di Anna Antonelli e Bianca Bottero


Il quartiere San Siro di Milano è un quartiere di edilizia popolare costruito negli anni ’30 in zona allora periferica per la manodopera necessaria alle numerose fabbriche che qui andavano insediandosi. Nel tempo, a questo ceto operaio proveniente dalle diverse regioni del nord e successivamente dal meridione, si è venuta via via sostituendo, in particolare negli ultimi decenni, una popolazione di origine straniera, soprattutto egiziana e marocchina, che ha raggiunto oggi circa il 50% delle presenze.

I numerosi problemi che tale nuova popolazione ha dovuto e deve affrontare, e a sua volta determina nel quartiere, costituiscono problema apparentemente noto e oggetto di dibattito a livello istituzionale, anche se scarsamente affrontato con effettiva capacità (volontà) politica e gestionale. Ma ciò che in particolare colpisce è soprattutto che entro tale dibattito le donne scompaiono, la loro personalità, i loro problemi, le loro necessità e desideri risultano del tutto oscurati, annegati nella tematica generale e nello stigma dell’immigrazione maschile. E crediamo si possa dire che è solo grazie alla presenza di tante associazioni volontarie femminili che si impegnano nel quartiere in azioni di scambio relazionale in vari ambiti (arte, musica, linguaggio, scuola, salute) che le donne straniere acquistano una esistenza.

Emergono così, come da un fondo marino, figure e volti femminili timidi e sfuggenti, competenze nascoste, sensibilità artistiche, volontà e fedi oscurate, abitualmente avvolte nella sottile e obliqua diffidenza razzista dell’ambiente che le circonda.

È questo l’aspetto importante che ha affrontato il SIRA Festival Itinerante che si è svolto venerdì 27 maggio nel quartiere S. Siro, rivolto ai talenti delle donne, con particolare attenzione alla componente straniera.

SIRA significa splendente, ardente, è l’equivalente femminile di Siro: è un nome che vuole significare l’aspirazione alla bellezza, alla gioia, alla cultura, all’arte, che punta sul talento, lo scambio e l’amicizia Ma il festival era anche Itinerante, perché ha voluto che diversi luoghi del quartiere, quotidianamente percorsi per faticose faccende quotidiane, venissero conosciuti nelle loro potenzialità, sottratti anch’essi a uno stigma; perché anche la città, per quanto minimamente, venisse percepita come luogo di vita, di amicizia e di scambio nei suoi spazi pubblici, che come pubblici devono essere rivendicati.

Il Sira Festival itinerante ha così alternato lungo la giornata azioni diverse in luoghi diversi. Al mattino, presso l’Off Campus del Politecnico le diverse associazioni femminili impegnate in attività sociali nel quartiere e alcune donne straniere attive e competenti hanno svolto una seria riflessione sulle difficili condizioni quotidiane delle donne immigrate; mentre a fianco è stata allestita la mostra dei dipinti di tre donne: una iraniana, una egiziana e una albanese (una quasi adolescente, con piccolo bimbo in carrozzella) la cui apparente “ingenuità” era riscattata da una estrema sensibilità al colore e alla libera esplorazione della forma. Sono poi succedute nel pomeriggio altre azioni: presso la sede del Telaio si è svolto un laboratorio artistico denominato “Tessere per la pace” dove sedici donne di diverse nazionalità si sono trovate per dipingere a più mani condividendo emozioni, colori e pennelli. Dalla sede del Telaio è poi partito un canto popolare, più precisamente una taranta, accompagnato da un flauto traverso, una chitarra e un tamburello che ha attraversato alcune strade del quartiere coinvolgendo passanti e negozianti terminando davanti alla sede dell’Off Campus. Qui c’è stata la lettura pubblica in arabo e in italiano di una poesia scritta da una donna egiziana e in seguito, sul palco eretto nel cortile retrostante (uno dei grandi cortili alberati, così maltenuti e malvissuti interni ai vari isolati) ha avuto luogo il concerto di un coro femminile di venti donne diretto in modo elettrizzante da Mila Trani; al termine del quale è stata suonata e cantata nuovamente la Taranta coinvolgendo le persone presenti in un cerchio di condivisione. Da ultimo, in un luogo ancora diverso, lo spazio Fenun sede del Comitato di Quartiere, si è avuta la proiezione di un film egiziano, Bashtery Ragel – A Man Wanted.

L’iniziativa e l’organizzazione del SIRA Festival è stata del Telaio delle Arti, un’associazione di promozione sociale che dal 2014 opera nel quartiere prendendosi cura, grazie alle artiterapie, delle donne e delle famiglie. Hanno collaborato il Comitato di Quartiere, il Politecnico e numerose associazioni volontarie attive nel quartiere: dando ancora una volta l’esempio (che tanto servirebbe alle nostre istituzioni), di una disponibilità alla relazione e all’ascolto il cui valore culturale e umano va ben al di là della semplice (risicata) accoglienza.


Anna Antonelli fa parte del Telaio delle Arti; Bianca Bottero, architetta, fa parte delle Città Vicine e lavora alla scuola di italiano per donne straniere del quartiere.


(www.libreriadelledonne.it, 7 giugno 2022)

di Carlo Caprioglio, Francesco Ferri, Lucia Gennari


1. IntroduzioneLa condanna a Lucano, e gli altri.

Com’è noto, il Tribunale di Locri ha riconosciuto Domenico Lucano colpevole di una serie di reati contro la pubblica amministrazione (abuso d’ufficio, truffa aggravata e falso ideologico), in parziale continuazione, e in associazione con altre quattro persone. In sede dibattimentale è venuta meno l’accusa forse più “politica”, il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che negli ultimi anni è stato utilizzato sistematicamente per criminalizzare la solidarietà con e tra i migranti, a terra e in mare.

La condanna a tredici anni e due mesi di reclusione – oltre al risarcimento di un danno erariale per centinaia di migliaia di euro – ha sollevato un coro di critiche, sgomente per la durezza della sanzione inflitta, che non solo supera i limiti edittali di pena ma quasi raddoppia le richieste della Procura. Una pena che, come notato da più parti, è apparsa spropositata, soprattutto se confrontata con quelle emesse al termine di vicende giudiziarie di impatto sociale senz’altro maggiore, come il processo Mafia Capitale. Le reazioni alla sentenza hanno chiamato in causa, a difesa di Lucano, argomenti di carattere giuridico – il diritto alla solidarietà, come dovere costituzionale; lo stato di necessità, come scriminante di condotte penalmente rilevanti – ma anche ragioni politiche o filosofiche, come il diritto “naturale” alla ribellione di fronte a leggi ingiuste, e il contrasto tra giustizia e legalità, impersonato nella figura tragica di Antigone e nel suo rifiuto a obbedire alla legge di Creonte.

Da parte nostra, ci interessa qui riflettere sul significato della decisione, senza cadere nell’errore di pensare che esista una giustizia “neutrale”, sottratta al contesto sociale e politico in cui si esprime. Ciò nonostante, ci sembra importante sottolineare sin da subito un aspetto stranamente trascurato nelle molte prese di posizione critiche di questi giorni. Il processo di Locri non ha riguardato solo Lucano ma un numero molto ampio di persone, che va ben oltre quelle coinvolte nel delitto associativo. Gli imputati sono, infatti, ventisei e diciotto di questi hanno subito condanne pesanti, con pene che per molti superano i sei anni di reclusione, oltre alla confisca dei beni e al pagamento delle spese processuali. Si tratta di un aspetto importante non solo per avere un quadro completo della vicenda processuale ed estendere la solidarietà anche alle altre persone condannate, ma anche – e forse soprattutto – per restituire la dimensione radicalmente collettiva dell’esperienza di Riace, evitando così il rischio di una personalizzazione della narrazione che rischia soltanto di isolare la figura di Lucano, giocando a favore della criminalizzazione sua e degli altri imputati.

2. Una sentenza inevitabilmente politica

Quando si parla di migrazione e di solidarietà, il carattere “politico” della giustizia diventa immediatamente evidente. I giudizi, civili e penali, che hanno riguardato i diritti dei migranti e gli atti di solidarietà attorno alla migrazione sono sistematicamente oggetto di commenti e critiche che ne contestano la “politicità”, in un senso e nell’altro. Il caso di Riace non fa eccezione e in molti hanno denunciato la natura “politica” della sentenza, nel senso di una decisione motivata da finalità politiche, strumentale a colpire le idee di Lucano e le pratiche di solidarietà sperimentate. E non è un caso che il Procuratore d’Alessio, all’inizio della sua requisitoria, si sia preoccupato di ribadire con forza l’estraneità della “politica” dalle indagini e l’indipendenza della Procura di Locri, ricordando inoltre come durante il procedimento si siano susseguiti governi di diverso segno politico, senza che ciò abbia influito sul lavoro della magistratura calabrese.

Quando ci proponiamo di riflettere sul significato politico della condanna a Lucano ci poniamo in una prospettiva differente: il presupposto, forse banale, è che non esiste un esercizio della giustizia politicamente neutrale. Non solo la dimensione “politica” del giudiziario è intrinseca al ruolo istituzionale di interpretazione e applicazione del diritto – ovvero, di individualizzazione delle norme giuridiche –, ma questa operazione è calata all’interno di processi, tendenze e dinamiche sociali e politiche complesse, non riducibili al mero orientamento politico delle maggioranze parlamentari e dei partiti al governo in un dato momento. In quest’ottica, ci sono questioni sociali che in determinati momenti storici provocano con maggiore forza la reazione dell’ordinamento per la loro capacità di metterlo in discussione e per la sensibilità del corpo sociale rispetto a quel tema. Un esempio è costituito, oggi, dal tema dei confini e della migrazione.

Quella che chiamiamo “guerra alle migrazioni” (1) trova corrispondenza in dinamiche sociali e di governo che si traducono in ambito giudiziario non solo nella repressione delle condotte direttamente legate al movimento (immigrazione irregolare, reingresso, favoreggiamento etc.) ma anche alle pratiche solidali in senso ampio, tanto più quando sono capaci di incidere – ridefinendole – sul ruolo e il funzionamento delle istituzioni e dei meccanismi istituzionali di mediazione sociale, come nel caso di Riace.

È quindi possibile leggere attraverso questa lente il processo e la condanna a Mimmo Lucano e a chi con lui ha partecipato all’esperimento di Riace. In primo luogo colpisce, anche se non sorprende, l’utilizzo del reato associativo e le implicazioni sulle modalità di svolgimento delle indagini, sull’applicazione delle misure cautelari, sulla qualificazione giuridica delle condotte e sul computo della pena. Nel campo della criminalizzazione delle migrazioni non si tratta certo di una novità, così come non sono nuove le distorsioni che questo comporta: si pensi, tra gli altri, alle rivelazioni di The Intercept (2) sull’adozione degli strumenti antimafia nelle indagini sul favoreggiamento dell’immigrazione c.d. irregolare. In secondo luogo, forse anche per effetto di questo approccio, la lettura complessiva delle vicende oggetto del giudizio di Locri sembra non tenere conto del contesto in cui si colloca l’esperienza di Riace, e infatti le ricostruzioni degli inquirenti sono spesso cariche di considerazioni morali (tra l’altro censurate espressamente dalla Cassazione nel 2019) e disancorate da cruciali elementi materiali relativi alle dimensioni, alla conformazione e all’organizzazione della vita sociale e dell’accoglienza a Riace.

3. La colpa di Lucano

Ma è davvero la solidarietà verso i migranti la colpa di Lucano? È la sua “umanità” ad averlo esposto alla criminalizzazione? A un primo sguardo sembrerebbe di sì. In fin dei conti, Lucano è stata una delle figure istituzionali più in vista, per dieci anni al centro dell’immaginario dell’Italia solidale, anche fuori i confini nazionali. E al contempo, la condanna di Lucano appare senz’altro il prodotto dell’attuale stagione politica, in cui puntiformi pratiche solidali sono state colpite dall’azione combinata dell’autorità giudiziaria, delle forze di polizia e degli attori istituzionali. Se, quindi, nell’attuale paesaggio discorsivo e giudiziale è corretto leggere il processo di Locri anche alla luce della categoria della criminalizzazione della solidarietà, riteniamo necessario fare un passo in avanti ed esplorare quale, tra le molte posture assunte dall’ex sindaco, ha più contribuito alla sua condanna.

Quella di Riace non è certo stata l’unica esperienza di amministrazione, per così dire, “solidale”. Da sud a nord della penisola esistono molteplici esperienze di amministratori locali che promuovono iniziative di accoglienza nei confronti delle persone migranti senza finire, per queste ragioni, nel registro degli indagati. Perché allora Mimmo Lucano, a differenza degli altri sindaci solidali, ha attirato l’attenzione dell’autorità giudiziaria, subendo poi una condanna senza precedenti?

La colpa di Lucano – e delle altre persone condannate – risiede forse nell’aver sperimentato forme di accoglienza in controtendenza con le caratteristiche dominanti delle politiche migratorie in Italia. Il modello Riace segna uno scarto con la tradizione consolidata dell’accoglienza: relazioni non disciplinanti tra operatori e accolti, strutture ricettive funzionali alla costruzione di relazioni tra migranti e autoctoni, partecipazione diffusa e un’esperienza istituzionale orientata alla sperimentazione sociale.

Per inventare forme di accoglienza in grado di ribaltare la logica dominante, gli amministratori di Riace si sono inseriti nelle maglie della normativa, reinterpretando e, perché no, sfidando le imbrigliate logiche della burocrazia laddove necessario. È questa probabilmente la reale posta in gioco nell’affaire Riace. Non solo e non tanto la criminalizzazione della solidarietà in quanto tale, quanto la reazione scomposta del potere che si sente minacciato dalle sperimentazioni amministrative che hanno avuto la capacità di inventare una nuova immaginazione istituzionale, anche attraverso la forzatura dei vincoli e l’interpretazione estensiva del diritto.

Che un amministratore locale di un piccolo comune calabrese possa muoversi tra le pieghe del diritto per indirizzare gli strumenti amministrativi in una direzione inedita è, nella percezione del giudice di Locri, inaudito. Più in generale, suscita scandalo che il diritto possa essere usato, disteso, piegato, reinventato nel momento della sua applicazione, per ridefinire il ruolo delle istituzioni e del welfare: non più difesa e consolidamento dello status quo, ma trasformazione attiva dell’esistente. Da questa prospettiva, Lucano è colpevole di non essere stato un copiatore seriale dei modelli dominanti, ma un abile artigiano istituzionale, capace di maneggiare gli strumenti amministrativi e di forzare – nelle maglie del diritto positivo e non contro di esso – i confini del ruolo istituzionale che rivestiva.

4. La deistituzionalizzazione dell’accoglienza e la Riace possibile

In un saggio del 1986 intitolato L’istituzione inventata (3), Franco Rotelli – stretto collaboratore di Basaglia sin dal suo arrivo a Trieste nel ’71 e protagonista della riforma dei servizi di salute mentale triestini (e non solo) – descrive la deistituzionalizzazione come «il processo pratico-critico che riorienta istituzioni e servizi, energie e saperi, strategie e interventi verso» un oggetto diverso da quello della pratica psichiatrica tradizionale – la malattia e la pericolosità del malato (il matto) – a cui corrispondono «coerenti istituzioni» come il manicomio, verso un oggetto nuovo, complesso e instabile che è «l’esistenza-sofferenza dei pazienti e il suo rapporto con il corpo sociale». Una rottura epistemologica radicale la cui posta in gioco va ben oltre la chiusura dell’istituzione totale manicomiale, e nella quale il “problema” diviene non più la «”guarigione” ma la “emancipazione”» delle persone assistite.

L’istituzione inventata – «e mai data», sottolinea Rotelli, per enfatizzare la processualità e quanto ancora c’era (e c’è) da fare – prende forma in servizi di salute mentale innovativi, aperti, promotori di pratiche di ingegneria sociale, «motori di socialità e produttori di senso […] a tutto spessore interferenti con la vita quotidiana, le quotidiane oppressioni, momenti della riproduzione sociale possibile, produttori di ricchezza, di scambi plurimi e perciò terapeutici». Per fare tutto questo, l’autore enfatizza l’importanza di mobilitare energie, soggettività e competenze molteplici: «[A]vremo, per questo, bisogno» – scrive – «di artisti, uomini di cultura, poeti, pittori, uomini di cinema, giornalisti, di inventori della vita, di giovani, di lavoro, feste, gioco, parole, spazi, macchine, risorse, ingegni, soggetti plurimi, loro incontro».

In un saggio di qualche anno dopo, Per un’impresa sociale (4), Rotelli evidenzia come questa operazione di immaginazione istituzionale investa radicalmente il ruolo e il funzionamento delle istituzioni di welfare, implicando un «rovesciamento della cultura delle agenzie di assistenza e delle migliaia di operatori che vi si addensano, dei modi d’uso di risorse enormi destinate a invalidare e a proteggere l’invalidazione invece che a valorizzare, ad attivare, ad animare, a intraprendere, a fare». La deistituzionalizzazione richiede, quindi, la liberazione delle energie – che esistono! – della cooperazione sociale dai vincoli e dagli impedimenti burocratici che le imbrigliano, per creare le condizioni concrete per un accesso reale ai diritti. Non solo quindi, nel caso della salute mentale, il diritto alle cure, «ma anche di produrre, avere una casa, un’attività, una relazione, mezzi economici, valore».

L’istituzione inventata è anche tutto questo: liberazione delle energie presenti sul territorio, relazioni originali tra pubblico e privato sociale, «ricostruzione di un tessuto di qualità, rifiuto dell’assistenzialismo, sinergie di intelligenze. Laboratorio del sociale. Politecnico di una materiale cultura, fuoriuscita dalla sfiducia, fine del nulla subito». Ma attenzione, la «de-istituzionalizzazione del pubblico […] non ha nulla a che fare con la deregulation» bensì con la demolizione della «burocratizzazione, l’inerzia, la compartimentazione, l’irresponsabilità del welfare, non il welfare». Un processo di risignificazione e reinvenzione del pubblico, di un «welfare altro»: in altri termini, istituzioni di welfare nuove, attive e responsabili nel garantire l’emancipazione, l’autonomia e il riconoscimento del ruolo sociale delle persone assistite.

Senza cadere in ingenue romanticizzazioni dell’esperienza di Riace, di cui forse in passato sarebbe stato anche utile discutere produttivamente i limiti e le inevitabili contraddizioni, ci sembra però che nelle pagine dei due testi appena citati risuonino critiche, suggestioni e argomenti forti che legano la sperimentazione di Lucano e dei suoi colleghi a quella – solo materialmente lontana – di Trieste e delle sue istituzioni di salute mentale. Non a caso, anche queste ultime diventate, come Riace, un modello di riforma istituzionale possibile a livello internazionale.

Quello di Riace è stato, infatti, un esperimento di pratiche de-istituzionalizzanti, attraverso la messa in discussione di quell’insieme di dispositivi che danno forma al sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati: il controllo, l’isolamento fisico e simbolico dal resto della società, il disciplinamento e la vittimizzazione, l’integrazione orientata all’inserimento nelle gerarchie di un mercato del lavoro segmentato. Di fronte a un sistema di accoglienza istituzionale passivo, burocratizzato e, così, deresponsabilizzato rispetto alle sfide sociali e politiche che le migrazioni determinano, Lucano e gli altri hanno preso il rischio di assumere la complessità del fenomeno migratorio come oggetto dell’intervento istituzionale. D’altronde – riprendendo la nota definizione di Sayad – se le migrazioni sono un fatto sociale totale, i servizi di accoglienza coinvolgono le più diverse sfere della vita personale e sociale delle persone. È quindi la società il loro ambito di intervento, non le persone migranti.

Non è questo il contesto né tantomeno il momento per discutere se davvero l’esperienza di Riace abbia prodotto tutto questo. In altri termini, non serve stabilire se davvero, in concreto, Riace sia riuscita a praticare la deistituzionalizzazione, dando vita a istituzioni inventate dell’accoglienza. Non è infatti la Riace data la ragione dell’azione repressiva delle autorità, bensì la Riace possibile, ciò che sarebbe potuto essere, a Riace e altrove. Il modello sperimentato e raccontato, le energie liberate, la cooperazione sociale innescata, il disvelamento di un campo di possibilità inesplorato, che andava fermato a tutti i costi. Se la colpa di Lucano è questa, la “nostra” – su cui interrogarsi – è perché non siano divenute molteplici le Riace possibili. Oltre alla solidarietà umana e politica con Lucano, alle sacrosante manifestazioni, alle raccolte fondi e alle prese di posizione pubbliche, la sfida ora è forse quella di provare a reinventare Riace ovunque, non solo nell’accoglienza.


Bibliografia


(1) E. Rigo, L. Gennari, Processo alla solidarietà, il Manifesto, 23.02.2021, disponibile a https://ilmanifesto.it/edizione/il-manifesto-del-23-02-2021/

(2) Z. Campbell e L. D’Agostino, Friends of the traffickers. Italy’s Anti-Mafia Directorate and the “Dirty Campaign” to Criminalize Migration, 30.4.2021, disponibile a

(3) F. Rotelli, L’istituzione inventata, 1986, in F. Rotelli, Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, Edizioni Alpha Beta Verlag, Merano (BZ), 2021

(4) F. Rotelli, Per un’impresa sociale, 1991, in F. Rotelli, Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, Edizioni Alpha Beta Verlag, Merano (BZ), 2021.


Per citare questo articolo:


Caprioglio C., Ferri F., Gennari L., (2021), La colpa di Lucano: una lettura della condanna oltre la criminalizzazione della solidarietà, pubblicato in Studi Sulla Questione Criminale Online. Consultabile al link: https://wp.me/p7JYW5-16J


(Studiquestionecriminale.wordpress.com, 11 ottobre 2021)

di Daniele Nalbone


“Riace ha mostrato che un’altra politica è possibile”. Mimmo Lucano a Reggio Calabria al controvertice “TheLast20” spiega perché quell’esperienza non è stata solo un laboratorio di accoglienza.


Perché l’esperienza di Riace è, ancora oggi, sentita, vissuta e soprattutto raccontata come un modello politico di accoglienza e integrazione, nonostante le accuse mosse a Mimmo Lucano e all’intero progetto? Perché continua ad avere così tanto seguito nel popolo diffuso della sinistra? Come è stato possibile che una simile realtà, un piccolo comune calabrese, abbia costruito un tale immaginario? Sono queste le domande che hanno fatto da sfondo all’incontro che ha aperto la seconda giornata di TheLast20, “controvertice” rispetto al G8 in corso in Italia e che a Reggio Calabria ha riunito rappresentanti di ONG, sindaci, docenti universitari, rappresentanti della comunità dei venti Paesi più “impoveriti” del mondo sui temi relativi alla immigrazione, accoglienza, cooperazione decentrata, ruolo dell’Europa.

“La forza degli ultimi”. Il titolo dell’incontro al quale hanno partecipato, insieme a Mimmo Lucano, i giornalisti Tiziana Barillà, Enrico Fierro, Lucio Musolino, Daniela Preziosi, Antonio Rinaldis, è parte della risposta. Perché Riace non è stata – non è – solo un laboratorio di accoglienza, ma un’esperienza “paradigmatica nella letteratura, nel teatro, dei docufilm, sulla stampa” ha sottolineato in apertura Mimmo Rizzuti, moderatore dell’incontro.

“Io stesso faccio fatica a comprendere come mai la storia di Riace abbia avuto tanta attenzione” spiega Mimmo Lucano. “Riace è avvolta da un fascino enorme che ancora oggi resiste, anche alle tempeste giudiziarie”. Eppure “per una certa parte politica del Paese, Riace altro non è che un tentativo di dare vita a un’associazione a delinquere, una storia in cui non c’è rispetto per le regole”. Lucano porta subito il discorso sul processo che concluderà la sua prima fase il 27 settembre, con la sentenza di primo grado. L’ex sindaco rischia 7 anni e 11 mesi di carcere per accuse che vanno dall’associazione a delinquere all’abuso di ufficio, dalla truffa alla turbativa d’asta.

“Questo processo”, spiega Mimmo Lucano, “è servito anche a me per cercare di capire meglio cosa è davvero avvenuto a Riace, perché questo piccolo comune è diventato, nel mondo, simbolo di accoglienza e integrazione”.

L’obiettivo di Lucano, all’inizio della sua esperienza da sindaco (2004), era “solo quello di non vedere morire Riace”. “Avevo negli occhi l’esempio di Badolato, un piccolo centro rinato grazie a un turismo sostenibile. Volevo fare dell’impegno sociale e politico la nostra stella polare e, così, far tornare le persone a vivere a Riace. Non potevo accettare l’idea che fosse l’ennesimo piccolo comune calabrese da cui andar via, destinato a diventare uno dei tanti borghi abbandonati del profondo sud italiano”.

Così Riace “ha aperto le porte a chi arrivava in Italia scappando dalle guerre, dalle torture, dalla povertà. Mai avrei immaginato che, in pochi anni, Riace sarebbe diventato un riferimento per così tante persone”. E allora “abbiamo dovuto fare delle scelte, senza mai aggirare le regole ma, al massimo, forzandole”. Perché “è questo che rende uomini gli uomini, la solidarietà, l’accoglienza. Ecco, la mia risposta alla domanda iniziale è: Riace ha mostrato che un’altra politica è possibile”.

