straniante – e il pensiero va immediatamente alle bimbe e bimbi, alle ragazze e ragazzi costretti alla didattica a distanza. Le tecnologie «ci stanno rapinando di qualcosa di intimo, stanno sottraendo linfa vitale alle relazione umane in tutti gli ambiti» (Maria Concetta Sala), ci stanno cambiando e non sappiamo ancora come, non siamo in grado di coglierne le sfumature ed è necessario osservarle con attenzione e approfondirne l’analisi, ad esempio leggendo il testo di Shoshana Zuboff, Il Capitalismo della sorveglianza (Clara Jourdan).

Oltre ai cambiamenti che avvengono in noi e nelle nostre abitudini, si è molto dibattuto su quello che sta accadendo intorno a noi e su come interpretarlo: si tratta di modificazioni reali e profonde o di atteggiamenti opportunistici e strumentali? Uno degli indicatori più eclatanti in questo senso è il linguaggio usato nel dibattito pubblico, anche istituzionale, nel quale sono entrati termini quali cura, relazione, mutualismo e persino “solidarietà” fino a qualche anno fa quasi impronunciabile (Franca Fortunato): quando tali parole-chiave del linguaggio femminista sono pronunciate dal primo ministro Conte o dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen questo è indice di una reale e sostanziale presa di coscienza (F. Fortunato) o è soltanto un uso strumentale, un «sequestro delle nostre parole» (Maria Castiglioni)? Oppure è un insieme di queste due posizioni? «Forse non c’è strumentalità ma l’idea che si debba andare in quell’orizzonte, anche se non è chiara la prospettiva» (Loredana Aldegheri). Viene sottolineato, però, che il linguaggio femminista delle più giovani segnala una costante cancellazione della madre, un vero e proprio «attacco al lavoro fatto dalle donne» (Anna Potito) nel tentativo di «cancellazione della differenza» in favore di un’idea di libertà tutta dentro ad una «cultura della mercificazione» (Daniela Dioguardi). Non si può tralasciare, inoltre, la recrudescenza del linguaggio della violenza e dell’odio, dell’individualismo esasperato che segnala un reale processo di «sfilacciamento delle relazioni» (R. Macrillò). Più in generale, se all’inizio della pandemia, durante il lockdown, abbiamo avuto una forte percezione di una generalizzata presa di coscienza rispetto all’insostenibilità del nostro modello sociale ed economico basato «su un’idea perversa di libertà e autonomia» (S. Tarantino), pian piano la fiducia in un reale cambiamento sembra venuta meno: ben presto si è constatato che «tutti i giochi di potere sono ancora lì» (A. Potito) e se pure è sembrato che ci fosse una «circolarità tra l’esperienza vissuta e il dibattito pubblico e sui social media che avevano fra loro una certa risonanza», ora sembrano essersi nuovamente allontanati essendo il dibattito pubblico tutto orientato alla «ri-organizzazione della normalità» (Chiara Zamboni). Una normalità che peraltro «è stata un imbroglio» in quanto basata sulla «disconnessione maschile che porta a tenere tutto separato anche nell’emergenza» (S. Tarantino). Che si tratti poi di “emergenza” è una questione in sé dato che il termine «ha a che vedere con circostanze imprevedibili: ma siamo certe/i che le attuali emergenze – climatica, pandemica e migratoria – siano il risultato di accidenti che sarebbe stato impossibile presagire?» (M. C. Sala). Il punto è che i cambiamenti in atto non sono altro che l’esplosione di contraddizioni già presenti e già note. Era già chiaro, ad esempio, che lo smantellamento progressivo del sistema sanitario nazionale basato sulla «logica della malattia come risorsa su cui speculare e fare affari», una concezione della sanità centrata sull’ospedalizzazione a scapito di un’assistenza domiciliare «accurata e affettuosa» (A. Di Salvo) e di una «medicina di territorio intesa non solo come cura a domicilio ma anche come cultura sanitaria che implica una vera e propria educazione alla salute» (Maria Vittoria La Grotta) non potevano che farci trovare impreparati e inadeguati a fronteggiare un evento traumatico come la pandemia; ma, indubbiamente, oggi è diventato lampante che «il denaro non compra la salute» e «la produzione di beni e servizi essenziali non possono essere delocalizzati ma devono essere garantiti a livello locale» (L. Aldegheri). Malgrado, inoltre, lo choc procuratoci dal vedere le nostre città «deserte e surreali» durante la quarantena, eravamo consapevoli da tempo che le «città museo» ad uso esclusivo dei turisti non hanno realmente valorizzato l’arte (Laura Minguzzi), che ha la funzione non solo di creazione e diffusione della bellezza ma anche di interpretazione del presente e di espressione della speranza (Katia Ricci). Sapevamo bene che le politiche abitative e urbanistiche dissennate fossero «effimere, incapaci di sostenere la vita», quando, invece, «la città dovrebbe essere il luogo della salute e della protezione della vita» (A. Di Salvo). Semmai, oggi, la pandemia aggiunge l’ulteriore consapevolezza che «occorre un profondo ripensamento della relazione corpo/spazio: i luoghi della città non possono essere destinati a un solo uso, ma vanno messi in connessione tra loro per una maggiore circolarità dei corpi che devono poter tornare a respirare» (Nadia Nappo); si pensi, a questo proposito, allo stravolgimento dell’ambiente domestico che ha modificato la sua fisionomia per fare spazio alla didattica a distanza e al lavoro, mettendo in una continuità assoluta la dimensione pubblica e quella privata (M. Santini).

