di redazione de ilfattoquotidiano.it
«Mi è sembrato evidentemente inopportuno invitare a una fiera dedicata a Giulia Cecchettin un uomo (confesso che non sapevo manco chi fosse…) accusato di violenza ai danni della sua compagna. Mi è sembrato sbagliato invocare il garantismo (che pure è un tema che mi sta molto a cuore in questo tempo di barbarie) per troncare una discussione sulla violenza di genere, senza problematizzare il calvario che tante donne incontrano nel denunciare gli abusi, la difficoltà di essere credute, di vedere riconosciuta la propria verità. Una discussione complessa che afferisce più alla cultura che alle procedure penali». Con una lunga riflessione, pubblicata attraverso una serie di storie Instagram, il disegnatore Michele Rech, in arte Zerocalcare, annuncia di aver annullato l’incontro previsto il 6 dicembre a Più libri più liberi, la fiera della piccola e media editoria di Roma, a cui avrebbe dovuto partecipare insieme alla scrittrice Chiara Valerio, curatrice della manifestazione. Il motivo sta nella scelta di Valerio di invitare alla fiera, dedicata quest’anno alla memoria di Giulia Cecchettin (la ventiduenne veneta uccisa dall’ex fidanzato a novembre 2023) lo scrittore e opinionista Leonardo Caffo, imputato a Milano per maltrattamenti e lesioni ai danni dell’ex compagna (a ottobre il pm ha chiesto quattro anni e mezzo di reclusione).
Dopo una valanga di polemiche Caffo ha ritirato la partecipazione. Valerio, però, ha difeso in un primo momento la scelta di invitarlo, appellandosi alla presunzione d’innocenza e annunciando di voler presentare lei stessa il suo libro sull’anarchia. Solo in seguito l’organizzazione della kermesse ha diffuso un messaggio di scuse, comunicando che la sala destinata alla presentazione sarebbe stata messa a disposizione della «discussione contro la violenza di genere».
«Credo che tutto, compresi i video, le comparsate televisive, letteralmente tutto almeno fino all’ultimo messaggio di scuse sia stato sbagliato; per come conosco Chiara Valerio, ci credo che sia mossa da fedeltà a un principio e non da altro; ma quando quello che facciamo si presta a così tante strumentalizzazioni, quando diventiamo utili agli articoli della Verità, quando i nostri nemici ci prendono a simbolo, è il momento di fermarci a riflettere pure se siamo in buona fede», scrive Zerocalcare. E definisce l’incontro «oggettivamente impossibile da tenere» perché, scrive, «mi pare impossibile glissare su questo tema e parlare d’editoria come se niente fosse; e al tempo stesso mi pare grottesco pensare che un maschio tenga un incontro in cui spiega a una donna come avrebbe dovuto comportarsi in termini di femminismo». Anche se non parteciperà all’incontro, Zerocalcare sarà presente in fiera presso lo stand della sua casa editrice, Bao Publishing, per i firmacopie.
(ilfattoquotidiano.it, 27 novembre 2024)
di Monica Ricci Sargentini
«La violenza sulle donne è in aumento, anche il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, ha detto che siamo ai livelli di una pandemia». Reem Alsalem, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, parla con il Corriere della Sera alla vigilia dell’incontro “Violenza contro le donne e prostituzione: quale relazione?”, organizzato il 23 novembre a Milano dalla Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate e Resistenza Femminista, in collaborazione con Anteo e lo storico quotidiano milanese. Lo fa tenendo il punto su argomenti scottanti come la pornografia che considera «una forma di prostituzione cinematografica» e gli sport femminili che, afferma con convinzione, «devono essere riservati solo alle donne». Alsalem individua nel patriarcato «una delle maggiori cause della violenza contro le donne, degli abusi e del desiderio di dominare». Un sistema, dice, «che danneggia anche gli uomini, perché si aspetta che aderiscano ai modelli di mascolinità aggressivi, dominanti e violenti che vengono loro proposti». E spera di portare l’attuale governo dell’Afghanistan davanti alla Corte Internazionale di Giustizia: «Incriminare i talebani per aver violato i propri obblighi nei confronti delle proprie donne ai sensi del diritto internazionale avrebbe un forte potere simbolico».
La violenza contro le donne è in costante aumento in tutto il mondo, secondo lei cosa possiamo fare per fermarla?
«I dati che abbiamo dipingono un quadro molto allarmante. Oltre alle forme tradizionali di violenza, ne esistono di nuove che si generano grazie alla tecnologia digitale, penso ai deepfake [montaggi di immagini realizzati con l’intelligenza artificiale, Ndr] e alla crescente commercializzazione e mercificazione delle donne, delle loro capacità riproduttive e sessuali, come è il caso della prostituzione e della maternità surrogata. Per combattere la violenza sappiamo quello che dobbiamo fare, gli Stati hanno leggi chiare in proposito così come il diritto internazionale. Quello che serve è l’impegno politico. Le autorità devono dare priorità a questo problema e dire: “Faremo in modo che metà della nostra società sia al sicuro, sia trattata con pari dignità”».
E perché non c’è quest’impegno?
«Per attuare le leggi servono risorse e il mio timore è che in un periodo di austerità, anche in Europa, dove i servizi e l’attenzione per i più vulnerabili e per coloro che sono più a rischio vengono tagliati o declassati, temo che non vengano stanziati fondi e risorse sufficienti allo scopo. È davvero importante continuare a finanziare e sostenere le organizzazioni di difensori dei diritti umani e coinvolgerli in modo davvero significativo. Un’altra cosa che mi preoccupa è che parliamo molto della necessità di far partecipare le donne a tutti i processi che le riguardano, ma quando le donne dicono qualcosa che non piace ai governi o che non corrisponde alle loro priorità, le loro voci vengono messe da parte e questo accade ovunque nel mondo. Anche in Occidente le organizzazioni femminili vengono messe da parte, le voci delle donne vengono eclissate, le donne vengono vilipese e questo ovviamente va contro i principi dei diritti umani. Poi ci sono le guerre. Sappiamo che la violenza sessuale contro donne e ragazze nei conflitti è stata usata come strumento di guerra, ed è un problema preoccupante e allarmante, ma direi che, con l’accresciuta eradicazione della credibilità dell’ordine basato sul diritto internazionale e del rispetto del diritto internazionale e del diritto umanitario e delle leggi sui conflitti armati, stiamo assistendo anche a un’erosione della protezione di donne e ragazze contro tale violenza nei conflitti».
In un rapporto lei ha definito la prostituzione un sistema di violenza contro le donne e le ragazze. Qual è il modello migliore per porvi fine?
«È molto importante pensare all’immenso danno che viene inflitto alle donne nella prostituzione, inclusa la sofferenza psicologica, un trauma che può anche causare la dissociazione delle vittime e persino lo sviluppo di una relazione di dipendenza e attaccamento agli aggressori. Il modo miglior per affrontare questo sistema di violenza è il modello nordico o abolizionista, che si propone di sradicare la prostituzione ponendo alcuni punti fermi. Prima di tutto le donne nella prostituzione vanno considerate vittime e sopravvissute alla violenza. Quindi se le forze dell’ordine si imbattono in una donna nella prostituzione, lei non dovrebbe essere punita, criminalizzata, giudicata, vilipesa. In secondo luogo va affrontata la questione della domanda, che è al centro di questo sistema di sfruttamento. L’unico attore che ha davvero la possibilità di scegliere è l’acquirente: ogni volta che esce per acquistare un atto sessuale prende una decisione consapevole e ha la libertà di dire di no. E quindi dobbiamo iniziare a rendere più difficile e più inaccettabile, sia socialmente che legalmente, per uomini e ragazzi comprare corpi di donne. La domanda va criminalizzata, comminando multe considerevoli o condanne penali. E questo è cruciale perché finché non diventerà più difficile e punibile per gli uomini acquistare atti sessuali, non saremo mai in grado di affrontare davvero questo problema. La terza cosa è offrire strategie di uscita. Le donne nella prostituzione devono avere accesso a un supporto immediato alle cure per affrontare le conseguenze della prostituzione sui loro corpi e sulle loro menti, a un alloggio, a percorsi di formazione per ricominciare la loro vita in una situazione di sicurezza, dignità e protezione».
Lei ha chiesto che un test obbligatorio sul sesso venga introdotto negli eventi sportivi. Alle ultime Olimpiadi, però, ci si basava solo sul sesso presente sul passaporto. Come pensa di raggiungere questo obiettivo? Qual è la sua posizione sul caso di Imane Khelif?
«Sono stata chiara su questo. Il responsabile di ciò che è successo alle Olimpiadi di Parigi è il Comitato Olimpico. Il Cio deve proteggere gli sport femminili limitandone l’accesso alle donne. Non ci si può basare sul passaporto perché si sa che un certo numero di Paesi metteranno l’identità di genere della persona che può non corrispondere con il sesso biologico. Spero che il Cio abbia imparato la lezione da quello che è successo a Parigi e dal fatto che le giocatrici sono state messe in pericolo ed esposte ad attacchi. I test sul sesso erano stati scoraggiati negli anni ’80 perché erano invasivi e usati solo su certi gruppi di persone ma oggi sono economici ed efficienti oltre ad essere assolutamente necessari per determinare il sesso biologico di un partecipante. È quello che chiedono le atlete e noi dobbiamo ascoltarle».
In uno dei suoi ultimi rapporti al Consiglio per i diritti umani ha sottolineato il tremendo danno che la pornografia crea alle società e i chiari legami che ha con l’aumento e il mantenimento della violenza contro le donne. Come è possibile che la Commissione Europea abbia inviato un relatore al Pornfilmfestival di Berlino? E cosa si può fare per combattere l’industria del porno?
«Nel mio rapporto sulla prostituzione e la violenza contro le donne e le ragazze parlo della pornografia come prostituzione cinematografica. È un fenomeno che produce danni duraturi sulla parità di genere e anche sulla salute mentale e fisica di tutti, compresi adolescenti, ragazzi e ragazze, bambini e bambine. La mia raccomandazione finale è che la pornografia sia messa fuori legge. Nel frattempo dovremmo limitarne la visione ai maggiorenni e rafforzare i metodi di verifica dell’età. Ci vogliono norme serve per chi possiede, promuove o dà spazio a materiale che promuove la violenza. Quanto alla Commissione Europea, penso che sia giunto il momento che gli Stati smettano di trattare i produttori di pornografia e coloro che ospitano pornografia sui loro siti web come imprese senza responsabilità. Devono esserci delle conseguenze. Devono essere chiusi i siti se non rispettano le norme e i regolamenti. Mi preoccupa che la Commissione Europea abbia inviato un relatore al festival del porno perché dà l’impressione che tolleri gli aspetti dannosi e negativi di quell’industria».
In Iraq, Iran e Afghanistan, per citare alcuni Paesi, le donne sono sempre più messe in un angolo, i loro diritti cancellati. Sembra che la reazione delle Nazioni Unite non sia così netta soprattutto nel caso dei talebani a Kabul. Perché?
«Il problema della violenza contro le donne e le ragazze o la regressione nei diritti delle donne non è limitato a certi paesi o a una certa regione perché questa è una pandemia a livello globale. Certo ci sono Paesi che hanno fatto enormi progressi ma tutti devono affrontare questo problema. Se guardiamo all’Iran e all’Iraq, le donne e le ragazze godono ancora di diritti in una serie di aree importanti. Allo stesso tempo in Iraq c’è una bozza di legge per legalizzare il matrimonio delle bambine ma sta incontrando una feroce opposizione da parte di molte parti della società, di donne e di organizzazioni della società civili. Faccio notare che il matrimonio infantile esiste in una serie di Paesi tra cui 37 Stati americani. Quindi è qualcosa su cui dobbiamo lavorare. In una sorta di categoria a sé stante è l’Afghanistan, dove abbiamo assistito alla cancellazione più grave dei diritti delle donne nella vita pubblica e privata. Ma ancora una volta questa regressione non riflette le opinioni o le posizioni della società afghana ma di un gruppo armato che è salito al potere e ne sta abusando».
Non pensa che qualsiasi negoziato con i talebani, a qualunque tavolo, debba essere escluso finché loro non ammettono le donne nelle loro delegazioni? Come si può avere un dialogo o riconoscere l’autorità di queste persone?