Negli anni, a Riace si sono alternati giornalisti e scrittori, musicisti e autori teatrali, registi e attori. “Siamo ciò che incontriamo, diceva Alex Zanotelli” sottolinea Lucano. “Ecco, noi abbiamo incontrato tante persone provenienti da ogni parte del mondo. E questo ha reso Riace un luogo di incontro. Continuo a credere che se tutto ciò è stato possibile a Riace significa che è possibile ovunque. Qui abbiamo smascherato come sia interesse del potere costruire discriminazione. Non basta la teoria, diceva Dino Frisullo, ma bisogna prendere parte. Noi a Riace lo abbiamo fatto. Un noi largo, che coinvolge tutte le persone che negli anni sono passate da qui. Gente di Riace e no. Calabresi e no. Italiani e no. Europei e no”.

Rivoluzione della normalità. I tanti interventi che si sono susseguiti hanno spesso rimarcato questo concetto. “A Riace non è accaduto niente di straordinario” sottolinea Tiziana Barillà, autrice del libro Mimì Capatosta (Fandango, 2017), Riace “ha ‘semplicemente’ reso tutti riacesi, chi di nascita, chi di adozione, chi si sente tale pur non avendo mai abitato lì. Il segreto è proprio questo. Ha accolto tutti e, chi è stato accolto, si è di conseguenza sentito in diritto e in dovere di fare altrettanto con chi arrivava. Quante volte noi, attivisti o perfino giornalisti, abbiamo fatto fare il giro del Paese ai ‘visitatori’ se Mimmo aveva da fare? Riace ha riacceso lo spirito che ci aveva portato a Genova nel 2001. Ma Riace non vuole essere un modello. Quello che ha fatto lo ha fatto per un ideale politico. Purtroppo, come avvenuto a Genova, anche Riace è stato attaccato. E oggi è indebolito, ma c’è ancora. Riace era un anticorpo troppo forte ai sovranismi dilaganti”.

Enrico Fierro, giornalista di Il Domani, nel suo intervento spiega i motivi di questo attacco, un attacco al tempo stesso “politico, giudiziario e mediatico. In tutto il processo non è mai uscita la cosiddetta pistola fumante. È stata un’inchiesta politica. Intorno alle accuse mosse a Lucano si è schierato un apparato giudiziario colossale con un solo obiettivo: dare il colpo mortale a Riace”. Per Fierro, però, “non ci sono riusciti, nonostante l’utilizzo di tutti i mezzi possibili”, comprese le intercettazioni che hanno riguardato “40 giornalisti e due magistrati”. La risposta a questo attacco è stata un “attivismo civile mai visto prima”. Fierro porta l’esempio di Giovanna Procacci, sociologa, docente dell’università di Milano, che “è stata presente a ogni udienza partendo, a spese sue, da Milano. A spese sue fermandosi a Locri. A spese sue facendo ritorno a Milano. Il tutto per documentare ogni fase del processo”. Riace, per Fierro, è una storia che ha smosso coscienze. “La comunità che ha costruito questa esperienza merita una sola cosa: rispetto. Come rispetto merita Mimmo Lucano. Perché nessuno di noi ha sulla testa una richiesta di condanna a otto anni di carcere. Nessuno di noi ha la vita devastata dalle richieste di risarcimento della Corte dei conti”.

Fierro ha dedicato a Riace e a Mimmo Lucano un’opera teatrale e spiega così questa scelta: “Chi è Becky, migrante ‘espulsa’ da Riace e morta in un rogo nella tendopoli di San Ferdinando, se non la Medea di Corrado Alvaro, che non chiedeva altro che un pezzo di terra per sé e per i suoi figli? E quante Nausicaa abbiamo incontrato a Riace pronte ad accogliere i tanti naufragi, pronte a dare da mangiare e da bere, ad accogliere chi arrivava? Io ho un’immagine che mi porto dietro di Riace da sempre: le anziane donne riacesi, che si facevano chiamare ‘nonna’ dai bambini migranti”.


(Micromega, 4/2021)

di Rejoice


La storia di Rejoice (pseudonimo), arrivata in Italia nel 2016, è stata raccolta e trascritta da Flavia Bottaro e Clelia Pallotta. Flavia fa parte dell’Associazione AccoglieRete di Siracusa, che dal 2013 accoglie e sostiene migranti minori non accompagnati. L’associazione lavora con tutori, volontari e volontarie, legali.


Appena sono sbarcata ad Augusta, ho avuto tanta paura, c’erano molte persone bianche così come avevo visto molti bianchi in Libia. Avevo 15 anni e sono rimasta spaventata tutta la notte. L’indomani mattina però è venuta una ragazza bianca che si chiama Gloria e parlava la mia lingua, questo mi ha molto meravigliata perché non avevo mai visto un bianco che parla il nigeriano. Gloria mi ha rassicurato perché guardando i miei occhi ha capito che avevo molta paura. Mi ha detto che qui i bianchi non sparano e non mettono bombe e non ti mettono in prigione se ti vedono per strada. Mi ha anche spiegato le cose che fanno qui le nigeriane e cioè che vendono i loro corpi. Io lo sapevo e le ho detto che non volevo farlo anche se la mia famiglia mi aveva fatto giurare che avrei fatto tutto quello che mi diceva la madame. Così le ho detto che il mio desiderio era andare a scuola e poi trovare un lavoro. 
Dopo due giorni passati in una comunità vicino al porto, con il pullman ci hanno portate in un centro in campagna ma prima abbiamo attraversato la città. La prima cosa che ho notato erano le persone che camminavano piano e sembravano tranquille, per strada parlavano e non sembravano spaventate, così ho capito che Gloria diceva la verità perché in Libia non c’era nessuno per strada. 
Quando sono arrivata al centro ho conosciuto Alessia, anche lei parla bene il pigin english. Mi ha spiegato come mi devo comportare in Italia, per esempio non parlare a voce alta o litigare con le mie amiche, non alzare le mani. Vedo infatti che per strada qui non litiga nessuno e mi sembra molto strano perché nella mia città è facile vedere gente che litiga per la strada, che parla gridando. Oppure capita anche che il marito butti fuori di casa la moglie e che litigano e si picchiano e non si fanno problemi a litigare per strada e farsi sentire da tutti quelli che sono presenti o nelle case accanto. Quando uscivamo dal campo con le assistenti, mi faceva ridere sentire parlare italiano perché non ci capivo niente e mi chiedevo di cosa potevano mai parlare così tanto e ridere sempre questi italiani. Però qui per la strada ci sono anche persone che sembrano fuori di testa, me ne accorgo quando li guardo negli occhi. Una volta, per esempio, stavo andando a scuola e camminavo sul marciapiede e uno ha detto “Ehi spostati stupida!” e il suo amico si è messo a ridere, allora io ho guardato dietro di me per capire a chi lo stava dicendo e ho capito che lo diceva a me, ma non ho capito che cosa avevo fatto di sbagliato. Una cosa che vedo spesso qui e che però non mi piace, sono le persone che fumano per strada. Da noi non ci sono tutte queste persone che fumano, specialmente perché se sono donne a fumare per strada vuol dire che sono delle prostitute. Un’altra cosa strana che ho saputo stando qui è che l’orario di lavoro è deciso dalla legge, in Nigeria vedevo mio padre, i miei zii e le persone che conoscevo lavorare dalle 7 di mattina alle 8 o 9 di sera, tutti i giorni.

Quando sono arrivata mi avevano spiegato che avrei avuto un tutore, che è una persona che ti aiuta a fare i documenti. Così quando ho conosciuto la mia tutrice ho pensato: “finalmente è arrivata”. Siamo andate all’ufficio immigrazione della polizia per i documenti e vedevo che erano tutti molto gentili, infatti la mia tutrice mi ha detto che quando vedo persone in divisa non mi devo spaventare. Quando ero al campo non potevamo uscire sole perché le assistenti avevano paura che ci fermassero le persone cattive per farci prostituire. Ormai sono maggiorenne, ma la mia tutrice e la sua famiglia sono come la mia famiglia. Conosco anche tanti loro amici e quando ci sono le festività le raccomandano di invitare anche me e siccome mi vedono nera pensano che sono musulmana e che non mangio il maiale; ma sono cristiana e mangio tutto, anzi non tutto perché ora sono a dieta. Questo mi rende molto felice perché da noi gli amici dei genitori ti considerano piccola fino a quando non ti sposi e alcune volte per strada non ti salutano neanche. In Nigeria non potevo fare amicizia perché quando hanno visto che i ragazzi mi fermavano per strada mia zia mi chiudeva in una stanza e potevo uscire solo con lei o con mia mamma. Qui in Italia mi piacerebbe fare anche amicizia con le mie compagne di classe, ma loro non vogliono perché forse mi vedono più grande, però con i professori scherzo e ridiamo, anche con le suore, anche se mi dicono “Mamma mia Rejoice, stai ferma che mi fai girare la testa e io sono vecchia”, però ridono.

Adesso vivo dalle suore, vado a scuola e frequento il loro laboratorio di cucina, preparo pane, pasta, pizza e dolci e mi piace e mi dicono che sono brava. 
Dalle suore c’è l’asilo per i bimbi e quando faccio i biscotti sentono il profumo e allora alcuni piccolini si affacciano in cucina e so che ne vorrebbero qualcuno, ma il ragazzo col quale lavoro mi dice di non dargliene, ma quando lui si gira e fa finta di non guardare, di nascosto glieli do e loro si mettono a ridere e scappano di nuovo all’asilo. Una delle bambine che viene a prendere i biscotti mi chiama mamma, le dico di non chiamarmi così perché la sua vera mamma potrebbe arrabbiarsi, sua mamma però non si arrabbia e mi dice che la sua bambina scherza sempre con le persone che le fanno simpatia anche se sono nera e così siamo diventate amiche. Quando sono arrivata dalle suore tutte le ragazze che erano già lì mi avevano detto che non mi avrebbero fatto i documenti, invece le suore hanno visto che ho buona volontà, che mi sveglio presto, mi ordino e pulisco la camera come mi ha insegnato la signora che pulisce l’asilo e così ora ho cinque documenti: il permesso di soggiorno per 3 anni, il codice fiscale, il conto alla Posta, la carta di identità e, il contratto di lavoro per 6 mesi. Quando sono arrivata non avevo niente, ma quello che posso fare lo sto facendo. Da quando sono venuta qua ho imparato tante cose che non si facevano nel mio Paese, ho imparato ad essere forte, a fare sacrifici, mi alzo alle 5 e mezzo per lasciare la mia stanza pulita, lavarmi ed essere pronta alle 6 per andare a lavorare nel panificio. Le mie amiche preferiscono lavorare nel laboratorio di ceramica, ma io dico loro che quando usciranno il lavoro sarà nei panifici e nei ristoranti e non nella ceramica. Io non avevo niente e so che non sono brava per tutto, sto imparando tante cose e per questo sono molto felice, le suore mi vogliono bene e la mia tutrice e la sua famiglia mi hanno preso come una figlia e sono libera di chiedere di andare a casa loro nel fine settimana quando non lavoro. Incontro anche Alessia del campo di Capo Corso che quando ero triste mi diceva “forza Rejioce vieni con me, non stare chiusa nella stanza”. Mi piacerebbe restare qua perché qui posso avere un lavoro sistemato bene e le persone mi aiutano; nel mio paese no, per esempio la mia mamma, ora lei è molto arrabbiata con me, perché non mi prostituisco e non le mando tanti soldi. Spero che lei cambi perché altrimenti andrò solo da mio padre, loro sono separati. Un fidanzato lo voglio solo se si comporta bene, perché altrimenti via, quella è la porta! Perché mi sono trovata male nel mio paese e non voglio più che nessun ragazzo mi tratti male.

Qualche volta mi viene nostalgia dei miei posti. Ci penso quando qualcuno mi fa male o mi insulta, penso che se ero nel mio Paese queste cose non mi sarebbero successe; però quando inizio a lavorare dimentico tutto e penso solo al lavoro e così ho trovato il modo per stare bene. 
C’è stata un’esperienza che ho fatto qui che mi è molto piaciuta. Sono andata in Calabria con le suore e, mi hanno portata al circo. C’erano leoni, tigri, elefanti, mi sono divertita tanto, anche quando hanno messo le tigri vicino a dove ero seduta io. C’era un elefante che giocava con il pallone ed era veramente buffo, le persone erano serie ma a me ha fatto ridere tanto e anche dentro al pullman ci pensavo e ridevo; la suora mi ha detto che non mi aveva mai visto così felice. Non avevo mai visto questi animali nel mio Paese, solo in televisione e basta. Comunque credo che anche in Nigeria ci sono gli zoo, ma io non ci sono mai andata. Vicino al mio villaggio ho visto solo dei serpenti e al mercato vendevano i coccodrilli, ma non interi, per fare cose woodo.


(Erbacce, 6 giugno 2021)


1 Nei giorni successivi alla divulgazione di questo appello, il quadro della repressione si è aggravato: alla data del 20 maggio, gli episodi di violenza da parte della polizia sono arrivati a 2387; 51 persone hanno perso la vita, di cui 43 per mano delle forze dell’ordine; 33 persone hanno subito ferite agli occhi. Si sono registrate inoltre 18 vittime di violenza sessuale per mano della Forza Pubblica (ndr).

di Luisa Muraro

 

Pubblichiamo la trascrizione, inedita, dell’introduzione all’incontro per discutere su questa situazione a Sondrio, Centro evangelico, dieci anni fa, 28 ottobre 2008

 

Affronterò l’argomento per una strada che potrebbe forse sorprendere: parlerò – ve lo dico in forma paradossale – in difesa di quelli che chiamano razzisti, di quelli che vengono accusati di essere razzisti. Questo è l’approccio, in contropelo, poi darò i miei argomenti. Vengo qui con materia – se buona o cattiva giudicherete voi – nuova, sono cose che non ho ancora mai esposto, scritto da nessuna parte, vengo ad esporle qui per la prima volta e a discuterne. Discutiamone insieme con franchezza, senza paura di urtarmi, perché a me interessa ascoltare anche chi non è d’accordo. Queste cose propongo di andare ad esporle sempre in contesti dove non ci sono i cosiddetti razzisti. Naturalmente questo va incontro alla preoccupazione di Katarina in una maniera forse non abituale ma vera: dobbiamo ricordarci che il cosiddetto razzismo è nella relazione, nasce nei rapporti tra gli esseri umani, non è mai una cosa di un solo lato. Io sono stata negli Stati Uniti d’America e ho avuto più di un incidente in cui ero investita da risposte del razzismo di rimando. Quella è una società in cui il razzismo si è installato nei rapporti e a me è capitato di essere vittima di attacchi razzisti che venivano da signore afroamericane: il razzismo lo avevano dentro, era nell’aria e lo attribuivano a chiunque avessero visto, l’hanno attribuito a me e quindi si sono difese in maniera razzista da me che assolutamente tale non ero e non sono. Allora il razzismo è un male dei rapporti sociali. Forse ci sarà anche qualcuno che lo è intimamente, che ha dentro di sé l’odio per chi è nero, per chi è ebreo… Ma prima che questa cosa capiti agli esseri umani, è andato male qualcos’altro, che riguarda i rapporti sociali. Questa è l’impostazione mia.

Un’altra premessa. Io ho avuto l’idea di questa inchiesta, che conduco dentro di me, leggendo molto sui giornali – leggo molto quei giornaletti gratuiti, mi portano via un sacco di tempo… perché ci sono e-mail, lettere, fatti di cronaca, i giornalisti e le giornaliste stesse scrivono di corsa, sono giovani, scrivono alla buona, quindi fanno capire tante cose – per un fenomeno che avrà colpito anche voi, e cioè che da dieci-quindici anni circa le classi popolari si sono passo passo spostate verso destra e la cultura politica che chiamiamo di sinistra ha perso presa sulle classi popolari. Da quando c’è il reaganismo, una politica economica fatta per arricchire i ricchi e che non aiuta i poveri, per cui il divario tra i più ricchi e i più poveri non fa che crescere, sia negli Stati Uniti d’America che in Italia che in altri posti, da quell’epoca circa le classi popolari si sono messe a votare la politica di destra, cioè la politica che li danneggia. Ed è una stranezza, tant’è vero che io – scusate la franchezza del mio linguaggio – volevo scrivere a quelli del Manifesto: “Perché dite alle classi popolari che sono razzisti? Dovreste dirgli che sono stupidi”. Ma questo è razzismo verso i poveri. C’è questo strano fenomeno, che è stato notato per la prima volta in Francia. I francesi si sono accorti a un certo momento che pensare in termini di giustizia sociale era diventato un pensiero della borghesia e non era più un pensiero delle classi popolari; sempre di più un pensiero della borghesia colta e che stava diventando una minoranza. E così la destra ha vinto da noi, ha vinto in Francia, finora è stata – speriamo non rimanga – al governo negli Stati Uniti d’America, con il sostegno delle classi popolari. Mi sono convinta che questo fenomeno ha tanti fattori. Ma tra i fattori, secondo me, c’è la difficoltà in cui le classi popolari si sono trovate – parlo adesso dell’Italia – a causa dell’immigrazione dai paesi poveri extra Comunità Europea ma anche Comunità Europea (perché la Romania recentemente è entrata nella CE) e della cultura politica della sinistra che non ha aiutato le classi popolari davanti a questo fenomeno. Io penso che dobbiamo tener conto di due fatti. Il primo è che la immigrazione dai paesi poveri e poverissimi è per l’Italia un fenomeno che è avvenuto tutto molto velocemente. In dieci anni l’Italia ha raggiunto le percentuali di immigrazione che la Francia ha raggiunto in cinquant’anni, la Germania dell’ovest in quarant’anni. Sia la Francia che la Germania dell’ovest hanno avuto modo di elaborare risposte, l’Italia si è trovata rapidissimamente esposta a questa immigrazione che avviene in condizioni drammatiche. E mentre questo avveniva con questa rapidità e intensità, bisogna poi considerare un altro aspetto, che il peso, gli aspetti più deteriori di questa immigrazione così veloce da paesi molto poveri, da culture molto lontane, sono stati a carico delle periferie e dei posti dove abitavano i poveri. Nelle parti ricche, colte, della città, gli immigrati non potevano andare a installarsi. Quindi queste periferie – pensiamo a Torino, a Milano, a Padova, a Verona… io parlo delle città in cui ho conoscenza più precisa, ma poi leggiamo di Napoli, Roma ecc. – sono abitate da una umanità che deve lottare ogni giorno per una dignitosa sopravvivenza materiale e per una tenuta dei rapporti, dove le donne sono impegnate in prima fila a tenere la decenza, un minimo di civiltà e il senso di non essere proprio al fondo della scala sociale. L’altro giorno, parlando di questo argomento con un’amica, dicevo: noi, che abitiamo nel centro di Milano, che cos’è che abbiamo sopportato di questi dieci anni di tumultuosa immigrazione dai paesi poveri e poverissimi? Abbiamo fatto il conto: tra noi – non noi due personalmente, ma tra noi – qualche furto, qualche volta questi furti sono degenerati in ammazzamenti. E, altra cosa, noi abbiamo i fantasmi. Io personalmente non li ho, ma ci sono persone che conosco – e persone anche ottime – a cui i fantasmi dentro la mente arrivano. Ricordo un’amica carissima – e buona perché aveva dato una parte della sua villa a gente che veniva dallo Sri Lanka, prima uno, poi due, tre, quattro, cinque, non faceva il conto – che però aveva il fantasma che gli albanesi fossero troppi. Noi abbiamo questo, ma le altre persone hanno cose pesanti: hanno periferie che sono viali con una prostituzione terribile, perché è una prostituzione in parte non libera, hanno vicini di casa, i furti li hanno anche loro e più in abbondanza, hanno un senso crescente di… Teniamo conto di queste cose. La risposta della cultura politica di sinistra – perché a questa mi rivolgo, e se devo fare una distinzione tra laici e non laici devo dire che i cattolici meritano un discorso meno severo perché qualcosa hanno fatto – è stata di etichettare di razzismo una serie di comportamenti che erano prevalentemente delle classi popolari. Ricordo quindici anni fa un libro di Laura Balbo e Luigi Manconi, due persone egregie, sicuramente piene di buone intenzioni, denunciava che gli italiani sono razzisti. All’epoca questo era veramente non vero, e questo è stato poi il registro su cui ha camminato soprattutto la stampa e la cultura della sinistra.

Qui entro nel merito della questione – e, ripeto, se poi volete contraddire o spostare è ben accolto da parte mia, ascolterò fino in fondo qualsiasi obiezione. L’accusa di razzismo è ormai diventata un luogo comune, e non risparmia le classi popolari. Anzi, quasi sempre gli episodi che provocano l’indignazione dei buoni, delle persone che hanno coscienza, senso religioso, senso di civiltà umana verso gli immigrati poveri, gli episodi che provocano queste accuse di razzismo, sono episodi che hanno visto come protagoniste le classi popolari. Ora, io sostengo che è ingiusta questa accusa. Nel mio linguaggio dico che è una facile accusa. Ma in prima istanza dico che l’accusa è ingiusta (poi dico perché), è controproducente (non aiuta nessuno, anzi) ed è politicamente suicida (quando viene mossa, come spesso avviene, da esponenti della cultura politica di sinistra).

È ingiusta perché riassume in una etichetta molto pesante – razzismo – reazioni, comportamenti che sono molto vari. Si chiama razzismo (dai tempi di quel libro che citavo) un insieme di comportamenti che forse – anzi, senz’altro – sarebbe più giusto chiamare con altri nomi. C’è indubbiamente il nome – che si è anche trovato ma è poco familiare, anche se tecnicamente sarebbe più giusto – di xenofobia. Io sono stata in paesi razzisti, sono anche stata fidanzata con un magrebino, a Parigi, e vi assicuro che lì il razzismo verso gli arabi c’è e non è la stessa cosa di quello che qui si chiama razzismo: a chi è razzista non importa che uno sia istruito, che sia ricco, che si comporti educatamente; chi è razzista non sopporta quell’altro per la differenza che incarna. Qui in Italia invece c’è una forma diffusa di xenofobia unita al disprezzo per i poveri, che è cosa orribile. Alcuni dicono che è un popolo di ex poveri, sono stati poveri fino a una-due generazioni fa, si sono sfangati dalla povertà e disprezzano, per paura della povertà, i poveri. Può darsi che sia questo. Comunque c’è xenofobia, che è fatta molto del disprezzo dei poveri. In Italia, se si presenta una famiglia africana o asiatica ricca, che si comporta all’italiana e che riesce a parlare l’italiano, state sicuri che nessuno la guarda male. Le classi popolari non guardano male le persone. C’è piuttosto una insofferenza per la povertà e per la diversità dell’altro: l’altro, che è povero, che mette in pericolo la mia dignità, che ha comportamenti… Ho visto nella provincia veneta cattolica il fatto di persone come i musulmani, che sono persone dignitose, molto riservate, lavoratori ecc., che però pregano così tanto, questa richiesta di avere un posto dove pregare urta, che cosa? Il cristianesimo ormai sepolto sotto montagne di indifferenza religiosa, ma il cristianesimo residuale che è una forma di localismo, di provincialismo. Si sta attaccati a un cristianesimo tradizionale, non più vivo, non più sentito, e allora si vede l’altro, l’islamico, che invece ci crede, ci crede tantissimo, lo si vede come qualcosa di fastidioso, e pochi, pochissimi, ricordano a questa popolazione locale, indigeni, che è lo stesso dio che quelli stanno pregando. Io ho provato a farlo anche con persone colte e quelli dicevano: no, no. C’è questa ignoranza, non assoluta (le loro tradizioni le conoscono), ignoranza degli altri ecc. Tutta una serie di cose negative, deteriori se volete, anche, talvolta, ma che non sono razzismo. Non lo sono in senso stretto. Ed è sbagliato chiamarle così. Io ho detto: è ingiusto.

