Esistono ancora enormi disuguaglianze ma le categorie sociali non esistono più’ ‘Le reazioni delle musulmane sono molto simili a quelle delle occidentali’
Gianni Valentino

Le donne del terzo millennio. Le loro rivincite, le emozioni, il conflitto di genere con gli uomini che hanno accanto. Tre dei tanti binari lungo i quali corre “Il mondo delle donne”, la nuova ricerca dello scrittore e sociologo Alain Touraine (alla quale hanno collaborato due dottorande francesi, una coreana e l’ altra araba), circoscritta al territorio francese e presentata ieri pomeriggio in un incontro per la rassegna “Donne di marzo”, a Palazzo Armieri, ospite dell’ assessorato regionale alle Pari Opportunità. Nel titolo, lo studioso riassume ogni sfumatura della femminilità moderna ma ci tiene a spiegare che la sorgente della sua indagine rimane la soggettività: «Specialmente nel mondo occidentale esistono ancora enormi disuguaglianze ma per ragionare delle donne, oggi, bisogna partire dai singoli casi. Tuttavia ci sono tratti comuni». E ne elenca qualcuno. «Dopo le azioni femministe nate in seguito al ’68», dice Touraine, «dove regnava una frase scioccante come “Un figlio. Quando voglio, se voglio”, e in cui però si sono ottenute tante vittorie come la legge sull’ aborto, adesso parlare di donne è diventato complicato. è tutto ridotto in frammenti perché è diverso il clima mondiale. Si percepisce un indebolimento di quell’ atteggiamento militante, che è conseguenza di una fase di arretramento generale in cui i ruoli femminili sono sempre più lontani dal potere. Per tre anni ho diretto un seminario a Parigi – continua il sociologo – poi a New York. A un certo punto ho sentito di non poterne più di analizzare la donna dal punto di vista della “vittima”, vuoi per via delle violenze che è costretta a subire o anche per le disparità cui è sottoposta nelle selezioni professionali. Ho smesso di studiare e ho iniziato a fare interviste in giro, dedicando anche uno dei capitoli del libro alle donne musulmane immigrate, e scoprendo felicemente che queste non cercano affatto uno scontro culturale con le donne europee, quanto una fiera convivenza. Dalle decine di conversazioni è emerso che le donne che ho incontrato a differenza degli uomini – dei quali parlano molto poco perché preferiscono preoccuparsi della maternità – si ritengono capaci tutte di “fare due cose” contemporaneamente: mantenere un ruolo privato all’ interno della famiglia e affiancare a questo una missione pubblica. E nessuna di esse, dalla cassiera alla manager, ha detto di sentirsi vittima. Insomma, sanno di poter essere corpo e mente». Una rivelazione alla quale Touraine oppone una nuova prospettiva: «Tutto ciò dimostra che le categorie sociali quasi non valgono più. Io che in passato ho avuto il culto della lotta di classe e del progresso, per un attimo ero tentato perfino dall’ intitolare questo volume “Antisociologia”, ma sarei stato sicuramente frainteso. Una volta – aggiunge – il mondo veniva osservato con gli studi della scuola di Francoforte, poi con quelli del post-modernismo. Oggi sento di poter dire che l’ unica categoria è quella dell’ individuo, che sa resistere anche all’ ingerenza dello Stato. Certo, è una situazione che a qualcuno provoca un po’ di confusione, ma la trasformazione non può essere arrestata».

Quasi un quarto delle famiglie italiane non desidera bambini
Un “modello” in crescita mentre calano le coppie con figli
Concita de Gregorio
Fare futuro. Anni fa parlando ai ragazzi di un liceo romano con un linguaggio, dunque, per nulla dottorale la sociologa Chiara Saraceno rispose ad una studentessa che le chiedeva “ma perché esista una famiglia sono necessari i figli?”. In un certo senso sì, disse Saraceno. “Non si può negare che quando una coppia rinuncia ai figli rinuncia a fare futuro”.
La realtà dell’Italia, quindi, ci apparecchia una tavola da cui sta scomparendo il futuro. Se ci contiamo troviamo un bambino ogni sette abitanti: una delle medie più basse d’Europa. Il saldo fra nati e morti, nella popolazione non immigrata, è negativo: i morti sono 13 mila di più. Ventidue famiglie su cento in Italia sono composte da coppie senza figli: ventidue su cento, quasi una su quattro. Sposate o non sposate, è lo stesso: il punto non è il tipo di vincolo. La questione è, piuttosto, che quasi un quarto delle famiglie italiane non desidera avere figli: preferisce di no. Si può ormai molto spesso dire che “preferisce” dal momento che i casi di impossibilità oggettiva di averne – non tutti, certo – sono stati da tempo soccorsi dai progressi della medicina, l’aumento delle adozioni ha fatto il resto. Volendo avere un figlio oggi molto più spesso di prima si può: a costo anche di aggirare le nostre leggi andando in paesi dove è più facile farne, od ottenerne. Ciononostante quel 22 su cento cresce ancora: del 19,6 in due anni. Diminuiscono, anche se molto meno, le coppie con figli.
Bruno Melappione, 56 anni, ascolta tutto questo mentre la moglie quarantenne prepara un caffè: “Mi sembra chiaro che l’istinto di conservazione della nostra specie decrepita, dopo millenni, si è consumato”, ride. La moglie arriva con le tazze: “A me i bambini non piacciono, quelli degli altri sì, intendiamoci: i miei nipoti sono meravigliosi ma per me non ne ho mai desiderati. Sto bene così, stiamo molto bene così”. Quando ha conosciuto suo marito aveva 31 anni, ora ne ha 42: undici anni di cene con gli amici, pomeriggi al cinema, viaggi. Non è stata una questione economica, dicono: non è che i figli non siano arrivati perché costano e non c’erano soldi, perché mancava la casa o il lavoro. Ci sono state difficoltà, certamente, ma non è a causa di quelle che hanno rinunciato. E’ facile capire che davvero è quasi sempre così. C’è il buon senso, c’è l’esperienza e ci sono studi che lo certificano: specialmente quando si tratta del primo figlio il conto dei soldi è secondario. Sono altre le ragioni che spingono a farlo, le difficoltà si superano. Semmai è al secondo e al terzo figlio che si rinuncia per non aggiungere spese e rinunce, non al primo: quasi mai al primo. “Certo che avremmo potuto farlo, semplicemente non abbiamo voluto”.
Bruno Melappione e Maricetta Lombardo sono nati in famiglie numerose.
Lui romano, settimo di nove fratelli. Artigiano specializzato, costruisce scenografie per il cinema. Scrive racconti, vorrebbe sceneggiare un film. Primo matrimonio a 24 anni: due figli di 34 ed 32, è già nonno di un bimbo di 4. Lei agrigentina, terza di sei figli. E’ arrivata a roma 16 anni fa per frequentare il centro sperimentale di cinematografia, fa il tecnico del suono. Per passione fotografa. In salotto alle pareti ci sono sono foto sue: un incontro di boxe, un autoritratto con Alberto Granado quello che ha fatto col Che il viaggio della motocicletta, “un vecchio bellissimo l’ho conosciuto a Berlino”. Vivono in una casa di 70 metri quadri, “una casa dei preti”: l’affitto è basso, mille euro al mese. Non fumano, non bevono. Il giornale ogni tanto, “ci sono quelli gratuiti”. Libri molti, “cinema tutti i giorni”. Tutti i giorni? “Sì, in un cinema di San Lorenzo al primo spettacolo il biglietto per le prime visioni è di due euro. Ci andiamo tutti i pomeriggi. Se si può, certo. Ogni giorno un film diverso”. E’ la loro spesa principale. Niente macchina (“c’è, ma solo per i viaggi in Sicilia”, quando vanno in estate a casa di lei), tessera dei mezzi pubblici. Maricetta: “Per il mangiare sì che si spende. Io adoro cucinare, si vede no?, guardi che taglia abbiamo raggiunto fra tutti e due… Ecco, questo sì: invitiamo molto spesso amici a cena”.
Si sono conosciuti undici anni fa, sette anni dopo si sono sposati. Perché il matrimonio? Bruno: “Io prima convivevo con una ragazza finlandese ma non avevo mai preso l’impegno di sposarla, non ho mai pensato fino in fondo che avrei voluto stare per sempre con lei”. Il matrimonio perché è un impegno. “Sì è così. Convivi se stai bene in quel momento, ti sposi se ti prendi un impegno per la vita. È anche un regalo che fai all’altra persona: per me non ci dobbiamo lasciare mei più, le dici. Delle volte mi dispiace averla sposata perché non la posso risposare”. La moglie gli sorride. E perché niente figli? Maricetta: “Non ho pazienza. Non ne ho voluti. Lui aveva i suoi già grandi, io lavoravo molto viaggiavo. C’è stato un momento, forse, ma poi ho preferito di no. Mi piace stare con i miei nipoti ma non torno mai a casa pensando vorrei un figlio anch’io. E poi vede quante storie infelici ci sono, che inferno può essere la famiglia, quei poveri figli… abbiamo visto un film proprio ieri no Bruno?. “Ieri. La riproduzione è un istinto animale, lo fanno le bestie senza essere famiglia. Fra uomini si può stare insieme anche in modi diversi, si decide cosa è meglio, cosa è possibile, cosa si desidera davvero”. Loro desiderano principalmente stare insieme: “Siamo felici così, col cinema al pomeriggio, le cene con gli amici la sera, il nostro computer, qualcosa da leggere e da scrivere, la macchina fotografica che ci accompagna nei viaggi”. Bruno progetta di scrivere un libro sui templari, la sua passione. “E’ chiaro che il tesoro se l’è magnato Filippo il Bello e che il papa era d’accordo”, questa la trama. Maricetta ha lavorato a un film di Pasquale Scimeca sullo sfruttamento dei bambini “e ora spero che esca, poi spero di avere presto un altro lavoro perché al momento non ce n’è”. Cosa servirebbe per stare meglio? Lei: “Qualche soldo in più ma non per essere ricchi, la ricchezza porta problemi. Per andare a teatro, fuori a vedere una mostra, per viaggiare un po’ di più. Prima avevo delle manie, gli occhiali gli orologi, poi sono stata in Africa e mi sono passate tutte. Bisognerebbe che fosse obbligatorio per tutti passare almeno una settimana in africa nella vita, così uno si rende conto del mondo dove viviamo”. Il futuro com’è? “Il futuro siamo noi, i nostri amici. Le serate a base di piatti siciliani e greci, brasiliani. Abbasso le diete, per carità, non sopporto il velinismo. Sono contro la taglia 38 a favore della 46”. Il futuro, Bruno? “Il mio futuro è lei, Maricetta. Forse un libro, forse un film: se vengono, chissà. Di certo ci siamo noi. La nostra famiglia cioè noi, la nostra casa cioè qui: il nostro futuro è questo, ce l’ho davanti agli occhi”.