«Ovvio che debbano esserci delle conseguenze per il modo in cui i talebani trattano le donne e le ragazze. Dobbiamo esplorare tutte le strade per ritenerli responsabili di ciò. E per questo sostengo l’iniziativa di quei Paesi che vogliono portare i talebani davanti alla Corte internazionale di giustizia. Perché l’Afghanistan è firmatario, ad esempio, della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Incriminare i talebani per aver violato i propri obblighi nei confronti delle proprie donne ai sensi del diritto internazionale avrebbe un forte potere simbolico. Ho anche, tra l’altro, sostenuto il fatto che dobbiamo rendere più difficile per l’Afghanistan normalizzare questo tipo di esclusione, repressione e discriminazione in campo culturale. Per esempio non far partecipare alle competizioni internazionali le squadre sportive maschili dell’Afghanistan, in qualsiasi disciplina, finché alle donne non sarà permesso di partecipare agli sport. Il discorso è diverso in campo umanitario perché la popolazione ha bisogno di assistenza. Ed è sottinteso che per promuovere i diritti umani e l’accesso all’assistenza umanitaria bisogna interfacciarsi con i poteri che hanno il controllo. E questo non significa dar loro un riconoscimento. Questo è quello che ha fatto l’Onu e che ho fatto anch’io, che sono andata in Afghanistan sei mesi dopo la presa del potere dei talebani. Ho anche chiesto all’OIC, l’Organizzazione della Conferenza Islamica, di essere più severa e più esplicita nel comunicare ai talebani che non possono nascondersi dietro l’Islam o la loro interpretazione dell’Islam. L’Islam non tollera, non supporta questo trattamento esclusivo, discriminatorio e invisibilizzante delle donne. Non dobbiamo far sì che il trattamento delle afgane venga normalizzato altrove, come stanno per esempio provando a fare gli Houthi in Yemen».
Contro le madri viene spesso usata nei tribunali la sindrome di alienazione parentale, che non ha basi scientifiche. Quali armi abbiamo contro questo fenomeno?
«Nel mio rapporto sulla custodia dei figli e la violenza contro le donne e le ragazze, che ho presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite lo scorso anno, ho formulato una raccomandazione molto forte: dobbiamo mettere al bando l’uso di questo concetto, l’alienazione parentale. Innanzitutto non è un concetto scientifico, è uno pseudo-concetto. In secondo luogo viene utilizzata nei procedimenti giudiziari come un’arma contro le donne dagli autori di violenza che, odio dirlo, sono soprattutto uomini, per distrarre l’attenzione dai loro misfatti. La usano come forma di punizione. Dobbiamo togliere dalla scena questo concetto e prestare attenzione alle storie di violenza precedenti nella famiglia».
In Italia è stata appena introdotta una legge contro la maternità surrogata che punisce le coppie che vanno all’estero per accedere alla pratica. Qual è il suo punto di vista?
«Penso in generale che la pratica rappresenti la mercificazione della donna da un punto di vista riproduttivo e sessuale. Non posso però dare una posizione precisa sulle leggi in proposito perché non rientra nel mio mandato. Tuttavia ho inviato una lettera al governo della Grecia sulla mancanza di garanzie per prevenire lo sfruttamento delle donne, ma anche perché garantisca il miglior interesse del bambino nella sua legge sulla maternità surrogata. Ho intenzione, in futuro, di concentrarmi su questo. Nel frattempo accolgo con favore gli sforzi degli Stati che si battono contro lo sfruttamento».
Le faccio una domanda provocatoria: visto che sono gli uomini i maggiori responsabili dei comportamenti antisociali e violenti, oltreché delle guerre, non sarebbe ora che facessero un passo indietro e cedessero il passo alle donne? Come sarebbe un mondo in cui il potere è in mano alle donne?
«Penso che la causa della violenza contro le donne, degli abusi e del desiderio di dominare sia il patriarcato. E penso anche che il patriarcato danneggi anche gli uomini, perché si aspetta che aderiscano ai modelli di mascolinità aggressivi, dominanti e violenti che vengono loro proposti. Quindi, in realtà, credo che anche gli uomini e i ragazzi siano vittime ma in un modo diverso, perché se non aderiscano a questi modelli soffrono anche loro. E penso, ad esempio, che la pornografia danneggi anche chi la usa. Provoca disfunzioni sessuali, distrugge le famiglie. Ma, naturalmente, sono le donne e le ragazze a soffrire di più perché sono oggetto di questa dominazione. Ed è sicuramente vero che se coinvolgiamo le donne e le ragazze nella costruzione della pace, nella risoluzione dei conflitti, le possibilità di successo saranno maggiori. I dati dimostrano anche che si ridurrebbe la probabilità di una guerra».
(Corriere della sera, 26 novembre 2024, con il titolo Violenza sulle donne a livello pandemico, per fermarla servono soldi e volontà politica)
di Doranna Lupi
Nel 2017 la rivista Marea ha inaugurato, su proposta di Rossana Piredda, una nuova e originale serie di numeri speciali, “Grazie a lei”. Un esperimento ben riuscito che ha contribuito a preservare la memoria del femminismo, offrendo uno spazio alle autrici per celebrare le donne che le hanno ispirate. Attraverso i loro racconti personali, abbiamo potuto conoscere donne che hanno lasciato un’impronta indelebile nella loro vita e nella società, infondendo forza e autorevolezza. Otto numeri speciali, 76 storie nate dalla gioia della riconoscenza, che rendono omaggio a donne che ci hanno precedute o ancora in vita. Un invito a ringraziarle per il loro contributo, mantenendo viva la loro eredità.
Quante donne dovrei ringraziare per essere quella che sono? Una donna che ama la vita e accetta di attraversarla nella sua complessità.
Primo fra tutti un grazie va a mia madre, Giuseppina Operti, che mi ha messo al mondo a venticinque anni. Desiderava tanto una femmina e sono arrivata io. Negli ultimi anni della sua vita, lasciandosi alle spalle i tratti un po’ severi e riservati della sua piemontesità, mi ha rivelato: «Quando la levatrice ti ha messo tra le mie braccia mi sembrava di sognare!». In quel momento ho percepito quale fosse l’origine del mio amore per me stessa, della mia preferenza per l’amicizia femminile, della fiducia e ammirazione che nutrivo per le maestre. Quando ogni cellula del tuo corpo sprigiona il desiderio e la gioia di tua madre per averti generato, le fate madrine depongono quel brillio nello scrigno del tuo essere, la stanza segreta che è dentro ognuna di noi. E così porto in me una sorgente di desiderio e di amore che illumina i miei passi, orientandomi principalmente verso il mondo delle donne con gratitudine.
Nel femminismo ho ritrovato questo sentimento di valore, ammirazione e fiducia, molto diverso dal fascino provato in gioventù per gli uomini che mi seducevano mettendomi in scacco, come una replicante di mondi estranei oppure silente e alienata in un limbo d’inconsistenza.
Se penso alle donne della mia vita si fa avanti un corteo in cui sfilano, al seguito di mia madre, le nonne e le zie che mi hanno coccolato da bambina, le mie maestre di scuola. E poi Anna Garelli, Pinuccia Corrias, Elena Fogarolo, Aida Ribero, Adriana Sbrogiò che mi hanno introdotto alle pratiche del femminismo fin dagli anni Ottanta; Luisa Muraro che mi ha insegnato l’autorità femminile nell’agire politico; le tante donne dei Gruppi donne delle Comunità cristiane di base e le molte altre con cui ho condiviso il percorso di ricerca di un divino leggero, liberato dalle gabbie patriarcali; le mie migliori amiche Grazia Villa e Carla Galetto, sorelle d’anima; Maura e Simona le mie sorelle di sangue e la bella matrioska creata con le mie figlie Valeria e Francesca da cui è nata Virginia, l’ultima arrivata. Ma in questa occasione desidero dedicare il mio “grazie a lei” alla donna che in ordine di tempo e solo momentaneamente chiude il corteo: Luciana Tavernini.
L’ho incontrata la prima volta l’8 giugno 2014 durante la redazione allargata di Via Dogana, storica rivista della Libreria delle donne di Milano. Carla Galetto e io eravamo state invitate dalla filosofa Luisa Muraro a raccontare la nostra storia nei Gruppi donne delle Comunità cristiane di base, in quelli che non sapevamo ancora sarebbero stati gli ultimi due numeri della rivista nella sua forma cartacea. La redazione si teneva di domenica mattina mentre il sabato sera era dedicato agli incontri in libreria. In quell’occasione tra le donne presenti, per noi ancora in gran parte sconosciute, si fece avanti Luciana, determinata, sguardo attento e concentrato, molto diretta che, con gentilezza, andò subito al sodo: «Ho una casa molto spaziosa e ora che mia madre non c’è più e i figli hanno preso la loro strada, se le prossime volte volete venire il sabato, potete dormire da me». Aveva pronunciato quelle parole con la naturalezza di chi mantiene salda la dimensione umana dell’ospitalità. Ma c’era qualcosa di più. Questa prima mossa di Luciana mi ha toccata a un livello profondo. Esprimeva un grande amore per la pratica politica delle relazioni tra donne, il desiderio di generare insieme qualcosa di bello e di grande e la consapevolezza che il pensiero trae energia dal fare insieme. Perché questo accadesse, sapeva creare agio attraverso la concreta cura dei corpi, degli spazi e dei tempi necessari per l’incontro, mostrando sapienza nell’arte di tessere relazioni.
Non la conoscevo ancora, anche se avevo letto alcuni suoi interventi nelle pubblicazioni dell’associazione Melusine, di cui aveva fatto parte negli anni ’90, e in quelle della Pedagogia della differenza a cui aveva partecipato fin dall’inizio, della Comunità di pratica e riflessione pedagogica e ricerca storica, confluita nella Comunità di storia vivente. Scriveva su alcune riviste come Via Dogana, Duoda, Legendaria e con Marina Santini aveva pubblicato Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015), una narrazione storica e dialogica del femminismo intrecciata a 58 testimonianze delle protagoniste dei fatti narrati e a un centinaio di fotografie.
Ho capito, leggendo il suo primo racconto di storia vivente, Gli oscuri grumi del disordine simbolico (La pratica della storia vivente DWF n. 3, 2012, pp. 35-45), da dove venisse la sua munificenza. Come lei scrive è «la capacità di capire cosa far circolare in un’abbondanza sotterranea che lega le vite e le rende degne di essere vissute». È un’eredità ricevuta dalla sua genealogia materna. Sua nonna e sua madre che, nonostante le ristrettezze economiche, «avevano sempre qualcosa da offrire a chiunque passasse da casa» e sapevano anche vedere le situazioni difficili inventando modi per «tendere la mano senza farsi travolgere e riuscendo a riportare a galla chi stava per essere sommerso». Anche Luciana sa donare ciò che è necessario e offrirlo generosamente, non per aver qualcosa in cambio ma per nutrire e far crescere «in una circolarità di attenzione, di gratuità e di parola».
L’occasione per iniziare a fare amicizia si presentò più avanti quando Carla Galetto e io le rivolgemmo una richiesta specifica. Nel Collegamento dei gruppi donne delle Comunità cristiane di base italiane e delle molte altre era nata l’esigenza di raccontare il nostro percorso trentennale fatto di ricerca teologica, politica, riappropriazione di espressioni liturgiche, coinvolgimento dei corpi, avendo come punto fermo la coscienza dell’essere sessuate e il partire da sé. Volevamo raccontare l’intreccio tra la storia personale di ciascuna nel proprio contesto e l’eccezionale esperienza comune nata da quelle singole storie.
Alcune di noi avevano sentito vicina alla propria ricerca la pratica sperimentata dalla Comunità di storia vivente di Milano, nata da un’invenzione di Marirì Martinengo. Una pratica di donne in relazione che si erano autorizzate a narrare la storia, partendo dal loro sentire profondo per indagare nella loro vita i nodi che non avevano ancora trovato parole corrispondenti alla propria verità soggettiva e rendere così visibile nel mondo l’esperienza femminile. Luciana era una delle iniziatrici di questa esperienza. Accettò subito la nostra richiesta e iniziò con noi un proficuo confronto, sfociato in un incontro alla Libreria delle donne di Milano tra una parte del Collegamento donne CDB e le molte altre e la Comunità di storia vivente di Milano, e successivamente nella nascita della nostra Comunità di storia vivente in faccia al Monviso. Ci ha accompagnate mentre muovevamo i primi passi, assicurandoci con Marina Santini una presenza costante.
Ho ancora in mente i mantra delle sue esortazioni, delle sue domande incalzanti per approfondire i nostri racconti. «Non stare in un recinto! Tieni sempre tutto aperto finché arrivi a un nucleo. Domandati se ciò che fai è un atto di libertà o ti incatena. Quanto gioca il voler essere perfetta e rassicurante? Dove va la libertà femminile? Dove è il tuo godimento? Ciò che fai non diventa in qualche modo un rafforzamento del patriarcato? Stai ai limiti che ti vengono imposti o li forzi?»