Poi ho detto: questa accusa è controproducente. Perché? Perché offre una interpretazione – “è razzismo” – di comportamenti che sono negativi ma sono confusi, sono reattivi, nascono da disagio, da ignoranza…, comportamenti che gli interessati non riuscivano e non riescono a capire bene di cosa si tratti. Teniamo conto che questa è una società dove c’è una divisione del lavoro del pensiero, è una divisione anche pesante: ci sono persone che tutto il giorno fanno lavoro manuale, lavoro esecutivo, lavoro ripetitivo, e c’è una minoranza, che per fortuna è meno piccola di una volta, di persone che si dedicano al lavoro del pensiero. Quelle che si dedicano al lavoro del pensiero, che si chiamano anche intellettuali, hanno il compito di offrire le interpretazioni agli altri. Gli altri dipendono. A me non piace che la situazione sia questa, ma questa è la situazione. Chi ha tempo e strumenti per leggere, ragionare, pensare ecc. ha il compito – non so se è un dovere, io penso di sì – di spiegare continuamente, di capire quanto a sé, di far capire ad altri di che cosa si tratta. Se io riassumo in un’etichetta – “è razzismo” – la complessità di comportamenti nati in situazioni difficili, io spingo l’altro verso questo esito. Così siamo passati – ormai è documentato – dalla vecchia frase “Io non sono razzista, ma… quando vedo questi qui che pisciano agli angoli di strada, quando vedo tutte le lattine buttate, quando sento i latinos che fanno caciarra alle quattro del mattino ecc.”, al fatto che la madre e moglie di quei due che hanno ucciso il ragazzo italiano che veniva dal Burkina Faso ha detto “Io sono razzista”. Siamo arrivati a questo. E nella cultura politica di sinistra – quella che io voglio chiamare a un cambiamento – la prima frase, “Io non sono razzista ma…”, veniva presa in giro. Cioè lo sforzo di queste persone meno attrezzate rispetto alle pulsioni deteriori, xenofobe, insofferenti e intolleranti, lo sforzo che facevano di resistere veniva irriso, lo si prendeva come una falsità, invece di riconoscere lì lo sforzo per resistere. Alla fine si è rivelato controproducente, insomma si è lavorato contro. Come dice il famoso proverbio cinese, se vuoi far sì che un uomo diventi ladro, basta che tu gli dica: “Sei un ladro”, glielo dica oggi, domani… alla fine della settimana quell’uomo sarà un ladro. E si è fatto, si sta facendo in questo modo. Fino a che si arriva a che questa signora – a me ha fatto pena – ha proclamato di esserlo lei, razzista. Intendiamoci bene: in tutta questa situazione che si sta degradando della cultura di base della società italiana, soprattutto tra le classi meno privilegiate, la destra porta responsabilità più grandi di quanto non ne porti la sinistra. Nel libro che ho appena scritto le ho paragonate alle responsabilità di quegli uomini, soprattutto del clero, in un primo tempo, ma poi anche non del clero, che hanno fomentato la paura popolare verso le streghe, scatenando la persecuzione, la caccia alle streghe – questi sono posti che ne portano tracce. La caccia alle streghe è stata fomentata dalle classi alte. (Il libro si intitola Al mercato della felicità, è la seconda puntata del Dio delle donne; la figura che dà il titolo è una vecchia donna che va al mercato poverissima, con pochi mezzi, gli altri ridono di lei ma lei va al mercato per comprare il massimo, la felicità.) La destra sta facendo questo, quindi ha una responsabilità più grande. Perché spogliare le classi popolari della loro cultura tradizionale, portarli a, spingerli a, autorizzare comportamenti xenofobi, di odio nei confronti dei più poveri, tutto questo spoglia le classi popolari di aspetti preziosi della loro cultura, in primis la religione cristiana, e questo è molto molto grave. Ma io non mi soffermo sulle responsabilità della destra, non è questo il mio target. Noi siamo imputabili della interpretazione sbagliata che diamo di certi comportamenti delle classi popolari. E siamo imputabili di non cercare giustificazioni, quando pure ci sono, di non cercare di capire l’altro; non l’altro che viene da fuori. Chi vuole aiutare il povero che sbarca in Italia deve aiutare le classi popolari, perché sono loro che se lo ritroveranno addosso, non sono io che abito in Porta Ticinese, e che ho tutta la cultura necessaria e che faccio un lavoro… Sono le classi popolari le più gravate da questa cosa, e bisogna capire. Dopo di che, in pratica, sono anch’io una che baruffa con le cassiere di supermercato perché danno segni di fastidio verso i poveri, non è che io sia una prima della classe, che sa mettere bene in pratica quello che vi sto dicendo adesso: qualche volta mi è andata bene, qualche volta non ce l’ho fatta, perché ero disgustata dal vedere la cassiera disprezzare il poveretto. Quando ho vinto il disgusto, ho vinto il mio snobismo, il mio spirito di prima della classe, e sono riuscita a parlare, ho visto che in genere l’ascolto viene. Questa gente, se viene aiutata… Le amiche di mia sorella più anziana di me, che vive nella provincia veneta, lei mi diceva che parlano sempre male degli immigrati, dei rumeni, degli zingari… Io ci ho parlato insieme ad alcune di loro, ero calma e ho visto che si può fare breccia.

Infine, dicevo che l’accusa di razzismo molto spesso è politicamente suicida. Non ci vogliono molte spiegazioni per capirlo. La destra ha giustificato e autorizzato gli atteggiamenti deteriori delle classi popolari, pensate a quel sindaco o vicesindaco che aizza tutti quelli che rifiutano di ospitare le moschee e la presenza degli islamici nel loro quartiere. I comportamenti incivili sono diventati purtroppo, non dico modello o esempio, ma le classi popolari sono state spinte ad assumere certi atteggiamenti anche da questi… Però la destra ha anche coltivato gli atteggiamenti provinciali localistici, l’uso del dialetto… Queste cose non hanno in sé niente di brutto, l’uso del dialetto fa parte della cultura italiana (e forse anche svizzera): l’italiano è una bella lingua che naviga sopra dei bellissimi dialetti.

La sinistra, davanti a questa offensiva, si è soprattutto contrapposta. Fino ad arrivare a quello che abbiamo visto in queste ultime settimane, polemiche dove c’è: “Questo è razzismo!” “No, questo non è razzismo”, grida il ministro degli interni. “Altroché se non è razzismo!”… Ha fatto bene il vescovo di Milano, Tettamanzi, che è un uomo secondo me di giudizio, di finezza politica e culturale, a dire: “Le parole possono diventare pietre, non tiriamole troppo facilmente addosso agli altri”. L’ha detto proprio mentre c’era questa specie di scambio…

Ma soprattutto questa semplificazione dell’accusa di razzismo – che dal punto di vista umano ho già detto che può essere ingiusta, e fare ingiustizia ai poveri è sempre qualcosa che se Dio esiste non la prende bene, perché i poveri gli sono specialmente cari – dal punto di vista politico ha un effetto deteriore, di coprire i veri problemi. Vi faccio l’esempio. Tor bella Monaca, un quartiere di Roma dei più difficili, ho delle amiche suore che ci lavorano (suore: veramente sono più fuori che dentro perché la loro libertà e le loro scelte non sono piaciute alla famiglia religiosa), hanno preso un appartamento e vivono là: io so la lotta che fanno, da anni, ci sono anche altri che lottano, in questo quartiere che è sempre minacciato del peggio. C’è stato un cinese che una banda di ragazzotti ha aggredito in maniera bruttissima… Tenete conto che là c’è gente aggredita tutte le settimane, donne uccise più di una all’anno, uccise in casa dai maltrattamenti ecc., e queste mie amiche portano il peso di questa sofferenza, sono eroiche; in un libro che ho pubblicato con Marietti, Il posto vuoto di Dio, c’è una di queste suore che racconta come una del giro delle sue amiche è stata trovata ammazzata dal marito tornato dal carcere, non so per quale pretesto la poveretta è stata massacrata: questo è il quartiere. Allora, avviene l’incidente del cinese a Tor bella Monaca, si riaccende il discorso “è razzismo”, “non è razzismo”. No, vivaddio! Non è il problema di Tor bella Monaca il razzismo! Certo che se ci sono ideologie razziste che girano, in quello sventurato quartiere c’è anche quello, ma la cosa non è in quei termini lì che va trattata (e poi qualcuno è intervenuto a dire “si deve esaminare quello che è”). Il razzismo sono giochi verbali di ragazzi violentissimi che se gira che si va a caccia di prostitute, vanno a caccia di prostitute, se c’è un’altra cosa girano con altre parole. Il problema di fondo non era quello. Queste accuse di razzismo nascondono le inadempienze delle amministrazioni pubbliche e degli enti pubblici che dovrebbero provvedere. La immigrazione di questi quindici anni è andata in crescendo e l’edilizia pubblica non ha offerto nulla. Una mia amica, Lia, che lavora per la Lega delle cooperative, dice che i cooperatori continuano a chiedere alla Regione di stanziare soldi, l’addetto della Regione non si presenta neanche più alle loro assemblee a dire “Sì, stanzieremo…” perché è subissato dai fischi. Quando sono arrivati i meridionali sono stati fatti dei quartieri, brutti, ma glieli hanno fatti, perché avessero da abitare. Adesso sono arrivati questi, i quali sono lavoratori, è tutta gente, per tre quarti, che lavora effettivamente, che è necessaria all’economia, sia nel Veneto che in Lombardia: le amministrazioni pubbliche non hanno provveduto. Ci sono situazioni abitative a Milano che sono indegne, sotto i portici… Se poi qualche giornalista si degna di andargli a chiedere – quelli dei giornaletti magari vanno -, più della metà è gente che lavora, che ha un lavoro e che non ha un bagno, un gabinetto, una stanza, un posto dove fare all’amore, non ha niente, stanno sotto dei portici. Questo è quanto. La bravissima Gabanelli della trasmissione Report, l’ha detto domenica scorsa. Ha parlato di una cooperativa di pensionati – uomini della migliore sinistra milanese, uno è il figlio di Lelio Basso – i quali e lavorando gratis e andando a tampinare la Cariplo ecc., hanno messo su una cooperativa che adesso si paga con gli affitti. Sono case che hanno dato sia a extracomunitari sia a italiani, e hanno fatto bene a metterci anche gli italiani, perché non bisogna suscitare invidie dei poveri verso gli altri poveri.

Insomma – adesso finisco veramente – che cosa fare? (Qui avevo scritto qualche giustificazione, ma non importa, non devo giustificare i miei amici e compagni e gli intellettuali ai quali sono più vicina, devo andare avanti per questa mia strada, spero che mi ospiteranno, chiederò al Manifesto, a Diario, se vogliono ospitare questa messa sotto accusa critica, cercherò di non cadere anch’io nel difetto di fare il grillo parlante che dice agli altri…) La domanda di fondo che io vorrei fare a questi intellettuali e politici della sinistra così pronti ad accusare le classi popolari di razzismo, è questa: perché le classi popolari dovrebbero farsi carico loro degli effetti della globalizzazione, che è una forma di economia che fa arricchire i già ricchi e che non sta affatto aiutando di poveri? Perché dovrebbero essere loro? Ci sono paesini del Veneto in cui quasi metà della popolazione sono immigrati: per questi paesi salvare la propria identità culturale è diventato molto difficile, sono frastornati. Loro sono abituati a parlare in veneto, sono abituati a fare le loro sagre… Ci si può ridere sopra su questi bisogni, ma sono bisogni per la coesione sociale, loro devono trovare il modo di intrecciarsi, di restare intrecciati, che era l’unico modo per tirare su i figli e per evitare il degradarsi di una malavita, l’entrata della droga e altre cose. Questa gente è messa in difficoltà da questa massiccia immigrazione. Certo che il ragionamento della Confindustria è sacrosanto: questi portano ricchezza, lavoro ecc. È verissimo, però è anche vero che il beneficio della globalizzazione alle classi più popolari non è ancora arrivato.

Adesso voi dite: ma tu cosa ci proponi di fare? Le mie proposte sono queste due.

Raddrizzare il tiro delle denunce, e prendere esempio in questo dalla Gabanelli (in Report ha detto tre parole, ma comunque…). Poi, naturalmente, cercare di sviluppare una intelligente comprensione di certi comportamenti. Quello che prima dicevo in senso evangelico: attenzione a non fare ingiustizie ai poveri perché sono cari a Dio. E i poveri non sono solo quelli che arrivano con i barconi, i poveri sono anche quegli altri, li conoscete, forse voi stessi, qualcuno tra voi appartiene a questa categoria, di gente che deve spendere tutte le sue forze, le sue energie per lavorare, perché non ha altro che il suo lavoro per sopravvivere.

E la seconda cosa è: riformare la cultura politica della sinistra con il pensiero politico delle donne. Pensiero politico delle donne che dà un’alta, altissima importanza alla decenza delle strade e delle case. Pensiero semplicissimo, ma le donne danno molta importanza alla dignità e decenza dei luoghi. Pensiero politico delle donne che poi non è mai caduto nell’errore di rafforzarsi con la contrapposizione destra-sinistra. In questa storia che vi ho raccontato – a modo mio, naturalmente – io vedo una parte della stupidità del maschile unico. C’è il pensiero unico, ma c’è anche il maschile unico, che vuol dire una politica che sente gli argomenti degli uomini, sente la sensibilità degli uomini, rispecchia i loro modi preferiti di fare e non si fa in qualche maniera spostare. L’esempio che qui porto è la discussione che ho avuto – tra l’altro con una donna, ma di partito – a proposito della prostituzione sulle strade. Era successo che delle donne, credo a Mestre, fossero scese in strada per cacciare le prostitute e i loro clienti: la sinistra l’ha trovato un comportamento di destra, e io a discutere… Gli uomini possono essere degli ipocriti padri di famiglia, che cacciano le prostitute ma poi cercano di andare, se magari glieli facessero, al bordello. Gli uomini. Ma le donne no, le donne si sentono umiliate dalla vista delle prostitute, e sentono più difficile il loro compito di madri di famiglia e di mogli dalla vista di questa cosa. Questi ragionamenti la sinistra deve poterli fare, e devono poter pesare. Non si può essere sempre i più bravi, i più illuminati, i più democratici. Ci sono problemi che domandano un impegno meno semplificato, che domandano più ascolto, di più voci.

Questo è quello che avevo da dirvi, adesso sta a me ascoltare e vi ringrazio in anticipo di quello che vorrete dirmi, in bene in male, pro contro, aggiunte…


(www.libreriadelledonne.it, 6 luglio 2018)

di Franca Fortunato

È passato alla storia come il sindaco che ha ridato vita a un borgo altrimenti destinato allo spopolamento e all’abbandono. Eppure Domenico Lucano, o meglio “Mimì Capatosta”, il sindaco che ha trasformato Riace da paese dei Ruga, potente famiglia mafiosa che domina nella zona di Locri, in paese dell’accoglienza per chi arriva sulle nostre coste da paesi dilaniati da guerre, carestie e fame, negli ultimi mesi è stato oggetto di tre ispezioni – una richiesta da lui stesso – da parte della Guardia di Finanza, a cui sono seguite tre relazioni della Prefettura di Reggio Calabria e del Ministero degli Interni, una negativa e due positive a cui ha fatto seguito un avviso di garanzia della Procura di Locri per “abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche in relazione alla gestione del sistema di accoglienza”. Per inciso, delle tre relazioni solo quella negativa, che non nega i risultati positivi del modello Riace, è stata consegnata al sindaco e data in pasto a giornali come “Il Giornale”, che secondo il suo stile ha tentato di dare avvio a una campagna diffamatoria. Un gruppo di fascisti, agitando quella relazione, ha organizzato a Riace una manifestazione contro Lucano e gli immigrati, ma è fallita. La notizia clamorosa dell’avviso di garanzia ha scatenato sconcerto, indignazione e tanta solidarietà per la fama che ormai accompagna nel mondo il “modello” Riace. Dietro a tutto questo tanti/e hanno visto il tentativo – da parte delle Prefetture e del Servizio centrale dello Sprar che opera in nome del Ministero – di porre fine, o al meglio ostacolare, un’esperienza che tutto il mondo ci ammira e ci invidia e che molti Comuni, dentro e fuori la Calabria, hanno cominciato a copiare. Troppo successo per Riace e il suo sindaco, in un momento in cui la fortezza Europa, che ha perso la sua anima, si chiude su stessa e l’Italia firma un accordo con i libici che il responsabile Onu per i diritti umani, Zeind Ra’ad Al Hussein, ha definito “un’offesa alla coscienza dell’umanità”, per impedire con ogni mezzo alle/ai migranti l’attraversata del Mediterraneo. Nel 2009 si celebravano a Berlino i vent’anni dalla caduta del muro, il regista Wim Wenders, nel presentare il suo film su Riace “Il volo”, di fronte a dieci Nobel per la pace ebbe a dire: «La vera civiltà, la nostra speranza come Europa io l’ho incontrata a Riace, un piccolo paese della Calabria». La rivista americana Fortune per il 2016 ha inserito Lucano tra i 50 uomini più influenti del mondo. La Rai ha pensato di girare una fiction con Giuseppe Fiorello per raccontare la storia di Lucano e di Riace e, dopo l’avviso di garanzia, c’è qualcuno che sta tentando di impedirne la messa in onda, prevista per il prossimo febbraio. Troppo successo in giro per il mondo. Troppo successo per terra di Calabria dove a molti sta bene continuare nella narrazione di una terra di ’ndrangheta e anti-’ndrangheta, senza possibilità che accada altro. Riace sta lì a dire che altro è già accaduto, che un’altra politica, un’altra Calabria, un altro mondo non solo è possibile ma che già esiste, grazie a un sogno, a un’idea, che Domenico Lucano si portava dentro e che, aiutato dalla sua gente e dai suoi compagni e compagne d’avventura, ha saputo trasformare in realtà, quello di fare del suo paese una Riace aperta, accogliente, solidale, dove la sua gente potesse vivere in pace con chi “forestiera” arriva sulle nostre coste col sogno di potersi costruire una nuova vita. A Riace, chi arriva, finito il periodo previsto dai progetti Sprar, a cui aderisce, può restare e continuare a lavorare nei laboratori artigiani riportati a nuova vita; può restare e lavorare nelle cooperative che gestiscono l’accoglienza, può continuare a mandare i propri figli e figlie a scuola e all’asilo che così restano aperti; può continuare a curarsi nell’ambulatorio aperto dal Comune e gestito da medici volontari. Chi vuole, insomma, può scegliere tra partire o restare. Da quando Mimmo Lucano è sindaco sono passati da Riace circa seimila migranti, molti sono rimasti e oggi su 1800 abitanti 600 sono stranieri. Ma questo non è previsto dai regolamenti dei progetti Sprar che obbligano, dopo sei mesi, a mandare via chi esce da tali progetti. Da qui una delle criticità contestate al sindaco. Lucano avrebbe speso 638mila euro senza giustificazione. Lui ha replicato che quei soldi sono serviti per quel 30 per cento di migranti che hanno superato i 6 mesi del periodo massimo di permanenza, e che quindi quel denaro non è sparito nel nulla, è stato contabilizzato e speso. Il conflitto aperto tra maschi è tutto politico, tra due modi di concepire l’accoglienza: emergenza o opportunità? La condizione di masse di immigrati nullafacenti concentrati per lungo tempo nei Cara, in attesa di conoscere il proprio destino, o abbandonati a se stessi ed emarginati in tante nostre città, dove la solidarietà ha il volto di chi va in loro soccorso, violando la legge “Minniti-Orlando” e le ordinanze dei sindaci, sono la diretta conseguenza di quella visione emergenziale che ha dato fiato alle mafie, alla corruzione, al razzismo, alla xenofobia e al fascismo fino ai vergognosi accordi con la Libia. Il modello Riace è tutt’altro, è una nuova civiltà a cui l’Europa non sa guardare e neppure chi ci governa. Nessun muro, nessun filo spinato, reale o simbolico, sarà mai innalzato a Riace. Nessun migrante sarà mai emarginato o cacciato dal paese, anche se questo vuol dire disubbidire a un regolamento redatto dal Ministero degli Interni, perché la civiltà delle relazioni umane si pone sempre al di sopra della legge. Quando la legge obbliga alla cieca obbedienza, è la capacità di pensare che viene meno e tutto diventa fredda burocrazia. Quanto questo sia pericoloso lo ha argomentato bene Hannah Arendt in “La banalità del male” a proposito del processo ad Eichmann a Gerusalemme, un burocrate incolore, fedele servitore della macchina nazista di sterminio degli ebrei. Lucano è un uomo di pensiero, di passione politica, di amore per la giustizia più che per la legalità, come ha ripetuto con emozione anche alla grande manifestazione di solidarietà nell’anfiteatro (costruito dove c’era una discarica) del 13 ottobre scorso (dove c’ero anch’io insieme a Serena Procopio. Questa estate, insieme ad altre donne della rete delle Città Vicine, abbiamo partecipato al Riace festival dove abbiamo presentato il nostro libro sull’Europa, edito dalla Mag di Verona e curato da Loredana Aldegheri, Mirella Clausi, Anna Di Salvo).
Là dove c’è pensiero libero si fa strada la creatività, l’inventiva, che sa aggirare gli ostacoli e trovare le soluzioni giuste. Il 18 luglio 2012 Lucano fa lo sciopero della fame per chiedere lo sblocco dei fondi che non arrivavano da un anno. Risolta la situazione, Mimì capisce che il problema si ripresenterà in futuro e perciò si ingegna per trovare una soluzione definitiva. Si inventa allora i bonus, una sorta di moneta locale che ha la stessa funzione dei “buoni pasto” che dipendenti pubblici e privati usano per fare la spesa. I migranti possono così fare la spesa a debito e i commerciati cambiare i bonus in euro all’arrivo dei finanziamenti. Ad avvantaggiarsene è l’intera economia del paese. Migliaia di euro, che sarebbero serviti per pagare gli interessi alle banche per avere gli anticipi di cassa, vengono così risparmiati e utilizzati per “borse lavoro” ai migranti. Lo stesso sistema si è poi diffuso in molti Comuni limitrofi: Camini, Gioiosa Ionica, Stignano, Caulonia, Acquaformosa. Per sette anni la Prefettura l’ha accettato ma non il Ministero che, anziché estendere la trovata di Lucano a tutti i Comuni che aderiscono ai progetti Sprar, gli ha intimato di sospendere i bonus perché “in Italia è vietata l’emissione di moneta e di qualsiasi suo sostituto”. Lucano non obbedisce e oggi viene indagato per irregolarità. Ma, ci si chiede, perché non si dichiarano allora illegali anche i “buoni pasto”? Non sarà che si vogliono favorire le banche, costringendo Riace e gli altri Comuni che hanno adottato i bonus a prestiti bancari con relativi interessi? Altro addebito mosso a Lucano è l’affidamento diretto dei servizi, senza bandi, dimenticando che – come lui scrive nella sua controrelazione – è stata proprio la Prefettura ad invocare questo metodo con «continue ed impellenti richieste di posti straordinari da attivare “con immediatezza”, per sistemare quanti più migranti possibili, arrivati al porto di Reggio Calabria». Un paradosso. E poi c’è anche l’affidamento diretto delle abitazioni sfitte sprovviste di “idoneità all’accoglienza o destinazione d’uso, l’osservanza delle norme edilizie-urbanistiche (compresi i certificati di agibilità e abitabilità), di abbattimento delle barriere architettoniche, di sicurezza degli impianti e antincendi”. Assurdo!! E ancora, la chiamata diretta anche per gli operatori, 80 in tutto, quando la chiamata fiduciaria è prevista per legge, così come la proroga. E poi c’è l’accusa di parentopoli. Chiarito che Lucano è separato dalla moglie che insieme ai figli vive fuori della Calabria, c’è da dire insieme a lui «che è inevitabile che in un paese piccolo ci siano alloggi di proprietà di soggetti legati da vincoli di parentela con personale in servizio presso l’Ente gestore». Insomma una montagna di accuse, di rilievi di criticità che hanno tutto il sapore di chi rema contro Riace e il suo sindaco. Ma il tutto si sta rivelando un boomerang.

(Casablanca – Le Siciliane, novembre-dicembre 2017)

Intervista a Antonio Silvio Calò
realizzata da Paola Sabbatani, Lelia Serra

La straordinaria storia di una famiglia del trevigiano che di fronte alle tragedie del Mediterraneo decide di raddoppiare, da sei a dodici, il numero degli abitanti della loro casa; l’incredulità dei funzionari delle istituzioni e, poi, l’ostilità iniziale del vicinato; i sei giovani “rifugiati” che non bighellonano mai, che vanno a scuola e al doposcuola pomeridiano, che aiutano i vicini nel sabato, che fanno un tirocinio lavorativo; un “modello” che funziona. Intervista ad Antonio Silvio Calò.

 

An­to­nio Sil­vio Ca­lò, in­se­gnan­te di scuo­la me­dia su­pe­rio­re, spo­sa­to con quat­tro fi­gli, vi­ve a Ca­ma­lò, in pro­vin­cia di Tre­vi­so. La sua espe­rien­za di ac­co­glien­za è di­ven­ta­ta fa­mo­sa an­che ol­tre i con­fi­ni na­zio­na­li.