Ida Dominijanni

«Quando i gay e le lesbiche della costa californiana, a partire dal 1965-70, vollero diventare genitori, inventarono una cultura della famiglia che non era, per molti aspetti, che la perpetuazione del modello che avevano contestato e che era già in piena trasformazione. Ed è proprio perché questa cultura portava con sé un grande desiderio di normatività che fu accolta come la peggiore delle ferite inflitte all’ordine simbolico». Ne La famiglia in disordine (Meltemi 2006), un libro intelligente e di questi tempi assai consigliabile della psicoanalista francese Elisabeth Roudinesco, i/le omosessuali entrano in scena solo alla fine, nel capitolo dedicato alla famiglia a venire che chiude la sua illuminante ricostruzione di una crisi della famiglia tradizionale cominciata, come vedremo fra poco, almeno un paio di secoli fa. Ma intanto l’osservazione appena citata di Roudinesco è illuminante per capire quello che di reale e di fantasmatico si agita oggi in Italia attorno alla pur modesta proposta dei Dico. Sul «desiderio di normatività» che muove le richieste di legalizzazione delle coppie omosessuali circola oggi infatti un legittimo interrogativo nella cultura radicale che dagli anni Sessanta in poi si è nutrita di contestazione dell’istituto familiare e matrimoniale, a molti e molte – compresa chi scrive – quel desiderio di norma sembrando in contraddizione con la trasgressività del desiderio omosessuale. Roudinesco risponde però che è proprio quella domanda di norma, e di normalità, a mettere in crisi la norma e la normalità dell’ordine familiare, come se ne minacciasse il monopolio. Non solo: suggerisce che nell’allarme omofobico che si leva da ogni dove agisce, più che l’intolleranza per la sessualità «diversa» dei gay e delle lesbiche, il panico per la loro possibile genitorialità.
Per quanto siano stati per secoli «perseguitati, trattati da paria, invertiti, uraniani, sodomiti, poveri diavoli, omofili, pederasti, povere diavole, tramatrici», gli /le omosessuali, argomenta Roudinesco, sono stati tuttavia relativamente tollerati finché si sono tenuti nell’ombra della sfera privata e si sono attenuti all’interdizione di procreare. Ma se alla rivendicazione e alla politicizzazione di una sessualità «diversa» si aggiunge «il rifiuto di piegarsi alle regole della procreazione naturale», allora il gioco si fa duro: il tabu che si infrange non è più solo quello della norma eterosessuale, ma quello della procreazione naturale che procede dall’accoppiamento di un uomo e di una donna. Più dell’omosessualità dunque, è proprio la famiglia omosessuale, o il suo fantasma, a scatenare le reazioni fobiche di un ordine socio-simbolico che si sente minacciato in una sua colonna portante.
Non solo dal versante dell’omosessualità, del resto. Nell’interpretazione di Roudinesco, dicevamo, la «minaccia» omosessuale all’ordine familiare è l’ultima tappa di una parabola di crisi della famiglia che comincia a fine Settecento con la Rivoluzione francese ed esplode a fine Novecento con la rivoluzione tecnologica della procreazione assistita. Protagonisti di questa parabola sono per un verso la crisi progressiva dell’autorità paterna: dal «Dio-padre» della famiglia pre-moderna al patriarca secolarizzato del contratto sociale, dal «patriarca mutilato» dalla ribellione dei figli e dall’emancipazione femminile che Freud registra nel teorema dell’Edipo e che abita la società novecentesca all’eclissi del padre (e del patriarcato) delle società post-femministe di oggi. E per l’altro verso, il processo di emancipazione e l’irruzione novecentesca della libertà femminile, con quello che ne consegue per la separazione della sessualità dalla procreazione e per il rilievo centrale che la figura materna assume a fronte del declino di quella paterna. «L’ordine naturale della procreazione» si ritrova dunque attaccato, a fine Novecento, sia sul fronte delle relazioni eterosessuali sia sul fronte delle relazioni omosessuali. Ed è questo il vero fantasma che agita oggi i sonni della Chiesa e dell’esercito neo e teocon mobilitato a difesa della famiglia tradizionale.
Si spiega facilmente, in questa prospettiva, la doppia crociata che il Vaticano ha lanciato in Italia prima contro la procreazione assistita, poi contro la famiglia omosessuale, nell’un caso e nell’altro la posta in gioco essendo per l’appunto la difesa dell’ordine procreativo naturale. E si spiega facilmente anche come nelle analisi sociologiche di stampo tradizionalista sullo stato della famiglia la preoccupazione numero uno sia rappresentata, più che dalle trasformazioni delle tipologie familiari, dal declino della natalità e della «ambizione» di mettere al mondo dei figli. Illuminante in questo senso La fine della famiglia di Franco Volpi (Mondadori 2007), un’indagine statistico-valoriale che guarda con occhi desolati al mutamento in corso, diagnosticandolo come ineluttabile declino dell’istituzione familiare. Due cause, scrive Volpi, concorrono a questo declino: la «riduzione ai minimi termini» del numero di figli all’interno dei nuclei «regolari» e l’aumento delle tipologie familiari (single e coppie) senza figli (nel censimento 2001, su 100 famiglie 25 sono unipersonali, 22 sono costituite da coppie senza figli, 43 da coppie con figli ma con una media di 1,11 figli per coppia, un valore costantemente in picchiata negli ultimi trent’anni). Non solo: prima che la spinta a procreare, nell’Italia di oggi manca la spinta ad accoppiarsi: la famiglia che resiste è solo quella di provenienza. Conclusione: «Hanno vinto i celibi e le nubili, i trentenni che vivono ancora in famiglia come figli, le coppie di una sola persona e quelle senza figli». E perso l’ancoraggio ai figli, la famiglia perde peso, senso e prestigio, e l’individualismo trionfa.
Ma è davvero così? O è piuttosto l’ottica familista a non saper più rendere conto delle nuove declinazioni della famiglia e delle relazioni affettive che in essa maturano? Guardando l’insieme del quadro dal punto di osservazione delle madri sole, Franca Bimbi (e Rossana Trifiletti, Madri sole e nuove famiglie, Edizioni lavoro, 2006) arriva a tutt’altre conclusioni: l’indagine sui nuclei monoparentali mostra non una famiglia incompleta o impoverita, ma al contrario un universo articolato «in cui le relazioni di cura e i legami sembrano moltiplicarsi», uscendo dai confini stretti della coabitazione della famiglia «regolare» nucleare e dalla coincidenza obbligata fra il suo perimetro biologico, affettivo e giuridico. Dove l’analisi tradizionale vede processi di de-familiarizzazione, si può intravedere al contrario un ritorno in forme nuove della famiglia allargata di un tempo: a dimostrazione che «il presente contiene più passato di quel che non appaia, mentre il futuro spesso ci sorprende anche quando sembra ripetere il già noto».
A condizione, s’intende, di lasciarsi sorprendere; e dunque di guardare al mutamento familiare e sociale con occhi sgombri da pregiudizi e ideologie, apocalittiche o progressiste che siano. Non c’è fine ma trasformazione della famiglia in corso. E se non c’è una norma a cui adeguarsi, nemmeno ci può essere una normalizzazione a cui aspirare. Più che famiglie da catalogare e giudicare, ci sono soggettività ed esperienze differenti da far parlare e da ascoltare. Come scrive Roudinesco, «di fronte al vasto cimitero di riferimenti patriarcali abbandonati» o aggressivamente resuscitati – esercito, Chiesa, nazione, partito – la famiglia può morire anch’essa, o viceversa ritrovare la sua generatività simbolica: ma a patto di essere «di nuovo reinventata».