Per Luciana districare i nodi del nostro vissuto significa liberare soggettività femminile e mostrare altre possibilità di leggere il mondo. In questo impegno di creare simbolico femminile inventava pratiche in cui far circolare in abbondanza la valorizzazione di ciascuna e far nascere scoperte impreviste, rendendo vive le pratiche politiche del femminismo.
Uno dei doni racchiusi nel mio scrigno segreto è lo stupore che provo di fronte alla bellezza e alla grazia che mi vengono incontro nel presente, nel qui e ora. La “meraviglia” che genera gratitudine e fiducia, dando origine a potenti alchimie relazionali.
Così è nato il mio desiderio di affidarmi a lei per un pezzo di strada.
Con Luciana ho sperimentato la “pratica di scrittura relazionale generativa”, come lei la nomina, una pratica in cui una donna elabora il suo scritto in una relazione duale con un’altra a cui riconosce autorità che l’aiuta a chiarire il suo pensiero e dargli forma. «Una relazione simile a quella della partoriente e della levatrice, che permette di dare alla luce qualcosa di nuovo per entrambe». Una pratica che non crea dipendenza ma crescita e libertà.
Tra noi due ci sono stati incontri, anche virtuali, mail, lunghe telefonate, in un confronto serrato sui miei testi da lei discussi e rivisti più e più volte e da me riscritti più e più volte, e un coinvolgimento in azioni pubbliche su temi politici condivisi, per esempio l’abolizione della prostituzione, raccontata dalle sopravvissute al mercato del sesso, come stupro a pagamento.
Le sue parole, i suoi pensieri mi hanno aperto spazi inediti, mi hanno dato fiducia. Con lei ho imparato che è importante andare oltre il linguaggio ideologico, che può essere anche femminista, cercando parole più chiare per dire ciò che illumina la mia esperienza; ho approfondito il valore simbolico del linguaggio e l’effetto liberante che possono avere le parole quando riesco a esprimere pubblicamente la mia verità.
Per tutto questo desidero ringraziarla.
Cara Luciana, mi hai aiutato a ritrovare le parole in lingua materna, che volano alto restando ancorate all’esperienza concreta. Sono ammirata dalla tua generosità, dall’efficacia del tuo fare che realizza idee e progetti, trovando però sempre il tempo e il modo per far crescere le relazioni. Più passa il tempo e più la nostra amicizia mi appare come un dono prezioso.
(Marea, 2 aprile 2024)
Anni fa – era il 2006 – con alcuni amici di «Maschile plurale», scrivemmo un testo che, in sintesi, affermava una cosa che dovrebbe essere evidente: la violenza maschile contro le donne la agiamo noi uomini. Tocca a noi farcene carico per estirparla. Scoprimmo che non eravamo i soli a pensarlo.
Oggi, dopo le parole della sorella Elena e del padre Gino di Giulia Cecchettin, è diventata più evidente una presa di coscienza maschile su questo dramma del nostro vivere comune. Non certo grazie a quel vecchio testo. Ma avevamo intravisto una tendenza.
Martedì scorso c’è stata a Roma la presentazione della Fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, con gli spropositi del ministro dell’istruzione Valditara sulla violenza degli «stranieri» e sul «patriarcato» come ubbia ideologica. E le risposte adeguate di Gino Cecchettin.
Ho poi partecipato a un incontro sul tema «Politica senza amore». Si discuteva sulla validità delle pratiche politiche inventate dal femminismo: dall’«autocoscienza» alla ricerca di un fare politica «partendo da sé». Frutti derivati dalla famosa affermazione: «il personale è politico». Circolavano dubbi. Giusto cercare di fecondare con amicizia, e amore – pronunciamola questa parola ingombrante – l’esperienza della politica che oggi vediamo in grandissima crisi. Ma quelle parole non saranno inattuali? È maturo il tempo di condividere esperienze simili tra donne, uomini, persone che non si identificano in nessuno dei due sessi?
Alla sera assemblea al centro Spin Time – spazio sociale che ospita famiglie straniere e gestisce ampi locali pubblici – con un centinaio di uomini e donne di diverse generazioni, venuti e venute all’invito di gruppi di maschi che sulla violenza interrogano se stessi, con il titolo «Disertare il patriarcato». Ascolto ragazze ripetere quel «il personale è politico» a proposito delle dinamiche di potere nelle relazioni amorose, e uomini giovani e meno giovani rispondere alla domanda di un’altra ragazza: che cosa vi muove a mettervi in discussione?
Nelle risposte tante esperienze: dalla ricerca dei propri comportamenti violenti (spesso quelli psicologici più dolorosi delle «botte»), al senso di imprigionamento negli stereotipi maschilisti, fatti di competizione, di censure e distorsioni del desiderio, di disagio per un vivere e viversi male. E poi la prova di un altro modo di parlare di se stessi e con altri nei «gruppi» maschili.
Si esita a dire «autocoscienza» – ricorda forse, dice uno, l’autoaffermazione solitaria dell’io: meglio mutuare dall’inglese il termine «autoconsapevolezza»?
Vedo il manifestarsi un desiderio nuovo di incontrarsi tra donne e uomini, e qualcuno che parla anche di altre identità sessuali: qualcosa di indispensabile, credo, all’invenzione di una politica capace di cambiamento. Di sé e del mondo.
E il discorso arriva a questo mondo in cui prevalgono tirannie, predicazioni violente e guerre, e crisi delle nostre «democrazie liberali» in corsa verso riarmo e politiche razziste, disuguaglianze abissali create da un capitalismo sfrenato che produce nuovi schiavi, mostri tecnologici, disastri ambientali e poteri personali smisurati, assurdi.
Penso al valore di quella parola nel titolo dell’incontro: disertare il patriarcato.
Disertare prima di tutto vuol dire rifiutarsi di fare la guerra. Di giocarsi la vita e di uccidere sconosciuti chiamati «nemici». In nome di cattivi sentimenti identitari, nazionalistici, e per me discutibili anche quando è in gioco la libertà. Credo legittima la domanda se la guerra non sia una caratteristica, la peggiore, proprio dell’ordine simbolico che chiamiamo «patriarcato».
Se non sia la violenza maschile che si manifesta nel ricorso sistematico agli stupri «di guerra», come ha scritto Edoardo Albinati (https://maschileplurale.it/lo-stupro-bellico/), il fondamento «quintessenziale» della guerra: la violenza dell’uomo sulla donna come violenza primaria.
Credo, con una parte del femminismo, che la capacità regolativa di questo «ordine simbolico» sia finita, o comunque in crisi in tutto il mondo. È il risultato della rivoluzione disarmata, ma dotata di un potente «altro genere di forza», delle donne. Una rivoluzione riconosciuta a parole ma non ancora compresa dalla politica figlia di culture – socialiste e comuniste, liberaldemocratiche, religiose – di matrice maschile. Quando guardiamo ai decisori delle guerre che ci sconvolgono vediamo maschi che professano idee e offrono immagini orribili, tragiche e ridicole: gli integralismi religiosi opposti della destra israeliana e delle fazioni islamiche armate. Le figure di questi vecchi e nuovi americani: Biden e il binomio Trump-Musk. E del russo Putin. E di Netanyahu.
La «follia» bellica di questi «stati maggiori» maschili per me assomiglia molto alla violenza personale dei «figli sani del patriarcato» contro le donne che vogliono vivere libere.
Disertiamo il patriarcato. E disertiamo la guerra riconoscendola finalmente come secolare forma collettiva della violenza maschile. Apriamo su questo una discussione pubblica.
(il manifesto, 23 novembre 2024)
di Valentina Santarpia
Quelle che vivono in una casa di 300 metri quadri ma non hanno nemmeno un piccolo spazio tutto per sé. Quelle che guadagnano di più e, per impedire che il marito si senta sminuito, versano l’intero stipendio sul suo conto. Quelle che tirano discretamente la carta di credito dal portafogli e la passano al compagno per permettergli di pagare al ristorante o in hotel. «Sono tante le storie di donne, benestanti, che arrivano da noi per fare un percorso di consapevolezza e trovare il coraggio di lasciare relazioni violente»: lo raccontano le fondatrici di Labodif, laboratorio e istituto di ricerca sulle differenze di genere attivo da più di venti anni, che testimonia quanto l’indipendenza economica sia solo un aspetto del problema. Uno studio ONU (United Nations Population Fund, UNFPA, 2020) ha dimostrato che le donne che possiedono una sicurezza finanziaria e una rete di supporto sono significativamente più capaci di lasciare relazioni violente. Questo studio ha sottolineato come la dipendenza economica sia uno dei fattori principali che costringe le donne a rimanere in relazioni pericolose. L’indipendenza economica può dunque essere uno dei fattori di protezione, ma deve essere accompagnata da un impegno strutturale più ampio che includa riforme educative, cambiamenti culturali e supporti psicologici e sociali.
Perché donne anche economicamente abbienti non riescono spesso a uscire da situazioni tossiche o abusanti? «Perché manca loro una sorta di autorizzazione interna – spiega Gianna Mazzini, documentarista, una delle fondatrici di Labodif – Noi donne siamo spesso sotto lo scacco dei valori maschili, la misura delle cose è il maschile, e quindi se manca lo sguardo maschile, non si riesce ad andare avanti. Persino la rottura del matrimonio, nonostante ci sia una stragrande maggioranza di donne separate, a volte è ancora un tabù: c’è ancora lo stigma, la vergogna di ammettere che un matrimonio è finito, perché la misura di sé è data dall’adesione a un modello di famiglia felice». Nonostante tutti i progressi compiuti a livello legislativo e sociale, resta «molto forte la tendenza a coprire il marito, l’imbarazzo di essere più del maschio», sottolinea Giovanna Galletti – economista, l’altra fondatrice – «La donna stessa ha un uomo interno, che dice che non è corretto se è di più, c’è qualcosa che le dice che non è esattamente così che dovrebbe essere, e che sminuire un uomo dal punto di vista della capacità economica non è accettata. Come racconta Linda Babcock nel suo “Le donne non chiedono. Perché le donne contrattano meno degli uomini negli affari, nella professione, nella vita privata”, a volte si tratta di atteggiamenti inconsci. La scrittrice riferisce che spesso era suo marito a pagare e un giorno la sua bambina le chiese: «Mamma, ma le ragazze possono avere i soldi?». Quando Babcock si rese conto del danno che le stava arrecando, iniziò a cambiare atteggiamento». Ovviamente una donna senza mezzi è in maggiore difficoltà se vuole staccarsi dalle relazioni tossiche, specie se non una rete di supporto, ma i mezzi e la rete non sono sufficienti, «perché conosciamo troppi casi di donne con grandi patrimoni che non si definiscono libere», incalza Mazzini.
Ma allora, che cos’è la libertà? «Finché la misura resta quella maschile, ho un’idea “importata” di cos’è il denaro, l’armonia, la famiglia, e quindi sono ricattabile da quest’idea», spiega ancora Mazzini. Non a caso quando la saggista Carla Lonzi disse negli anni ’70 che l’indipendenza simbolica era più importante di quella economica, venne fortemente criticata. Eppure è spesso proprio «attraverso l’indipendenza simbolica che puoi raggiungere una autentica indipendenza economica, ed è fondamentale, in questo contesto, avere figure di donne che ti autorizzino, che ti ispirino, quelle che noi chiamiamo “madri simboliche”». Per questo è così importante il valore della rappresentazione: ogni film, ogni storia, dove si racconta che una donna è riuscita a liberarsi da qualcosa che le faceva male è un’autorizzazione per altre a fare lo stesso. Ma allo stato attuale «manca ancora la consapevolezza che esiste un ordine simbolico femminile, che esiste una lingua nostra», spiega Giovanna Galletti. L’ordine simbolico sono le regole non dette che orientano ogni nostro pensiero, parola o azione, una sorta di schema che ci dice cosa è giusto e cosa è sbagliato, un codice binario di si/no. Ed è costruito su valori maschili. Adeguarsi costantemente a questo schema è per noi uno spreco di energie enormi. È come «se le donne giocassero sempre in trasferta, viviamo nel mondo degli uomini come fossimo ospiti, e l’ospite chiede permesso». Allora come si esce da una relazione pericolosa?