Ci pia­ce­reb­be che rac­con­tas­se dal­l’i­ni­zio co­me la vo­stra fa­mi­glia è ar­ri­va­ta a pren­de­re que­sta de­ci­sio­ne di ac­co­glie­re ri­fu­gia­ti.
Nel 2015, mar­zo, apri­le, si so­no ve­ri­fi­ca­ti una se­rie di even­ti mol­ti tra­gi­ci uno die­tro l’al­tro; il 18 ce n’è sta­to uno mol­to dram­ma­ti­co a Lam­pe­du­sa con cen­ti­na­ia di mor­ti. Di fron­te a que­ste im­ma­gi­ni, ma an­che al­le pre­ce­den­ti, de­vo es­ser sin­ce­ro, quel gior­no, il 18, lo ri­cor­do co­me fos­se ades­so, ho det­to no, ba­sta, dob­bia­mo fa­re qual­co­sa. Ora non è che noi ab­bia­mo tan­te co­se. Ab­bia­mo la ca­sa. Ho pro­po­sto, met­tia­mo a di­spo­si­zio­ne la no­stra ca­sa. Mia mo­glie era d’ac­cor­dis­si­mo, ho con­sul­ta­to an­che tut­ti i fi­gli per­ché non avrei mai pre­so una de­ci­sio­ne di que­sto ge­ne­re, che com­por­ta­va un ta­le cam­bia­men­to nel­la con­di­vi­sio­ne de­gli spa­zi del­la ca­sa, sen­za il lo­ro con­sen­so.
Il 20 apri­le o il 21, non ri­cor­do, pri­ma di re­car­mi in pre­fet­tu­ra ho det­to a mia mo­glie: “Ve­drai che ci sa­ran­no al­tre fa­mi­glie che han già fat­to que­sta scel­ta quin­di po­tre­mo crea­re una re­te, ci po­tran­no con­si­glia­re su co­sa fa­re e non fa­re”. Quan­do so­no sta­to da­van­ti al fun­zio­na­rio del­la pre­fet­tu­ra su­bi­to c’è sta­to un qui pro quo: lo­ro pen­sa­va­no che noi aves­si­mo una se­con­da o ter­za ca­sa in cui ospi­tar­li. Quan­do ho chia­ri­to che sa­reb­be­ro ve­nu­ti a sta­re a ca­sa no­stra, la ri­spo­sta è sta­ta: “Ma lei è fuo­ri com­ple­ta­men­te!”. E quan­do ho det­to: “Ma ci sa­ran­no al­tre si­tua­zio­ni co­me la no­stra…”, l’i­spet­tri­ce mi ha ri­spo­sto: “No, guar­di, non c’è nes­su­na si­tua­zio­ne di que­sto ge­ne­re, né qui né a Tre­vi­so o nel Ve­ne­to… Io cre­do che lei sia il pri­mo in Ita­lia che fa que­sto ti­po di ac­co­glien­za”. A quel pun­to ci so­no ri­ma­sto an­che ma­le, ave­vo im­ma­gi­na­to una si­tua­zio­ne ben di­ver­sa. An­che per­ché quel­lo vo­le­va di­re che non c’e­ra nep­pu­re una le­gi­sla­zio­ne in ri­fe­ri­men­to al­l’ac­co­glien­za fa­mi­lia­re.
C’e­ra­no i cen­tri di ac­co­glien­za ma non c’e­ra la pos­si­bi­li­tà di ac­co­glie­re im­mi­gra­ti per i pri­va­ti?
Per i pri­va­ti so­lo in ca­so di emer­gen­za, co­me in quei gior­ni, poi è di­ven­ta­to tut­to mol­to più dif­fi­ci­le. Ci do­ve­va­mo ap­pog­gia­re a qual­cu­no. Su­bi­to mi ven­ne in men­te una coo­pe­ra­ti­va di un ex pro­fu­go ma­roc­chi­no, ora ita­lia­no, ve­nu­to in Ita­lia 23 an­ni fa, che in quel mo­men­to sta­va co­min­cian­do a far ser­vi­zio pres­so la pre­fet­tu­ra per i pro­fu­ghi. Que­sta per­so­na, un ca­ris­si­mo ami­co con cui ab­bia­mo fat­to tan­te espe­rien­ze in­sie­me, com­pre­so un viag­gio in Ma­roc­co, mi ha det­to su­bi­to che ci sa­rem­mo po­tu­ti ap­pog­gia­re a lo­ro, man­te­nen­do la mas­si­ma li­ber­tà per fa­re quel­lo che ci sem­bra­va più op­por­tu­no. Que­sto è sta­to ad apri­le. Poi a mag­gio il no­stro par­ro­co ha aper­to la pro­pria ca­no­ni­ca a tren­ta­due ra­gaz­zi. Era una si­tua­zio­ne di emer­gen­za e mia mo­glie an­da­va pra­ti­ca­men­te tut­ti i gior­ni a in­se­gna­re un po’ di ita­lia­no. Io an­da­vo ap­pe­na po­te­vo, so­prat­tut­to la se­ra, per ca­pi­re com’e­ra or­ga­niz­za­ta la co­sa. Di­scu­te­vo con lo­ro, cer­ca­vo an­che di com­pren­de­re so­prat­tut­to le mo­ti­va­zio­ni ma an­che le aspet­ta­ti­ve che li spin­ge­va­no a in­tra­pren­de­re que­sti viag­gi in­cre­di­bi­li. E quel­lo ci è ser­vi­to mol­to.
Co­sì ab­bia­mo da­to la di­spo­ni­bi­li­tà al­la pre­fet­tu­ra da due a un mas­si­mo di sei per­so­ne. Ri­cor­do che mia mo­glie dis­se che a quel pun­to, vi­sto che ci era­va­mo de­ci­si a quel sal­to, po­te­va­mo of­fri­re la pos­si­bi­li­tà al­le ra­gaz­ze so­prat­tut­to, per­ché le ra­gaz­ze, co­me pur­trop­po si sa, pa­ti­sco­no co­se non di po­co con­to. Ag­giun­se: “Guar­da, an­che se ar­ri­va­no già in­cin­te, le pren­dia­mo lo stes­so per­ché in fa­mi­glia è tut­ta un’al­tra co­sa ri­spet­to a cer­ti cen­tri d’ac­co­glien­za”. A Tre­vi­so, pe­rò, in quei me­si, di ra­gaz­ze non ne so­no pro­prio ar­ri­va­te. L’8 giu­gno del 2015 la pre­fet­tu­ra mi ha te­le­fo­na­to per dir­mi che ave­va­no bi­so­gno dei po­sti che ave­va­mo of­fer­to per­ché ar­ri­va­va­no sei ra­gaz­zi. La chia­ma­ta era sta­ta ver­so le 12, al­le 19 di se­ra era­no già tut­ti qua. Quin­di ab­bia­mo do­vu­to pre­pa­ra­re tut­to: i let­ti, che so­no ar­ri­va­ti con­tem­po­ra­nea­men­te a lo­ro, e tut­to il re­sto. È sta­to ve­ra­men­te un mo­men­to par­ti­co­la­ris­si­mo: la no­stra stra­da, co­me ave­te vi­sto, è chiu­sa e ci si è in­fi­la­ta que­sta cor­rie­ra che pro­ve­ni­va dal­la Si­ci­lia, con 50 per­so­ne, die­tro c’e­ra la po­li­zia, e ne so­no sce­si que­sti sei con il lo­ro sac­chet­to ne­ro del­l’im­mon­di­zia do­ve ave­va­no un cam­bio. È sta­to un mo­men­to par­ti­co­la­re. Tut­to il quar­tie­re si era af­fac­cia­to, gli sguar­di di gran par­te di lo­ro era­no un po­co tru­ci, osti­li…
Di do­ve era­no i ra­gaz­zi? E co­me è sta­to l’im­pat­to?
I pri­mi sei, di­co pri­mi e do­po spie­ghe­rò per­ché, era­no due dal Gam­bia, due dal Gha­na, due dal­la Ni­ge­ria. Sì, l’i­ni­zio non è sta­to fa­ci­le per nien­te. Per­ché ab­bia­mo avu­to mi­nac­ce, of­fe­se pe­san­ti dal quar­tie­re e i pri­mi 15 gior­ni i ra­gaz­zi so­no ri­ma­sti chiu­si in ca­sa, non si so­no nean­che af­fac­cia­ti al­l’u­sci­ta. E chia­ra­men­te pe­rò è ini­zia­ta tut­ta una or­ga­niz­za­zio­ne del­la ge­stio­ne per­ché era giu­gno, e io e mia mo­glie co­mun­que do­ve­va­mo in­se­gna­re, i miei fi­gli an­da­va­no a scuo­la, chi an­da­va a la­vo­ra­re, qual­cu­no do­ve­va re­sta­re qua. Al­lo­ra ab­bia­mo pen­sa­to a una si­gno­ra, Va­len­ti­na, che ave­va­mo in­con­tra­to in par­roc­chia du­ran­te quel­l’e­spe­rien­za di ac­co­glien­za, una vo­lon­ta­ria, che tra l’al­tro ave­va per­so il la­vo­ro da po­co, mam­ma di due fi­gli. Io ho chie­sto al­la coo­pe­ra­ti­va che ve­nis­se as­sun­ta a tem­po de­ter­mi­na­to con tut­ti i san­ti cri­smi.
Que­sto pe­rio­do che va da giu­gno ad ago­sto è sta­to co­me un tem­po in­ter­me­dio, una fa­se per po­ter gua­ri­re le fe­ri­te, spes­so gra­vis­si­me. E cer­ca­re an­che di far ca­pi­re ai ra­gaz­zi do­ve era­no, in che mon­do era­no ar­ri­va­ti, co­sa vo­le­va di­re vi­ve­re a Tre­vi­so, in pro­vin­cia, e in Ita­lia. Te­ne­te pre­sen­te che gli afri­ca­ni han­no mol­tis­si­mi dia­let­ti e non riu­sci­va­no a co­mu­ni­ca­re nean­che fra di lo­ro. La se­ra, che era il mo­men­to in cui ci tro­va­va­mo tut­ti, ve­ni­va an­che da ri­de­re per­ché per riu­sci­re a co­mu­ni­ca­re tra di noi po­te­va­mo met­ter­ci an­che mez­z’o­ra so­lo per di­re una co­sa a tut­ti.
Co­mun­que l’i­ni­zio, co­sì dif­fi­ci­le per tan­ti ver­si, è sta­to an­che in­te­res­san­te per­ché, per al­tri ver­si, spon­ta­nea­men­te ci si so­no af­fian­ca­te al­tre per­so­ne per dar­ci una ma­no: un gior­no si è pre­sen­ta­to un ex gior­na­li­sta che non co­no­sce­vo di­cen­do: “Vo­glio fa­re qual­co­sa per voi, non vo­glio nul­la”.
Ave­va in­se­gna­to per tan­ti an­ni ita­lia­no in Ame­ri­ca, co­sì si fer­ma­va qua per ore al po­me­rig­gio con i ra­gaz­zi per in­se­gna­re lo­ro la lin­gua ita­lia­na, ma an­che per in­tro­dur­li al­la vi­ta, ai co­stu­mi e al­le tra­di­zio­ni ita­lia­ni. È sta­to uti­lis­si­mo l’a­iu­to di Gio­van­ni. Un pen­sio­na­to che abi­ta qui vi­ci­no, Val­ter, mi ha det­to: “Pro­fes­so­re, mi per­met­te di fa­re qual­co­sa?”, “Guar­di, qual­sia­si co­sa può es­se­re uti­le”, e co­sì ha mes­so su in po­co tem­po, in­sie­me ai ra­gaz­zi, un or­to straor­di­na­rio nel giar­di­no.
I sei ra­gaz­zi so­no sem­pre ri­ma­sti gli stes­si?
In­tor­no ad ago­sto ho mes­so avan­ti una que­stio­ne. Gli ho det­to che se vo­le­va­no sta­re qua con noi c’e­ra un pro­get­to da ri­spet­ta­re. Sta­re qua sen­za sen­so, no, non ci an­da­va be­ne. A mag­gior ra­gio­ne vi­sto che il con­te­sto è quel­lo di una fa­mi­glia. Al­la de­scri­zio­ne di que­sto pro­get­to tre han­no ri­spo­sto su­bi­to con en­tu­sia­smo, e tre han­no co­min­cia­to a nic­chia­re, a pren­de­re tem­po. A quel pun­to gli ho da­to una da­ta per sa­pe­re la lo­ro ri­spo­sta. La psi­co­lo­ga, Giu­lia, di gran­dis­si­mo aiu­to fin dal­l’i­ni­zio, mi ave­va già se­gna­la­to che c’e­ra­no al­cu­ne que­stio­ni tra di lo­ro, non tan­to sul fat­to di sta­re in fa­mi­glia. Tre di lo­ro era­no cat­to­li­ci e tre mu­sul­ma­ni e due di lo­ro, i ni­ge­ria­ni, ave­va­no un at­teg­gia­men­to un po’ pre­po­ten­te e di do­mi­nio nei con­fron­ti de­gli al­tri afri­ca­ni, qua­si di su­pe­rio­ri­tà, del ti­po: “Noi sia­mo noi e voi sie­te al­tro”. Un at­teg­gia­men­to che si ri­per­cuo­te­va nel­la col­la­bo­ra­zio­ne. La psi­co­lo­ga stes­sa mi con­si­gliò di “an­da­re al dun­que” con lo­ro, per­ché quel­le per­so­ne sa­reb­be­ro po­tu­te di­ven­ta­re un gra­ve ele­men­to di di­stur­bo, ad­di­rit­tu­ra di­strut­ti­vo.
Co­sì quan­do è ar­ri­va­to il gior­no sta­bi­li­to, lo­ro mi han­no det­to che non ac­cet­ta­va­no di re­sta­re, che era tro­po im­pe­gna­ti­vo e che pre­fe­ri­va­no tor­na­re ai cen­tri di ac­co­glien­za.
Ma in co­sa con­si­ste que­sto pro­get­to?
Il pro­get­to è quel­lo che è sta­to chia­ma­to mo­del­lo “sei più sei”. In­tan­to da set­tem­bre c’e­ra l’ob­bli­go del­la scuo­la. Ho det­to ai ra­gaz­zi che non po­te­va­no re­sta­re in que­sto pae­se sen­za la co­no­scen­za del­la lin­gua, as­so­lu­ta­men­te. Quin­di l’ob­bli­go del­la scuo­la, ma ob­bli­go ve­ro, non che uno va un gior­no e l’al­tro no. Que­sta è la pri­ma co­sa. Poi ave­vo or­ga­niz­za­to tut­ta la set­ti­ma­na e co­sì è sta­to: lu­ne­dì, mar­te­dì, mer­co­le­dì e gio­ve­dì quat­tro ore di scuo­la, dal­le 9 al­le 13.
Que­sto do­ve?
Al­la scuo­la me­dia di Tre­vi­so. So­no sta­ti in­se­ri­ti a va­ri li­vel­li per­ché due di lo­ro era­no anal­fa­be­ti. In quan­to mu­sul­ma­ni ave­va­no fre­quen­ta­to le scuo­le co­ra­ni­che, ave­va­no im­pa­ra­to a me­mo­ria le su­re del Co­ra­no ma non era­no in gra­do di scri­ve­re in ara­bo. Era pro­prio tut­to im­pa­ra­to a me­mo­ria, una di­men­sio­ne oran­te co­me d’al­tron­de è oran­te la lo­ro lin­gua. Non è che esi­sto­no i vo­ca­bo­la­ri dei sin­go­li dia­let­ti o del­le lin­gue in Afri­ca. E quin­di lo­ro fa­ce­va­no quat­tro ore di scuo­la, di cui una di geo­gra­fia e sto­ria, una di ma­te­ma­ti­ca, una di in­gle­se e una di ita­lia­no. Il lu­ne­dì e il mer­co­le­dì, al po­me­rig­gio, ve­ni­va sem­pre Gio­van­ni, l’in­se­gnan­te di cui ho par­la­to pri­ma, che ri­pren­de­va le que­stio­ni sco­la­sti­che, ri­met­te­va in mo­to un po’ tut­to e ap­pro­fon­di­va. Poi il mar­te­dì po­me­rig­gio ave­va­no cin­que ore con la psi­co­lo­ga. Tre ore di te­ra­pia di grup­po e due ore per i sin­go­li, poi lei si fer­ma­va qua a ce­na­re con noi e co­sì è di­ven­ta­ta una di fa­mi­glia, com’è suc­ces­so an­che con Gio­van­ni.
Poi ab­bia­mo pen­sa­to che fos­se im­por­tan­te iscri­ver­li an­che ad at­ti­vi­tà spor­ti­ve, quin­di il gio­ve­dì po­me­rig­gio due fre­quen­ta­va­no gli al­le­na­men­ti del­le squa­dre di cal­cio do­ve gio­ca­va­no an­che i miei fi­gli, men­tre due fa­ce­va­no pa­le­stra qua. Il ve­ner­dì mat­ti­na li ho sem­pre la­scia­ti an­da­re in mo­schea, per­ché poi i tre ra­gaz­zi cri­stia­ni (i due ni­ge­ria­ni e un ter­zo) se n’e­ra­no an­da­ti via, e lo stes­so gior­no la Que­stu­ra ce ne ave­va man­da­ti al­tri tre, mu­sul­ma­ni an­che lo­ro.
Quin­di ora so­no sei mu­sul­ma­ni…
E il grup­po da al­lo­ra è ri­ma­sto lo stes­so, dal­l’a­go­sto del 2015.
Il ve­ner­dì po­me­rig­gio e il sa­ba­to lo­ro era­no a di­spo­si­zio­ne del­la fa­mi­glia per tut­ta una se­rie di at­ti­vi­tà ca­sa­lin­ghe, ma an­che a di­spo­si­zio­ne del­le fa­mi­glie del­la co­mu­ni­tà del quar­tie­re, nel sen­so che se c’e­ra bi­so­gno di spo­sta­re mo­bi­li o an­da­re a ta­glia­re la le­gna, o aiu­ta­re per il giar­di­no; qua ci so­no tan­te sa­gre, bi­so­gna met­te­re su i ca­pan­no­ni e lo­ro so­no ra­gaz­zi gio­va­ni e for­ti… La do­me­ni­ca in­ve­ce ri­po­so per tut­ti.
Que­sto ha si­gni­fi­ca­to ac­com­pa­gnar­li ed è sta­to ve­ra­men­te straor­di­na­rio. Noi sia­mo di­ven­ta­ti fa­mi­glia nel sen­so più glo­ba­le del ter­mi­ne: i miei fi­gli con­di­vi­do­no tut­to con lo­ro, ve­sti­ti, mu­tan­de, scar­pe, giac­che, cra­vat­te, tut­to. Vi­ven­do co­sì in­sie­me, han­no ac­qui­si­to un mi­ni­mo di lin­gua, an­che se non al­lo stes­so mo­do. Tre di lo­ro par­la­no ab­ba­stan­za be­ne l’i­ta­lia­no, e si fan­no ca­pi­re, al­tri tre han­no più pro­ble­mi, cer­ta­men­te, pe­rò, in­som­ma, ades­so ci ca­pia­mo, la lin­gua co­mu­ne è pro­prio l’i­ta­lia­no. Ma poi la co­sa bel­la è che du­ran­te una set­ti­ma­na co­sì or­ga­niz­za­ta, il vi­ci­na­to pra­ti­ca­men­te non li ve­de­va mai. E non li ve­de­va so­prat­tut­to bi­ghel­lo­na­re, ma­ga­ri con il cel­lu­la­re in ma­no, im­ma­gi­ni che spes­so e vo­len­tie­ri so­no mo­ti­vi di gran­de po­le­mi­ca. Que­sti ra­gaz­zi non han­no mai bi­ghel­lo­na­to. Que­sto se­con­do me è im­por­tan­tis­si­mo.
Poi in que­sto an­no sco­la­sti­co chia­ra­men­te so­no ve­nu­te fuo­ri tut­te le lo­ro pro­ble­ma­ti­che e la pri­ma è pro­prio il per­ché so­no ve­nu­ti qua. La ri­spo­sta è per la­vo­ra­re. Le fa­mi­glie se­le­zio­na­no quel­lo che ce la può fa­re. Lo man­da­no in que­sta av­ven­tu­ra co­sì du­ra, e una vol­ta che è ar­ri­va­to qui lo­ro de­ve la­vo­ra­re e man­da­re i sol­di a ca­sa. Se tor­na in­die­tro sen­za un la­vo­ro può ad­di­rit­tu­ra ve­ni­re ri­fiu­ta­to dal­la fa­mi­glia; que­sti ra­gaz­zi ven­go­no vi­sti ma­lis­si­mo, per­ché su di lo­ro so­no sta­ti in­ve­sti­ti tut­ti i ri­spar­mi.
Quin­di a giu­gno, quan­do è fi­ni­ta la scuo­la, ci sia­mo ado­pe­ra­ti per ga­ran­ti­re lo­ro un fu­tu­ro la­vo­ra­ti­vo. Com’è giu­sto che sia, nei con­fron­ti di tut­te le per­so­ne.
Apro una pa­ren­te­si, lo di­co con tri­stez­za qui nel mio pic­co­lo stu­dio, ma cer­ta­men­te pen­so e cre­do di aver ra­gio­ne: l’a­fri­ca­no si sen­te in­fe­rio­re al bian­co. Do­po cin­que­cen­to an­ni di schia­vi­smo, co­lo­niz­za­zio­ne po­li­ti­ca, eco­no­mi­ca, l’a­fri­ca­no nei con­fron­ti del bian­co ha uno sguar­do di­ver­so, non si sen­te al­la pa­ri. In que­sti due an­ni ab­bia­mo cer­ca­to sem­pre di far ca­pi­re lo­ro che so­no ugua­li a noi e che tut­ti noi ab­bia­mo do­ve­ri e di­rit­ti, tut­ti noi dob­bia­mo agi­re in un cer­to mo­do, as­so­lu­ta­men­te, ma c’è una gran­dis­si­ma dif­fi­col­tà. Que­sto per­so­nal­men­te mi ha fat­to ri­flet­te­re mol­to. È sta­ta ed è un’in­cre­di­bi­le espe­rien­za di ti­po so­cia­le, cul­tu­ra­le, an­tro­po­lo­gi­co. Io la di­ver­si­tà la ve­do co­me una ric­chez­za, noi tut­ti qua la vi­via­mo co­me una ric­chez­za, pe­rò la di­ver­si­tà c’è e ha dei vol­ti mol­to par­ti­co­la­ri. Per esem­pio, nel con­cre­to, lo­ro so­no an­che ca­pa­ci di fa­re cer­te co­se, ma le fan­no ap­pun­to al­l’a­fri­ca­na. Im­ma­gi­na­re di in­se­ri­re un’o­pe­ra­ti­vi­tà di ti­po afri­ca­no in un con­te­sto “nor­de­st tre­vi­gia­no”, sen­za te­ner con­to del­le di­ver­si­tà, vor­reb­be di­re fal­li­men­to si­cu­ro e im­me­dia­to.
Quin­di mi so­no mes­so in te­sta che ci do­ve­va es­se­re un pe­rio­do di al­me­no sei me­si in cui lo­ro po­tes­se­ro fa­re un ti­ro­ci­nio pro­fes­sio­na­liz­zan­te e ho cer­ca­to un en­te cer­ti­fi­ca­to­re. Ho tro­va­to l’A­scom, l’as­so­cia­zio­ne com­mer­cian­ti, che è sta­ta gen­ti­lis­si­ma, si è ado­pe­ra­ta e ci ha ga­ran­ti­to que­sto cer­ti­fi­ca­to. Noi, da par­te no­stra, sia­mo an­da­ti al­la ri­cer­ca del­le azien­de. An­che qua il par­ro­co e gli ami­ci, tut­te le per­so­ne che ci han­no ac­com­pa­gna­to di vol­ta in vol­ta nel­la no­stra espe­rien­za, ci han­no da­to una gros­sa ma­no. Ab­bia­mo mes­so due con­di­zio­ni fon­da­men­ta­li al­le azien­de. La pri­ma è che quel ti­ro­ci­nio non an­das­se a por­ta­re via al­cun ti­po di pos­si­bi­li­tà a un ita­lia­no. Se ac­cet­ta­va­no il ti­ro­ci­nan­te no­stro era per­ché non c’e­ra nes­sun ita­lia­no che avreb­be po­tu­to o vo­lu­to far­lo. E la se­con­da co­sa fon­da­men­ta­le, che quel ti­ro­ci­nio non an­das­se a oc­cu­pa­re spa­zi con­ve­nien­ti a quel­l’a­zien­da, del ti­po cas­sin­te­gra­ti, di­soc­cu­pa­zio­ne, co­se di que­sto ge­ne­re. E co­sì nel gi­ro di po­chis­si­mo tem­po, nel gi­ro di un me­se, tut­ti i ra­gaz­zi so­no par­ti­ti con un ti­ro­ci­nio. An­che qui apro una pa­ren­te­si mol­to im­por­tan­te: ci so­no tan­tis­si­mi la­vo­ri che gli ita­lia­ni non vo­glio­no fa­re as­so­lu­ta­men­te. Que­sto va sot­to­li­nea­to per­ché tan­te vol­te sen­tia­mo di­re che ci por­ta­no via il la­vo­ro. No, non è ve­ro. Due di lo­ro so­no sta­ti im­pie­ga­ti co­me la­va­piat­ti e non si tro­va­va un la­va­piat­ti da nes­su­na par­te. Tre, in­ve­ce, so­no sta­ti ac­cet­ta­ti al­l’in­ter­no di una coo­pe­ra­ti­va bio­lo­gi­ca or­ti­co­la, e an­che là, spor­car­si le ma­ni con la ter­ra, pie­ga­ti ot­to ore, con il fred­do e com­pa­gnia bel­la, non tro­va­va­no nes­su­no. Quin­di, an­che qui, li han­no pre­si più che vo­len­tie­ri. E un al­tro, in­ve­ce, è en­tra­to in una fa­le­gna­me­ria: que­sto ti­po di la­vo­ro era un po’ co­me sta­re a una ca­te­na “di mon­tag­gio”, per ta­glia­re tut­ta una se­rie di pez­zi par­ti­co­la­ri e oc­cor­re­va es­se­re pre­ci­si, pe­rò era un po’ ri­pe­ti­ti­vo, e an­che là non c’e­ra nes­su­no che lo vo­les­se fa­re.