Concitra de Gregorio

NAPOLI – Daniela ha 40 anni, è l´ultima di quattro fratelli, lavora come infermiera in ospedale. Vive a Portici insieme ai genitori quasi ottantenni e ad una zia, sorella del padre, nello stesso appartamento dove è stata bambina. Quando si è sposata è rimasta a vivere coi suoi. Quando è nata sua figlia anche. In casa oggi sono in sei: i genitori, la zia, Daniela e suo marito, la figlia Marta che ha 9 anni. Accudisce l´anziana madre ammalata, si occupa della figlia, lavora. «Adesso sono io che devo assistere mia madre ma fino a pochi mesi fa era lei che mi aiutava con Marta. È un regime di mutuo soccorso. Certo che mi piacerebbe andare a vivere da sola con mio marito e con la bambina ma finora non è stato possibile: prima non avevo lavoro, poi i soldi non bastavano. Ora stiamo cercando una casa, ci piacerebbe restare vicino ai miei anche se qui a Portici è pericoloso, c´è il vulcano, mi mette l´ansia. Vedremo».
Non è vero che le famiglie numerose non ci sono più. Sono solo diversamente numerose. Nella sua relazione di inizio mandato il ministro Rosy Bindi diceva con una certa preoccupazione che le coppie con almeno quattro figli si sono ridotte all´uno per cento: erano due milioni negli anni Sessanta sono trecentomila oggi, quasi scomparse e soprattutto povere. Una su cinque sotto la soglia di povertà: condizioni abitative e sociali disastrose, da assistenza di servizi sociali. I figli a multipli di due nascono ormai solo nelle famiglie molto ricche o indigenti: in quelle che se lo possono permettere e in quelle che non possono evitarlo, in quelle che non hanno altra ricchezza che le braccia da mettere al lavoro. Tuttavia i nuclei familiari composti da almeno sei persone sono tornati a crescere negli ultimi dieci anni. La loro caratteristica è che comprendono almeno tre generazioni: nonni, figli, nipoti.
Gli analisti le chiamano “famiglie sandwich”, rende l´idea. Un panino in cui la generazione di mezzo, quella dei quarantenni, è stretta fra i genitori ed i figli: in principio è una necessità, strada facendo un vantaggio in termini di aiuto reciproco, in finale diventa per la generazione di mezzo un peso. Figli dei loro padri e insieme padri dei loro figli, stretti nel sandwich, i due di mezzo finiscono per assumersi la responsabilità della cura dei vecchi e dei giovani, entrambi da accudire. “E´ il trionfo della famiglia verticale – dice Giampero Dalla Zuanna, demografo – una peculiarità tutta italiana. Si registra nel tempo una grande stabilità dei rapporti di sangue, la linea che va dai nonni ai figli ai nipoti. La novità di questi ultimi anni è la prossimità abitativa: non occorre che vivano insieme, spesso sono vicini. Nella grande maggioranza dei matrimoni celebrati negli anni ‘90 la coppia è andata a vivere a meno di un chilometro dai genitori di entrambi i coniugi. Significa che si sono sposati tra vicini di casa e che sono rimasti a stare lì”.
La ragione della convivenza (o della prossimità) è sempre, specialmente nelle grandi città, economica. Daniela: “Sono stati i miei ad insistere perché restassi con loro anche dopo sposata. La casa era abbastanza grande per tutti, io non potevo permettermi un affitto dignitoso. Quando è nata Marta è stato normale restare: loro aiutavano me, che nel frattempo avevo iniziato i turni in ospedale, io aiutavo loro anche nelle spese. Mio marito poi non c´è, più di sei mesi all´anno è in Angola”. Il marito si chiama Helder De Andrade, ha 53 anni, insegna geologia all´Università di Luanda. Si sono conosciuti quando lui faceva il dottorato di ricerca all´Università di Napoli. Di madre angolana e di padre portoghese di origine indiana Helder è nero di pelle così come Marta, la figlia. Matrimonio “misto”, tipologia in crescita del 20 per cento negli ultimi due anni. Solo uno dei coniugi italiano. La vita si incarica di mischiare le carte – e le categorie sociologiche – assai più del previsto: famiglie allargate composte da coppie di fatto che convivono coi nonni. Famiglie miste ma anche sandwich. Famiglie senza figli che abitano coi fratelli, con gli zii. Non sono eccezioni, sono la norma: il nucleo tradizionale – padre madre figli – è già da anni minoritario: 42 per cento. 58 famiglie su cento nella realtà del Paese sono diverse da quel modello a cui sempre si riferiscono le gerarchie ecclesiastiche. Eppure anche le altre ugualmente famiglie, certo.
“Sentiamo sempre parlare dello choc culturale delle unioni cosiddette miste – dice Daniela – noi non abbiamo avuto nessuno choc. I miei genitori, papà tassista in pensione mamma casalinga, hanno accolto Helder per quello che è: una persona di valore. Certo che poi le cronache ci restituiscono storie tragiche di incomprensioni fra culture diverse, storie di segregazioni e soprusi familiari dovuti alle diverse origini delle persone che si uniscono però io credo che i giornali parlino soprattutto di quello che non funziona e molto meno di quello che funziona. E poi ci sono tanti pregiudizi: guardi cos´è successo a Erba, quanti immediati sospetti sul ragazzo nordafricano, e invece…”. Helder racconta che quel po´ di diffidenza che ogni tanto sente a Napoli non è diverso da quello che Daniela ha sperimentato quando vivevano in Angola, sono stati lì due anni: “Era pallida, era straniera, era diversa. Quando ci siamo sposati, nel municipio di Luanda, i funzionari la prendevano in giro: è un matrimonio di convenienza, le dicevano, si sposa per avere il permesso di soggiorno…”. Lui ha provato a trasferirsi a lavorare in Italia ma “un geologo qui è uno su milioni, in Angola siamo pochi e preziosi”. Parla un italiano perfetto, “a scuola studiavo Machiavelli nel testo originale”, la sua lingua madre è il kikongo, antica lingua del Congo, quella paterna il portoghese. “Il padre di Daniela l´ho conosciuto quando è nata Marta, in ospedale. E´ stato lui a dirmi venite a stare da noi: non spendete soldi inutilmente. Certo che un po´ la convivenza mi pesa ma non è perché mi senta costretto, anzi: è che non mi piace togliere spazio agli altri, è una questione di rispetto”.
Daniela dice che ormai non è più un problema di soldi. Lei guadagna 1600 euro al mese, lui circa 2000 dollari. Potrebbero farcela molto bene, con una bambina, “però adesso che mia madre ha avuto un ictus come faccio ad andare via, sono passati gli anni e i miei si sono fatti anziani, quando Helder non c´è io mi sento meglio a stare con loro, sono più sicura e poi Marta è cresciuta coi nonni e con la zia: anche mia zia ci ha aiutati tanto”. Fra pochi anni Helder andrà in pensione, ne ha già più di 30 di servizio, e allora sì che cercheranno una casa da comprare: “magari qui a Napoli, magari a Capo Verde”, ride. Daniela vorrebbe un altro figlio. “Finchè Marta era piccola mi sembrava di non farcela ma mi sento più sicura, adesso, nonostante la malattia di mamma. La mia famiglia mi chiede tanto ma mi dà tanto, riempie le assenze di Helder, fa le mie veci con mia figlia quando non ci sono. Ora sì che mi sento serena abbastanza per avere un altro bambino. Vediamo se arriva. In casa c´è posto, certo. La zia ha la sua stanza, i miei genitori la loro e Helder ed io la nostra, Marta sta con noi. Per una culla basta pochissimo spazio. E poi comunque ora cominciamo a cercare una casetta in affitto, non si sa mai: magari per qualche periodo dell´anno, provvisoria. Nel raggio di casa dei nonni, sì certo, Marta va a scuola lì come facciamo a spostarci”. Però, il vulcano. “Mannaggia sì: il vulcano. Non dorme, anche Helder lo dice e lui lo sa. Sonnecchia. Quando arrivano a casa i fogli coi piani di evacuazione mi viene una paura… Però insomma poi quella è casa mia. Dico dico ma alla fine vede vede? Alla fine resto dove sono nata”.