Allora come si esce da una relazione pericolosa? «Si dice sempre “al primo schiaffo vattene”, ma non ha mai funzionato, perché per quella donna lo schiaffo è anche suo, noi abbiamo un io poroso, dischiuso, è come se fossimo corresponsabili di quella cosa che ci riguarda», spiega Mazzini. «Se non sei radicata nel tuo ordine, è come se mendicassi la salvezza dall’altro. Gran parte del successo del film C’è ancora domani sta proprio nel fatto che nomina un “mancante”: lo spettatore fino all’ultimo pensa che lei scapperà dall’uomo cattivo all’uomo buono. Che è l’unica possibilità. E che sorpresa quando capiamo invece che Delia (la protagonista del film, ndr) compie un’operazione assai più potente. Una riappropriazione di sé attraverso il gesto simbolico del voto. Quando una donna comincia a prendere coscienza del suo potere, della possibilità di avere un punto di vista sulle cose e che quel punto di vista conta nel mondo, allora matura una capacità di accorgersi di ciò che le fa male, e di prenderne le distanze».
Qual è il primo passo? «Farsi sempre questa domanda: questa cosa mi corrisponde? Dove sono io rispetto a quello che sto vivendo? Il disagio è il primo grado del desiderio, una donna scopre cosa desidera, sapendo cosa non desidera. Sapere cosa non voglio è già desiderare. Può sembrare una risposta provvisoria, in attesa di qualcosa di più definito. Invece dire cosa non voglio è già la risposta. Non questo. Non così. Non oltre. Nei nostri laboratori lavoriamo tantissimo con il “non”. Il “non” è un metodo, indica una direzione. Quando arriva questo momento, il momento del “non più così”, è un segno importante, è un segno che quella persona ce la farà». Ma le donne come fanno a cambiare, a capirlo? «Noi spesso cambiamo per stanchezza, non per volontà – conclude Gianna Mazzini. Le donne di Carrara, il 7 luglio del ’44, si rivoltarono contro i nazisti che avevano occupato la città. Si radunarono, nella piazza del mercato, Piazza delle Erbe, e quando le camionette arrivarono, loro cominciarono a tirare patate e pomodori. A mani nude. Senza paura. E i tedeschi, inaspettatamente arretrarono. Quando chiesi, qualche anno fa a una delle sopravvissute: “Ma come avete fatto? Come avete avuto il coraggio?”, lei sorrise in un modo che non dimentico. A quel punto intervenne il marito, capo partigiano, che era lì con noi, che rispose semplicemente: “Erano stanche. Quando una donna è stanca può fare di tutto”».
(Corriere della Sera – 27esima ora, 20 novembre 2024)
di Alessandra Pigliaru
Non è stato un saluto istituzionale quello che il ministro Valditara ha rivolto ieri alla Camera dei deputati, ma il modo di intestarsi la nascita della Fondazione Giulia Cecchettin, dando il suo parere sulla violenza contro le donne in maniera assai paradossale. Appellandosi ai valori costituzionali, alle pari opportunità e alla civiltà offesa dal fenomeno della violenza maschile contro le donne – a una settimana esatta dalla giornata mondiale che ne ricorda, come ogni anno, il significato sistemico – il ministro non è sembrato così aggiornato, come il nome del suo dicastero imporrebbe, in particolare in due passaggi: ha citato la violenza sessuale che «si combatte anche riducendo i fenomeni di marginalità e di devianza legati alla immigrazione clandestina»; ha poi indicato il patriarcato conclusosi «come fenomeno giuridico» con la riforma del diritto di famiglia del 1975.
Due opinioni che certamente corroborano la parte politica cui appartiene ma che non sono verificabili nella realtà. La cosa singolare è che, entrambe queste enormità, sono state esplicitate davanti a Gino Cecchettin, la cui figlia è stata uccisa un anno fa dal suo ex fidanzato e la cui vicenda, ancora una volta, conferma quanto la provenienza geografica e le riforme del diritto di famiglia contino ben poco.
Dovremmo pensare dunque che Giuseppe Valditara, oltre a non essere istruito sull’entità di quanto ha commentato, non sappia intervenire neppure nel «merito». Perché a commettere violenza contro le donne sono dei maschi, indipendentemente da dove arrivino e dove siano diretti: per tacere dei dati forniti dai centri antiviolenza, che fanno un lavoro capillare sul territorio e mai sufficientemente sostenuto, si può dare uno sguardo almeno all’ultimo report del Dipartimento di pubblica sicurezza. Si ferma al 10 di novembre, viene aggiornato ogni settimana e, dall’inizio del 2024, registra 97 uccise di cui 83 in ambito familiare/affettivo.
Non si tratta di difendere una presunta italianità e nemmeno, in questo caso, le ragioni dell’accoglienza. Si tratta invece di una precisa questione di genere, lo si ripete da anni. Oltre a essere una evidenza che niente ha a che vedere con «l’ideologia», parola che il ministro curiosamente convoca con valore negativo tanto da domandarsi se non la confonda con il termine «propaganda».
Affermare che il patriarcato sia «giuridicamente» finito, è invece l’appropriazione confusa di quanto il femminismo di questo paese ha elaborato e sovvertito negli ultimi decenni a proposito della relazione tra i sessi.
La scena di ieri alla Camera dei deputati in occasione della Fondazione dedicata a Giulia Cecchettin racconta tuttavia qualcosa in più: ad esempio che un saluto istituzionale si trasforma in un rapido résumé di intenti della destra al governo, antistorica e reazionaria. Peccato perché avrebbe potuto imparare da ciò che il padre di una ragazza vittima di femminicidio diffonde ormai da mesi a proposito del tema. Ma il ministro ha parlato in un videomessaggio, dunque non ci sono state repliche immediate. Lo si è ascoltato, come l’etichetta e l’educazione impongono quando si è ospiti in casa d’altri.
(il manifesto, 19 novembre 2024)
di Dejanira Bada
Mentre scrivo sono un po’ stanca. Ne sono consapevole. Eppure, sono quella che si può definire una libera professionista che può gestire il proprio lavoro e che ha la possibilità di non svegliarsi presto la mattina e di non timbrare il cartellino. Eppure, sono stanca. Spesso. Anche se medito, pratico yoga, addirittura insegno a meditare. Sono stanca. Stanca ma felice, perché sono libera: non ho un capo, nessuno che mi comanda e che decida per me. Scrivo, scrivo sempre molto. Articoli, libri… e questa credo che sia la mia salvezza. Perché secondo il sudcoreano Byung-Chul Han, se la cavano meglio solo i poeti e i filosofi, perché in realtà, i liberi professionisti non sono liberi proprio per niente, anzi, rappresentano La società della stanchezza, per citare proprio il titolo del suo libro pubblicato da nottetempo nel 2020.
Non solo società della stanchezza, ma una società sfinita, esaurita, in continua competizione con sé stessa, che si autodivora, si autoschiavizza, si autosfrutta, si autodistrugge. La società dell’autosfruttamento, della concorrenza spietata con il proprio Io idealizzato e che deve prevalere e brillare. Una società diversa da quella che doveva timbrare il cartellino, la società disciplinare, per la quale la felicità era rappresentata dall’abbandono delle proprie inclinazioni in favore della virtù, della morale, dal fare le cose per bene, seguendo le regole. La società della stanchezza, invece, ha fatto diventare pure le spiagge di Bali dei campi di lavoro. Perché tanto, il lavoro, oggi, te lo puoi portare dappertutto, non è bellissimo? La società dell’autorealizzazione, dell’ottimizzazione, della prestazione e del burnout come stile di vita. La società della depressione democratica, delle nevrosi e della sopravvivenza, della salute a tutti i costi come nuova divinità. Una società, la nostra, che si è persa per strada il senso di tutto: la festa solenne e la vita contemplativa.
(https://www.indiscreto.org/la-societa-della-stanchezza-di-byung-chul-han/17 novembre 2024)
di Giovanni De Mauro
Gruppi di tifosi arrivano mercoledì in una città straniera per seguire la loro squadra. Aggrediscono e minacciano le persone del posto, gridano slogan razzisti, strappano e bruciano bandiere, lanciano sassi. La polizia non interviene.
Giovedì sera, alla fine della partita, escono dallo stadio e raccolgono mazze e pietre. Gruppi di cittadini reagiscono con violenza, li inseguono, ne picchiano alcuni. Cinque tifosi finiscono in ospedale, con leggere ferite. Altri sono scortati nei loro alberghi dalla polizia, che il giorno dopo li riaccompagna in aeroporto.
Potrebbe finire qui, un caso di cronaca i cui protagonisti sono ultrà violenti e razzisti. E invece no. Perché i tifosi sono sostenitori di una squadra israeliana, sono di estrema destra e hanno inneggiato al massacro dei palestinesi in una città dove solo nell’ultimo anno ci sono state 2.700 manifestazioni per la Palestina.
Per alcune ore la dinamica degli incidenti rimane confusa, e mentre sta finendo di radere al suolo quello che resta di Gaza, il premier israeliano Benjamin Netanyahu riesce a capovolgere il racconto approfittando delle poche informazioni disponibili. Parla di Kristallnacht, l’infame notte dei cristalli del 1938, quando i nazisti scatenarono in Germania una serie di pogrom contro gli ebrei.
Tutti si accodano, politici occidentali e mezzi d’informazione, accomunati da un riflesso condizionato così forte da appannare la vista e da non permettere più di distinguere tra i fatti e la loro manipolazione.
Anni fa il linguista George Lakoff spiegava bene questo meccanismo: “I frame sono cornici mentali che determinano la nostra visione del mondo e di conseguenza i nostri obiettivi, i nostri progetti, le nostre azioni e i loro esiti più o meno positivi. In politica i frame influiscono sulle scelte e le istituzioni che le attuano. Cambiare i frame significa cambiare le une e le altre. Il reframing equivale di fatto a un cambiamento sociale”.
Ad Amsterdam, la scorsa settimana, abbiamo assistito a un caso da manuale di reframing.
(Internazionale, 14 novembre 2024)
di Antonella Nappi
L’animo di vedere chi ti sta davanti, un attimo, come dice Luisa Muraro (A proposito di gentilezza), uno sguardo di intesa: ti vedo! L’apertura a vedere che l’altra c’è è l’apertura al riconoscimento della sua esistenza, personalità, azione e pensiero. Sì, dice molto, moltissimo: invece che sole con se stesse ci si mette in apertura all’altra. Perché? Perché ci relazioniamo invece di restare sole. Relazionarci è il grande guadagno di sentire che l’altra c’è. Non ci vuole tanto tempo o ce ne vuole tantissimo, ma quell’attimo di vista è un ascolto, più ti disponi a vedere e sentire, ad interagire più ti piace conoscere un’altra persona. Qualcuna va avanti un’intera vita.
Il 13 novembre è il giorno della gentilezza (ndr)
Metro, 12 novembre 2010
L’eroismo dei gentili
di Luisa Muraro
Per chi vuole coltivare in sé e intorno a sé la gentilezza, questi sono tempi eroici. A formare una persona gentile contribuiscono il suo temperamento, l’educazione ricevuta e la cultura circostante: nella nostra società non mancano persone spontaneamente inclini alla gentilezza così come non manca l’educazione di base nelle famiglie e nelle scuole, ma è franata la cultura sociale. Le nemiche della gentilezza, villania e volgarità, trionfano sulla scena sociale. Non è colpa di nessuno, le cose sono andate così. Tutti invocano un po’ di gentilezza, pochi la offrono. D’altra parte, non si può comprarla (quella che si compra è finta). Si riceve in regalo e si ricambia. Si può anche cercare di produrla in proprio e offrirla a chi non la conosce. È contagiosa, ma meno delle sue nemiche. Come posso insegnare la gentilezza ai miei alunni, mi ha chiesto una prof. Come si insegna un’arte marziale, le ho risposto: le mosse giuste, il senso della misura, la nobiltà d’animo; alle alunne, insegna a non imitare i villani e a coltivare la differenza femminile insieme alla forza: nessuno si permetta di crederle deboli perché gentili, tutto al contrario.
Confesso che, personalmente, non sono sempre gentile con le persone che conosco: con queste esprimo a volte la violenza congenita che ho dentro, fidando nel nostro rapporto. In compenso, sono gentile con le persone sconosciute in cui ci si imbatte nel caotico mondo di oggi. Dicono che per essere gentili ci vorrebbe del tempo e noi non ne abbiamo, io mi sono specializzata in una gentilezza mordi e fuggi: un sorriso e uno sguardo d’intesa, a chi? A un essere umano. Quello che propongo non è certo un buon esempio, ma un’idea: concediamo alle nostre vite e alle nostre città il lusso di essere ogni tanto gentili per la pura gioia di esserlo.
(Metro, 12 novembre 2010)
(13 novembre 2024)
a cura di Jennifer Guerra
Un anno fa l’Italia piangeva la scomparsa di Giulia Cecchettin, uccisa a ventidue anni dal suo ex fidanzato Filippo Turetta. Non ci sono stati, nella storia recente, altri femminicidi che hanno avuto un così grande impatto sull’opinione pubblica e che, soprattutto grazie al comportamento dei familiari della vittima, sono andati ben oltre la commozione o il mero interesse per il “caso di cronaca”.