Insomma, «il presente è incardinato su contraddizioni vecchie» (L. Aldegheri) sulle quali le donne hanno già prodotto molto sapere. In particolare, nei loro venti anni di vita le Città Vicine «hanno fatto un lavoro enorme ed eroico per intelligenza e forza» (B. Bottero) e non a caso nell’edizione speciale di AP «c’è già tutto: abbiamo posto come potrebbe essere la nostra visione del mondo» (Mirella Clausi), incentrata sugli «immaginari di futuro desiderato» (M. Castiglioni). Un sapere femminile che viene da lontano, come molte hanno riscontrato rileggendo, durante il lockdown, le pagine della Kollontaj, della Luxemburg (L. Minguzzi) o dei classici del femminismo anni ’70 «che avevano già detto tutto» (Donatella Franchi). Ma è anche un sapere circolante, viste «le molte donne (filosofe, scienziate, politiche, amministratrici ecc.) impegnate nella vita pubblica che hanno fatto di questi temi il centro della loro attenzione» fino al punto che «ecologia e femminismo nella percezione diffusa formano un continuum» (A. Di Salvo). Dunque, è da qui che occorre ripartire, dalla «fiducia nel lavoro già fatto, e nella passione declinata da tutte noi nei rapporti individuali e spirituali mantenuti nonostante l’isolamento» (Maria Letizia Montalbano). «La ricchezza è l’esserci, in un rapporto costitutivo non solo con le persone vicine. Su questo, che è l’essenziale, possiamo portare il conflitto» (C. Zamboni). Esserci sì, ma in movimento perché «nell’esserci non ci accontentiamo mai, abbiamo un desiderio di andare oltre» (A. Lelario); esserci, inoltre, radicandosi al suolo e, contemporaneamente, mondializzarsi, come suggerisce Bruno Latour: «per tener insieme le immagini opposte di suolo e di mondo» (M. C. Sala). Il che significa che sebbene sembri che sia già stato detto tutto oggi vi è un contesto nuovo: «quaranta anni fa non c’era il Forum Sociale Mondiale di Barcellona» (B. Bottero), «tutto quell’insieme di realtà auto-organizzate e autogestite che hanno costruito un movimento internazionale che cerca di erodere la globalizzazione neoliberista» (L. Aldegheri). Allora, bisogna che lo sguardo si ampli e tenga conto che le medesime contraddizioni si declinano in modi molto diversi a seconda di chi si è e di dove si vive nel mondo a cominciare dalla distinzione, a cui siamo poco abituate, tra ambienti urbani e ambienti rurali.