“Non si possono garantire i diritti dei singoli senza riconoscere le relazioni amoroso-sessuali che li legano. E la legge non può tutto contro l’omofobia”. Parla Maria Luisa Boccia, femminista, senatrice del Prc
Eleonora Martini

Dei Dico salva “l’intenzione politica”, ma non molto di più. Maria Luisa Boccia, senatrice di Rifondazione comunista e tra le figure più autorevoli del femminismo italiano, pur esprimendo grande rispetto per “il faticoso e apprezzabile lavoro di mediazione” delle ministre Bindi e Pollastrini, va dritto al sodo: “Non si può girare attorno al punto fondamentale: il riconoscimento delle relazioni amoroso-sessuali, etero e omo”. E’ l’assunto su cui fonda il ddl da lei stessa depositato in Senato. Nulla di nuovo però, fa notare: è già sancito dall’articolo 2 della Costituzione. Ed è la “condizione fondamentale anche per individuare e garantire i diritti dei singoli”. D’altra parte “stiamo parlando non di libertà di parola, ma di diritti che valgono nella reciprocità del rapporto”.

 

Nel giorno in cui si inizia a discutere di unioni civili, in Senato ci sono 9 diversi ddl, più i Dico. Si può partire da quest’ultimo come soddisfacente testo base?
Premetto che trovo positivo il fatto che il governo sia riuscito a raggiungere un compromesso interno e che abbia considerato l’argomento, contemplato nel programma dell’Unione, un punto rilevante da affrontare subito. Nel merito invece la pur faticosa e apprezzabile, ma troppo ristretta, mediazione delle due ministre non ha prodotto un buon ddl. Si sarebbe dovuto aprire un confronto più ampio tra diverse soluzioni giuridiche e diverse impostazioni politiche e culturali. Ora il fatto che la parola passi al Parlamento che discuterà a partire da tanti ddl diversi, lo considero un modo per allargare e rilanciare nel merito la questione. Ovviamente di compromesso si tratterà, anche tra coloro che premono per una legge. L’importante è che siano rispettate le due questioni di fondo: il riconoscimento del rapporto, della relazione amoroso-sessuale, e i diritti dei singoli che stanno dentro quel rapporto. Questo è il punto più pasticciato dei Dico e che invece una buona legge deve affrontare.

 

Diritti individuali e riconoscimento della relazione. Sono proprio in contrapposizione?
No, non a caso quando parliamo di forme plurali della famiglia citiamo l’articolo 2 della Costituzione che parla di “formazioni sociali”, e non il 3 che parla di uguaglianza dei cittadini. Perché a cominciare dal rapporto madre-figlio, la soggettività si forma, si sviluppa, si esprime ed esercita la propria autonomia nella relazionalità. L’articolo 2 assume questo punto di vista, raramente contemplato nella cultura liberale: perché ci siano davvero diritti riconosciuti alle soggettività bisogna riconoscere le “formazioni sociali” in cui questa personalità si esercita e vive. Il riconoscimento dei rapporti, quindi, non è una recente invenzione, ma la condizione anche per individuare e garantire i diritti.

 

Ma dei Dico cosa salverebbe?
Salvo l’intenzione politica, fondamentalmente. Ma i Dico sono l’unico dei nove ddl depositati che non prevede una forma giuridica del riconoscimento delle relazioni. Tutti invece contemplano i diritti, sia verso il partner che verso lo stato, come la cura reciproca, la pensione, la successione, ecc. Nei Dico però questi diritti vengono accentuati da due precondizioni: la coabitazione e il tempo. Eppure la convivenza tra due persone non è solo coabitazione ma passa per un rapporto di impegno reciproco, di condivisione, di costruzione dell’esistenza. Il fatto poi che alcuni diritti maturino dopo un lasso di tempo molto lungo (nove anni per le successioni, ad esempio) mi sembra paradossale: si chiede al rapporto di fatto di dare quella prova di durata e stabilità che non viene richiesta alla coppia matrimoniale. Proprio mentre al matrimonio si vorrebbe attribuire un valore superiore di tutela della famiglia perché considerato più durevole e con un carico maggiore di obblighi e impegni reciproci. Ciò che dovremmo invece riconoscere è l’esistenza di forme diverse di unione ma non per questo meno responsabili o durature.

 

Nel ddl governativo vengono riconosciute anche le convivenze tra parenti, cosa ne pensa?
Questo è un punto a cui tengo ed è contemplato anche nel ddl che ho presentato in Senato. La legge però è divisa in due sezioni diverse: una per le unioni civili e l’altra per le unioni di mutuo aiuto. Nella prima si tratta di rapporti amoroso-sessuali, etero e omo, a cui va riconosciuto uno status giuridico attraverso diritti non discriminatori, gli stessi diritti di chi sceglie di unirsi in matrimonio, compreso quello di poter avere e mantenere i propri figli. Le unioni di mutuo aiuto invece riguardano anche più persone, unite da altre forme di convivenza – molto diffuse e in via di espansione – ma che nascono da altro tipo di legami. Per queste unioni va lasciato più spazio alle diverse modalità.