È difficile ricordarlo, a volte, ma i femminicidi non sono mai semplici casi di cronaca: c’è l’impatto devastante su chi rimane, ma c’è anche tutto il portato politico che ogni uccisione di una donna in quanto donna porta con sé. Questo lo sa bene chi si occupa di contrasto alla violenza di genere, ma è un messaggio che non è facile da far capire alla società.
Tendiamo infatti a considerare la violenza un fatto privato, che riguarda due individui: una vittima e un carnefice. A maggior ragione se questi due individui sono stati legati da una relazione affettiva, il rapporto tra causa ed effetto ci sembra ancora più ovvio: lei lo ha lasciato, lui l’ha uccisa. Ma è evidente che c’è qualcosa d’altro in questo rapporto, che ha a che fare non solo con le questioni personali dei due individui, ma col contesto politico e sociale che abitavano.
Cosa porta un ragazzo di ventidue anni a pianificare dettagliatamente l’uccisione della propria ex fidanzata? Cosa l’ha fatto sentire legittimato? I giornali cercano risposte facili: la depressione, la malattia mentale, la perdita dei valori, la vendetta. Sono risposte rassicuranti, ma fuori fuoco.
Nel caso di Giulia Cecchettin, il portato politico del femminicidio è riuscito a bucare l’anestetizzazione che ormai circonda il fenomeno della violenza di genere. Non solo perché tante giovani donne, sempre più sensibili e impegnate nel femminismo, si sono identificate in lei e nella sua storia di apparente normalità, ma anche perché è stato uno dei rari casi in cui qualcuno, la sorella Elena e il padre Gino, è riuscito a nominare un responsabile diverso dall’esecutore materiale. La parola “patriarcato”, sebbene usata da ormai più di un secolo in antropologia e da più di cinquant’anni nel femminismo, è piombata addosso agli italiani come un neologismo misterioso, di cui diffidare.
Ma la parola scelta da Elena Cecchettin è precisa, chirurgica, condivisa anche da chi si occupa di contrasto alla violenza di genere, che ne individua la causa proprio nei rapporti di disparità di potere tra uomini e donne. Potere che non è tanto quello istituzionale o economico, ma più il potere di decidere per se stesse, di porre fine a una relazione senza conseguenze, di andare avanti con la propria vita, di laurearsi, di realizzarsi. È questo potere che fa paura agli uomini che uccidono le donne, e il femminicidio di Giulia Cecchettin ne è la dimostrazione.
Un paio di settimane dopo la sua morte, 500mila persone sono scese in piazza con l’organizzazione femminista Non Una Di Meno, nella Giornata internazionale contro la violenza di genere. Chi è stato in quella piazza ha percepito commozione, rabbia, ma anche l’impressione che da quel punto non si poteva più tornare indietro, solo andare avanti.
A un anno di distanza però questo proposito non sembra essersi realizzato davvero. La famiglia Cecchettin ha continuato il suo impegno di divulgazione, ora diventato anche una Fondazione che porta il nome di Giulia. Le istituzioni, dal canto loro, non si sono mosse di un passo: persino la promessa di istituire corsi di educazione alle relazioni fatta in quei giorni in fretta e furia dal ministro dell’Istruzione non si è mai davvero concretizzata.
I fondi contro la violenza continuano a scarseggiare, le misure securitarie, come il braccialetto elettronico, non funzionano e il nuovo protocollo d’intesa Stato-regioni rischia di mettere ancora più in difficoltà i centri antiviolenza.
La società italiana, dopo settimane di grande coinvolgimento emotivo, è tornata al punto di partenza. Almeno 90 donne sono state uccise dal partner o dell’ex dall’11 novembre 2023. I loro nomi, salvo alcuni casi, sono tornati a essere caratteri stampati per qualche giorno sui quotidiani. La parola “patriarcato” ricompare ogni tanto in qualche salotto televisivo, tra brontolii di disapprovazione. Il processo nei confronti di Turetta è cominciato rivelandoci fin troppi dettagli.
Il femminicidio di Giulia Cecchettin ci ha risvegliati da un torpore. Le parole di Elena ci hanno indicato una causa. Quelle di Gino ci hanno invitato ad assumere una responsabilità. Non le abbiamo ancora ascoltate davvero. Anzi, abbiamo lasciato che il compito di riaggiustare questa società ricadesse sulle loro spalle, anziché prendercene cura tutti insieme, e dopo qualche mese siamo tornati a parlare di violenza di genere solo nelle occasioni “comandate”: 8 marzo e 25 novembre.
Ma non è giusto dire che il femminicidio di Giulia Cecchettin non ci ha insegnato niente. Giulia non doveva morire per darci una lezione, ma laurearsi, cominciare la sua carriera da ingegnera, coltivare le sue passioni, vivere. Esercitare quel potere che spaventa gli uomini ma che, in fondo, spaventa tutti noi: il potere di una donna libera.
(Fanpage, 11 novembre 2024)
di Davide Parozzi
Pino Pinelli non è “caduto” dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano. Pino Pinelli, ingiustamente incolpato della strage di piazza Fontana del 1969, è stato «ucciso innocente nei locali della Questura di Milano il 15-12-1969», come recita la lapide posta in piazza Fontana nel 1977 da «gli studenti e i democratici milanesi».
La redazione del sito

Si è spenta a novantasei anni la vedova di Giuseppe, caduto dalla finestra della questura durante gli interrogatori per la strage di piazza Fontana. Nel 2019 l’incontro con la vedova del commissario Calabresi
Per anni ha difeso la memoria di suo marito. Quel ferroviere anarchico, Giuseppe (Pino) Pinelli morto in questura nel dicembre del 1969, caduto dalla finestra del quarto piano durante un lunghissimo interrogatorio per la strage di Piazza Fontana. Il ricordo di quella notte, con l’annuncio della tragedia dato dai giornalisti che bussano alla sua porta e poi confermata da una drammatica
difesa del marito, che una frettolosa e orientata ricostruzione dei fatti aveva indicato tra i responsabili della strage, e poi nella ricerca della verità su quel tragico 12 dicembre, dignitosa e mai doma. Licia Rognini, questo il nome da nubile, era arrivata a Milano nel 1930 a due anni non ancora compiuti da Senigallia, nelle Marche.
Cresciuta in viale Monza, conobbe Pino a un corso di esperanto, la lingua universale: sposi in chiesa nel 1955, nell’appartamento di via Preneste allietato da due bimbe, Claudia e Silvia, Licia batteva a macchina le tesi degli studenti per contribuire al bilancio familiare mai abbondante con lo stipendio del marito ferroviere. Una storia comune che cambia la notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969. Pino era da alcuni giorni in questura: c’era arrivato dal circolo anarchico Scaldasole a bordo del suo motorino seguendo l’auto del commissario Luigi Calabresi che stava indagando sul primo atto del terrorismo in Italia, la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana.
I depistaggi dei servizi deviati orientarono le indagini sulla pista anarchica e Pinelli venne interrogato a lungo e per giorni. Poi, nella notte, la tragedia. Il ferroviere cadde dal quarto piano in circostanze mai chiarite fino in fondo dopo un interrogatorio che si era protratto ben oltre le 48 ore previste dalla legge. Per Licia sarà sempre la diciottesima vittima innocente della strage, come si legge sulla targa che Palazzo Marino pose nel 50° anniversario della bomba. Un riconoscimento preceduto dieci anni prima da un evento storico, come lo definì la stessa Licia: l’invito al Quirinale per la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che definì Pino Pinelli «vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti, e poi di un’improvvisa, assurda fine».
Quel 9 maggio del 2009 diventò una data storica perché fu anche la prima volta che Licia Pinelli incontrò e abbracciò Gemma Capra, la vedova del commissario Calabresi: «Mi sarebbe piaciuto incontrarla prima. – ricordò Licia Pinelli – Non c’è mai stato rancore verso la famiglia Calabresi; non l’ho mai provato, anzi. Non ci deve essere odio, c’è il ricordo e basta». «Ho un ricordo tenerissimo di quell’abbraccio al Quirinale tra me e Licia Pinelli, quando lei mi disse: “Peccato non averlo fatto prima”», ha detto in queste ore Gemma Capra, vedova del commissario assassinato da un commando di Lotta Continua il 17 maggio 1972, che nel suo libro La crepa e la luce ha scritto che «quella frase non la dimenticherò mai».
«Eravamo due donne legate dallo stesso dolore – ha aggiunto – e siamo state capaci di cogliere l’importanza di un incontro pacificatore. La ricordo con affetto, lo stesso che ho provato nei nostri successivi incontri, e porgo alle sue figlie Silvia e Claudia le mie più sentite e affettuose condoglianze». Nominata, insieme a Gemma Capra, Commendatore della Repubblica nel 2015 dal Presidente Sergio Mattarella, Licia Pinelli si è spenta ieri nella sua abitazione di Porta Romana convinta che «lo Stato abbia perso, però non ha saputo colpire chi ha sbagliato».
(Avvenire, 11 novembre 2024)
di Annarosa Buttarelli
Sui manuali di storia più attenti alla storia dell’umanità si trova scritto che, nel ’900 e a parte quella freudiana, l’unica rivoluzione riuscita senza spargimento di sangue e senza presa del potere è quella femminista. È vero, anche se trovo imprecisa l’indicazione perché, in realtà, si dovrebbe dire che è l’unica rivoluzione in corso: come sosteneva Carla Lonzi, il femminismo è «l’eterna istanza delle donne». La sua bellezza, la sua eleganza e le sue ragioni vanno mantenute, insieme alla sua radicalità, qualsiasi sia l’istanza femminile che porti avanti. Ma le cose si stanno ingarbugliando e confondendo, tanto che si è obbligati ormai a parlare di “femminismi”, usando malamente quel plurale che piace tanto agli adoratori e alle adoratrici del caos cognitivo contemporaneo. Il femminismo è diventato un campo di battaglia, almeno in Italia, ma non nel nobile senso che aveva dato a questa espressione Etty Hillesum, descrivendo il suo obbligo a farsi lei stessa campo in cui si scontrano e si evidenziano le più abissali contraddizioni. Oggi, tempo di guerre e di rigidi schieramenti identitari, il campo di battaglia che è diventato il femminismo sta mostrando una certa perdita di orientamento e di radicalità, parola quest’ultima che sta ad indicare un’etica della differenza sessuale, come Luce Irigaray auspicava si costruisse per mostrare anche il disgusto femminile per la violenza sui corpi, non solo delle donne. Se il femminismo, inteso come movimento e non come somma di gruppi identitari, diventasse luogo di scontri violenti e non, invece, di conflitti fecondi come sempre è accaduto per differenze interne inevitabili ma compatibili, allora diventa un obbligo fare chiarezza pubblica e indicare ciò che non può accreditarsi pubblicamente con il nome di “femminismo”. A proposito: è di questo periodo lo stupore di gran parte delle femministe per l’attribuzione a Giorgia Meloni del titolo di “icona del femminismo”; la si elogia perché «vive all’interno di un matriarcato» (sic!); la si propone addirittura, lei il presidente, come colei che «ha reso femminile la politica», e invece le donne di sinistra, poverine… Questo disinvolto uso di frasi a effetto si accompagna all’accreditamento politicamente corretto delle donne “di destra” come esemplari femministe. Bisogna avere il coraggio di fare chiarezza: le magnifiche sorti e progressive della donna che riesce a imporsi ai compagni di partito con una leadership (anche come premier di governo) non possono essere separate dai contenuti che il suo governo impone alla nazione. Da quando la forma non è anche il contenuto? La carriera personale è ammirevole e legittima, ma con il femminismo c’entra di striscio, e forse neanche, se non è inscritta in un orizzonte di contenuti condivisi dal movimento femminista. Il femminismo di tutti i tempi si è battuto soprattutto per la giustizia sociale, primariamente intesa come dovuta alle donne, ma non solo alle donne, sia chiaro. Si è battuto sempre e anche ora e anche domani per la libertà femminile (e di tutti) e per l’autodeterminazione delle donne. Cosa rimane di femminismo in una ministra che chiede ai medici di denunciare le coppie che hanno praticato la cosiddetta maternità surrogata all’estero? Non rimane nulla. C’è un grosso discrimine, infatti, utile per verificare l’appropriatezza del vanto di praticare il femminismo (e addirittura quello della differenza sessuale, il più eticamente radicato) da parte dell’attuale governo, e da parte delle donne che lo sostengono. Il discrimine è questo: le cosiddette destre di ieri e di oggi agiscono con la privazione progressiva delle libertà, anche individuali; elaborano soprattutto norme punitive agevolando la formazione di regimi di stretta sorveglianza sociale; restringono o azzerano la libera espressione del pensiero; millantano di occuparsi del bene del popolo mentre attaccano i beni comuni come lo sono la cultura, la sanità, ecc. ecc. Tutto questo è senza ombra di dubbio distruttivo della libertà femminile di ieri, di oggi e di domani, conquistata con ammirevole pazienza nel corso di due millenni.