So­no sta­te tut­te espe­rien­ze mol­to bel­le, tol­to quel­la del­la fa­le­gna­me­ria per­ché poi c’è un sta­to un con­flit­to, c’e­ra qual­cu­no del­l’a­zien­da che non ac­cet­ta­va pro­prio la pre­sen­za di uno di co­lo­re e lui, da par­te sua, è sta­to trop­po ri­gi­do e in­ca­pa­ce di adat­tar­si. Pe­rò tut­te le al­tre cin­que espe­rien­ze so­no fi­ni­te co­sì be­ne che quan­do è ter­mi­na­to il ti­ro­ci­nio pro­fes­sio­na­liz­zan­te gli han­no ri­la­scia­to un cer­ti­fi­ca­to in cui si at­te­sta­va­no le com­pe­ten­ze ac­qui­si­te e han­no an­che det­to che li avreb­be­ro as­sun­ti mol­to vo­len­tie­ri.
In cin­que han­no ora un con­trat­to di la­vo­ro?
Sì, ma an­che il se­sto per­ché nel frat­tem­po ave­va­mo tro­va­to la di­spo­ni­bi­li­tà di una ti­po­gra­fia den­tro una coo­pe­ra­ti­va. Co­sì an­che il ra­gaz­zo che ave­va la­scia­to la fa­le­gna­me­ria si è in­se­ri­to be­ne e do­po è sta­to as­sun­to. Al mo­men­to tut­ti e sei so­no sot­to con­trat­to di la­vo­ro a tem­po de­ter­mi­na­to.
Ma se­con­do lei quin­di è un mo­del­lo che si può dif­fon­de­re?
Il no­stro ten­ta­ti­vo è far ca­pi­re che l’I­ta­lia po­treb­be ela­bo­ra­re un mo­del­lo di ac­co­glien­za che poi è espor­ta­bi­le in tut­ta Eu­ro­pa e che non di­co ri­sol­ve­reb­be il pro­ble­ma, per­ché non vo­glio es­se­re pre­sun­tuo­so, ma cer­ta­men­te con­tri­bui­reb­be no­te­vol­men­te a ri­sol­ver­lo. La fa­mi­glia è l’ec­ce­zio­ne che con­fer­ma la re­go­la. E la re­go­la so­no dei nu­clei di sei per­so­ne che ven­go­no in­se­ri­te in mo­do tra­spa­ren­te nel tes­su­to di un pae­se e di una cit­tà (per l’I­ta­lia la pro­po­sta è sei per ogni cin­que­mi­la abi­tan­ti). Se noi pen­sia­mo che poi que­sti sei si in­se­ri­sco­no nel­la so­cie­tà e la­scia­no l’ap­par­ta­men­to in cui pos­so­no an­da­re a vi­ve­re al­tri sei, e co­sì via, vien da chie­der­si: “Si­gno­ri, do­v’è l’e­mer­gen­za?”. Avrem­mo tut­ta una strut­tu­ra per­fet­ta ca­pa­ce di es­se­re pron­ta per l’ac­co­glien­za e per l’e­mer­gen­za. Quan­do poi il fe­no­me­no sto­ri­co vie­ne me­no si di­smet­to­no le va­rie strut­tu­re, ed è fi­ni­to.
La do­man­da che fac­cio è: co­sa vo­le­te fa­re di que­ste per­so­ne? Una vol­ta che li ave­te ac­col­ti nel­la fa­se di pri­ma ac­co­glien­za co­sa vo­le­te fa­re? Do­man­da sem­pli­cis­si­ma, ma nes­su­no mi ha mai ri­spo­sto.
Quin­di lei pro­po­ne un mo­del­lo ti­po ca­sa fa­mi­glia?
Sì, sa­reb­be ti­po ca­sa fa­mi­glia, con un’é­qui­pe che se­gue i sei ri­fu­gia­ti -psi­co­lo­go, me­di­co, un av­vo­ca­to, l’as­si­sten­te so­cia­le, e de­gli ope­ra­to­ri/me­dia­to­ri, un in­se­gnan­te- esat­ta­men­te co­me ab­bia­mo fat­to noi.
Pe­rò io ho im­ma­gi­na­to che un’é­qui­pe di que­sto ge­ne­re pos­sa fa­re ser­vi­zio a sei nu­clei.
6×6 per un to­ta­le di 36 per­so­ne…
Esat­to. In que­sto mo­do su un pia­no eco­no­mi­co, l’e­qui­pe si au­to­so­stie­ne.
Un’e­qui­pe a tem­po pie­no, che si oc­cu­pa di sei real­tà e i cui com­po­nen­ti so­no sti­pen­dia­ti, ov­via­men­te re­go­lar­men­te, dal­le sei real­tà…
Que­sta è la pro­po­sta che ho fat­to e che ho pre­sen­ta­to al Par­la­men­to ita­lia­no ed eu­ro­peo. Mi so­no ac­cor­to, cioè, che i sol­di che ar­ri­va­no so­no suf­fi­cien­ti per po­ter­lo fa­re e lo di­mo­stro con le ci­fre e i fat­ti.
Im­ma­gi­nia­mo che sia­mo di fron­te a un bi­lan­cio mol­to sem­pli­ce da fa­re, per­ché so­no tren­ta eu­ro a per­so­na, al gior­no. Tren­ta per sei per­so­ne, per tren­ta gior­ni, to­ta­le: 5.400 eu­ro. Ora, io il bi­lan­cio di sei per­so­ne ce l’ho già in ca­sa: io, mia mo­glie e quat­tro fi­gli. E io non ho 5.400 eu­ro al me­se, per­ché noi sia­mo due in­se­gnan­ti, e quan­do ar­ri­via­mo a 1.750 eu­ro a te­sta è già tan­to. Par­lia­mo­ci chia­ro e non pren­dia­mo­ci in gi­ro: ci so­no mar­gi­ni per fa­re tut­ta una se­rie di ope­ra­zio­ni per ar­ri­va­re al­l’op­ti­mum in tut­ti i sen­si. Al­lo­ra noi ab­bia­mo di­vi­so: mil­le eu­ro van­no per le spe­se ali­men­ta­ri. Cioè per la sus­si­sten­za vi­va. Per­ché in­tan­to so­no gio­va­ni, que­sti, e man­gia­no, ec­co­me se man­gia­no. Se poi la­vo­ra­no… Quin­di, mil­le eu­ro van­no di si­cu­ro per il ci­bo. Di­vi­si in tren­ta gior­ni so­no cin­que eu­ro al gior­no a per­so­na, che mi sem­bra una ci­fra mi­ni­ma, in­fat­ti ab­bia­mo mes­so a bi­lan­cio tra i mil­le e i mil­le­due­cen­to eu­ro al me­se.
Lei sta fa­cen­do un bi­lan­cio sul­le sei per­so­ne?
Sì. Per­ché do­po io pos­so ap­pli­ca­re le ci­fre al mo­du­lo e mol­ti­pli­car­lo per sei.
Lei di­ce che co­sì si crea an­che la­vo­ro…
Noi ab­bia­mo un’o­pe­ra­tri­ce, Va­len­ti­na, ve­nu­ta fin dal­l’i­ni­zio, che ha fat­to un la­vo­ro straor­di­na­rio e ha cu­ra­to tut­ta la que­stio­ne giu­ri­di­ca e quel­la sa­ni­ta­ria. Pa­ren­te­si: so­no sta­ti ac­cu­sa­ti di es­se­re por­ta­to­ri di ma­lat­tie par­ti­co­la­ri, ad­di­rit­tu­ra. Non po­te­va­no nean­che usci­re di ca­sa per­ché ci avreb­be­ro de­nun­cia­ti. Ab­bia­mo fat­to tut­ta la pro­fi­las­si pos­si­bi­le e im­ma­gi­na­bi­le, tut­te le vac­ci­na­zio­ni del ca­so, og­gi so­no più sa­ni di noi.
Quin­di c’è una si­gno­ra che c’è sta­ta per tut­to il pri­mo an­no tut­ti i gior­ni, poi quan­do i ra­gaz­zi han­no co­min­cia­to il ti­ro­ci­nio pro­fes­sio­na­liz­zan­te, chia­ra­men­te era­no fuo­ri per mol­te ore du­ran­te il gior­no e non ave­va più sen­so che stes­se qui tut­to il gior­no. Que­sta per­so­na era pa­ga­ta 1.400 eu­ro al me­se, che co­pri­va­no an­che i con­tri­bu­ti. Quin­di era pro­prio re­go­la­re. Tra l’al­tro, al­la fi­ne del­l’e­spe­rien­za che ha fat­to nel­la no­stra ca­sa è sta­ta as­sun­ta a tem­po in­de­ter­mi­na­to nel­la coo­pe­ra­ti­va per­ché mol­to bra­va e que­sto m’ha fat­to un enor­me pia­ce­re.
Poi 450 eu­ro van­no per la pa­ghet­ta, per­ché 2,5 eu­ro al gior­no ven­go­no da­ti ai ra­gaz­zi. Ades­so non ri­ce­vo­no più nien­te per­ché nel mo­men­to in cui ven­go­no as­sun­ti esco­no fuo­ri dal si­ste­ma. Ma fin­ché ci so­no den­tro, ri­ce­vo­no 2,5 eu­ro al gior­no (dei fa­mo­si tren­ta eu­ro). Noi, per una que­stio­ne di cor­ret­tez­za, ab­bia­mo sem­pre pen­sa­to di dar­gli 25 eu­ro ogni die­ci gior­ni, in mo­do ta­le da dar lo­ro la pos­si­bi­li­tà di fruir­ne al me­glio. Te­ne­te pre­sen­te, pre­ci­sa­zio­ne fon­da­men­ta­le, che noi non ab­bia­mo mai ri­ce­vu­to sol­di di­ret­ta­men­te. I sol­di ar­ri­va­no tut­ti al­la coo­pe­ra­ti­va. Que­sto bi­so­gna dir­lo. Noi non li ab­bia­mo mai ri­ce­vu­ti. Io va­do ogni vol­ta in coo­pe­ra­ti­va, al­l’i­ni­zio del me­se, e di­co, ho bi­so­gno di que­sta ci­fra. Di so­li­to oscil­la tra i 2.000 e i 1.500 eu­ro.
Tut­to il re­sto lo pa­ga­no di­ret­ta­men­te lo­ro, è un rap­por­to tra la coo­pe­ra­ti­va e le per­so­ne che of­fro­no que­sti ser­vi­zi.
As­so­lu­ta­men­te. Al­lo­ra, 450 eu­ro van­no in pa­ghet­ta. L’u­ni­ca co­sa che la fa­mi­glia ha chie­sto è che le ven­ga pa­ga­to il rad­dop­pio del­le bol­let­te. Di fat­to, il co­sto di lu­ce, ac­qua, gas, im­mon­di­zia, si è rad­dop­pia­to pro­prio. Ab­bia­mo chie­sto so­lo que­sto. Lo­ro nel bi­lan­cio han­no mes­so 450 eu­ro che van­no per bol­let­te e spe­se nel­la ca­sa. Poi, 300 eu­ro van­no al­la coo­pe­ra­ti­va per l’or­ga­niz­za­zio­ne, il com­mer­cia­li­sta, le que­stio­ni, di­cia­mo co­sì, bu­ro­cra­ti­co-am­mi­ni­stra­ti­ve. Poi ci so­no 300 eu­ro che van­no per le spe­se sa­ni­ta­rie straor­di­na­rie, cioè lo­ro, co­me tut­ti i cit­ta­di­ni ita­lia­ni, han­no una co­per­tu­ra x, e do­po pe­rò cer­te spe­se se le de­vo­no pa­ga­re, pro­ble­mi con i den­ti o al­tro. Co­me suc­ce­de a noi. Poi c’è un’as­si­cu­ra­zio­ne, poi ne­ces­si­tà di va­rio ti­po, tra que­ste an­che l’at­ti­vi­tà spor­ti­va, che, al­la fi­ne, per quat­tro per­so­ne co­sta co­me mi­ni­mo 1.200, 1.500 eu­ro al­l’an­no. Quin­di vuol di­re sol­di. Iscri­zio­ne in una squa­dra di cal­cio, e la tu­ta, ecc., e que­ste so­no spe­se che se­con­do me pe­rò so­no im­por­tan­ti per­ché lo sport è im­por­tan­te. Poi 200 eu­ro van­no per l’u­so del­l’au­to e la ben­zi­na. Noi ab­bia­mo mes­so a di­spo­si­zio­ne una mac­chi­na no­stra, in più pa­ga­va­mo Va­len­ti­na che li por­ta­va in gi­ro da tut­te le par­ti. Era im­pen­sa­bi­le fa­re l’ab­bo­na­men­to al pull­man per sei, una spe­sa enor­me, quin­di li ve­ni­va a pren­de­re in mac­chi­na. Poi c’e­ra­no 500 eu­ro che an­da­va­no al­l’in­se­gnan­te, a Gio­van­ni, nei 500 eu­ro ci so­no i sol­di ef­fet­ti­vi e chia­ra­men­te an­che i con­tri­bu­ti per­ché an­che lui era as­sun­to in re­go­la (poi lui non ha vo­lu­to un sol­do, ma que­sta è un’al­tra sto­ria). Stes­sa co­sa per la psi­co­lo­ga. Dal bi­lan­cio ve­ni­va­no mes­si 700 eu­ro per lei, pa­ga­ta co­me pro­fes­sio­ni­sta e quin­di in re­go­la. Ri­ma­ne­va­no 300 eu­ro. Ab­bia­mo im­ma­gi­na­to che po­tes­se­ro es­se­re uti­liz­za­ti in va­ri mo­di. Ci so­no le spe­se per l’av­vo­ca­to, pur­trop­po bi­so­gna pa­ga­re an­che quel­lo, con tut­te que­ste cau­se, ri­cor­si, ec­ce­te­ra. Even­tual­men­te, se re­sta qual­co­sa, lo met­tia­mo via per quan­do se ne an­dran­no, quel pic­co­lo aiu­to che ma­ga­ri gli pa­ga due o tre af­fit­ti di ca­par­ra. Que­sto è. Se fa­te i con­ti so­no 5.400 eu­ro.
Ha ra­gio­ne, ma ci do­vreb­be­ro es­se­re sei real­tà co­sì…
Lei pro­vi a pen­sa­re, 6+6+6; quan­ta gen­te po­treb­be la­vo­ra­re! Com’è pos­si­bi­le che non si ac­col­ga que­sta idea? Vi ren­de­te con­to, tut­ta gen­te gio­va­ne, o che per­de il la­vo­ro, che ha fa­mi­glia, che ha bi­so­gno… pos­sia­mo fa­re tan­to, qua! Eh, io poi di­ven­to fu­rio­so quan­do ve­do dei ra­gaz­zi co­me lo­ro che mi chie­do­no i sol­di da­van­ti ai su­per­mer­ca­ti. Sa­pen­do be­ne, per­ché poi pur­trop­po lo so, che que­sti so­no den­tro una strut­tu­ra che ha i sol­di. Ma nes­su­no li im­pe­gna in nul­la.
So­no par­cheg­gia­ti…
È uno scan­da­lo, non ho pau­ra di dir­lo. Ec­co co­me ho co­min­cia­to a ca­pi­re che c’e­ra un im­bro­glio o co­mun­que un van­tag­gio a non far­gli fa­re nul­la. Ag­giun­go un al­tro aspet­to che non è un par­ti­co­la­re da po­co, so­prat­tut­to se ri­fe­ri­to a un ter­ri­to­rio di un cer­to ti­po. Tut­te le spe­se che an­da­va­mo a fa­re le ab­bia­mo fat­te con im­pre­se a chi­lo­me­tro ze­ro.
Quin­di ab­bia­mo mos­so l’e­co­no­mia in­tor­no a noi. Cioè, uno ven­de for­mag­gi, sia­mo sem­pre an­da­ti da lui, lo stes­so per il ver­du­ra­io e per il frut­ti­ven­do­lo, e vi ga­ran­ti­sco che ogni vol­ta che an­dia­mo so­no cen­ti­na­ia di eu­ro. An­che que­sto è muo­ve­re l’e­co­no­mia. Al­lo­ra io mi do­man­do: per­ché un si­mi­le mo­del­lo non si può esten­de­re non so­lo in Ita­lia ma an­che in Eu­ro­pa? Si cree­reb­be­ro cen­ti­na­ia di po­sti di la­vo­ro, al­tro che “por­tar­ne via”.
Ades­so co­me so­no con­si­de­ra­ti lo­ro giu­ri­di­ca­men­te?
Ades­so il pro­get­to per me è con­clu­so per­ché ar­ri­va­re a un la­vo­ro vuol di­re au­to­no­mia. Pur­trop­po pe­rò c’è la que­stio­ne giu­ri­di­ca, che è gra­ve. Io mi ap­pel­lo a Min­ni­ti, al Pre­si­den­te del­la Re­pub­bli­ca per­ché non è pos­si­bi­le che per­so­ne co­me lo­ro (e io con­fi­do che ce ne sia­no tan­te al­tre che han­no fat­to co­mun­que un per­cor­so di­cia­mo di buon li­vel­lo, che so­no qua per va­ri mo­ti­vi, da due o tre an­ni), per­so­ne su cui si so­no im­pe­gna­ti tan­ti sol­di per sal­var­li, giu­sta­men­te, su cui si è in­ve­sti­to per ac­co­glier­li, giu­sta­men­te, sui qua­li si so­no in­ve­sti­ti tan­tis­si­mi sol­di per pro­va­re a in­se­rir­li al­l’in­ter­no di una strut­tu­ra, do­po tre an­ni pren­dia­mo e li ri­spe­dia­mo via? Ma che sen­so ha tut­to ciò?
Vi di­co que­sto per­ché, pur­trop­po, at­tual­men­te so­lo uno dei miei ra­gaz­zi ha avu­to fi­nal­men­te una “uma­ni­ta­ria”. Sa­pe­te che c’è la “po­li­ti­ca”, l’”uma­ni­ta­ria”, e la co­sid­det­ta “eco­no­mi­ca”. “Eco­no­mi­ca” è re­spin­gi­men­to, tra vir­go­let­te. L’”uma­ni­ta­ria” dà la pos­si­bi­li­tà di sta­re due an­ni, nel­la “po­li­ti­ca” ci so­no va­ri li­vel­li, da tre a cin­que an­ni. Que­sto ra­gaz­zo fi­nal­men­te ha ot­te­nu­to l’u­ma­ni­ta­ria, do­po un an­no e mez­zo fi­nal­men­te è sta­to ascol­ta­to da una com­mis­sio­ne. Il col­mo dei col­mi è che poi que­sta com­mis­sio­ne non sta a Tre­vi­so, ma da tut­t’al­tra par­te (nel no­stro ca­so a For­lì). Va beh, non vo­glio en­tra­re nel me­ri­to per­ché sa­reb­be lun­ga la co­sa, ma al­me­no uno dei miei ra­gaz­zi ora ha un ri­co­no­sci­men­to giu­ri­di­co e può par­ti­re con un suo per­cor­so che sa­rà lun­go, pe­rò con si­cu­rez­ze com­ple­ta­men­te di­ver­se. Uno è sta­to re­spin­to e quin­di de­ve fa­re il pri­mo ri­cor­so. Gli al­tri so­no già sta­ti re­spin­ti an­che nel pri­mo ap­pel­lo e ades­so han­no l’ul­ti­mo.
Ma ades­so che han­no un la­vo­ro?
Sì, pe­rò il la­vo­ro lo han­no so­lo da mar­zo. Pri­ma sta­va­no fa­cen­do un ti­ro­ci­nio pro­fes­sio­na­liz­zan­te, che è di­ver­so. Ades­so man­ca an­co­ra uno, che do­po un an­no e mez­zo non è sta­to an­co­ra chia­ma­to, e spe­ro che sia chia­ma­to per il pri­mo in­con­tro in com­mis­sio­ne. Nel mo­men­to in cui do­ves­se­ro es­se­re re­spin­ti con l’ul­ti­mo ap­pel­lo, lo­ro di­ven­te­reb­be­ro clan­de­sti­ni o ir­re­go­la­ri, e a quel pun­to avreb­be­ro un me­se o ven­ti gior­ni di tem­po, di­pen­de da co­me vie­ne for­mu­la­ta la co­sa, per an­dar­se­ne via au­to­no­ma­men­te. Non è che noi li pren­dia­mo e li por­tia­mo in­die­tro. Ora, spes­so e vo­len­tie­ri, que­sto va det­to, die­tro a que­ste per­so­ne non c’è uno Sta­to, non han­no nes­su­no die­tro, non c’è un’am­ba­scia­ta, non c’è un con­so­la­to, non ci so­no dei rap­por­ti giu­ri­di­ci che per­met­ta­no di di­fen­der­li. Nes­su­no si in­te­res­sa a lo­ro. Ma se que­sti pro­fu­ghi fos­se­ro fran­ce­si, te­de­schi, spa­gno­li, un­ghe­re­si, noi ci com­por­te­rem­mo co­sì? Que­sta è una do­man­da che do­vrem­mo far­ci. Ci com­por­te­rem­mo co­sì? Non cre­do pro­prio! Quin­di ap­pro­fit­tia­mo del fat­to che que­sti non han­no nul­la. E poi co­sa fac­cia­mo, pren­dia­mo que­sta gen­te e la ri­man­dia­mo nel nul­la? Ec­co, que­sto è il di­scor­so che con one­stà do­vrem­mo fa­re. Quin­di la que­stio­ne giu­ri­di­ca è com­ples­sa, ma non c’è sta­to nes­su­no sfor­zo, da par­te del­l’I­ta­lia, di da­re va­lo­re a una co­sa che po­treb­be aiu­ta­re sul pia­no uma­no. Io so­no con­tro la di­stin­zio­ne del pro­fu­go in se­rie A, B, C, uno è pro­fu­go e ba­sta, inu­ti­le pren­der­si in gi­ro. E quan­do ar­ri­va gli do­vrem­mo fa­re una pro­po­sta se­ria al­l’in­ter­no di un pro­get­to uni­co che va­le per tut­ta Ita­lia. Non può es­se­re che se ven­go­no da me vi­vo­no nel­l’in­fer­no e se van­no da un al­tro vi­vo­no nel pa­ra­di­so. Ci vuo­le un pro­get­to uni­co che poi chia­ra­men­te si può adat­ta­re se­con­do le si­tua­zio­ni, pe­rò è uni­co. E lo si pre­sen­ta a que­ste per­so­ne. Chi ac­cet­ta fa un per­cor­so che è quel­lo che ab­bia­mo de­scrit­to. Un mo­del­lo del ge­ne­re è sta­to te­sta­to, si è rea­liz­za­to, è fat­ti­bi­le.
Per­ché non è pre­so in con­si­de­ra­zio­ne?
Per gli in­te­res­si in gio­co. Guar­da­te che sul bu­si­ness de­gli im­mi­gra­ti c’è gen­te che ci fa af­fa­ri. Io non ho più pau­ra, cer­te co­se le di­co fuo­ri dei den­ti, le ho scrit­te. Se tu le ve­di, non puoi sem­pre vol­tar­ti dal­l’al­tra par­te. Ho scrit­to a Ren­zi quand’e­ra pre­mier, ho scrit­to al­la Ser­rac­chia­ni, al­l’An­ci, quan­do c’e­ra Fas­si­no, nes­su­no mi ha ri­spo­sto. In­ve­ce mi han­no ri­spo­sto Schul­tz, Jun­ker e la Mer­kel. So­no an­da­to a par­la­re al­l’I­sti­tu­to ita­lia­no di Stra­sbur­go di que­sto mo­del­lo e quan­do so­no tor­na­to qual­cu­no mi ha an­che det­to: “Lei non può per­met­ter­si di an­da­re a par­la­re in gi­ro di que­ste co­se”. Io non pos­so par­la­re? Ma stia­mo scher­zan­do?
Un mio ami­co gior­na­li­sta mi ha an­che det­to un’al­tra co­sa: “Pro­fes­so­re, lei e la sua fa­mi­glia rom­pe­te. Ha ca­pi­to? ”. “Per qua­le mo­ti­vo?”, ho chie­sto: “Lei rom­pe per­ché fun­zio­na”. Ec­co, io pen­so che ci stia­mo bru­cian­do una pos­si­bi­li­tà.
Ma co­sa do­vreb­be fa­re il go­ver­no?
Sem­pli­ce, il go­ver­no, con una for­te do­se di co­rag­gio, lo am­met­to, per­ché in bal­lo ci so­no sem­pre i vo­ti, fac­cia un de­cre­to leg­ge che im­pon­ga ai co­mu­ni in­fe­rio­ri ai 5.000 abi­tan­ti, che so­no la stra­gran­de mag­gio­ran­za de­gli 8.000 e pas­sa co­mu­ni ita­lia­ni, di ave­re so­lo sei ri­fu­gia­ti. At­ten­zio­ne, ogni 5.000 so­lo sei per­so­ne. Quel­li che han­no 10.000 abi­tan­ti, ne avran­no do­di­ci, e avan­ti co­sì in pro­por­zio­ne. Noi ri­te­nia­mo che il mo­del­lo 6+6 sia il più va­li­do per­ché es­sen­do po­chi, il bi­lan­cio è mol­to sem­pli­ce e non dà mar­gi­ni se non per gua­da­gna­re one­sta­men­te, per crea­re po­sti di la­vo­ro an­che, ma non per ar­ric­chir­si. E c’è an­che la pos­si­bi­li­tà quin­di di un con­trol­lo e di una tra­spa­ren­za as­so­lu­ti.
Ci di­ce­va che ha un al­tro pro­get­to. Per­ché è scon­for­ta­to?
No, no, pro­prio in for­za di que­sto. È lo stes­so pro­get­to ma che si apre ul­te­rior­men­te. C’è una gran­de so­li­tu­di­ne nel mon­do di og­gi e ci vor­reb­be­ro luo­ghi che per­met­ta­no di in­con­trar­si, di con­di­vi­de­re un per­cor­so, una stra­da in­sie­me ad al­tre per­so­ne. Le più di­spa­ra­te, non sol­tan­to i pro­fu­ghi. Ci so­no due ele­men­ti fon­da­men­ta­li nel­la so­cie­tà di og­gi, l’e­goi­smo e la so­li­tu­di­ne. Com­bat­te­re que­sti due ele­men­ti lo pos­sia­mo fa­re so­lo ri­crean­do uno spi­ri­to co­mu­ni­ta­rio. E il pro­get­to sa­reb­be que­sto, crea­re dei luo­ghi do­ve po­ter con­di­vi­de­re e dar­si una ma­no. Tan­tis­si­ma gen­te è pro­prio so­la, ab­ban­do­na­ta da tut­to e da tut­ti. E far ca­pi­re che c’è un qual­cu­no che ti ac­co­glie co­mun­que e sem­pre, non è una co­sa da po­co.