 

Che peso hanno avuto e avranno i Dico nella tenuta della coalizione?
Dal punto di vista politico il voto di Andreotti, e prima ancora il “non possumus” del Vaticano e ciò che ha scatenato, hanno avuto un peso molto grande che si farà sentire ancora. Ma non bisogna caricare la legge di una funzione che non ha: quella di liberare l’Italia da una cultura omofobica e sessista. So che il diritto ha una funzione simbolica ma sono contro le leggi manifesto, perché in questo modo usiamo gli strumenti sbagliati. Il femminismo ci ha insegnato un modo diverso di pensare e praticare la politica. La legge non è tutto, non può dare risposte al rigurgito dell’omofobia o a chi divulga un modello di famiglia da “Mulino bianco” nascondendo la realtà di un’istituzione che è ormai un coacervo di fenomeni inquietanti, dalla violenza alle alleanze per interessi. Anche per evitare una funzione di normalizzazione, la legge non deve essere troppo satura, non deve definire troppo.

 

Sabato prossimo a Roma la manifestazione del movimento omosessuale. Non vede un rischio di ghettizzazione?
Io parteciperò perché considero importante costruire momenti politici e di dibattito anche fuori dal Parlamento. Il rischio c’è ed è anche un effetto del clima politico. Anch’io ho paura della difficoltà a coinvolgere in modo più ampio i partiti e altri movimenti che non siano direttamente interessati. Bisogna che tutti capiscano che è in gioco in questo momento una questione fondamentale: l’autonomia politica dei soggetti sociali.

Concita de Gregorio

Sono più o meno l’ intera popolazione della Danimarca. Una moltitudine. A volte vivono sullo stesso pianerottolo, si incrociano per le scale: si sfiorano senza trovarsi mai. Sono quasi sei milioni di persone. «Famiglie unipersonali», s’ intitola il capitolo del rapporto Istat che ne certifica la maggioranza relativa: il gruppo omogeneo più numeroso del Paese. In italiano si dice: gente sola. Viene persino il dubbio che si possano chiamare famiglie, uno consulta lo Zingarelli e alla voce corrispondente trova: «nucleo fondamentale della società umana costituito da genitori e figli». E allora questa, dove non ci sono né genitori né figli, cos’ è? Olga Varetto, che fra due anni va in pensione dopo trentacinque passati a insegnare l’ italiano nelle scuole medie, ci pensa in silenzio poi dice: «No, non potrei dire “la mia famiglia sono io”: è un’ affermazione un po’ ideologica, non trova? Però non sono una persona senza famiglia: ci sono mia madre, mia sorella, i miei nipoti. Loro sono la mia famiglia. Non mi sono mai sposata, è vero. Ma se mi fossi sposata non avrei avuto duemila bambini in Africa, due a Torino, una in Ungheria». Non avrebbe avuto la vita che ha avuto fatta di viaggi e di libere scelte, di sconfitte e di sorprese, di generosa dedizione per gli altri. La solitudine è un concetto relativo. «Una scoperta terribile e stupenda imposta dal nostro tempo fatuo e feroce – scriveva Giorgio Manganelli nell’ agosto dell’ 1980 – non occorre essere eremiti: c’ è solitudine per tutti». Anche in famiglia, intendeva, dove tanto spesso «la solitudine è sostituita dall’ isolamento. Famiglie sull’ orlo della cronaca nera sono state redente da un gatto». Essere soli non è mai una circostanza biografica. Mai solo quella, almeno. Dei milioni di persone di cui parliamo la gran parte sono anziani: un quarto del gruppo vedovi e vedove. Il tema, qui, è quello del prolungamento della vita media – indice positivo, in Italia più alto che nel resto d’ Europa – incrociato alla necessità di assistere questa massa crescente di persone spesso non autosufficienti, o non del tutto: come si attrezza un governo ad affrontare i bisogni di una popolazione in cui i vecchi sono già adesso più dei ragazzi. In Liguria su cento persone ci sono 11 bambini e 26 anziani: uno scenario da quadro di Bruegel, un’ emergenza demografica con scenari apocalittici. Di seguito, nell’ insieme del Paese, ci sono i single per scelta: i giovani che non hanno casa né lavoro, che non hanno reddito sufficiente e anche quelli che magari potrebbero rischiare ma «non se la sentono», stanno meglio così. Tema: la precarietà giovanile – i fattori strutturali, economici – e quelli culturali. La carenza di senso di responsabilità, la disabitudine al sacrificio. L’ invecchiamento di una civiltà in cui «fare famiglia e avere figli non è più l’ obiettivo primario», scrivono anche i sociologi. Infine, e sono la parte più consistente, le persone rimaste sole non perché lo abbiano desiderato ma perché è andata così: uomini e donne tra 40 e 60 anni, non più ragazzi non ancora vecchi, milioni di persone con una storia da raccontare, a volte un lutto da dimenticare, molta energia da spendere, ancora. Olga, per esempio. Figlia di contadini, seconda di due sorelle. Pantaloni e scarpe basse, fisico da ragazzina, capelli corti e frangia sugli occhi. «Ho vissuto coi miei genitori fino a 33 anni. È molto dice? Ma guardi: mi sono laureata, a 26 anni ho conosciuto un ragazzo in biblioteca, siamo stati fidanzati quattro anni ci dovevamo sposare, poi lui ha sposato un’ altra. Io ero precaria, a scuola. Stavo coi miei. Soldi da buttare non ce n’ erano. Ho cominciato a pensare di comprar casa ma avevo poche lire ed ero così demoralizzata che mi sono detta: faccio un viaggio». È andata in Nepal, da sola. L’ anno dopo in Perù, quello dopo in Marocco. Intanto ha incontrato quelli che sarebbero diventati i suoi «primi due figli». «Ho risposto all’ annuncio di una famiglia di importanti imprenditori torinesi che cercavano un’ istitutrice per i loro due ragazzi in affido, 6 e 11 anni. Ragazzi impegnativi, si capisce. Sono rimasta con loro dieci anni: la mattina insegnavo, il pomeriggio andavo da loro. Li ho cresciuti, ancora adesso ci sentiamo sempre. Sono i miei ragazzi». Nel frattempo è arrivato il Kenya. «Avevo appena letto “La mia Africa”, sono partita con quattro amici, volevo arrivare sul lago Turcana». Il giorno che sono arrivati al lago, macchina a noleggio, è finita la benzina. Loyiangalani, il nome del villaggio di capanne. C’ era una missione italiana, hanno bussato per chiedere aiuto. «Erano preti della Consolata, un ordine religioso di Torino. Si rende conto? Una parte da Torino, arriva sul Turcana dopo un viaggio pazzesco e trova i preti di Torino». La vita, certe volte. Olga, che non aveva quarant’ anni, non sentiva affatto la vocazione da single. «Poi leggo le statistiche e vedo tutta questa gente sola, gli esperti nei dibattiti si chiedono perché: ma come perché? Perché certe volte, parecchie volte mi sembra, non va come vorresti e allora cosa devi fare? Niente, vai avanti». Avanti con la scuola tutte le mattine d’ inverno, poi nelle vacanze un altro viaggio. «Il Turcana è il posto più bello che abbia mai visto, due anni dopo ci sono tornata. C’ era un bambino che non aveva soldi per studiare, ho cominciato a mandarglieli, l’ ho mantenuto fino al liceo: si chiama Lowoi, ha 26 anni, è il mio primo figlio africano». Adesso i figli africani sono duemila. «Raccoglievo soldi fra le amiche, a un certo punto il movimento di denaro è diventato tale che la mia banca sospettava che facessi chissà quale attività illecita. Ho capito che dovevamo organizzarci. Abbiamo fatto una onluss, “Fata Turcana”. Oggi con trentamila euro all’ anno manteniamo duemila bambini in 25 asili costruiti da noi, ogni insegnante ci costa 25 euro al mese. 25 euro, sì». È un modo di essere soli, questo. Di non avere famiglia. Di non essere famiglia. Poi certo ci sono le vicende private: un’ altra storia d’ amore lunga e impossibile, gli anni di mezzo della vita che passano senza che succeda quel che si vorrebbe e nella sua attesa. «Quando i miei due bambini torinesi sono andati via da casa ho sentito il bisogno di andarmene anche io. Ho fatto un concorso al ministero, sono andata a insegnare l’ italiano in Ungheria. Dura, eh? Non parlavo la lingua non conoscevo nessuno, mi hanno dato un appartamento in un casermone grigio, non potevo nemmeno andare al cinema che tanto non capivo niente. C’ era solo la musica». Tre anni. In Ungheria ha “adottato” un’ altra ragazzina, Betty. «Aveva bisogno di una mano per studiare e trovare lavoro, l’ ho aiutata: ora è una donna, vive in Svezia, è felice». Certo che Olga avrebbe adottato un figlio suo se avesse potuto «ma in Italia non si può: una persona sola non può. Che peccato, no? Perché guardi, io un figlio biologico da sola non l’ avrei fatto e difatti non l’ ho fatto, credo che davvero un bambino per venire al mondo abbia bisogno di un padre e di una madre. Ma i bambini già nati, quelli da soli negli orfanotrofi, non starebbero meglio con una persona per esempio come me, in una casa con un letto e una cucina, con un affetto costante e la premura di qualcuno che gli rilegge i compiti di scuola?». Non si poteva, non si può. «Ho visto che anche nell’ ultima Finanziaria le uniche a non avere nessun aiuto sono le persone sole della mia fascia di reddito: guadagno 1600 euro al mese dopo 35 anni di servizio, non sono pochi ma ci viviamo io i miei ragazzi africani e mia madre che è rimasta sola. Al supermercato gli unici prodotti scontati sono quelli formato famiglia. Tre per due. È come se per noi ci fosse una disapprovazione sociale, mi pare proprio ingiusto. Non ho mica deciso io di restare da sola. Sarebbe stato meglio avere figli, bisogna farne se no ci estinguiamo ma io non ho avuto il dono di una famiglia: me la sono creata, capisco che non sia la stessa cosa ma non mi sento per questo menomata. Sto bene così, a questo punto della vita mi sarebbe anche difficile cambiare». Subito si interrompe, però, sorride con malizia: «No, meglio che questo non lo scriva. Magari capita di incontrare qualcuno, non si sa mai».