(La Stampa – Lo Specchio, 10 novembre 2024)
di Silvia Baratella
Le leggi hanno scarsa efficacia quando tentano di forzare dei cambiamenti nella società, e peraltro di solito registrano invece quelli già avvenuti. In questo caso hanno anche una valenza simbolica, perché la norma esprime la trasformazione di quello che è condiviso dalla comunità e quello che considera inaccettabile, diventando a sua volta orientante. Una parte del femminismo chiede una messa al bando mondiale della pratica che viene definita “gestazione per altri”, sia per sradicarla, sia per marcare a livello simbolico che in tutto il mondo è inaccettabile assoggettare corpi altrui alla realizzazione dei propri progetti, che è illegittimo imporre pratiche mediche potenzialmente nocive a donne sane, “prenotare” e pagare neonate e neonati come se fossero articoli di merce prodotti su misura. Per questo molte, all’estero e in Italia, hanno accolto con favore la recente legge italiana che stabilisce la perseguibilità in Italia della surrogazione di maternità, già reato da vent’anni, commessa da cittadini italiani anche se all’estero. Dall’estero, estranee al contesto in cui la legge è stata approvata e ignorandone i termini precisi, molte la vedono come un primo passo verso l’internazionalizzazione del divieto, come un’importante occasione da cogliere. Qui in Italia però dobbiamo trattare la questione in modo più approfondito.
La norma dovrebbe avere un taglio che sancisca il riconoscimento dell’inviolabilità del corpo femminile per avere l’impatto simbolico che desideriamo come femministe, ma non è affatto così. Il reato di cui si estende la punibilità è stato istituito dalla legge 40/2004. Va ricordato che questa legge non è ispirata all’autodeterminazione delle donne: mira a “tutelare” l’embrione a prescindere dalla madre, facendone un potenziale portatore di un conflitto di interessi con lei, come se potesse esistere e svilupparsi scisso dalla madre e quindi dalla sua volontà. La logica non è quella dell’inviolabilità del corpo femminile. Il punto oggetto dell’intervento legislativo è il comma 6 dell’articolo 12, che recita: «Chiunque, in qualsiasi forma,realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni ola surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». «Chiunque», «in qualsiasi forma», «realizza» è una formula che mette la gestante e la fornitrice di ovuli sullo stesso piano dei soggetti che dispongono dei loro corpi per i propri fini, vantaggi o profitti: agenzie di intermediazione, cliniche, committenti. Il torto non è ridurre a mezzi di produzione le donne coinvolte, ma l’uso dei gameti e degli embrioni. Questo taglio può essere davvero d’aiuto a una battaglia contro la gpa centrata sull’inalienabilità della libertà delle donne e sulla relazione tra madre e figlia o figlio come fondamento della nostra umanità?
La pratica della maternità surrogata va sradicata internazionalmente, certo, perché dove è legalizzata consiste nel legittimare contratti privati inaccettabili, che violano un sacco le convenzioni internazionali sui diritti umani ratificando il controllo totale di ogni aspetto della vita e del corpo della gestante, la sua perdita di libertà d’azione e d’espressione, la costrizione a subire trattamenti medici che ne mettono a repentaglio la salute, e si concludono di fatto con la compravendita di una neonata o un neonato, separato traumaticamente dalla madre. Non si può sradicarla però se non si considera uno dei due soggetti coinvolti, la madre, o forse nessuno dei due, dato che il comma 6 dell’art. 12 si preoccupa di gameti ed embrioni, ma della neonata o del neonato non fa menzione.
Quello di cui c’è bisogno è un nuovo patto di civiltà che rompa il “contratto sessuale” ereditato dal patriarcato e rifondi a partire dalle donne i principi di indisponibilità del corpo al mercato e l’inalienabilità della libertà umana, che attualmente in Italia e nel mondo sembrano essere compresi solo se attagliati sul corpo maschile, che ne è stato il modello fondante e il beneficiario intenzionale.
A rendere più opaco l’impatto di questo provvedimento contribuisce l’aura nefasta di due anni di leggi repressive con cui il governo in carica ha creato decine di nuovi reati e ha inasprito le pene di quelli esistenti, inquadrandolo in un disegno repressivo piuttosto che di riconoscimento di libertà femminile, aggravato dai commenti con cui la presidente del Consiglio ne ha accompagnato l’iter, per esempio che «non bisogna perdere la specificità del ruolo della madre e del padre», commenti che rimandano più a rigide divisioni di ruoli familiari e all’imposizione della presenza della figura paterna.
(www.libreriadelledonne.it, 7 novembre 2024)
di Daniela Santoro
La prima volta in cui ho sentito parlare di gestazione per altri (GPA) è stato all’incirca dieci anni fa, in concomitanza con la legge Cirinnà sulle unioni civili. Già allora bazzicavo ambienti più o meno politici, più o meno reali – direi più virtuali che altro. Già allora facevo dell’ora di religione in classe occasione di dar voce alle mie remore relative al sistema che allora chiamavo “eteropatriarcale” in cui mi vedevo calata. Così un giorno finimmo a parlare di questa famosa GPA. Ovviamente mi sembrava scontato definirmi pro alla pratica, anche in senso di bastian contrario con quanto comunicato dai miei compagni maschi e/o cattolici e/o omofobi.
Mi sono portata dietro questa posizione a lungo, un po’ sollevata dallo slogan l’utero è mio e lo gestisco io: mi sembrava una posizione di libertà, non sapevo fosse una posizione liberista. Il badge di “pro-GPA” si aggiungeva alla mia fascetta da brava femminista, attiva su ogni fronte, pronta a ripetere ogni serie di slogan appresi nei vari circoli cassa-di-risonanza.
Ho iniziato a pormi più domande in merito alla pratica solo avvicinandomi al pensiero della differenza, quando ho iniziato a leggere i testi delle cosiddette “femministe storiche”, quando ho iniziato a studiare, a leggere, tutto per i fatti miei, lontana dalla bolla del femminismo del terzo millennio. Ho iniziato a pormi più domande in merito quando ho trovato il modo di relazionarmi con altre donne alla ricerca di un nuovo pensiero critico, lontano dagli slogan, lontano dai settarismi, dai vari pro e contro. Ho incontrato voci di donne del passato e del presente che mi hanno tolto la spilla sulla fascia e mi hanno fatto riflettere sulle contraddizioni tra libertà e liberismo: come potevo io – che avevo passato l’estate a leggere Il Capitale – accettare passivamente queste nuove logiche del tardo capitalismo che mercifica ogni aspetto della vita? Così ho letto di molte donne e femministe che da anni studiano e scrivono per una presa di coscienza allargata.
Allo stesso tempo ho letto contro queste donne commenti abietti, carichi di prese di posizione e strumentalizzazione, figli della logica binaria che ora pervade e appiattisce il discorso politico, soprattutto sulla GPA. Così se sei “pro”, ecco la tua spilletta, sei con noi, fai parte di qualcosa di bello, sei progressista, sei aperto, sei giovane, sei bello. Se sei anche solo dubbioso, sei “contro” e se sei “contro” non sei solo contro la GPA, sei “contro” tutto, sei contro di noi, sei cattolico, sei bigotto, sei fascista, sei chiuso e devi stare zitto.
Ho avuto paura di esprimere la mia posizione insieme ai miei conoscenti. Ho avuto paura delle dita puntate, della strumentalizzazione delle mie opinioni, di sentirmi dare della fascista catto-bigotta solo perché ritengo che una transazione economica non sia il non-plus-ultra della libertà femminile. Mi sarebbe piaciuto dirlo ad alta voce, a una cena. Mi sarebbe piaciuto dire «Ritengo che questa legge sia l’ennesima strumentalizzazione del corpo delle donne, che vuole strizzare l’occhio al conservatorismo imperante nell’ambito di una serie infinita di provvedimenti repressivi e che non sarà mai la soluzione al problema; però dobbiamo ricordarci che la GPA è l’ennesima mercificazione del corpo delle donne al servizio del sistema capitalista, non è libertà, è l’ennesima prigione», ma non l’ho fatto. Sono stata zitta e ho continuato a mangiare. Ho pensato a quello che avrebbero potuto dire su di me, come avrebbero travisato la mia posizione, come sarebbe andata a finire e sono stata zitta.
Così il liberismo si appropria del corpo delle donne e del discorso politico che lo circonda. Annacqua le pratiche, scioglie le relazioni e strumentalizza la lotta. Con questo binarismo si annulla il dialogo, che viene sostituito con shitstorm e porte in faccia. Allora forse, quando sono contro, mi tengo tutto per me: così non perdo il mio badge.
(www.libreriadelledonne.it, 6 novembre 2024)
a cura di Natascia Alibani
L’attore, in una lunga intervista a Vanity Fair, parla del suo ultimo lavoro, una rivisitazione dell’Otello che non empatizza con il protagonista. «Avrei fatto un’operazione antistorica se avessi permesso al pubblico di provare compassione per il carnefice».
Oltre a essere uno degli attori più brillanti della scena cinematografica italiana, Edoardo Leo è anche un uomo intenzionato ad abbattere i dogmi del maschilismo tossico e del patriarcato, come dimostra l’impegno nel sindacato Unita, che chiede condizioni eque per i lavoratori dello spettacolo, nel direttivo diUna Nessuna Centomila, fondazione nata per parlare e sensibilizzare sulla violenza di genere che vede tra i propri membri volti noti della musica, dello spettacolo e del grande schermo italiano, ma anche alcuni lavori di cui è stato regista; come il più recente, Non sono quello che sono, una rilettura in chiave contemporanea e non “machista” dell’Otello di Shakespeare che, finalmente, non romanticizza la gelosia ossessiva del “moro”.
In quel film, nelle sale dal prossimo 14 novembre, Leo interpreta Jago, l’“amico” che stuzzica la gelosia in Otello, in un’idea che gli è venuta, racconta in un’intervista per Vanity Fair, con «un titolo di giornale: “Uomo uccide la moglie e poi si suicida”. Ho pensato: è la storia di Otello».
L’idea, spiega l’attore romano al giornale, in realtà gli è venuta in mente anni fa: «Quel titolo risale al 2006 o al 2007. Volevo che Non sono quello che sono fosse il mio esordio alla regia, ma allora non me l’avrebbe prodotto nessuno: io non ero nessuno, il cinema puntava sulle commedie e i femminicidi non occupavano le prime pagine dei quotidiani. Ho cominciato comunque a scrivere la sceneggiatura nei ritagli di tempo. Ho letto parecchie traduzioni e visto tutti i film possibili sull’Otello, musical indiani compresi».
Pur restando fedele all’originale, ha tolto dalla figura di Otello quell’aura di commiserazione che ha portato per anni a empatizzare con lui, il femminicida; un’operazione che ancora troppo spesso avviene nei casi di cronaca, complice anche la pessima narrazione giornalistica dei fatti. «Avrei fatto un’operazione antistorica se avessi permesso al pubblico di provare compassione per il carnefice – dichiara Leo – Ho tagliato di netto il famoso monologo dell’addio alla vita del protagonista, cavallo di battaglia di tanti primi attori del ’900. Per questo verrò bannato da qualche circoletto di Shakespeare? Va bene così».
Sulla fase di preparazione del film Edoardo Leo ammette: «ha acceso una luce sul mio maschilismo inconsapevole, sui comportamenti patriarcali che qualche volta non ho riconosciuto o tenuto a bada […]. Ho realizzato di non essermi mai indignato guardando il pugilato, sport nobilissimo dove a un certo punto però una ragazza in costume sui tacchi sfila con il cartellone del round e gli spettatori la insultano per divertimento. Quando è uscito il film Mia, ho intimato a mia figlia di 14 anni: “Non permettere a nessuno di dirti come truccarti, come vestirti, a che ora uscire. Nemmeno a me”, e mi sono pure sentito figo. Non mi ha sfiorato invece il pensiero di chiedere a mio figlio, oggi diciottenne, se è mai stato ossessivo, morboso, possessivo. L’altro giorno, davanti a una partita di calcio in tv, mi sono rivolto a un giocatore con un’espressione infelice: “Ma fai il maschio!”. Siamo tutti parte del problema». La soluzione, per lui, per arginare il maschilismo interiorizzato che ci vede tutti come vittime, è «fermarci: per riflettere su quello che diciamo e facciamo, per metterci in discussione. E, per quanto mi riguarda, spingere di più sul potere dell’arte».