(a cu­ra di Pao­la Sab­ba­ta­ni e Le­lia Ser­ra)

(UNA CITTÀ n. 239 / 2017 maggio)

di Giusi Milazzo

 

Salendo dal mare Riace ci accoglie con un cartello che la definisce “Città dell’accoglienza”. Una terra argillosa in cui crescono rigogliosi gli ulivi, circonda il piccolo borgo medievale in cui tra il grigio delle piccole e vecchie case spicca il moderno anfiteatro colorato con i colori della pace. In giro per le stradine, nella piazza, nelle scalinate che si percorrono per arrivare alla mediateca, il luogo in cui si svolge il Riaceinfestival (24-31 luglio 2016), io Anna e Mirella restiamo colpite non solo dalla cura che promana da quei luoghi: fiori, pulizia, bellezza, colori, ma ancor di più dall’armonia e dall’allegrezza che pare esserci tra gli abitanti. Sono donne e uomini africani/e, calabresi, siriani/e, curdi/e che passeggiano, chiacchierano, lavorano nelle botteghe artigianali tra argilla, rame, nastri e perline di vetro. Attorno al calcetto sulla piazza principale si affollano ragazze e ragazzi di tante etnie, con naturalezza e spontaneità giocano flirtano chiacchierano. Guardiamo incantate l’agio con cui si muovono si sorridono si abbracciano al di là di ogni differenza di cultura e religione. Il primo giorno all’arrivo siamo state accolte da Chiara Sasso, l’anima del Festival e la coordinatrice della rete dei Comuni Solidali, che abbiamo conosciuta a Lampedusa, grazie ad Alfonso Di Stefano e Teresa Modafferi della rete Antirazzista catanese. Chiara è una donna che con determinazione e passione ha condiviso e sostenuto per anni le scelte di Domenico Lucano, il Sindaco che dal 1999, ancor prima di essere eletto per la prima volta, ha cominciato a mettere in pratica con l’associazione Città Futura un’idea di accoglienza che restituisse a questo termine il suo significato più profondo. L’occasione fu lo sbarco sulle coste ioniche della Locride di 100 donne e uomini curdi in fuga dalle persecuzioni della Turchia e dallo sterminio con i gas messo in atto da Saddam. Anche il Sindaco è anomalo, diverso dai tanti che conosciamo, lo guardiamo con simpatia mentre si aggira essenziale quasi schivo ma mai rude tra ospiti, registe e registi, artisti, giornalisti, ricercatori, migranti e i suoi abitanti che affollano la sera la sala dei dibattiti. Si vede che lo seguono e che condividono quello che fa. Non tutti naturalmente. Hanno sparato alla vetrata della vecchia casa recuperata come taverna e intitolata a donna Rosa una straccivendola che aveva avuto il merito di tenere in vita il mercato del paese e dove ogni sera siamo state invitate a cenare tutti insieme gustando piatti tipici calabresi e eritrei… la ndrangheta non sembra aver gradito il progetto e l’idea che dalla rassegnazione e dallo sconforto sia possibile uscire. Sì, perché il progetto di Mimmo Lucano è un progetto per i migranti, ma anche per la sua terra martoriata dallo spopolamento e dall’abbandono. La scelta poi di creare una rete tra i Sindaci dell’accoglienza: oltre Riace, Caulonia, Badolato, Stignano… rompe l’isolamento e rischia di creare una vera rivoluzione. È per questo che la criminalità organizzata spara e incendia. Ma si va avanti e Riace, che rischiava di essere un comune fantasma si è ripopolato, non ha chiuso la scuola, ha nuove botteghe per vecchi mestieri. È una storia di piccoli passi, una storia di relazioni di passioni e d’impegno. Donne e uomini in un intreccio fecondo hanno ridato senso e valore all’ospitalità e all’accoglienza, aprendo le vecchie case che sono tornate a essere animate ricostruite strappate all’incuria e all’abbandono da mani solidali ed esperte.
Incontriamo il Sindaco già la prima sera, ci distribuisce la carta moneta “coniata” a Riace e utilizzabile per scambiare merci prodotti e servizi. A Riace viene adoperata in sostituzione dei soldi veri per evitare che le lunghe attese dei fondi per i rifugiati e per i richiedenti asilo blocchino la vita del piccolo borgo e rendano complessa la vita sia per gli abitanti che per i migranti. Ma a Riace le sperimentazioni di un altro modo di amministrare un comune non si fermano qui. Come illustra il sindaco nel corso di un dibattito sull’acqua organizzato nell’ambito del Festival, si sta tentando di rendere il comune autonomo per l’approvvigionamento idrico, scavando dei pozzi autonomi e rifiutando il modello di gestione inefficace e dispendioso della Società privata a cui la Regione ha affidato il servizio. Come Città Vicine quest’anno siamo state invitate a partecipare alla 8a edizione del Riaceinfestival con la mostra itinerante mail art “Lampedusa porta della vita” esposta per la prima volta a Lampedusa nel 2013, realizzata grazie al contributo di artiste e artisti di varie città d’Italia e curata da Anna di Salvo e Katia Ricci delle Città Vicine e da Rossella Sferlazzo dell’associazione Color Revolution. La mostra molto ammirata e apprezzata, allestita nei locali della Mediateca, esprime la positività e la complessità dell’accoglienza avvenuta in questi anni da parte delle donne e degli uomini di Lampedusa nei confronti dei migranti e approda a Riace con le sue belle opere realizzate con varie tecniche artistiche, dopo essere stata esposta in varie città. Qui sembra aver trovato la sua collocazione perfetta, quasi un continuum tra l’intensa esperienza di Lampedusa e questa emozionante storia di costruzione di un nuovo modo di condividere vite, culture e narrazioni. E sono proprio alcune donne migranti che ci avvicinano e si raccontano. Le avevamo viste nelle botteghe artigiane impegnate nella realizzazione di pregiati manufatti, poi il pomeriggio del secondo giorno le incontriamo nell’anfiteatro ad assistere con i figli e alcune con i compagni al recital intenso e commovente di Mohamed Ba, il griot senegalese attore cantore e poeta. Raccontano della loro scelta di stabilirsi a Riace, dove possono vivere con serenità e dignità e crescere i figli in un ambiente a misura di donna. Il nostro soggiorno breve ma per tutte noi straordinario è poi arricchito dalla visione di due dei film del festival. In uno, bellissimo e poetico, Un paese in Calabria, realizzato da due registe italo francesi, Shu Aiello e Catherine Catella, girato durante i lunghi periodi trascorsi a Riace dalle registe nel corso di tre anni, si coglie l’essenza dell’esperienza realizzata a Riace attraverso gli occhi e le emozioni di chi quella esperienza l’ha vissuta e condivisa. Anche nel secondo, Magna Grecia Europa Impari, realizzato da Anita Lamanna e Erwan Kerzanet, le donne sono protagoniste: ritratti quotidiani di donne calabresi in cui le storie di emigrazione si intrecciano con il radicamento a una terra antica e colta ma anche con la capacità di ribellarsi alla cieca violenza degli uomini di casa. Mi viene in mente la potenza delle madri mediterranee raffigurate nelle statuine fittili che ho visto anni fa nel museo di Locri. Questa terra ci ha proprio affascinato, riprendiamo il viaggio verso Catania con la certezza che l’anno prossimo torneremo sempre per le Vacanze politiche delle Città Vicine e con il proposito di riparlare presto nel corso dell’inverno a Catania di quello che è stato fatto a Riace perché siamo convinte che sia l’unico modo possibile per far sì che le migrazioni possano trasformarsi in occasioni di arricchimento culturale e benessere anche per le nostre comunità.
(Catania 8 settembre 2016)


(www.libreriadelledonne.it, 22 settembre 2016)

di Thomas Bruckner

Domenico Lucano, mayor of Riace, sees the flow of refugees in Italy as an opportunity

Riace, Italy – As the continuous influx of refugees is seen as a cause for concern for many European nations, which are employing strict border controls to stop the unprecedented flow of people, one community in the southern Italian region of Calabria has taken a different perspective of the matter.

The village of Riace had seen its population drop from 2,500 to 400 since the 1990s, when people moved to northern Italy for better economic opportunities.

Domenico Lucano, Mayor of Riace, saw the flow of refugees in Italy as an opportunity. “We have been welcoming refugees with open arms for the past 15 years. [They have] saved our village,” Lucano explained.

The resourceful mayor first acted on this opportunity in 1998, when a boat with 218 Kurdish refugees on their way to Greece got stranded on a beach in Riace. This is when Lucano first proposed that the refugees should stay in the village and take over the homes and apartments that had been left vacant by the migrating former residents of the town.

The mayor helped to facilitate the integration by establishing a “refugees welcome” project, which is now spreading through neighbouring towns.

Presently, people from 20 different nations live in Riace. Bakeries and workshops have re-opened. There is even a school for the children of the village.

The population of the village has bounced back to 2,500. The successes in the village have been noted in Rome, according to the mayor, and the Italian government has been promoting the settlement of refugees in other smaller, shrinking communities. The policy makes more economic sense than accommodating the refugees in reception or refugee camps.

(Leggi articolo integrale, contiene molte foto)

(www.aljazeera.com, 2 maggio 2016)

di Alessia Fortunato

 

Tirarmi fuori da sotto le lenzuola, certe mattine, diventa quasi impossibile. Il fiato corto e una sensazione di gelo nello stomaco m’impediscono anche soltanto di tirarmi su a sedere. Penso all’acqua fredda e salata che mi riempiva la bocca e il naso impedendomi di respirare, che mi investiva a ritmo regolare senza darmi tregua. Le urla disperate di chi, come me, lottava per tener cara la pelle in quella situazione di paradossale, grottesca comicità. Duecento naufraghi che, in preda al panico, affogano in due metri d’acqua dopo uno spiaggiamento. Arrivare fin lì era già stato inumano e spaventoso, ma nel momento in cui tutto sembrava superato, quando finalmente un senso di gioia si stava impossessando di noi, era accaduto l’impensabile. Non c’è scampo a questi pensieri quando decidono di riemergere. Lo fanno con una violenza tale da stordirmi. Fissare attonita il soffitto di casa non mi impedisce comunque di sentirmi in tutt’altro luogo, lontano, avverso, terribile. Sento le preghiere di chi vuole rimanere a galla e non ce la fa, le urla rabbiose di chi, disperato, non trova appiglio a nulla, se non a discapito di chi gli sta intorno, aggrappandosi a spalle, braccia o tenendo giù la testa a qualcuno per permettersi il lusso di una boccata d’aria in più. Partiti dalle coste dell’Africa avevamo abbandonato la nostra terra, i nostri risparmi e la nostra dignità; ma qui, in mezzo al mare, abbiamo perso ogni briciolo di umanità, siamo diventati bestie feroci capaci di tutto pur di sopravvivere. Io ho graffiato, morso, inveito e bestemmiato; e ogni volta che accadeva avevo paura di me e di quello in cui il mare mi stava trasformando. Vivo a Milano da otto anni ormai, ma questo non mi impedisce di ricordare quel momento come se fosse ieri, ma no, che dico, come se fosse ora, qui, adesso. Ce l’avevano detto che sarebbe stato pericoloso, ma anche che ne valeva la pena. L’Italia era la nostra speranza, la possibilità di un futuro degno delle nostre anime. Scappavamo dalla guerra civile, dalle persecuzioni dovute alla maledetta religione, la maledetta fede che non unisce né genera fratellanze, ma solo vittime. Io ero una di quelle. Non potevo più lavorare, non potevo più vivere, dovevo nascondermi, nasconderci. Si, perché Shaadiya aveva solo sei anni e dopo che mio marito era stato ucciso da chi pretendeva di addomesticarci in nome di un altro credo, io e lei eravamo un corpo solo, un’anima disperata in cerca di libertà. Dopo mesi di rappresaglie e attentati, con la nostra città ridotta a un pallido ricordo di ciò che era un tempo, ho trovato posto su di una imbarcazione diretta verso le coste della Sicilia. Shaadiya mi sussurrava, la notte, prima di addormentarsi, che Parigi sarebbe stato il posto perfetto dove continuare il mio lavoro, che sarei diventata famosa anche lì. Se non fosse stato per lei mi sarei lasciata morire. Quando è morta ho dovuto decidere di vivere. Ho dovuto decidere di riscattarmi, di rimettere insieme quel che rimaneva della mia vita, di ciò che avanzava di me dopo che il mare mi aveva risputata fuori, dopo avermi tolto l’ultimo pezzo di carne che faceva di me un essere umano.

A un certo punto, non so dire bene quando, in mezzo a quelle braccia che boccheggiavano, premuta al corpo della mia bambina morta, io ho sentito un profumo. Ho sentito l’aroma speziato di maqluba: pollo, riso, melanzane, cavolfiore, sentivo ogni singola fragranza di quella prelibatezza, ingrediente per ingrediente. Mi riportava a casa, al caldo, tra le mura domestiche, dove mi dilettavo a preparare piatti di ogni sorta per esercitarmi e diventare sempre più competente. La mia bambina diceva che non ne avevo bisogno, che ero la chef più brava di tutta la Tunisia. E lei sapeva riconoscere un buon piatto. Quell’odore è stato come uno schiaffo in pieno viso, un risveglio dalla sopraffazione che mi stava dominando, dal mio desiderio di abbandonarmi all’abbraccio salmastro del mare e sprofondare giù con lei stretta al cuore. La motovedetta di stanza a Lampedusa, che ci venne a recuperare, arrivò in quel momento. Uno degli uomini di bordo mi issò sul ponte quasi con compassione, sapeva di dopobarba e sale. Mi guardò tenere tra le braccia Shaadiya e, capendo che non me la sarei lasciata togliere, ci coprì con una coperta di lana spessa e accogliente. Fu mentre raggiungemmo il porto che maturai la decisione di fare dell’Italia l’ultima tappa della mia fuga, non c’era più spazio dentro di me per i voli pindarici fatti sotto le coperte, che piano piano erano diventati quasi una realtà, una possibilità poi non così tanto campata per aria. Sentivo il bisogno di dovermi punire per averci creduto troppo, per aver tentato di illudermi che potevo fare ed avere di più per me e per la mia bambina. Nel mio paese lavoravo per rinomati ristoranti e, quando davano feste di rilievo con menu ricercati, io facevo le prove a casa, con marito e figlia che si improvvisavano giudici esemplari, mai troppo teneri sapendo quanto ci tenessi a far bella figura. Quando iniziò la persecuzione mi dissero di abbandonare tutto. Avrei dovuto evitare di mostrarmi eccessivamente: ero fin troppo emancipata per essere una donna. Quando mi proposero l’Italia, e magari dopo la Francia, mi misero in guardia sul fatto che con ogni probabilità avrei dovuto rinunciare al mio lavoro di sempre, alla mia passione, all’attitudine che mi caratterizzava. Ma guardavo la mia bambina ed ero pronta a rinunciare a tutto per lei, qualsiasi cosa pur di darle un futuro degno di tale nome; e poi c’erano i nostri sogni, che ci bastavano. Non nel nostro paese però, non in quel momento tanto teso e controverso.

Nel centro di prima accoglienza a Lampedusa, dove sono stata portata, non pensavo ad altro che al cibo: spezie, carne, verdure, formaggi, frutta, noci, salse. Ripassavo a mente tutte le ricette che conoscevo, come un mantra. Non per fame, quella mi è passata nel momento in cui Shaadiya ha smesso di respirare, ma perché potessero tenermi aggrappata a quel briciolo di sanità mentale che mi impediva di urlare e strapparmi i capelli per la disperazione. Il mantra serviva a rimescolare ricordi di piacevole intensità per lenire le ferite che avevo dentro. Dopo un po’ ho iniziato a sentire il bisogno fisico di cucinare. Sognavo la notte di essere circondata dai miei utensili, sentivo in quei sogni la felicità d’un tempo, quella amara che non sarebbe mai ritornata, ma che mi faceva andare avanti lo stesso. La cucina del centro era triste e mal fornita, l‘andavo a sbirciare nelle notti in cui il sonno non arrivava a portarmi conforto; allora andavo là: toccavo i mestoli, le pentole, le fruste, le saliere, i pomelli del gas. Annusavo l’origano e il pepe, le uniche spezie contemplate lì dentro. Un giorno mi feci coraggio e mi presentai alla porta della cucina chiedendo ai volontari di permettermi di dare una mano ai fornelli. Capirono, forse dal mio sguardo, che non era voglia di rendermi utile, ma necessità. Fu un toccasana, un accenno di paradiso, il mio, personale.

Mangiavo come un’ uccellino ma sognavo piatti faraonici. L’appetito era affogato nel Mediterraneo e non dava segni di voler tornare. Ma mi stava bene così. Avevo bisogno di cibare l’anima, non il corpo.

Quando, mesi dopo, ci consegnarono i nostri documenti da rifugiati politici, dopo aver valutato con estenuante minuzia ogni nostra singola situazione, partii alla volta di Milano. Avevo una lontana cugina che mi avrebbe temporaneamente ospitato. Temporaneamente per me, non per lei, che mi avrebbe anche tenuta per sempre tra le sue mura; io avevo bisogno di solitudine, di metabolizzare, di ricominciare a vivere senza nessuno che mi sostenesse. Pensare al cibo mi aiutava a farlo.

Dopo due anni dalla morte di Shaadiya io avevo già un lavoro e un buco da chiamare casa, che mi permettevano di respirare autonomamente. Da allora, lavoro in una mensa scolastica, dove gli odori del cibo non possono chiamarsi profumi, ma sono almeno qualcosa. A casa non cucino liberamente il ricettario che ho in testa perché so cosa dicono gli italiani degli stranieri, che esagerano nelle spezie, che contaminano scale e androni dei palazzi, che insozzano i vestiti lasciati ad asciugare. Le ripasso mentalmente, a volte sono un chiacchierare continuo al di sotto del rumore dei pensieri, non mi lasciano mai. Quando mi sveglio, e il naufragio della nostra bagnarola mi assale, cerco disperatamente di aprire il ricettario e rifugiarmi tra le sue pagine, ma nella maggior parte dei casi, non ci riesco: la sua copertina è pesante, spessa e, per me, ancora in balia delle onde, è uno sforzo sovrumano riuscire ad aprirla.

Quando ho trovato la medicina a questo stato di attanagliante angoscia, nemmeno me ne sono resa conto.

Vicino casa mia c’è un parco, e, sentendo parlare delle mie colleghe, ho scoperto che al suo interno c’è un centro che si occupa di aggregazione multiculturale di quartiere. Ho pensato per mesi di andarci, ma ho trovato scuse a me stessa perché farlo avrebbe significato scoprirmi, dover interagire. Io in questi anni ho stretto legami, se tali si possono definire, solo superficiali: le mie colleghe, con cui scambio non più di quattro parole alla volta; la mia padrona di casa, al momento di pagarle l’affitto; i commercianti del quartiere e i vicini, a cui non nego mai un saluto e un sorriso. Mi sono mimetizzata, ho lavorato con abnegazione, dopo ogni turno sono tornata a rifugiarmi a casa, a leggere montagne di libri innamorandomi della letteratura di questo paese e imparando così l’italiano come mai avrei pensato di poter fare. Non l’ho imparato per usarlo, ma per capirlo, per capire cosa mugugna in metro il razzista di turno o la parola gentile dell’anziana che aiuti a scendere dall’autobus. Ma soprattutto per le ricette, quelle della tv, quelle che gli italiani amano tanto. ” Hai visto ieri la ricetta della Parodi? Massì, dai, quella con le zucchine” ” Le ricette della Clerici sono favolose, sto diventando bravissima seguendola ogni giorno” Ne sentivo molti di discorsi del genere e il mio italiano stentato non mi aiutava certo a comprendere meglio il significato. Da noi non ci sono le ricette in tv, da noi non c’è chi ti spiega come si cucina, da noi quello lo fanno le nonne e basta: morte quelle, puoi solo sperimentare. Così ho iniziato a seguire questi elogi via cavo alla cucina, perfezionando la mia dimestichezza nella preparazione di piatti italiani, cosa che mi ha fatto apportare delle migliorie anche alla mensa, spesso insipida e dai colori spenti. Cucinavo pietanze italiane per sopperire al mio desiderio di quelle arabe, anche se sotto pelle sentivo serpeggiare la frustrazione.

Ho preso coraggio il giorno che mi sono trovata tra le mani un volantino di quel centro, datomi da una collega di cui fino a quel punto avevo ignorato la sensibilità e lungimiranza nello scrutarmi, che invitava la popolazione del quartiere ad una cena solidale multietnica in cui tutti potevano portare qualcosa di cucinato a casa. Ci sarebbero stati anche dei bambini, figli di altri che avrebbero assaggiato qualcosa fatto da me, piccole manine che afferrano forchette o sprofondano direttamente nel piatto che hanno davanti, vivendo il cibo come solo loro sanno fare: in modo totalizzante. Avevo tre giorni di tempo per decidere cosa cucinare. Mi mi assalì una pazzesca febbre di adoperarmi ai fornelli, ero irrequieta ed emozionata. Il giorno prima della cena mi presi un permesso dal lavoro, mi svegliai all’alba e andai per mercati e negozi a scegliere tutto ciò che mi serviva, quei posti che sbirciavo solo da lontano con il dolore nel cuore e la voglia di entrarci. Quando l’ho fatto, in uno di quelli che mi appariva il più fornito, ho trattenuto a stento le lacrime dalla gioia. Annusavo il baharat, sentendone ogni sfumatura, toccavo le spezie colorate disposte sui vari banchi e le mie dita, a quel contatto, sussultavano di piacere e nostalgia. Contemplavo in estasi il ras al-hanut: ogni Attar, il tipico erborista arabo, possiede un suo dosaggio che custodisce con gelosia. Ho comprato ogni specialità della mia terra, quelle cose dai gusti indescrivibili e introvabili nella cucina italiana. Ho comprato ogni cosa che mi suscitasse emozione e che fosse necessario alle ricette della mia mente. Sono tornata a casa colma di squisitezze di ogni sorta, che avrebbero dato vita a piatti deliziosi e ricercati: la bamia, una verdura dalla forma di un piccolo zucchino; il burghul, che è grano cotto al vapore, essiccato e quindi macinato; il carvi, spezia molto usata nella cucina araba, che io mescolo con il coriandolo macinato, il peperoncino e l’aglio, componendo un preparato squisito che si chiama tabel; il cardamomo, la curcuma, lo jebne, un formaggio prelibato e cremoso; il laban, un latte acido sostituto di quello normale; il mâ e-zzahr, un distillato di fiori d’arancio per i dolci; la melokhiyya, simile nelle foglie agli spinaci ma si usa essiccata, come spezia.

Appoggiate le borse ho fatto l’ultima cosa importante che mi avrebbe messo in pace con me stessa: sono andata a ogni porta del mio palazzo a chiedere anticipatamente scusa per gli odori che avrebbero sentito, ma spiegando che proprio non ne potevo fare a meno. Ogni porta che si apriva, ogni viso che spuntava, sentivo il mio cuore riempirsi di emozioni strane e contrastanti; siamo pochi nel palazzo e i vicini mi hanno accolto con gentilezza e cortesia, cosa che ho trovato inaspettata dato il mio pregiudizio su di loro: me li immaginavo scorbutici e poco inclini ad avermi come abitante del palazzo. Sono stata accolta da frasi di incoraggiamento, di noncuranza verso quegli odori che ” Che saranno mai! Con tutto lo smog che respiriamo, sarà mica la sua cucina a ucciderci! ” ” Si, però poi vogliamo assaggiare qualcosa anche noi! “. Quando sono ritornata nel mio appartamento ero stordita, ubriaca di quel mondo la fuori che mi stupiva e che non mi era per nulla ostile. È la forza del cibo, direbbe mia nonna, donne che conoscono lo sforzo che si nasconde tra le pareti della cucina sanno di essere accomunate da un segreto.

Dopo aver iniziato a spacchettare gli acquisti fatti e a tirar fuori gli utensili la casa era tutta un’inebriante disordine di oggetti da cucina e profumi intensi. Il ricettario era aperto nella mia mente, avevo già selezionato i piatti da preparare, in ordine di portata, con ogni ingrediente posto in una lista di priorità di utilizzo. Avrei fatto delle piccole porzioni di ogni piatto, preludio delle portate vere e proprie che avrei preparato il giorno dopo, e le avrei fatte assaggiare alla mia dirimpettaia, una trentenne sola e dall’aria trasognata che era scoppiata in una dolcissima risata sonora di fronte alle mie maldestre e paradossali scuse. Iniziare è stato come fare un salto nel passato, in quel passato che rivivo solo nei sogni, mi sono immersa negli odori e nelle padelle fino a riemergerci soddisfatta ed emozionata. Solo io so quanto sarebbe stato bello girarmi e trovare i miei due amori, lì, al di là del tavolo, ad aspettare con l’acquolina in bocca di assaggiare ogni portata. Ma la faccia stupita e deliziata della mia dirimpettaia mentre mangiava e tra un boccone e l’altro mi riempiva di parole d’ammirazione, mi ha reso più sopportabile e più dolce il ricordo di ciò che è stata la mia vita precedente.