Abbiamo volutamente lasciato passare un po’ di tempo prima di intervenire, nella speranza che si attenuasse il clima polemico e potessimo esprimere più pacatamente il nostro pensiero, e nell’attesa di ammorbidimento delle posizioni e di voci ecclesiastiche più umane (le poche, coraggiose, che si sono fatte sentire, sono state prontamente corrette e rintuzzate ).
Lo esprimiamo ora, perché tacendo non si corra il rischio di ingenuità e di incremento alla confusione generale, tanto mena di indifferenza, di omertà e di rassegnazione.
Infatti ciò che ci addolora e ci indigna non è tanto la dichiarazione dei pensiero della Chiesa (tutti ne riconoscono il diritto) quanta l’inappellabilità dei principi e l’interferenza nelle decisioni di organismi democratici che per loro costituzione dovrebbero essere autonomi e consapevoli dei proprio agire politico.
Soprattutto ci sollecita l’amarezza che la Chiesa, cui apparteniamo e che siamo, si esprima da parte dei suoi vertici unilateralmente, dall’alto delle istituzioni, senza minimamente dar prova di un ascolto, di un confronto tra tutto il popolo di Dio, con quei laici di cui si celebrano convegni e s’invoca la maturità, la dignità e la collaborazione, ma evidentemente si pensa a loro solo in termini di subalternità, di obbedienza, di esecutività, come sempre.
Noi che stiamo e viviamo tra la gente, ci accorgiamo che c’è sete di Vangelo, di comprensione, di fraternità, di quell’amore che tanto si sbandiera a parole, ma che trova forti opposizioni nella pratica, non di giudizi e condanne, né tantomeno di estraneità dai bisogni e dalle esigenze concrete, di testimonianza pubblica e di segni che le parole dei Signore “Sono venuto non a condannare il mondo, ma a salvarlo” (Gv. 3,17) sono applicabili a tutte le situazioni purché si trattino appunto con amore e comprensione.
Perciò vogliamo dire ai nostri fratelli Vescovi, con tutto il rispetto, ma fermamente, quali sono i punti che sentiamo particolarmente stridenti con il Vangelo che ci viene proclamato in ogni Eucaristia. A nostro avviso:
1) non si può predicare l’amore ai fratelli e alle sorelle se contestualmente non se ne sostengono anche i diritti ad esistere con dignità e sulla stesso piano di tutti quelli che già ne godono;
2) non ci si può appellare alla “legge naturale” o alla “natura” tout-court, sapendo che è un aspetto contestato e discusso ed è in corso un dibattito di sempre più numerosi teologi, filosofi, antropologi, giuristi, in quanta la cosiddetta “natura” in realtà non è così armonica e così perfetta originariamente (caso mai nel processo evolutivo tende all’armonia) ma è invece disordine, discriminazione, spesso “legge della giungla”;
3) non si può non interrogarsi sul fatto che le modalità delle relazioni umane sono cambiate e che non esiste un modello “evangelico” di famiglia, perché riflette il modello del suo tempo, e perciò il cosiddetto “modello cristiano” è mutuato dalla tipologia della famiglia patriarcale e più recentemente da quella borghese;
4) non ci si può rifugiare nello strumento della “nota vincolante” senza far arretrare e ricacciare l’immagine della Chiesa nelle figure di potere, di autoritarismo, di condanna, che si credevano ormai superate (almeno dopo il Concilio Vaticano II).
Inoltre con questo documento vogliamo anche sottolineare con forza l’esigenza di rispetto per i laici – uomini e donne, credenti e non – su cui abitualmente si addossa tutta la responsabilità delle confusioni e degli attuali disorientamenti sotto il pregiudizio e l’accusa di immaturità, di minorità, di incapacità ecclesiale, senza d’altronde creare se non in minime soffocate eccezioni – possibilità di reale confronto, di ascolto nella Chiesa, di decisioni comuni soprattutto per quanta li riguarda direttamente.
Preghiamo e ci auguriamo con umiltà e speranza che la Chiesa tutta nella sua dimensione pubblica e nei suoi interventi ufficiali si manifesti finalmente fedele al vangelo di Gesù e perciò più preoccupata di vivere la Sua parola, e me no di applicare e custodire il Diritto Canonico e il Catechismo, diffondendo segni di misericordia e di “giustizia evangelica” (meglio eccedere in misericordia rischiando di sbagliare che non il contrario), difendendo la dignità e la libertà di tutti senza pregiudizi preventivi, sostenendo in modo privilegiato chi viene considerato “diverso” e perciò estraneo e nemico, e rifiutando decisamente e definitivamente le modalità di quel potere religioso che 2000 anni fa decise la morte di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio.