Dunque, ci sono dei nodi della trasformazione verso i quali siamo attrezzate. Proprio perché donne, siamo abituate al cambiamento perché «il nostro stesso corpo è investito da trasformazioni indipendenti dalla nostra volontà ma che accettiamo e questo ci permette di rispondervi creativamente. Siamo attraversate/i dal cambiamento e dobbiamo impegnarci a credere di poterlo orientare» (L. Tavernini). Il problema vero, allora, è quello di «raffinare la strategia dell’esserci» (L. Aldegheri), perché se pure è chiaro che «la civiltà delle relazioni e la città della cura sono i due pilastri intorno ai quali gira tutto il discorso» (M. Castiglioni), è pur vero che «ne parlano tutti e il punto è fare in modo che la nostra parola e la nostra competenza venga fuori con forza» (Giusi Milazzo). Sicuramente è importante «continuare a organizzare incontri, dare informazione su questi temi e fare pressione sulle istituzioni» (Luciana Talozzi) ma è anche vero che non basta: «più che fare un ulteriore passo, occorre fare uno scatto in avanti» (L. Aldegheri). In questo senso, ci si è chiesto: «sono più efficaci le pratiche di democrazia diretta e progettazione partecipata o le pratiche antagoniste degli anni ’70? Quali incidono di più sul cambiamento?» (M. Castiglioni). Probabilmente queste pratiche sono entrambe necessarie: cercare l’interlocuzione con le istituzioni, avendo fiducia nelle donne di governo e nelle amministratrici (Mirella Clausi), molte delle quali attuano «politiche che rispecchiano importanti avanzamenti nella direzione della sostenibilità ambientale e sociale» (B. Bottero) e che hanno dimostrato, nella gestione della pandemia, di avere uno «sguardo lungo e lungimirante» scegliendo «di fronte al rischio vita/morte o rischio economico la vita» (M. Santini); aprire conflitti laddove vi è una sordità e un’impraticabilità della relazione. Ma il conflitto deve nutrirsi di una forza che può derivare solo dal fare rete fra noi, aumentare i nostri incontri: esigenza che è stata sentita da tutte/i.


(www.libreriadelledonne.it, 19 novembre 2020)


Renata Sarfati ha segnalato e tradotto per noi questo appello ricevuto dall’organizzazione Jcall for peace (Jewish call for peace), una rete europea che si propone di fare pressione sullo stato di Israele e sui paesi europei affinché intervengano (ndr).



Noi, donne israeliane, funzionarie elette, esponenti della società civile, opinioniste e attiviste di base, con diverse convinzioni politiche e rappresentanti diversi gruppi sociali, religiosi, nazionali ed etnici, abbiamo in comune un profondo impegno nei confronti  di una soluzione negoziata con due stati del conflitto israelo-palestinese, soluzione che potrà garantire la nostra sicurezza e la piena uguaglianza in quanto donne ed esseri umani. Nel 20° anniversario della risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, crediamo che soprattutto ora debbano essere ascoltate le voci delle donne sulle questioni esistenziali che ci troviamo ad affrontare oggi. Siamo profondamente preoccupate dell’imminente prospettiva di un’annessione israeliana di parte o tutta la West Bank nel quadro del piano del presidente Trump per il futuro dell’area. Vi invitiamo ad associarvi a noi affinché facciate tutto ciò che potete per fermare tale misura ed impedirne le disastrose conseguenze per la nostra sicurezza, democrazia, benessere, uguaglianza, ed il nostro futuro e quello della nostra regione.


La crescente occupazione ha alimentato oltre un secolo di acrimonia, incertezza, insicurezza umana, instabilità e violenza. Dal 1967, il crescente controllo militare israeliano sull’intera area tra il Mediterraneo e il fiume Giordano e l’espansione degli insediamenti ebraici oltre la linea verde, non solo hanno ulteriormente compromesso i diritti umani e collettivi dei palestinesi, ma sfidano anche i principi di libertà, uguaglianza e giustizia.

Se il prolungarsi del conflitto ha avuto un impatto dannoso su tutto, esso ha particolarmente colpito le donne. Ripetuti cicli di tensione, guerre e conflitti hanno marginalizzato le donne e favorito molteplici abusi di genere nella vita quotidiana, hanno radicato un’insicurezza fisica, economica, sociale e politica, intaccando i valori democratici di libertà, uguaglianza e tolleranza reciproca. Col protrarsi del conflitto, le donne sono state sistematicamente messe in disparte. 