Quella notte non chiusi occhio, ero eccitata all’idea di quella cena e al tempo stesso atterrita, ma non mi sentivo così viva da tantissimo tempo, e questo mi bastava. Al mattino l’alba mi trovò già ai fornelli, impaziente di mettermi al lavoro. Avevo casa nel cuore e il presente negli occhi. Un presente che mi stava dando una possibilità di esprimermi, di manifestare il mio amore sconfinato per il cibo, signore conviviale di ogni incontro umano, anche se fosse stato solo per qualche ora. Quando alla sera arrivai al centro, aiutata dalla mia vicina del piano di sopra munita di macchina e di inaspettata disponibilità, a cui avevo fatto assaggiare, in pegno, un fatayer ancora caldo e invitante, mi accolsero esclamazioni di stupore per la quantità di cibo che avevo portato, per i profumi intensi ed esotici che si sprigionavano nell’aria primaverile. Ringraziavo imbarazzata e rispondevo alle mille domande delle ragazze che avevano organizzato la cena, mi contagiarono con il loro entusiasmo e la curiosità che dimostravano nei miei confronti. Mi chiesero di aiutarle negli ultimi preparativi di allestimento della sala adibita per la cena e mi presentarono ad ogni partecipante che via via entrava chiedendo da dove provenissero profumi tanto inebrianti.

La cena fu un sogno, un’emozione indescrivibile, i miei piatti furono divorati, i bambini erano in solluchero per i dolci al miele e mandorle, e mi ronzavano intorno facendomi domande e mandandomi in visibilio. Una donna tunisina mi si avvicinò e mi abbracciò stretta stretta, piangeva, e mi disse che da quando aveva lasciato la sua terra non aveva più assaggiato nulla di simile, nonostante fossi più giovane di lei, mi disse che le ricordavo sua nonna, che le ricordavo casa.

Al momento di riordinare ogni cosa, una delle responsabili del centro mi chiese di lasciarle il mio numero perché pensava di avere una proposta da farmi.

E me la fece.

Insegno ogni mercoledì cucina tunisina a chiunque voglia imparare, ho una mia aula nella struttura al centro del parco, vengono i miei conterranei che vogliono rispolverare le vecchie tradizioni o vogliono mantenere i propri ristoranti sempre curati nei particolari della preparazione, vengono stranieri di altri paesi a cui interessa conoscere i segreti di noi arabi, alchimisti delle spezie, e gli italiani, tanti, tante, che vogliono sperimentare, abbracciare una cultura che vivono quotidianamente a Milano, quasi a volerla comprendere, condividere. Questa è la mia medicina, questo il mio riscatto. Aprirmi alla comunità che mi circonda mi infonde gioia e calore. Mi sento amata e rispettata. Ma soprattutto posso esprimermi e ritornare ad amare la vita.

Io non sogno più il mare ingordo e funesto, ma sogno tanto la mia Shaadiya, le dedico ogni piatto che cucino, ogni chicco di grano, ogni spezia con cui mi sporco le mani.

 

 di Ernesto Rossi

 

Sono passati pochi giorni dalla Giornata Mondiale dei Diritti dell’infanzia. Il Comune ha rischiato di ripetere l’impresa di Moioli-Decorato: lei a celebrarla coi discorsi, lui con lo sgombero di Rubattino. Occasione persa. Ma lo sgombero rimane: in via Brunetti e via Montefeltro si prepara quello di circa 1.500 rom romeni, metà bambini, che si sono lasciati “accumulare”… anzi, vi si è contribuito con tutti gli altri sgomberi diffusi sul territorio milanese di piccoli gruppi che venivano ad aggiungersi qui, non avendo dove rifugiarsi. Così ora si procede, con un unico intervento spettacolare. Una ripulitura generale della città, perché si presenti al meglio in vista dell’EXPO 2015.

Ma dove andranno, visto che i posti in emergenza che sono stati predisposti (via Barzaghi, via Lombroso, via Novara) non sembrano superare le duecento unità? E perché, proprio adesso che arriva il gelo di Attila, mettere per la strada centinaia di persone senza riparo, e di bambini?

È “l’Europa che ce lo chiede”? Non pare. A Natale del 2011 venne a Palazzo Marino il signor Schokkenbroek, inviato appositamente dal Consiglio d’Europa. Incontrò a porte chiuse il sindaco e gli assessori Granelli e Majorino: neppure un comunicato stampa, per una visita così importante, ma la materia era… delicata: si chiedeva al Comune di Milano di cessare gli sgomberi o comunque di adeguarli alle prescrizioni dell’UE: preavviso, assistenza, destinazione alternativa garantita.

Sono anni che si parla di prevenzione. Per la salute, ma vale anche nel sociale. Costa meno, evita sofferenze. Serve a tutelare i diritti fondamentali delle persone. Boh.

Insomma, per tutte queste ragioni (!) lunedì mattina si sgombera. Manteniamo le tradizioni.

Sono nomadi? e noi li aiutiamo.

 

 

Caritas su sgombero rom

 

CARITAS: «Lo sgombero è una sconfitta per tutti». Luciano Gualzetti, vicedirettore della Caritas ambrosiana, commenta così su Incrocinews.it la maxioperazione nei due campi rom attigui al quartiere Musocco-Certosa, a nord della città. «Si era proposto alla Prefettura di soprassedere allo sgombero, di non procedere – sottolinea Gualzetti – perché non provocava altro che la dispersione sul territorio delle persone. Però non siamo stati ascoltati. Adesso non è possibile trovare una soluzione immediata».

«Si libera certamente un quartiere esasperato da questa presenza, e non gli si può dare torto – afferma Gualzetti -. Il punto è non arrivare lì: perché se c’è un centro con oltre 600 persone vuol dire che si è costruito nel tempo. Questi problemi sono grandi, di difficile gestione e soluzione, nessuno ha la bacchetta magica e quindi vanno gestiti quotidianamente, senza lasciarli andare fino ad assumere dimensioni di questo tipo, perché poi diventano ingestibili se non con interventi di rottura come questi». Gualzetti offre il contributo della Caritas per affrontare l’emergenza: «Massima disponibilità a collaborare, però con questo stile di partecipazione e di accompagnamento che deve essere quotidiano, che prevede tempi lunghi, che non può sopportare queste accelerazioni che poi rischiano di far tornare indietro o di esasperare le situazioni che sono di difficile gestione. L’esperienza che abbiamo fatto in questi anni ci ha insegnato molto». In concreto la Caritas, attraverso la Cooperativa Farsi prossimo gestisce il centro di accoglienza temporanea (60-120 giorni) in via Lombroso dove ci sono 60 posti liberi. Ma pur aggiungendo quelli messi a disposizione dal Comune in via Barzaghi, tuttavia non sono sufficienti ad accogliere tutti. «Siamo sempre stati disponibili a dialogare, e a partecipare alla costruzione di soluzioni. Lo sgombero di oggi è una sconfitta per tutti – conclude Gualzetti -. Speriamo che ci insegni a collaborare di più, mantenendo e incrementando i tavoli di confronto su queste vicende».

 

e da UPRE Roma (http://www.upreroma.it/index.php/chisiamo)
Via Montefeltro-Brunetti: un altro sgombero di massa alla vigilia dell’inverno.

 

Danni certi, soluzioni incerte nonostante le grandi somme investite

Oggi 25 novembre è stato sgomberato il “fortino” di via Montefeltro-Brunetti occupato da circa 700 rom rumeni, risultato della fallimentare chiusura del campo regolare di via Triboniano e degli ultimi sgomberi di questa amministrazione. 240 persone hanno accettato la proposta del Comune di essere accolti nei centri di accoglienza, per gli altri – oltre 400 tra uomini donne e soprattutto bambini – c’è solo la ricerca di un altro ricovero di fortuna in attesa del prossimo sgombero.

Tutto si è svolto con ordine, quindi cosa c’è che non va?

Prima di tutto si rendono più gravi situazioni già difficili vista l’arrivo dell’emergenza freddo. Come ogni anno tutte le associazioni laiche, religiose, di rom hanno chiesto una moratoria di queste operazioni per l’inverno, perché le condizioni di queste comunità non diventino tragiche. Ma invano.

In secondo luogo è necessario riflettere sulla scelta di un meccanismo che è destinato a non portare risultati nonostante il costo elevato – sono previsti 4 milioni di euro in due anni – perché, ribadiamo, gli sgomberi senza soluzioni alternative non hanno risolto il problema con De Corato e non lo risolvono ora. I rom degli insediamenti spontanei sono più di 2000, i posti nei centri di accoglienza sono 120 in via Barzaghi e 148 nel nuovo centro di via Lombroso. In questi centri si può stare fino a 200 giorni durante i quali dovrebbero nelle intenzioni dell’amministrazione, essere avviati percorsi di inserimento abitativo, lavorativo e scolastico. Ma trascorsi i 200 giorni quelli di via Barzaghi vanno in via Novara (centro per rifugiati) per lasciare posto ai nuovi sgomberati in attesa che scadano i termini per quelli di via Lombroso, che a loro volta lasceranno il posto ad altri sgomberati in un carosello di gente che gira dal campo a un centro poi a un altro centro per tornare alla fine del giro al campo e magari ricominciare tutto da capo perché nonostante i numeri esigui non ci sono risultati per quanto riguarda casa e lavoro. Di fatto, oltre alla generale difficoltà per la crisi, se non si ha un lavoro certo (95% la percentuale di disoccupazione tra i rom) non si trova una casa e se non si ha una casa, cioè una residenza, non si trova lavoro.

Un altro carosello infernale che non si può alleviare con l’assistenza temporanea offerta, senza dimenticare il peso determinante che gioca la discriminazione e il pregiudizio nei confronti dei rom che li esclude a priori dal ricevere offerte di lavoro.

Ci vogliono quindi politiche diverse, strumenti diversi, sui quali convogliare le risorse disponibili ed è questo l’invito che la Consulta Rom e Sinti di Milano rivolge con urgenza all’amministrazione della nostra città.

Intervista di Mariagrazia Gerina alla La presidente Laura Boldrini

La Padania l’ha ribattezzata la “papessa”. Il leghista Salvini dice che il problema non è il Papa ma lei che lo strumentalizza. Brunetta le ha dato dell’estremista perché non ha accettato l’invito di Marchionne in fabbrica. La presidente della Camera Laura Boldrini tira dritto per la sua strada. Quella dei “diritti” sui quali – ha detto al numero uno della Fiat – non accetta “gare al ribasso”.
Presidente lei che tante volte ha denunciato la strage nel Mediterraneo come ha accolto le parole del Papa da Lampeudsa?
È stata una grande emozione. Le sue parole sono un monito al Nord ricco del mondo e all’indifferenza. Il Papa ha rimesso al centro le persone che rischiano la vita in mare, ridando dignità a migliaia di morti e ai tanti che ce l’hanno fatta. Negli anni di lavoro con l’Alto commissariato, tra i miei obiettivi c’era il rispetto degli obblighi internazionali e dell’ordinamento italiano, che tutela il diritto d’asilo. Si è trattato di fare anche una battaglia culturale sull’utilizzo ingiusto di parole come clandestino.
“Un conto sono le prediche, un conto è il governare”, ha detto però Cicchitto.
Basta guardare quello che sta succedendo in Egitto per capire che è proprio dal governare che nasce tutto. Da che mondo è mondo le fughe sono conseguenza della cattiva politica, del fallimento della democrazia. La gente fugge quando non ha alternative. E gli Stati hanno l’obbligo di accogliere e verificare se ci sono motivi per rilasciare protezione internazionale. Il diritto d’asilo è nella Costituzione. Governare vuol dire gestire tutto questo, nel rispetto dell’ordinamento nazionale e degli accordi internazionali.
Lei come portavoce Unhcr dal 1998 al 2013 ha avuto come interlocutori governi di centrodestra e di centrosinistra. Quali risposte le davano?
Ci sono stati governi più disponibili al dialogo, altri meno. Ricordo momenti drammatici. Come quando nel 2009 l’Italia scelse di mettere in pratica il respingimento in alto mare senza concedere neppure la possibilità di presentare domanda d’asilo. Fu un momento molto difficile, come portavoce dell’Unhcr venni attaccata duramente. Ma poi l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani. L’altro momento drammatico fu nel 2011, quando i migranti che arrivavano a Lampedusa non furono più trasferiti fuori dall’isola e si creò quella situazione ingestibile tutta sulle spalle degli abitanti. In Libia c’era una guerra, nei paesi vicini arrivavano centinaia di migliaia di persone, in Italia dalla Libia arrivarono 28mila persone ma autorevoli esponenti politici parlarono di tsumani umano, di esodo biblico, facendo sentire l’opione pubblica minacciata.
I suoi interlocutori di allora sono gli stessi che adesso sostengono il governo delle larghe intese. Questo taglia le gambe alla speranza o c’è una possibilità di cambiare rotta?
Io mi auguro che in Italia si esca dall’utilizzo strumentale dell’immigrazione e dell’asilo, che si vada oltre le ideologie, le prese di posizione propagandistiche e le divisioni. Il paese ha bisogno di uscire dalla stagione della paura, nell’era della globalizzazione si va inevitabilmente verso società composite formate da persone che vengono da contesti diversi ma cittadini nel paese in cui vivono. Non si può giocare alla demonizzazione, ci vuole senso della realtà. Non c’è un nemico di fronte. Ci sono solo quattro milioni e mezzo di immigrati e alcune decine di migliaia di rifugiati di cui occuparsi nel rispetto del diritto nazionale e internazionale. Ci vuole più maturità.
Pensa che dal parlamento possa venire un segnale?
C’è un gruppo di parlamentari bipartisan che sta lavorando sui temi dell’immigrazione. Io mi auguro che si riesca ad arrivare presto all’elaborazione di un testo condiviso sulla cittadinanza.
Ne avete parlato con Napolitano che oggi (ieri per il lettore ndr) l’ha ricevuta?
Abbiamo parlato della visita del Papa a Lampedusa. E di quando lui era ministro dell’Interno. Anche da presidente della Repubblica, ha sempre sollecitato i partiti a riconsiderare la legge sulla cittadinanza.
Le ha espresso la volontà di andare a Lampedusa?
Non ne abbiamo parlato.
E lei ci tornerà?
Se me lo chiedono, volentieri.
Dallo stabilimento di Atessa dove lei non è andata Marchionne ha attaccato quanti “anche da autorevoli istituzioni” considerano “esercizio dei diritti” “comportamenti violenti”.
Non credo che si riferisse a me. Io considero il mondo delle imprese centrale per la ripresa del paese, per questo ho ricevuto delegazioni di imprenditori, sono andata dai giovani industriali, ho accolto l’invito del presidente di Confindustria. Ma non posso esimermi dal ribadire che ci vuol rispetto dei lavoratori. Un concetto che dovrebbe essere pacifico. Lo dice la nostra Costituzione. Questo scrivevo nella lettera a Marchionne. Non si può pensare che il gioco al ribasso sui diritti sia il modo per uscire alla crisi.
Marchionne risponde che rischiamo di morire di diritti.
Non penso sia questo il rischio, piuttosto oggi ci sono più generazioni che vivono la precarietà del lavoro e di ogni ambito della vita. E che rischiano di morire della mancanza di diritti. Il nostro paese ce la farà se i lavoratori avranno più capacità di incidere. La formula di chi ordina e di chi esegue non è più praticabile, bisogna coinvolgere chi lavora nei processi produttivi.
Gliele dirà a voce queste cose?
Perché no? Se ci sarà occasione. Ho lavorato una vita per la mediazione, non mi tiro mai indietro di fornte a uno scambio di vedute.
Brunetta le dà dell’estremista, Salvini dice che strumentalizza il Papa. Sente il suo ruolo in discussione?
Ormai il gioco è a chi rilancia di più. Ma non è nel mio stile uscire dal linguaggio del rispetto. Quando uno ha buone ragioni non ricorre alle grida. Continuo nella mia strada e se questo provoca reazioni scomposte, non è un mio problema. Non mi interessa assecondare il pensiero unico. Seguo la mia coscienza e il programma che ho esposto il giorno in cui sono stata eletta alla presidenza della Camera. Quello è il mio impegno con gli italiani.

“Lampedusa porta della vita” mostra, vacanza, bellezza

 

 

Cara amica e caro amico,

quest’estate a Lampedusa il gruppo Colors Revolutions di Rossella Sferlazzo e la rete delle Città Vicine intendiamo organizzare una mostra all’interno del programma dell’ormai tradizionale Lampedusainfestival che si svolgerà nella stupenda isola dal 19 al 23 luglio 2013 a cura dell’associazione Askavusa.

Ti invitiamo a partecipare con una tua opera visiva, che potrai  realizzare con la tecnica a te più congeniale, che abbia come tema “Lampedusa porta della vita” e che faccia riferimento ed esprima la drammaticità e la felicità di donne e uomini migranti quando in lontananza intravedono la Porta di Lampedusa quale salvezza e accesso a una nuova vita. E’ questa un’emozione che vede partecipi anche le donne e gli uomini abitanti l’isola, in un’inter-azione di desideri, curiosità, perplessità e bellezza tra chi arriva e chi accoglie. Intrecci di relazioni e scambi che Lampedusa da sempre ha favorito grazie alla sua posizione geografica e alla sua vocazione all’ospitalità, com’è accaduto anche con le Città Vicine che per il terzo anno consecutivo l’hanno scelta per la loro Vacanza Politica che si svolgerà lungo tutta la durata del Lampedusainfestival.

La mostra avrà un iter viaggiante per ricordare gli ingiusti e pericolosi viaggi che donne, uomini e bambini delle terre d’Africa e d’Oriente sono costretti/e a compiere prima d’arrivare sino a noi.

Nei giorni del Lampedusainfestival sono previste altre manifestazioni artistico- espressive-coloristiche che vedranno le e gli artisti di Colors Revolutions e delle Città Vicine esprimersi nella decorazione a soggetto della parete e della porta di una casa di Lampedusa.

Nel gran finale del Festival, poi, le donne e gli uomini presenti potranno essere coinvolti nella performance “Le relazioni dei colori” durante la quale ciascuno/a sceglierà una fascia di stoffa di un colore dell’Arco-baleno per legarsi a un’altra/o, motivando il perché della scelta di quel colore e di quella persona; infine il tessuto di relazioni umane e di fasce colorate vedrà il formarsi di una ragna-tela umana colorata con i colori “rambow”, tenendo presente che l’Arco-baleno rappresenta visivamente e simbolicamente di per sé un varco, l’Arco d’accesso alla speranza e alla felicità…

 

– La grandezza dell’opera dovrebbe rispettare all’incirca la dimensione A4 mentre il formato sarà a propria scelta (ovale, rettangolare, irregolare…) ed essere inviata, corredata da una breve descrizione anche poetica del lavoro e da un curriculum dell’artista, con posta celere immancabilmente entro i primi di giugno 2013 per permettere a Rossella Sferlazzo di realizzare un video delle opere, da proiettare durante il festival, al seguente indirizzo:

Rossella Sferlazzo, via Rosolino Pilo 35, 92010 Lampedusa.

Per ulteriori contatti e informazioni: katia.ricci@libero.it Rossella.sferlazzo@email.it lacittafelice@libero.it mirellacla@gmail.com

Perla Maria Gubernale

Gapa e La città felice hanno organizzato un incontro con l’artista e attivista lampedusano Giacomo Sferlazzo, da anni impegnato a testimoniare la memoria degli sbarchi con canzoni, poesie e sculture ricavate dagli oggetti abbandonati dai migranti sui barconi. “L’arte è il modo migliore di fare politica senza demagogie”, spiega a CTzen. Per parlare di immigrazione ed accoglienza, e sensibilizzare su un problema che, al di là della cronaca, passa sotto silenzi e indifferenza
“Vivere a Lampedusa significa abitare un luogo geografico che è periferia e centro allo stesso tempo”. Raccontare le bellezze e le contraddizioni di un’isola al crocevia tra Africa ed Europa, contemporaneamente protagonista di drammi e speranze di migliaia di uomini e donne che la vedono come un approdo alla salvezza. Con gli occhi e le parole di chi queste storie le vive ogni giorno, raccontandole attraverso arte, musica e poesia. Ieri, in via Cordai, il Gapa e La città felice hanno organizzato un incontro con Giacomo Sferlazzo, artista, poeta e cantautore lampedusano, da anni impegnato attivamente in una terra protagonista di questioni difficili che la portano al centro della scena internazionale. Ma che, al di là della cronaca degli sbarchi, a causa del suo isolamento è vittima di indifferenza ed abbandono.
Una serata nata per discutere, informare e confrontarsi. In cui sollevare, anche a Catania, i vari problemi che affliggono l’isola. Tra viaggi della speranza, morti in mare, frontiere chiuse, rimpatri e respingimenti. Ma per parlare anche di accoglienza, solidarietà e convivenza pacifica tra culture diverse. E per proporre nuove soluzioni ed instaurare collaborazioni tra le diverse realtà locali. Tutto raccontato, “tra arte e politica”, dalle canzoni e le poesie di Sferlazzo, insieme ad un video con cui ha mostrato le sue opere. Dal 2005, infatti, l’artista lampedusano realizza sculture ed installazioni con gli oggetti dei migranti di passaggio a Lampedusa. Lettere, libri, vestiti, foto, disegni, abbandonati tra i relitti dei barconi, vengono così recuperati e, insieme al legno delle imbarcazioni, trasformate in testimonianze di memoria.
“L’arte – spiega l’autore a CTzen – è il modo migliore di fare politica in maniera non demagogica, scontata e populista. E che consente metodi d’azione più vasti”. L’artista, quindi, in un momento storico come questo, deve “sensibilizzare ed informare, prendendo una posizione chiara”. E lui lo fa per raccontare quello che vive ogni giorno con il lavoro all’interno di Askavusa, associazione culturale di cui è tra i fondatori, nata nel 2009 dopo le rivolte contro la costruzione dei Cie sull’isola. E che da allora si impegna sul fronte dei flussi migratori, promuovendo i temi di antirazzismo e accoglienza con tante iniziative, tra cui il Lampedusa In Festival, e raccogliendo materiale riguardante le migrazioni che interessano l’isola all’interno di un piccolo museo.
Storie di migranti, ma anche di lampedusani, protagonisti di grandi atti di umanità. “Quando ci siamo recate a Lampedusa – racconta Anna Di Salvo de La città felice – siamo rimaste stupite dal comportamento degli abitanti, che, al contrario di quello che si dice, cercano in tutti i modi di accogliere ed aiutare chi arriva, anche superando i divieti delle forze dell’ordine”. Nonostante alcuni siano terrorizzati, perché temono che “i pregiudizi sulla presenza dei migranti possano far calare il turismo sull’isola, loro unica fonte di reddito”, sottolinea. Ed è proprio la mancanza di informazione sulle reali condizioni in cui versa Lampedusa ad isolare sempre di più la gente che ci vive. “È impensabile – continua Di Salvo – che un problema così grande passi spesso sotto il silenzio e l’indifferenza di opinione pubblica e politica, che promette tanto e non mantiene nulla. Sopratutto qui in Sicilia, dove ci riguarda ancora più da vicino”.
“Lampedusa si trova in una posizione geopolitica delicata: è la porta d’Europa, ma anche laporta della vita per i migranti”. Che, dopo viaggi disumani, “arrivano credendo di trovare la salvezza e si scontrano con le frontiere sbarrate da leggi assurde, che permettono alle merci di circolare da un continente all’altro e lo impediscono agli uomini”. Barriere geografiche, ma anche umane e culturali. Ricordando anche le centinaia di persone che sono morte in mare – “sull’isola non c’è più dove seppellirle” – e porre l’accento anche sul delicato risvolto femminile legato all’immigrazione. “Non tutti sanno – sottolinea Di Salvo – che moltissime donne subiscono ogni tipo di violenza sui barconi. Alcune arrivano incinte o partoriscono a bordo perché vittime di stupri ancora prima di partire”. Situazioni che vanno oltre la cronaca, ma che nella vita di tutti i giorni dimentichiamo. E che sull’isola si toccano con mano.
“Lampedusa è un luogo di ricerca dell’universale, sia dal lato politico e sociale, sia da quello spirituale, perché siamo al centro del Mediterrano e della storia”, afferma Sferlazzo. Dove, gli ultimi vent’anni, con l’intentensificarsi del fenomeno degli sbarchi, hanno visto passare da qui migliaia di storie di uomini, che hanno lasciato un segno indelebile nella cultura degli isolani. “Vivere a Lampedusa significa farsi tante domande, chiedersi il perché di quello che accade”. E scoprire che la causa non è poi così lontana da noi. Anche dal punto di vista politico. “I flussi migratori sono strettamente collegati alla politica dei nostri paesi. Siamo noi i primi produttori di migrazione”, conclude l’artista. Che forse dovremmo uscire dall’indifferenza ed affrontare gli sbarchi lampedusani per quello che sono: un problema di natura internazionale.