Concita De Gregorio
Questo è un Paese di tesori dell’arte, uno è l’albero della fecondità: un affresco del 1265 che raffigura un albero da cui pendono come enormi frutti decine di falli davvero realistici. Ai piedi della pianta una folla di donne sta in attesa che cadano, due di loro si accapigliano contendendosene uno. Di fronte al dipinto medievale, a sei metri scarsi di distanza, ce n’è un altro contemporaneo in cui il vescovo di allora, monsignor Comastri, si è fatto ritrarre a tutta figura in una scena di devozione religiosa a San Bernardino.
Quando il primo dipinto – dai toscani ribattezzato “l’albero dei piselli” – è stato restaurato, qualche anno fa, la Curia ha avuto da ridire che tanto interesse per un’opera così bizzarra pareva esagerato. Oggi è di nuovo coperta da assi di legno: un nuovo restauro, dicono. Dieci metri più su vivono Antonella Cocolli e Giampaolo Sfondrini, genitori di quattro figli: due di lei, due di lui. Quando sono andati in Comune a chiedere notizie di un eventuale registro delle unioni civili, altre città toscane lo hanno fatto, si sono sentiti rispondere: per carità di dio, questa città è sede vescovile. “Ho scritto alla Bindi per rallegrarmi, capisco il suo travaglio e ammiro la sua sensibilità. Se davvero faranno i Dico i primi a registrarci saremo noi: ci spetta, sono sedici anni che aspettiamo. All’inizio è stata durissima. Sa, il paese è piccolo, la gente mormora”.
Antonella e Giampaolo, 53 anni, sono una “famiglia ricomposta”. Vite fragili, il rapporto Caritas e fondazione Zancan sull’esclusione sociale in Italia, dedica un intero capito del rapporto 2006 – dunque il più aggiornato, i dati Istat sono fermi al 2005 – alla condizione dei bambini nelle “famiglie ricostituite”: quelle “particolari situazioni che comprendono figli nati da una prima unione, i nuovi partner, i loro figli eventuali, la rete parentale di entrambi”. Pezzi di famiglie diverse, patchwork, che ora formano una nuova famiglia. In Italia, dice la Caritas, vive così quasi tre milioni di persone. Ai figli di uno o dell’altro, o di entrambi, si aggiungono spesso i nuovi figli della coppia con difficoltà non sempre banali di integrazione, di equanimità da parte degli adulti, di senso di esclusione o di precarietà dei bambini. Vite fragili si sofferma a lungo sul concetto di “resilienza”, una brutta parola per una bellissima nozione che indica il processo che permette alle persone di adattarsi a condizioni di vita sfavorevoli. Alcuni, più di tutti i bambini, manifestano una resilienza sorprendente. Antonella, che non conosce la parola, dice “i nostri figli hanno sofferto della rottura delle unioni dei loro genitori ma si sono abituati e alla fine, penso, sono diventate persone più ricche, più elestiche, più tolleranti e più capaci di adattarsi di tante altre”.
In queste vicende di vita spesso il conflitto con la famiglia di origine è devastante: anziani genitori che non rivolgono più parola ai figli, ex coniugi che conducono battaglie decennali in nome di un affronto subito e imperdonabile, guerra sui figli, carabinieri a casa e carte da bollo. La nuova unione deve avere una forza formidabile per resistere all’urto: Everyman, il nuovo romanzo di Philip Roth, racconta anche questo. Quando la realtà entra nei romanzi è segno che tutti sappiamo di cosa stiamo parlando.
La storia di Antonella e Giampaolo è esemplare e consolatoria. Hanno fatto sedici anni fa in un paese di seimila anime quello di cui in Parlamento si discute se sia legittimo fare oggi. E’ una storia che mette di buon umore perché pensi che anche quando è andata male alla fine può sempre andare meglio: e anche che quando è scritto è scritto, non si scappa. “Siamo stati ragazzi negli anni Settanta”, sono quella generazione lì. Lei in paese, figlia di un partigiano della terza brigata Garibaldi, Dino. Lui a Milano in via De Amicis, quella della foto del ragazzo con la p38, figlio di un operaio. Si sono conosciuti a 22 anni, “lui veniva in vacanza qui in campagna, si andava la sera con la chitarra a fare i falò al lago dell’Accesa”. Si sono sposati nel 1980, insieme ma con persone diverse: lui con una milanese, lei con un massese. Hanno avuto i loro primi figli nell’82: lei Emiliano, lui Francesca. I secondogeniti sono arrivati tre anni dopo a qualche mese di distanza: lei Raffaello, lui Vasco. I loro matrimoni sono entrati in crisi all’unisono alla fine del 1990. Lui si è trasferito in campagna, a Massa, coi due figli bambini. Si sono visti, finalmente. Si sono incontrati. Da sedici anni vivono insieme in una casa medievale storta poetica e grande abbastanza per i figli di tutti, i loro figli coetanei. “Si può immaginare cosa sia stato all’inizio, in un piccolo centro come questo: uno scandalo. In strada abbassavano lo sguardo, sentivo i discorsi: chissà quanto dura. Invece eccoci, i ragazzi sono grandi e sono persone serene: due laureati, uno al lavoro, il piccolo all’università. Si vogliono bene e si aiutano. Ci siamo inventati il cenone della vigilia, che in Toscana non si usa, per fare sempre il Natale insieme. Perché certo loro hanno anche gli altri genitori, ci mancherebbe. Guardi cosa ha scritto Francesca nei ringraziamenti della sua tesi: “a tutti i miei genitori”. Tutti, capisce?”. La resilienza, appunto.
Antonella lavora in una coop che ha contribuito a fondare, è bionda e felicemente rotonda, porta orecchini di perla e capelli da maschio, tiene appesa in corridoio una foto di Norma Parenti eroina partigiana. Lui fa il falegname, ha i baffi folti e gli occhi verdi, parla ancora milanese, ha appeso in salotto una foto di Jannacci. “Mi dispiace che non veda i ragazzi, sono fuori a studiare e lavorare”. Emiliano, il grande, è in Inghilterra. Si è laureato a Siena con una tesi sulla violenza e il tifo nel calcio e del baseball, ora studia inglese e si mantiene da solo. Francesca si è laureata all’Orientale di Napoli in tibetano, è stata un anno a Parigi con l’Erasmus poi un anno in Tibet, coi nomadi in tenda. Ora abita col suo ragazzo, qui a Massa. Raffaello fa l’operaio alle acciaierie di Piombino e vive coi genitori. Vasco, che ha 20 anni, studia a Milano. Frequenta l’università coi soldi che gli ha lasciato il nonno, l’operaio milanese: una somma cospicua a entrambi i nipoti perché potessero studiare. Giampaolo sorride: “Eh già, il nonno era una persona semplice e saggia: sapeva prima di noi di cosa ci sarebbe stato bisogno”.
Perché poi soldi da scialare non ce ne sono mai stati: con le lire per mantenere la famiglia bastavano 3 milioni, ora servono 3000 euro che sono molti, moltissimi. Lei al museo ne guadagna 1200. Lui dipende, se c’è lavoro “ma le case da ristrutturare per gli inglesi e i tedeschi qui intorno sono finite”.
Antonella e il suo ex marito hanno avuto l’affidamento congiunto dei figli, hanno trovato un accordo economico senza bisogno di avvocati, spese divise a metà. L’ex moglie di Giampaolo si è trasferita a Massa nella vecchia casa colonica, si è sposata con un ragazzo vedovo padre di una bambina, hanno avuto un’altra figlia. Giampaolo: “Coi ragazzi abbiamo fatto così: un giorno tutti insieme qui da noi, tre giorni i miei e tre giorni i suoi. Ecco la settimana”. La geografia dei loro rapporti di parentela è una mappa piuttosto completa di cosa siano le famiglie oggi. La mamma di lei, vedova: famiglia di una persona sola. La figlia di lui, Francesca: coppia di fatto senza figli. Il figlio Vasco, ventenne: single. L’ex moglie di lui, famiglia ricomposta con due figli, uno in comune. Loro: famiglia ricomposta con quattro figli, nessuno in comune. A Massa marittima, paese di vescovi e di partigiani, di affreschi nemici e di fecondità.
(2- continua)