«Ci sono femminicidi che scuotono l’opinione pubblica più di altri – aggiunge – Quando è stata uccisa Giulia Cecchettin ero in tournée a teatro e tutti parlavano della sua storia. Ho deciso di cambiare metà dello spettacolo: ho cominciato a leggere alcuni passaggi del monologo di Franca Rame Lo stupro e le domande agghiaccianti che nelle aule di tribunale vengono rivolte alle donne vittime di violenza sessuale. Prendendo poi le parole di Elena Cecchettin, «Non fate un minuto di silenzio per mia sorella, fate un minuto di rumore», ho chiesto agli uomini presenti in sala di alzarsi in piedi e alle donne di fare un baccano infernale.
Dal palco io guardavo quegli uomini: qualcuno è rimasto seduto, molti avevano il terrore dipinto in faccia, altrettanti mi hanno detto che non avevano mai provato un tale imbarazzo. Sa che cosa rispondevo? “È lo stesso che avverte una ragazza quando al ristorante, vestita come pare a lei, va verso il bagno e passa davanti a un tavolo di quattro maschi: nel migliore dei casi la fissano come carne da macello, spesso le rivolgono commenti terribili”. Ecco, nella vita privata, posso fare che, se sto a quel tavolo, me ne vado; nella vita professionale, invece, devo creare occasioni di riflessione».
(Roba da donne, 6 novembre 2024)
di Daniela Padoan
Il mare di fango e lamiere di calle Gómez Ferrer, alla periferia Sud di Valencia – immagine divenuta simbolo della catastrofe, con le sue carcasse di automobili accatastate e rovesciate contro le facciate delle case, con le sue figure che vagano smarrite in quella scena esorbitante – era talmente assurdo da far pensare, sulle prime, a una simulazione prodotta dall’intelligenza artificiale: qualcosa di non verosimile, che investe lo statuto della verità; qualcosa che chiede decostruzione, dunque rassicurazione.
Le automobili sbalzate sull’autostrada o inabissate in sotterranei divenuti vasche di melma, la solitudine di chi vi è restato imprigionato – «come topi», ha detto il sindaco di Utiel, uno dei centri più colpiti –, i garage di casa, gli ipermercati, i luoghi della nostra normalità divenuta distopica, toccano qualcosa che giace sul fondo della nostra coscienza e che non vogliamo sapere.
Una rappresentazione perturbante della fragilità e della follia del nostro modo di vivere: le macchine in cui passiamo tanto tempo da essere diventate un’estensione del nostro corpo ridotte d’un tratto a rifiuti di metallo, i corpi di persone perse e disperse negli abitacoli, aggrappate a uno smartphone senza segnale, ci mettono di fronte al nostro carrello della spesa, al biglietto del parcheggio sotterraneo, alle code in autostrada, al cellulare come cordone ombelicale col mondo, a un modo di vivere innaturale e cieco che è concausa dei disastri prodotti da un clima ingovernato e forse già ingovernabile.
Ci mostrano lo smarrimento davanti alla perdita delle cose senza le quali ci pare di non essere, la cui deprivazione tocca la nostra identità profonda, al punto da preferire non vedere, non sapere, non correre ai ripari, non pretendere politiche diverse da un’imbarazzate inadeguatezza fatta di negazione o di millantata preoccupazione a coprire la ricerca del profitto, da ultimo con la riesumazione delle centrali nucleari, magari a Venezia.
La risposta, da noi come in Spagna, è negare il disastro, isolarlo come evento straordinario, criminalizzare chi lo denuncia, procedere nella marcia ferrata della distruzione. Siccità, ondate di calore, desertificazione, incendi, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei mari, erosione costiera, uragani, tempeste di grandine, alluvioni, piogge torrenziali: tutto viene rimosso, ridotto a scontro ideologico, mostrato come una stucchevole panoplia di minacce senza costrutto o con un secondo fine da smascherare e respingere.
La realtà ci passa davanti agli occhi e si sfalda come il residuo di un sogno: gli alberi secolari di Milano divelti e scagliati sui cavi dei tram da un downburst a cento chilometri orari, le ripetute alluvioni dell’Emilia-Romagna, il mare nel sud d’Italia ancora estivo a novembre, l’iperbole del Sahara allagato. Il desiderio è sempre lo stesso: richiudere, dimenticare il più in fretta possibile, anche quando i fenomeni ci toccano da vicino.
Nel 2023, l’Italia ha subito 378 eventi meteo estremi, il 22% in più rispetto all’anno precedente. Incendi in Trentino, grandinate nel Veneto, mareggiate nelle Marche, ondate di calore in Calabria, desertificazione di intere zone della Sicilia, visti immancabilmente come eventi a sé stanti. Guardiamo senza vedere, in un doppio registro cognitivo dove ogni enormità viene normalizzata, negata, ricacciata in fondo alla coscienza, ben lontana dalla necessità di pretendere da chi ci governa decisioni politiche conseguenti.
Meglio adattarci a vivere sempre più in bilico, fingendo che sia normale. Le scale mobili così familiari che portano a riprendere le nostre macchine dopo aver fatto una grande spesa sono ora ripugnanti, inservibili accessi al magma nauseabondo in cui i corpi si stanno decomponendo; così come, verosimilmente, si decompongono le merci sugli scaffali, allegorie medievali del trionfo della morte sui beni terreni, non fosse che qui si tratta di beni intensivi, non diversamente dalla nostra vita, e dalla nostra morte.
«Ciascuno reca racchiusa in sé la propria morte. Come il proprio nòcciolo un frutto», scrive Rilke ne I quaderni di Malte Laurids Brigge. Ma la morte che rechiamo oggi nel petto è un nòcciolo che non germina, un ogm delle serre. La morte mostrata dall’iconografia macabra di Valencia è industriale, è la scomparsa dei singoli nella solitudine di luoghi affollati e iperconnessi, in templi dissacrati del quotidiano, inventario delle emissioni climalteranti prodotte da automobili, industria, agricoltura e allevamento intensivi.
È una morte alienata, deprivata che dice della nostra normalità, come Pompei cristallizzata sotto la lava. La morte di Valencia per un momento prezioso squarcia un velo e ci rende estranea la nostra esistenza fatta soprattutto di solitudine: prigionieri dei dispositivi, delle automobili, degli ipermercati, privi di comunità.
L’Oms ha definito la solitudine «un problema di salute pubblica globale», al punto che la Gran Bretagna, primo Paese al mondo, ha istituito il Ministero della Solitudine. Ma solitudine e crisi climatica sono fenomeni connessi, non solo perché lo stile di vita che maggiormente induce la catastrofe è prerogativa di un mondo fatto di bolle di esistenza e consumi individuali, ma perché le conseguenze della crisi climatica rendono ancora più inerme chi è solo. Più di otto milioni di italiani sono esposti al rischio di frane e alluvioni – su 900mila frane in Europa, 600mila si sono verificate in Italia – e il 40% degli italiani vive da solo. Uno su dieci dichiara di non avere nessuno a cui chiedere aiuto in caso di bisogno.
Conforta il rovesciamento agito dai cittadini della comunità valenciana che, abbandonati dalle autorità regionali, si sono autorganizzati portando soccorso a La Torre, Alfafar, Paiporta e agli altri luoghi simbolo della tragedia. Non è un caso che il climatologo di fama mondiale Jean Jouzel abbia affermato, in un’intervista a La Stampa, che il surriscaldamento globale deve essere affrontato con una «solidarietà reale».
E non stupisce che il governatore della Regione valenciana, esponente del Partito popolare alleato dell’estrema destra di Vox che nega il cambiamento climatico, abbia diffuso un video che minimizzava l’allerta idrogeologica proprio mentre il ciclone Dana iniziava a flagellare le zone interne, inducendo così la popolazione a non adottare le misure di sicurezza che avrebbero potuto evitare, o almeno contenere, l’ecatombe.
D’altra parte, non appena insediata, nel 2023, la giunta di destra aveva eliminato il piano per l’emergenza climatica e azzerato l’unità di crisi creata dal precedente governo: una spesa inutile, diceva, mentre procedeva alla cementificazione della costa. I corpi di lamiera spiaggiati in calle Gómez Ferrer, le scale mobili allagate che scendono in una morgue limacciosa sono un’apparizione del nostro tempo, impietosa nella sua agnizione. «C’è un sapere che preesiste a tutti gli approcci, ad ogni ricezione delle immagini», scrive il filosofo e storico dell’arte Georges Didi-Huberman. «Ma avviene qualcosa di interessante quando il nostro sapere precedente, composto di categorie già fatte, è messo in pausa per un momento – che inizia nell’istante stesso in cui l’immagine appare».
(La Stampa, 6 novembre 2024)
di Guido Viale
Nessuno stupore che il Presidente della Comunità autonoma di Valencia, Carlos Mazón, cerchi di bloccare le carovane di giovani e di persone solidali che accorrono nelle zone colpite dall’alluvione per portare il loro aiuto: acqua, viveri, abiti asciutti, coperte, medicamenti. E per spalare il fango, liberare chi ne è rimasto imprigionato, salvare ciò che ancora può essere salvato. «Ai volontari dico – ha detto – tornate a casa». Perché?
Innanzitutto, perché è un uomo di destra e un negazionista climatico; non vuole che si diffonda la percezione diretta delle dimensioni del disastro che si sta rivelando molto maggiore di quanto accertato finora. È uno che, come dice Altan, pensa che «Il sedicente cambiamento climatico da anni ci prende alla sprovvista». Quindi, non è successo niente che giustifichi la presenza di quei volontari. Poi, per far dimenticare di non aver dato l’allarme e, anzi, di aver tranquillizzato i suoi concittadini-elettori quando ancora poteva salvarne molti. L’allarme lo dà invece adesso, per bloccare i soccorsi: «Le strade possono crollare» avverte, perché l’emergenza non è finita. Poi, ancora, perché vuole controllare tutto. Infatti, ha impedito anche ai pompieri dell’odiata Catalogna di venire a prestare il loro aiuto; bastano quelli locali, che però non l’hanno presa bene… Ma, soprattutto, perché teme il volontariato, l’iniziativa dal basso, la mobilitazione popolare e soprattutto l’attivismo dei giovani; perché nella solidarietà attiva si creano relazioni, organizzazione, comunità, spirito critico, autonomia. Le premesse di un orientamento alternativo a quella soggezione che permette a chi comanda di gestire le cose a proprio piacimento. E ne potrebbe anche nascere una prospettiva radicalmente alternativa all’inerzia con cui i negazionisti, ma non solo loro, mandano avanti i loro affari cercando di nascondere i rischi che incombono sulle vite e la convivenza di tutti.
Il pensiero corre ovviamente ai cosiddetti “angeli del fango”: la marea di giovani accorsi spontaneamente per far fronte ai danni dell’alluvione di Firenze del 1966, una mobilitazione che aveva colpito chi già allora deprecava consumismo, disinteresse e passività nei giovani di sessant’anni fa. Ma c’erano, in quella mobilitazione, i segni riconoscibili, ancorché in gran parte non riconosciuti, di quella che un anno dopo sarebbe stata l’esplosione del ’68: prima nelle università e nelle scuole, poi tra i giovani operai delle fabbriche, poi in tutta la società.
Un processo registrato dapprima come una rivolta non priva di simpatie nel mondo benpensante, poi inquadrato come una sua “degenerazione ideologica”, per essere poi definitivamente archiviato come “anni di piombo”. Ma quello che era sfuggito allora ai commentatori, e che sfugge ancora oggi agli epigoni della denigrazione del ’68, era il fatto che accanto alla rivolta e al conflitto, e come loro ispirazione e supporto, c’era la scoperta della solidarietà, del valore delle relazioni non formali tra eguali, la creazione di uno spirito comunitario e di una cultura critica che avrebbe permesso il protrarsi di quelle mobilitazioni per quasi dieci anni e anche oltre: soprattutto in Italia, ma un po’ in tutto il mondo. Ciò che rende ragione degli sforzi messi in atto a livello globale per screditare, smorzare e poi affossare per anni quello spirito.