Siamo ora particolarmente preoccupate del fatto che, nel mezzo della pandemia del Covid-19 con tutte le sue ramificazioni umane, socioeconomiche e globali, dal 1° luglio 2020, la nuova coalizione del governo israeliano pianifica l’annessione unilaterale di parti della West Bank. Questa misura, in linea con il piano dell’attuale amministrazione di Washington di legittimare il controllo permanente israeliano sulla West Bank, frammenterebbe irreparabilmente i palestinesi geograficamente e demograficamente, evitando sostanzialmente l’indipendenza di uno stato palestinese autosufficiente accanto a Israele, e suonando così le campane a morto ad un accordo di pace duraturo. Tale misura viola la legge internazionale e tutte le relative risoluzioni dell’ONU, crea una discriminazione istituzionalizzata riducendo i palestinesi allo stato di sudditi contro la loro volontà. L’annessione costituisce quindi un irreversibile pericolo ed è una minaccia esistenziale per i palestinesi, per gli israeliani, per la stabilità della regione e per un già fragile ordine globale.

L’annessione unilaterale è un atto di coercizione che istituzionalizza l’ineguaglianza e umilia la dignità umana. Incarna inoltre l’esclusione di genere. E’ stato concepito quasi interamente da uomini senza alcun riferimento alle varie prospettive di donne appartenenti a diversi ambienti sociali. E omette di prendere in considerazione gli effetti nocivi di un patriarcato consolidato sulla legittimità, il tessuto morale e il percorso dinamico di Israele e di tutti i popoli della regione.

Da un punto di vista umano e femminista, l’annessione non può non essere contestata. Abbiamo bisogno del vostro sostegno e del vostro impegno in una collaborazione globale per salvare la speranza di una risoluzione del conflitto che sia giusta, paritaria e duratura, per noi e per le generazioni future. Dobbiamo perciò continuare a perseguire una pace negoziata e giusta tra Israele e i suoi vicini.


Segue la lista delle firmatarie



June 2020

Israeli Women’s Urgent Appeal Against Annexation


We, Israeli women—elected officials, civil society leaders, opinion-shapers and grassroots activists–from diverse political persuasions and representing a variety of different social, religious, national and ethnic groups, have in common a deep commitment to a negotiated two-state solution to the Israeli-Palestinian conflict that will guarantee our safety and full equality as women and as human beings. On the 20th anniversary of the pathbreaking UN Security Council Resolution 1325, we believe that especially now women’s voices must be heard on the existential issues facing us today. We are profoundly concerned about the imminent prospect of an Israeli annexation of parts or all of the West Bank within the framework of President Trump’s plan for the future of the area. We call on you to partner with us to do all you can to halt such a step and prevent its disastrous consequences for our security, democracy, wellbeing, equality, and the future of ourselves and our region


The ongoing occupation has fueled over a century of acrimony, uncertainty, human insecurity, instability, and violence. Since 1967, the ongoing Israeli military control over the entire area between the Mediterranean and the Jordan river—and with it the expansion of Jewish settlements beyond the Green Line—has not only further undermined Palestinian human and collective rights, but also defies the principles of liberty, equality and justice. 

While the prolonged conflict has had an adverse impact on all involved, it has particularly affected women. Repeated cycles of tension, wars and strife marginalize women and invite multiple gender-based abuses in daily life, entrench physical, economic, social and political insecurity, and chip away at the democratic values of freedom, equity and mutual tolerance. Women have been systematically shunted to the sidelines as the conflict continues. 

We are now particularly alarmed that, in the midst of the COVID-19 pandemic with all its human, socioeconomic and global ramifications, as of July 1, 2020, Israel’s new coalition government plans to unilaterally annex portions of the West Bank. This step, in line with the present administration in Washington’s plan to legitimize permanent Israeli control over the West Bank, would irreparably fragment Palestinians geographically and demographically, thus effectively preventing the independence of a viable Palestinian state alongside Israel, and thereby sound the death knell for a durable peace accord. Such a step violates international law and all relevant UN resolutions, creates institutionalized discrimination, and would reduce Palestinians to the status of subjects against their will. Annexation therefore poses an irreversible danger and constitutes an existential threat to Palestinians, to Israelis, to regional stability and to an already fragile global order. 