Franca Fortunato

Quest’estate, dal 20 al 27 agosto, otto donne della rete de “Le Città Vicine”, provenienti da Mestre, Verona, Catania e Catanzaro, donne legate politicamente dall’amore per i luoghi e le città, abbiamo scelto l’isola di Lampedusa per la nostra annuale vacanza politica, spinte dal desiderio di conoscere questo lembo di terra, reso tristemente famoso quest’inverno dall'”emergenza” degli immigrati tunisini, e desiderose di incontrare chi ci vive e lavora per amore di questa terra. La bellezza paesaggistica e ambientale di Lampedusa è ciò che ci ha colpite da subito. Un mare limpido e azzurro, bianche spiagge, scogliere a strapiombo sul mare, un terreno arido e spoglio, tramonti mozzafiato, ci hanno fatto innamorare di questa che, tradizionalmente, è l’isola “della vita”, non solo per la tanta umanità dolente che vi approda da sempre, con la speranza di poter andare altrove e trovare una vita migliore per sé e i propri figli, ma anche per le tartarughe marine, specie protetta, che vi approdano sulla spiaggia per nidificare. Durante la nostra vacanza, gli sbarchi di immigrate/i continuavano, eppure non ci è mai capitato di incontrare per l’isola qualcuna/o di loro, né ci è stato concesso di avvicinarci al Centro di identificazione ed espulsione, difeso dal ferro spinato e guardato a vista dalle forze dell’ordine. L’unica traccia del loro passaggio, alcuni barconi, ammassati sul porto e sorvegliati da due militari. La stessa popolazione evitava di parlare degli sbarchi. Che cosa era dunque successo su quell’isola? Per capirlo abbiamo incontrato, grazie alla mediazione di Giusy Milazzo, responsabile della Cgil di Catania, in vacanza con noi, la responsabile della Legambiente Giusy Nicolini. Lei ci ha fatto capire come a Lampedusa, nei tre mesi dell’emergenza, è stato “massacrato” un modello di accoglienza, “una vocazione naturale” di “isola di accoglienza”, “terra che ti salva la vita”, “ponte del Mediterraneo”, ed è stata trasformata in “isola carcere”. Nei mesi dell’emergenza, infatti, il Ministro Maroni e il sindaco di Lampedusa, De Rubeis, denunciato, come il suo collega di Treviso, per istigazione al razzismo, hanno scelto deliberatamente di abbandonare quella gente alla fame e al freddo, per creare il sovraffollamento e fare scoppiare il “caso Lampedusa”. Non è vero che l’isola non era in grado di gestire gli arrivi. In tutta la fase dell’emergenza sono passati 24/25 mila migranti (non più di quelli del 2008), in un’isola che ogni anno è in grado di accogliere oltre 120/130 mila turisti nella sola stagione estiva. Gran parte della popolazione, più donne che uomini, da parte sua, ha fatto quello che poteva. “C’era chi dava loro da mangiare, chi faceva fare a qualcuno la doccia a casa, chi, con coraggio, distribuiva cibo, medicine, abiti e soprattutto scarpe, visto che quelle in donazione erano di pezza con il teschio bianco su sfondo nero e viceversa”. Non è vero che gli albergatori hanno avuto un danno, anzi per molti la presenza delle forze dell’ordine è stato un business. Se il turismo estivo, per coloro che hanno la seconda casa, abusiva, ha avuto qualche calo, è per via della crisi economica e non per gli immigrati. Giusy, dopo averci parlato del problema dello smaltimento dei rifiuti e dei liquami, della necessità di distruggere i barconi, chiudendo le discariche, nocive all’ambiente e alla salute, ci ha lasciate dicendo: “Se Lampedusa rimane per i migranti una meta di passaggio, l’impatto si può gestire e controllare, se i governanti invece continueranno a creare situazioni di squilibrio ne vedremo delle belle”. E delle belle ne abbiamo viste a settembre, con gli immigrati, più uomini che donne, in rivolta, che hanno incendiato il Centro, divenuto luogo di detenzione per adulti e minori, e sono stati, tra le minacce del sindaco, trasferiti agli arresti domiciliari sulle navi, in attesa di conoscere il loro destino. Giusy ci ha fatto capire il senso della lotta che lei, la sua amica Paola e altre donne e uomini portano avanti a Lampedusa. Lottano perché l’isola resti “porta della vita”, come un giovane migrante tunisino nel 2009, le disse al suo approdo.

Anna Di Salvo

Questo contributo racconta dell’esperienza di donne che hanno cercato di cucire la lacerazione tra la realtà del turismo e gli interessi degli isolani per il turismo, e la sventura di chi arriva clandestinamente (e la pietà degli isolani per questa gente). Di questo parla anche il film di Crialese, “Terraferma”, candidato agli Oscar.
La Redazione del sito

L’esasperata rivolta dei migranti da troppo tempo rinchiusi nel “centro di accoglienza” di contrada Imbriacola a Lampedusa e la violenta risposta data loro da alcuni abitanti dell’isola, sono le amare conseguenze causate dalle strategie impolitiche messe in atto dall’attuale e dai precedenti governi italiani in tema di accoglienza di donne, uomini e bambini che dalle terre d’Africa e d’oriente approdano a Lampedusa in cerca di speranza. Si tratta di logiche e di leggi che poco hanno a vedere col senso della vita e con quanto regge e governa veramente l’esistente. Regole disumane che mettono in croce gli abitanti di Lampedusa costretti, soprattutto per motivi economici, a mortificare la loro tradizione d’accoglienza e ospitalità, a nascondere il desiderio di aiutare quanti rischiano la vita in mezzo al mare e a cancellare l’immagine originaria dell’isola d’essere vista come la “Porta d’Europa”.
Proprio a Lampedusa quest’estate, dal 20 al 27 agosto, la rete delle Città Vicine ha organizzato una Vacanza Politica dal titolo “Lampedusa mon amour” per entrare maggiormente in contatto con le contraddizioni che l’isola presenta e soprattutto con gli abitanti, con amministratori locali e donne e uomini di associazioni quali Askausa e Legambiente di Lampedusa, che si impegnano per creare l’equilibrio e l’armonia necessaria per saper accogliere e far convivere, anche se per periodi brevi, la popolazione locale con chi approda sulla più africana delle isole Pelagie. Otto donne, provenienti da Catania, Mestre, Catanzaro e Verona, ci siamo trovate a vivere insieme un periodo intensissimo, ricco di esperienze di emozioni e un rapporto magico con l’isola.
Abbiamo ragionato molto tra noi e i nostri interlocutori, elaborato e condiviso analisi, riportando una visione molto sfaccettata della questione “Lampedusa” che ha lasciato molto vivo in noi l’intento di proseguire nell’impegno, intensificando l’intreccio delle relazioni con chi abbia già messo in moto politiche sensate in merito al problema degli sbarchi dei migranti e della convivenza sull’isola di donne e di uomini di diverse culture. Insieme a quelle e a quelli che volessero sostenerci e affiancarci in varie forme da sperimentare, sarebbe bello continuare a dipanare e rendere possibile una politica di scambio tra Città Vicine e Lampedusa.

Massimo Valsecchi

Premessa
Una delle contraddizioni insite nelle attività di prevenzione (che sono definite “paradossi di prevenzione”) è costituita dal fatto che la parte di popolazione più svantaggiata dal punto di vista sociale tende ad utilizzare di meno le possibilità di prevenzione (anche quando queste sono offerte gratuitamente) rispetto al resto della popolazione.
Questo paradosso descritto nel rapporto Independent Inquiry into Inequalities in Health di Sir Donald Acheson edito nel lontano 1998 e commissionato dal governo laburista in carica (vedi L’Arco di Giano n.42004) deve essere contrastato dai servizi sanitari nazionali ed in realtà ciò accade in alcuni Paesi europei avanzati (dall’ Inghilterra alla Slovenia) che programmano specifici interventi di contrasto delle inequalities sanitarie.

Nel nostro Paese, questo tema non è ancora stato affrontato nei documenti nazionali di programmazione sanitaria.

Il tema non è citato nel Documento preliminare informativo sui contenuti del nuovo Piano Sanitario Nazionale 2010-2012 consegnato dal Ministro Fazio alla Conferenza Stato-Regioni del 29 aprile 2010.
Parimente assente nell’approvato Piano nazionale per la prevenzione (PNP) per gli anni 2020-2012) che trova, per altro, modo di enfatizzare la necessità di una nuova “medicina predittiva”

Il tema, invece, sia pure in termini molto disomogenei o anche di sola citazione trova attenzione in diversi dei Piani regionali di prevenzione 2010-2012 (Prp): Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Toscana, Trentino, Umbria e Valle D’Aosta.

Scontiamo dunque un forte ritardo rispetto alle indicazioni dell’OMS e dell’Unione Europea di inserire in ogni programma sanitario una specifica valutazione dell’effetto che tali interventi possono comportare nell’ampliare o diminuire le disuguaglianze sanitarie esistenti.

In realtà sono molte le attività di contrasto alle disuguaglianze che diffusamente vengono organizzate nel Paese anche se al di fuori di una cornice generale di riferimento; penso, quindi, sia importante cominciare a dar loro risalto tentando di identificare il mosaico di iniziative realizzabili e realizzate in modo da innescare la possibilità che possano essere replicate in altre zone del Paese.

Vaccinare i bambini Rom
Una di queste iniziative è in atto dalla fine 2010 nella città di Verona con l’obiettivo di raggiungere e vaccinare i bambini dei nuclei familiari Rom di origine romena che erano ospitati in un campo nomadi (di Boscomantico) successivamente chiuso dall’Amministrazione comunale.
Si tratta di un piccolo gruppo di 150 persone , metà delle quali di età inferiore ai 12 anni che ,dopo la chiusura del campo, si sono disperse su tutto il territorio provinciale.

Il campo, che è rimasto aperto dal 2005 al 2007, ospitava 29 famiglie con una media di 5 membri per famiglia e presentava una demografia – ed una prevalenza di patologie- del tutto particolare: rapporto maschi/femmine 0,85; età media di soli 14,5 anni (13,4 per i maschi e 15,4 per le femmine); 37% della popolazione di età < 6 anni; 8% della popolazione di età > 30 anni, con l’adulto più anziano di 51 anni di età. (F. Abrescia, M Veronesi, M.Gobbo, M. Degani, M. Mistretta, Z. Bisoffi. High prevalence of Giardiasis in a Gipsy Roma Community in Verona, Italy . Italian Journal of Tropical Medicine. Vol. 15, N. 1-4, 2010)

Durante il periodo di apertura del campo sono state tentate diverse modalità pervaccinare i bambini; sono state riservati per loro degli orari specifici concordati presso il distretto ma con scarso risultato. Si è così tentato di effettuare la profilassi vaccinale loco in un piccolo ambulatorio pediatrico che, però, non ha retto alle difficoltà ambientali e che, quindi aveva dovuto essere chiuso.

Il nuovo tentativo del Dipartimento di Prevenzione è ripartito con un approccio diverso e cioè quello di favorire ed organizzare l’afflusso di questi bambini verso uno dei nostri ambulatori vaccinali .
Questa modalità , oltre al non piccolo pregio di essersi dimostrata efficace, ha consentito di “normalizzare” l’offerta vaccinale per questa popolazione di utenti alla quale vengono così offerti standard di qualità e sicurezza che non potevano essere raggiunti facilmente in un ambulatorio provvisorio. Chiave di volta dell’operazione è stata la partecipazione di una ONLUS molto attiva “Medici per la Pace” che ha esperienza di interventi sanitari in zone disagiate del mondo e che, quando era aperto, già aveva operato all’interno del campo di Boscomantico guadagnandosi la fiducia dei suoi occupanti. (http://www.mediciperlapace.org)
Con questa ONLUS è stata stesa una specifica convenzione da parte della ULSS, che ha attinto le modeste risorse economiche necessarie (4.000 euro), da un piano della regione Veneto per il miglioramento delle attività vaccinali.
(la delibera dell’ULSS e le relative convenzioni con l’ONLUS sono scaricabili dal sito: http://prevenzione.ulss20.verona.it/ nella sezione : i problemi nascosti: Disuguaglianze in sanità ).


Le modalità operative utilizzate sono le seguenti:
-Gli operatori dell’ONLUS contattano i singoli gruppi familiari, raccolgono la documentazione vaccinale, se esistente, e prenotano un appuntamento con il medico vaccinatore del distretto individuato.
-Nel giorno definito il mediatore accompagna il nucleo familiare nell’ambulatorio distrettuale dove vengono effettuate l’analisi della documentazione raccolta e la verifica degli eventuali dati già presenti nell’anagrafe vaccinale elettronica. Viene così definito il programma di vaccinazioni ed effettuate le prime somministrazioni se il piccolo è del tutto scoperto o la ripresa del programma se il bambino aveva già iniziato un ciclo vacciale.
Si è concordato che in caso non sia disponibile documentazione e i genitori non ricordino se e con che cosa i piccoli sono stati vaccinati sia preferibile evitare la ricerca di anticorpi e, quindi, nel dubbio si procede senz’altro con la vaccinazione.
-Tutte le vaccinazioni ( difterite,tetano, pertosse, Haemophilus influenzae b, epatite b, polio Salk , meningococco C , pneumococco, morbillo, parotite, rosolia varicella, HPV) sono, ovviamente offerte gratuitamente.

La vaccinazione contro gli HPV (un gruppo di virus molto diffusi che vengono contratti con l’attività sessuale e che sono considerati causa dei tumori della cervice uterina ) è particolarmente importante per le bambine (la offriamo a dieci anni di età) dato che, in questa comunità così mobile è più difficile, rispetto alla popolazione generale, organizzare lo screening per i pap test periodici, che costituiscono un intervento di provata efficacia nei confronti della prevenzione della comparsa dei carcinomi cervicali.

Questo intervento appare tanto più significativo quando si tenga conto della elevata prevalenza del cancro cervicale (e della mortalità ad esso correlata) nell’area di origine della popolazione in esame- sud est della Romania – così come in numerosi altri paesi dell’est Europa (Bulgaria, Estonia, Latvia, Lituania etc.) (M. Arbyn, J. Antoine, Z. Valerianova, M. Magi,A. Stengrevics, G. Smailyte, O. Suteu and A. Micheli. Trends in cervical cancer incidence and mortality in Bulgaria, Estonia, Latvia, Lithuania and Romania. Tumori Vol. 96 N. 4 July-August 2010 517-523)

 

Con l’estensione in atto dell’intervento offriremo questa vaccinazione anche alle mamme dei bambini.
E’ singolare che all’interno del gran numero di convegni e programmi organizzati per l’introduzione di questo vaccino nel nostro Paese non abbia trovato posto nessuna iniziativa specifica a favore di questa popolazione che presenta in assoluto il miglior rapporto costibenefici di questa pratica preventiva e costituisce , così, un esempio da manuale del “paradosso della prevenzione” di cui parlavo all’inizio.

Sulla base della non felice esperienza precedente avevamo una serie di dubbi sulla possibilità di riuscita dell’intervento che in realtà sta funzionando molto bene e che ci ha riservato anche alcune sorprese positive.
La prima è stata che data la giovanissima età dei genitori che accompagnano i loro figli, il medico vaccinatore del distretto ha offerto anche a loro la profilassi vaccinale ottenendo una buona risposta positiva (vedi tabella seguente).

Soggetti vaccinati dal 16.12.2010 al 21.04.2011
Età 0-12: Femmine 7; Maschi 19; Totale 26
Età 13-18: Femmine 3; Maschi 2; Totale 5
Età
19-30: Femmine 14; Maschi 3; Totale 17
Età 30-40: Femmine 2; Maschi 4; Totale 6
Totale: Femmine 26; Maschi 28; Totale 54

Il secondo aspetto è che questo intervento specifico sulla vaccinazione dei bambini ha aperto un canale di comunicazione sulle necessità sanitarie di questa popolazione che evidenzia aspetti di crescente interesse.
Uno di questi è il tentativo di organizzare lo screening del cervico carcinoma per le mamme che accompagnano i loro figli in distretto.
Nel corso dei contatti con queste donne è emerso anche un ulteriore elemento interessante e cioè la loro richiesta di essere informate sulle possibilità di controllo della gravidanze .

-Il progetto si sta ora espandendo; è stata rinnovata la convenzione con l’ONLUS con l’ obiettivo di utilizzare le stesse modalità di intervento in un campo nomadi di carattere più stanziale che ospita da molti anni famiglie Sinti.

Silvia Marastoni

«Siamo italiani. Ci sentiamo europei ma nello stesso tempo siamo consapevoli dei nostri legami indissolubili con tutti i popoli del Mediterraneo. Il razzismo non fa parte della nostra civiltà, che ha visto nei secoli un continuo e proficuo scambio con i popoli che si affacciano su questo nostro mare. Quanto avviene a Lampedusa ci umilia e ci imbarazza. Non è questa l’Europa che vogliamo, non è questa la nostra Italia». Comincia così la nota diffusa a fine marzo da Ilario Ammendolia, presidente del comitato direttivo dell’associazione dei 42 Comuni della Locride. Sindaco di Caulonia, Ammendolia ricorda come il comune che amministra e quello di Riace siano diventati due modelli d’accoglienza riconosciuti anche a livello internazionale: storie che mostrano come la convivenza con gli “altri” non solo sia possibile, ma possa rappresentare un guadagno per tutti, quando avviene in accordo con le comunità locali, trovando le mediazioni adeguate. Esperienze, quelle di Riace e Caulonia, ispirate a loro volta dal “laboratorio Badolato” – il primo tentativo di far rinascere un paese spopolato a causa dell’emigrazione accogliendo i curdi che arrivavano sulle coste calabresi – voluto e avviato negli anni ’90 da Tonino Perna (docente dell’università di Messina da molti anni impegnato nel “terzo settore”). Invenzioni felici, tentativi riusciti: anche grazie a queste esperienze il comitato direttivo dei comuni della zona Jonica ha deciso oggi di dichiarare l’intera Locride terra di accoglienza. «Un’ accoglienza» afferma Ammendolia «che tende non solo a porgere la mano ai disperati che bussano alle nostre porte ma che ha, come obbiettivo di fondo, l’idea – certamente di non facile attuazione – di far rinascere le campagne abbandonate ed i borghi disabitati grazie agli immigrati ed ai rifugiati. Dinanzi a quanto sta succedendo a Lampedusa e sulle coste dell’Africa non restiamo indifferenti. Non ci giriamo dall’altra parte». E, aggiunge, «non si tratta d’una semplice dichiarazione di principi». Cita esempi concreti: il comune di Gerace e quello di Antonimina, infatti, hanno già dato la disponibilità ad ospitare una “tendopoli” che accolga gli immigrati, purché abbia come requisito prioritario la tutela della dignità umana. Il sindaco di Benestare ha messo a disposizione degli alloggi e un fabbricato sequestrato alla ‘ndrangheta; altri comuni sono pronti a collaborare, così come numerosi medici e volontari, e molte cooperative che hanno già esperienza in questo ambito. «Non dimentichiamo mai chi siamo stati, quante volte siamo stati noi a bussare alle porte degli altri e quante volte siamo stati invece un rifugio sicuro per altri popoli» conclude Ammendolia anche a nome degli altri sindaci dell’associazione «vogliamo ribadire che la Locride non è terra di mafia. La Locride è, prima di tutto e innanzitutto, una Terra di civiltà antica, di gente generosa, di naturale ospitalità».

Anna Di Salvo Catania

Ho incontrato due volte uomini e donne di paesi arabi e del nord Africa ai cancelli antistanti il “Villaggio degli Aranci” di Mineo perché volevo addentrarmi nella maniera più diretta nella questione degli sbarchi massicci avvenuti in Sicilia. Volevo vedere e conoscere dal vivo una parte di quei corpi migranti che hanno superato le insidie del canale di Sicilia e che dopo il clamore del loro esodo biblico nell’isola di Lampedusa, sono stati trasferiti con malcontento loro e degli abitanti di Mineo al Villaggio degli Aranci, costruito originariamente da affaristi privati per dare accoglienza a militari americani di stanza nella vicina base militare di Sigonella. Mi sono recata lì insieme ad amiche e amici dei gruppi pacifisti di Catania con i quali lavoriamo politicamente ogni volta che se ne presenta l’occasione, per riflettere su precise questioni o dar vita a iniziative, portando con noi cibi e bevande, abiti confortevoli, musica e soprattutto molta emozione, aspettative e curiosità. Giunta all’appuntamento, la mia prima impressione è stata quella di avere davanti uomini (le donne sono sopraggiunte solo alla fine dell’incontro) di popoli mai incontrati che riuscivo a vedere con occhi nuovi per la prima volta. Svanite le immagini di masse umane senza volto sbarcate da traballanti carrette del mare incamerate dalle angoscianti trasmissioni televisive, svanite le scene dei conflitti coi lavavetri ai semafori cittadini, ero davanti a una giostra di volti giudicanti, gentili, preoccupati e carichi di speranza. Gli sguardi man mano cominciarono a incrociarsi, a rimandarsi il senso di ataviche risonanze che opacizzavano le classiche e scontate profferte d’aiuto e solidarietà. In fondo agli occhi di tutti, siciliani, arabi e indiani, ha navigato per il lungo guizzo di un attimo la pena condivisa dei popoli negati e l’empatia delle donne rivolta alle amiche ardite provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo. E oltre alle lingue, ai gesti, ai sorrisi, ai cibi, alle musiche, alle danze e ai bei costumi degli afghani, mi è balzata subito agli occhi la bellezza di tutta quella umanità desiderosa di contare sulla scena del mondo e la vitalità delle loro giovani e interessanti esistenze che mezzo mondo s’industria a ignorare.
Ora gli abitanti di Mineo hanno cambiato atteggiamento nei confronti delle donne e soprattutto degli uomini semi-reclusi al villaggio degli Aranci che hanno imparato a conoscere grazie alla buona volontà dei migranti che affrontano 3 chilometri in salita verso il paese per andare a conoscerli; parecchi, sollecitati da un centro sociale, vogliono trascorrere con loro la festa del 25 Aprile per incoraggiare qualcuno a rimanere a lavorare a Mineo, terra di aranceti e di grandi pensatori. Anch’io ho ridimensionato in parte, dopo aver conosciuto da vicino i migranti al villaggio degli Aranci, aver visto le loro facce pulite e aver dato loro fiducia, il senso di tremenda paura e di preoccupazione provata per le donne di Lampedusa quando arrivavano le notizie della permanenza di migliaia di uomini (con picchi anche di seimila, soltanto uomini) sull’isola, che mi ha portata, parlandone con le donne e con gli uomini di “Città Felice”, e scatenando non poche contraddizioni, a pensare di suggerire alle lampedusane di fuggirsene via immediatamente dall’isola. A farmi cambiare posizione ci ha pensato anche però, la grandezza dimostrata da donne e da uomini di Lampedusa che hanno saputo tener testa all’emergenza che si era abbattuta su di loro e che per dirla con le parole di Ignazio Marino pronunciate durante la trasmissione “Agorà” del 29 marzo su Rai 3, «hanno messo in moto e dato vita all’umanità che è del Mediterraneo e che manca a questo governo». Ma non soltanto al governo, aggiungerei io…
Sollecitate/i da tutta questa miriade di eventi a dir poco emozionanti e coinvolgenti che interrogano nel profondo ciascuna/o, parlandone con donne e uomini delle Città Vicine, abbiamo deciso di organizzare proprio a Lampedusa la nostra Vacanza Politica della fine di agosto per sentirci presenti in quella terra di confine. Stando vicine agli abitanti coraggiosi dell’isola e vicine anche a chi depone ogni aspettativa in quei viaggi della speranza rischiando la vita in mezzo al mare.
Ma anche e soprattutto perché Lampedusa è una bellissima isola e speriamo divenga un fiore all’occhiello per le Città Vicine!

Gemma De Magistris

Sembra che il comune di Milano abbia avuto bisogno di una lunga e complicata riflessione per decidere se mantenere o meno in Via Padova le decorazioni in varie lingue.
A scuola ci siamo arrivati più in fretta.
Entro in una mia classe cui riconosco buone capacità organizzative e desiderio di collaborare e lancio la proposta: prima reazione entusiasmo, in fondo si tratta di colorare cartoncini e riempirli con un breve testo augurale.
Ma le cose cambiano in fretta: molte studentesse e studenti “stranieri” scoprono di parlare la lingua madre ma non sono certi di saperla mettere per iscritto; allora l’incontro diventa fondamentale. Incontro fra di loro, scambio e aiuto da casa.
La classe che coordina si occupa degli aspetti tecnici, procura cartoncini, ritaglia, dà forma, distribuisce. I ragazzi delle varie classi delle due torri si incontrano, le connazionali collaborano, chiedono consigli.
Poi nell’aula di filosofia arrivano i cartoncini con gli auguri ma ognuno/a arriva anche con una piccola storia: i toni sono eccitati, le parole hanno perso timidezza.
“Ho preparato gli auguri con mia madre, ho sentito la zia che è in Egitto, nelle Filippine, in Ucraina……ho contattato i miei cugini dicono che bella idea, ho pensato che un disegno sarebbe stato carino…..” Le studentesse più piccole delle classi prime bisogna stanarle in classe, hanno preparato ma non hanno il coraggio di portare giù i cartoncini. Ma li hanno lì. Poi un espositore di legno, e circa 15 ragazze e ragazzi si interrogano sulla maniera migliore per ricoprirlo. Ogni biglietto viene ammirato, si cerca di capire la lingua, si incastrano le forme, si tenta una piramide. Tanti tentativi e ognuna e ognuno ascolta, dice la propria, poi chiede consiglio. E sono di classi diverse. Non si conoscevano.
Osservo, non mi pronuncio, dichiaro la mia incapacità, autorizzo a decidere e penso: “questa è l’ora di filosofia, ho interrotto il programma, rimandato Cartesio e il cogito a dopo Natale, ma stanno imparando e, in una maniera che non si può dire ma solo intuire, stanno facendo filosofia”.
E in questo momento (didattico??) la riforma Gelmini è da un’altra parte.
Nell’atrio della nostra scuola c’è un espositore con tanti cartoncini colorati che augurano buon Natale, buon anno, in circa 40 lingue. Non c’è testo che lo accompagni, non attira tanto l’attenzione ma i ragazzi e le ragazze ne sono fieri, lo hanno mostrato ai genitori a scuola per i consigli di classe. E si sono incontrati. Il mio guadagno per il tempo, l’energia, i minuti sottratti a Cartesio?
Come una piccola o grande ricchezza che non so dire.