Poi, per avvicinarsi al nostro tempo, accanto a molti altri episodi abbiamo avuto una anticipazione di quello che succede oggi a Valencia con il terremoto dell’Aquila. Una voluta – per motivi di consenso – sottovalutazione da parte delle autorità del rischio incombente, mandando al macello centinaia di vite; poi uno sforzo indefesso per stroncare, purtroppo con successo, l’organizzazione, guidata soprattutto dai giovani, che si era andata costituendo nei campi degli sfollati per contrastare e sopperire alla criminale gestione del dopo-terremoto da parte di Berlusconi e della sua banda. Anche le alluvioni in Romagna avevano visto una grande ondata di solidarietà attiva, soprattutto di giovani. Proprio in quei giorni La Russa, che non se ne era accorto, aveva invitato «i giovani» ad andare a spalare il fango invece di imbrattare i monumenti. Ma quelli lo avevano preceduto facendo entrambe le cose, perché sanno che oltre a rimediare ai danni della crisi climatica occorre fare tutto il possibile per costringere i governi a prevenirla.
Oggi probabilmente un inizio come quelli si ripropone a Valencia e dintorni e gli sforzi di Mazón per tenere i volontari lontani dall’esercizio della loro solidarietà si spiega bene con la consapevolezza che eventi come quelli di Valencia sono destinati a ripetersi e a moltiplicarsi, anche se in altre forme, in altri luoghi e in altri tempi; e con essi, il consolidarsi delle reti di solidarietà. Una consapevolezza che accomuna tanto chi vuole combattere la deriva imboccata dalla crisi climatica e ambientale, e tra questi soprattutto i giovani, quanto i negazionisti che costruiscono il loro consenso sulla falsa promessa che nulla cambi.
Ma c’è in tutti, anche se non in maniera chiara, l’idea che la solidarietà, le relazioni, lo spirito di iniziativa e l’autonomia che si sviluppano in una mobilitazione come quella che si è messa in moto a Valencia, se riusciranno a consolidarsi, possono costituire l’embrione di una alternativa, sociale e culturale, prima ancora che politica, in grado di misurarsi con le dimensioni della crisi ambientale e climatica. Abbiamo visto negli ultimi anni un movimento di giovani, innescato dagli “scioperi” di Greta Thunberg e poi affiancato da altre organizzazioni e reti impegnate nella stessa battaglia, che hanno messo all’ordine del giorno, con modalità differenti e alterne vicende, la crisi climatica e ambientale come sfida esistenziale per la loro generazione e per tutte quelle a venire. Finora non hanno trovato l’occasione per consolidarsi in un processo capace di garantirne la continuità o la riproposizione in forme più efficaci: ma la frequenza, l’intensità e la gravità dei disastri climatici che ci attendono sono destinati a diventare altrettante occasioni per imporre una svolta radicale alle politiche ufficiali, quelle che alla crisi ambientale rispondono con l’inerzia e il business as usual.
(il manifesto 5 novembre 2024)
di Zita Dazzi
Intervista a Manuela Ulivi, avvocata, presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano e consigliera nazionale D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza)
Perché c’è un aumento così rilevante delle minorenni fra le persone offese?
«Penso che finalmente nell’elaborazione dei dati abbiano prestato attenzione anche alla “violenza assistita” considerando i figli minori della donna maltrattata in famiglia sempre persone offese. L’abbiamo chiesto nelle interlocuzioni con la Procura».
Quindi non c’è un aumento delle ragazze che restano vittime di aggressioni e violenze?
«Certo che c’è. A Milano, fra le 4-5 mila denunce annue per maltrattamento, violenza sessuale e stalking, c’è sicuramente un dato importante e in crescita che riguarda le giovanissime. Ma ci sono ancora troppe archiviazioni. E il numero delle denunce va confrontato con quello delle sentenze. Facciamo una manifestazione proprio sabato su questo tema: le ragazze sono il bersaglio nelle relazioni tossiche di cui abbiamo tutti la responsabilità».
Cioè?
«Sono relazioni di dominio, che nascono anche dal fatto che li chiamiamo “fidanzatini”. È uno sbaglio considerare le prime storie d’amore già come legami fortissimi, perché questo lascia spazio alla volontà di dominio, di controllo. Queste relazioni da giovani possono ingabbiare».
Gli adulti sbagliano se danno importanza alle prime storie d’amore dei figli?
«Non parlo solo dei genitori, ma più in generale della società, dei mass media anche, che anche nel modo di dare le notizie sono indirizzati verso l’amore “per sempre”, un amore assoluto, protettivo, che però così può diventare relazione di possesso, invece che relazione libera e felice, da cui un giorno si può anche uscire».
Quindi la cultura del “per sempre” sui giovani è pericolosa?
«Lo è quando viene intesa come un “sei mia”. Da lì nasce il senso di possesso che può fare danni gravi».
E le violenze dopo le feste, dopo l’alcol, il sesso preso come gioco che sfugge di mano?
«Sì, tutto quello esiste ed è vero, ma non dobbiamo cavarcela col dire che è tutta colpa dei social, che c’è in giro tanto nervosismo. Bisogna smettere di girare la testa dall’altra parte. C’è bisogno che gli uomini si esprimano e non dicano soltanto “io non sono un violento”».
Molti se la cavano dicendo “lei ci stava”.
«Il consenso deve esserci all’inizio. E non è che se una accetta di andare a casa di qualcuno allora “ci sta”».
(la Repubblica, 5 novembre 2024)
di Michela Spera
La discussione aperta dall’intervento di Laura Colombo e da quello di Paola Mammani e Tiziana Nasali mi riguarda e credo riguardi tutte noi.
Sono contraria alla maternità surrogata; non sottovaluto e provo rispetto per il desiderio di maternità e di paternità – di tante donne e tanti uomini – che per ragioni diverse non si può realizzare; nonostante questo non riesco a sopprimere in me il sentimento di rifiuto per la contrattualizzazione commerciale del corpo delle donne e della maternità, non riesco a non provare indignazione per la separazione programmata di una neonata o di un neonato dalla madre. Sono femminista ma sono sicura che non sia determinante essere femminista per condividere queste mie convinzioni profonde.
Io non riesco a esultare per la recente approvazione al Senato del provvedimento legislativo che interviene sulla legge 40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, che estende l’illiceità della procedura, già vietata in Italia, anche all’estero e mi ha colpito la denominazione di “reato universale” per perseguire accordi commerciali stipulati in altri luoghi del mondo – da alcune donne e alcuni uomini – per soddisfare il loro desiderio di maternità e di paternità.
In ogni famiglia c’è esperienza di creature cresciute da zie o zii o altre persone di famiglia senza figli; nei rapporti sociali è stata e, secondo me, resta la “risposta universale” al desiderio di maternità o paternità a chi non riesce, non riusciva, a realizzare il proprio desiderio e non può o non vuole ricorrere ad accordi commerciali per realizzarlo.
La legge del 2004 rispondeva al sentire di chi voleva opporsi all’introduzione in Italia della gestazione per altri (GPA), a quella commerciale e a quella cosiddetta solidale.
Quello che invece è avvenuto con il provvedimento legislativo del 16 ottobre ha, secondo me, un segno e una direzione diversa determinata dalla spinta dei movimenti pro-vita e dai partiti politici che vogliono riportare i rapporti sociali tra uomini e donne all’ordine simbolico e sociale del patriarcato. E a me poco importa che sia una donna a condurre o a intestarsi il gioco.
Ragioniamo dei rapporti di forza in campo, nel parlamento e nel paese; sostenere che in questa decisione il femminismo abbia orientato la politica è secondo me velleitario e un pericolo per l’autonomia della pratica e del pensiero politico del movimento delle donne.
Il femminismo ha modificato radicalmente i rapporti sociali, e dal pensiero politico della differenza sessuale sono nate le pratiche che hanno reso possibile questo cambiamento.
Tuttavia, persiste il rischio che parole e pratiche femministe vengano travisate dalla politica dei partiti. Dovremmo oggi interrogare il travisamento, il femminismo delle origini lo ha fatto a partire da Carla Lonzi.
Sicuramente «la presenza attiva di donne consapevoli e appassionate» ha impedito che si soffocasse il sentimento di rifiuto verso la gestazione per altri nonostante la “propaganda” di un pensiero che giustifica questa pratica con il desiderio di maternità e paternità e nega la differenza sessuale.
Ora serve esprimere la stessa autonomia – di pratica e di pensiero politico – nei confronti della “propaganda” di un pensiero che mette al centro la donna “madre” e la famiglia patriarcale e che in questo orizzonte interviene legislativamente anche sulla procreazione per altri.
In assenza di questa autonomia «ci sono tutte le premesse di una sconfitta» per il pensiero della differenza e non si troveranno parole nuove per le nostre pratiche politiche; la differenza sessuale sarà declinata nel ruolo assegnato da altri e inevitabilmente useremo le loro parole.
(www.libreriadelledonne.it, 5 novembre 2024)
di Clara Jourdan
La legge che estende la sanzione per la surrogazione di maternità prevista vent’anni fa (dalla l. 40/2004, art. 12 c. 6) «anche se il fatto è commesso all’estero», approvata dal Senato il 16 ottobre scorso, è opera della maggioranza parlamentare di destra ma l’impulso è venuto da gruppi femministi italiani e di altri paesi che da tempo si battono contro l’utero in affitto o gestazione per altri. Però non tutte le donne impegnate in questa lotta sono d’accordo con l’istituzione del cd “reato universale”, c’è discussione anche in questo sito. C’entra il fatto che la legge è stata proposta e approvata dalle destre e la sua strumentalizzazione fa problema, ma l’obiezione di fondo è che «la via non sia la criminalizzazione per legge» (Laura Colombo, Conquiste del femminismo?, 17 ottobre 2024). Sì, la via è agire per «una presa di coscienza allargata». Tuttavia proprio per questo considero questa legge un aiuto, perché il diritto ha una funzione simbolica prima che repressiva. Si tratta di un simbolico maschile di eredità patriarcale, certo, ma sulle grandi questioni di civiltà può sostenere la possibilità di un altro ordine di rapporti.
Penso alla prostituzione: come aveva capito e lottato Lina Merlin negli anni ’50 in Italia, per abolirla serve penalizzarne lo sfruttamento. Non è bastato e non basta, è evidente, a sradicare questa forma tenace della sessualità maschile, ma è un punto fermo che va nella direzione della presa di coscienza, continuata dalle donne fino a nominare la prostituzione “stupro a pagamento” (Rachel Moran) invece di chiamarla lavoro come fa chi vuole perpetuarla in tempi di libertà femminile. E penso alla schiavitù, che a volte esiste ancora in modi più o meno nascosti anche nel lavoro salariato, ma certamente è diventata impensabile: a chi mai verrebbe in mente oggi di proporre un dibattito pro o contro la schiavitù? La lotta degli abolizionisti è riuscita a sradicare una istituzione plurimillenaria, considerata normale in molte culture.
Ho ricordato prostituzione e schiavitù perché in tante vediamo nella gestazione per altri una somma delle due forme di disumanizzazione. Come la prostituzione, l’utero in affitto sfrutta il corpo femminile, come la schiavitù fa dell’essere umano un oggetto di scambio. Per fortuna non si è ancora radicato nella cultura, esiste da poche decine di anni ed è forse possibile che non occorrano millenni per abolirlo nel mondo. Tuttavia ha dalla sua la potenza della tecnologia e del capitalismo, ed essendo una realtà nuova non è facile capirne il senso (ricordo che vent’anni fa la credevo una forma di solidarietà fra donne). Anche per questo considerare la surrogazione di maternità “reato universale” può servire a prendere coscienza che è in pericolo qualcosa di irrinunciabile dell’umano. Se non riuscirà a impedire nei fatti la sua pratica, specie nelle forme surrettizie silenziosamente portate avanti da alcuni (la madre rinuncia alla creatura, il “padre” la riconosce e poi sua moglie l’adotta), il divieto assoluto è un segno inequivocabile della sua inaccettabilità.
Soprattutto per le creature, che sono al centro dei miei pensieri più delle loro madri. Creature progettate apposta per essere private della madre per soddisfare bisogni altrui, vendute o regalate non cambia, e per vivere con chi le ha commissionate. Una crudeltà di cui non possiamo sapere le conseguenze, anche nell’inconscio dei committenti e nella loro relazione di “genitori”. Ma so per esperienza personale che quello che succede nella relazione materna prima e dopo la nascita ha effetti per tutta la vita, anche se non si vede e nessuno se ne accorge. Le poche interviste pubblicate di creature diventate adulte dicono che stanno bene e sono felici, spero di cuore che a tutte vada così. Ma hanno comunque subito una violenza grave.
Il diritto di un paese civile non può tollerare questa barbarità, ovunque essa si compia.
(www.libreriadelledonne.it, 5 novembre 2024)