Unilateral annexation is an act of coercion which institutionalizes inequality and flouts human dignity. It also epitomizes gender exclusion. It was conceived almost entirely by men without any reference to the diverse perspectives of women from different social locations. And it fails to consider the adverse effects of entrenched patriarchy on the legitimacy, moral fabric, and dynamic trajectory of Israel and all the peoples in the region. 

From a human and feminist perspective, annexation cannot go unchallenged. We need both your support and engagement in a global partnership to save the prospect for a just, equal, and lasting resolution to the conflict, for ourselves and future generations, as we continue to pursue a negotiated and fair peace between Israel and its neighbors.


List of Signatories

Sarai AharoniColette Avital Naomi Chazan
Yael DayanNabila EspanioliZehava Galon
Galia GolanHanna HerzogEva Illouz
Rachel LielEti LivniJessica Montell 
Shaqued MoragAchinoam Nini (Noa) Israela Oron
Dorit RabinyanAlice ShalviAnat Saragusti
Shahira ShalabiAida Touma SlimanKsenia Svetlova
Tamar Zandberg  


Additional signatures (updated 28/06/2020)

Amaf KochavaAnca DitroiAnkonina Dee
Ariav PninaArieli ChenAshkenazi Rena
Aviram HannaBalser DianeBar Noa
Bar-din DaliaBar-din TalmaBarak Wolfman Naama 
Bartor AssnatBatzir ChayaBecher Suzie 
Ben Eliyahu HadassBenbasat RivkaBenziman Rachel
Ben Yakir DinaBerger EvaBergman Rotem Ruti
Betzer MeravBerlovitz YaffahBiadi Shlon Adella
Bloom SaritBrenner MiriamBrill Adi 
Brinner Sulema LeylaChen PascaleCohen Sara
Danon OfraDemlin RobiDiamond Rivi
Diner EsterDonath OrnaDovrat Irit
Dvortchin IlanaEisner ShiriElias Dana
Engelberg MichalErdinast-Vulcan DaphnaErel Tamar
Eviatar ZoharGazit IritGilat Orly
Giniger AriellaGouri HamutalGozansky Tamar
Grossman SariGuedalia YasmineHacker Daphna
Hadar BrachaHalevy RachelHalperin-Kaddari Ruth
Harkavi TaniaHarpaz OrpaHasid Shiri
Hefetz Rabbi NavaHeiman MichalJaussi Rivka
Joel DaphnaKadima HagarKamir Orit
Kaplan VarditKatriel TamarKatz Ruti
Katz ShirLahav PninaLasky Gaby
Langer-Gal AnatLaoorpscho IlanaLapin Debbie
Lavie JoshuaLerner AdiLevinstein Sue
Linder MiriLivne Holtzman AdiLoevy Netta
Marian Kadishay RonitMaroshek UkiMass Ader Galit
Mazor NoaMiro NoaMoor Avigail
Nativ GaliaNaveh HadassahOppenheim Ron
Oren Sternberg NiritOrtman HavaPaneth Peleg Michal
Peleg Ginzburg NetaPeress SharonPorat Sara
Potel AdrianaRaanan YeelaReisman-Levy Anat
Resh NuraRonen RayaRosen Alisa
Rosenthal BatyaRotlevy SavionaRubin Cooper Yasmin
Sa’ar AmaliaSadan ElishevaSamash Tamar Tali
Sapoklinsky TirsaSavir AlizaSavir Kadmon Miki
Sela Michal Shadmi ErellaShahar Peer-li 
Shaked Chani Sharabi TehilaShofman Gutman Limor
Shoshani SuziSilver VivianSödergren Kerstin
Stern SharonStern Levi IrisSuissa Rachel
Suman Tov Erel AvitalSzor AbigailTal Hila
Trainin RayUlus IlanaVeiga Nirit
Weidman Sassoon GalitWeiner HagarYaakobi Michal
Yanovsky AlizaYavin RoniYehonatan Rikiy
Zach RuthZig DoritZig Naama
Zinder Merav


(www.libreriadelledonne.it, 3 luglio 2020)