Mimmo de Cillis *

«Come io vi ho amato», recita il titolo del sussidio pastorale che da domani, «mercoledì delle ceneri», apre la Quaresima 2007. Ma ben poco amate si sentono le oltre 560 mila coppie conviventi nel bel paese, nella cattolicissima Italia. La chiesa di oggi, la chiesa di Ratzinger e Ruini, ben poco fa per comunicare l’amore di Cristo. O, almeno, si pone in un atteggiamento che risulta non proprio caritatevole e che non riesce a entrare nella vita delle persone. Va detto, poi, che i legami affettivi, dapprima temporanei, spesso si evolvono e, specialmente nei casi dei giovani, si trasformano in matrimoni. Nell’ottica pastorale, dunque, l’atteggiamento troppo rigido della chiesa risulta miope; e, in ogni caso, non sembra che si dedichi grande attenzione a queste dinamiche e a queste persone.
Tali argomenti e tali motivazioni – che facevano da sfondo all’incontro di ieri fra i vertici della chiesa e dello stato italiano – preannunciano oggi una «quaresima di passione» per la chiesa italiana. Perché, sotto alla cappa del «pensiero unico ruiniano», comincia a muoversi una fronda che passa per i circoli intellettuali, attraversa i movimenti ecclesiali, le diocesi, le parrocchie, i semplici fedeli.
L’appello degli intellettuali cattolici alla Cei («non si firmi una nota vincolante») ha dato la stura a una serie di riflessioni, dibattiti, forum, che nascono spontaneamente davanti alle chiese, nelle assemblee parrocchiali, sui blog cattolici. Certo, accanto a invettive e posizioni che trasudano integralismo e intolleranza. Ma l’anima del cattolicesimo progressista, quella più aperta, plurale e dialogante con la società, quella che sente il bisogno di testimoniare l’amore cristiano piuttosto che di giudicare e condannare, si può ben dire stia rialzando la testa. Anche perché si tratta di una parte importante del cattolicesimo italiano. Significativa dal punto di vista storico, culturale, sociale. Quella della tradizione di Dossetti, Lazzati, La Pira. Quella che ha ispirato tanti movimenti ecclesiali, soprattutto nel dopo Concilio. Quella che ha saputo predicare – con le grandi manifestazioni e con il lavoro silenzioso e quotidiano – scelte di «pace, giustizia, salvaguardia del creato». Quella che ha avuto autentici profeti contemporanei in vescovi come Tonino Bello e Carlo Maria Martini e che ancora oggi si ritrova in vescovi come Tettamanzi (Milano), Valentinetti (Pescara), Plotti (Pisa), Charrier (Alessandria), Miglio (Ivrea), e in altri prelati che molti sperano facciano sentire la loro voce in seno alla Cei. Quella che trova eco nei gesti e nelle parole di religiosi dehoniani, francescani, domenicani, gesuiti, paolini.
Insomma, una fetta della chiesa italiana (perché, come insegna il Concilio, la chiesa è il «popolo di dio», non la gerarchia) mal digerisce l’invadenza con cui Ruini e soci stanno rubando la scena e il ruolo al laicato cattolico. E, dopo l’appello promosso dal prof. Giuseppe Alberico (che continua a ricevere adesioni), iniziano a levarsi le voci dei cattolici di base. Che vengono allo scoperto anche con argomenti provocatori, come ha fatto don Giovanni Nicolini, parroco bolognese, ex direttore della Caritas diocesana: «E’ gravissimo – ha detto – dipingere la tutele dei diritti delle coppie conviventi come una legalizzazione delle coppie di fatto. Mi sembra povertà culturale. Esistono tante forme di convivenza, e per i motivi più diversi. Forme che hanno una loro dignità per poter essere riconosciute. Non vi trovo nulla di scandaloso. Se vogliamo, io convivo con altri cinque uomini, monaci che mi sono fratelli: anche questa è una convivenza». Don Nicolini aggiunge: «Da anni a Bologna cerco di convincere tanti anziani soli a convivere: significherebbe condividere una badante riducendo i costi, gestire più facilmente i servizi, ma anche meno malinconia. Insomma non ci sono solo unioni basate su legami affettivi. Il governo ha una funzione amministrativa, per cui è chiamato a occuparsi del bene di tutti». Il parroco segnala un pericolo da fuggire: «La politica non può dimenticare le situazioni reali o sacralizzare i problemi. Il rischio perenne allora è quello di uno stato etico e l’incapacità di essere laico. Noi credenti per primi dobbiamo scongiurarlo».
* Lettera22

Già oggi è composto così l’11% dei nuclei familiari
E il trend è in crescita: in due anni sono aumentati del 28%
Concita de Gregorio

La famiglia del Mulino Bianco, padre madre e due figli, maschio e femmina, meglio se biondi, non esiste più da parecchio tempo nemmeno nelle pubblicità. Persino le cifre della statistica, che arrivano sempre fredde e in ritardo, la fermano agli anni Cinquanta: la media di quattro persone per nucleo familiare è del censimento del 1951. Nei cinquantasei anni venuti dopo, più di mezzo secolo, c’è stato il divorzio, il crollo demografico, la crisi economica e l’edonismo anni Ottanta, la cultura del figlio unico che non è stata solo una scelta economica ma culturale, figli iperprotetti che poi sono oggi i «giovani adulti» di 25-30 anni che non se ne vanno da casa, perché dovrebbero, stanno benissimo lì. Tra chi ha meno di 34 anni solo poco più della metà vive in coppia: gli altri a casa dei genitori, quelli che possono e che ci riescono (quelli che vogliono, a leggere le sentenze della Corte di Cassazione) da soli. C’è una grande questione «legata al tema dell’assunzione di responsabilità», dice Pietro Scoppola lo storico cattolico che di figli ne ha cinque: intende dire una certa carenza. «È una civiltà la nostra in cui scema l’istinto di sopravvivenza. I figli non sono più l’obiettivo», secondo Roberto Volpi che sulla Fine della famiglia ha appena scritto un libro: fine prevista per il 2050. I matrimoni civili sono uno su tre, al Nord uno su due. I genitori anziani restano in carico ai figli quarantenni, convivono con loro e coi nipoti perché altra assistenza non è data: ecco le famiglie sandwich. Pezzi di coppie che si ricompongono e formano famiglie allargate ai figli degli uni, ai genitori degli altri.
Rosy Bindi, al ministero, sta preparando la conferenza nazionale sulla famiglia che si terrà a maggio a Firenze. Affluiscono dati dall’Associazione famiglie numerose (una rarità, ormai: intorno al 7 per cento), dalla Caritas e dalla fondazione Zancan, dai Centri famiglia delle Asl e dall’Osservatorio sulla famiglia di Bologna, da miriadi di associazioni che versano numeri e storie e alla fine dicono questo: il sacro vincolo di cui parla la Chiesa, la famiglia fondata sul matrimonio e “benedetta” dall’arrivo dei figli, è già da anni in minoranza nella vita reale. Sono 42 su cento, meno della metà con tendenza al ribasso. Gli altri, le 58 famiglie “diverse”, sono formate in prevalenza (25) da persone sole, single o anziane, in larga parte da coppie senza figli che fermamente non ne desiderano (22), da genitori soli coi figli (11). I figli naturali, quelli nati fuori dal matrimonio, sono uno su 5: in ogni classe di scuola elementare che ne sono almeno quattro. Ci sono regioni, la Liguria, in cui le coppie con figli sono meno del 30 per cento: una su quattro è la famiglia dei vescovi, le altre tre no. Fine delle statistiche, inizio delle storie.
“Famiglie monogenitoriali”, c’è scritto con formula orrenda sui rapporti. Per esempio questa. Gina Larocca ha 43 anni, due figli di 14 e 7, una gatta. Vive al piano alto di un condominio, Roma Nord. In casa libri, stoffe, disegni. Fa la costumista, «in verità sarei stilista ma si deve campare», ha un contratto a termine per nove mesi con una produzione tv, ne restano sette «per un po’ stiamo tranquilli». Il padre dei ragazzi è andato via da casa due anni fa, «il 5 aprile del 2005». Piccolo altare buddista in salotto. Riviste di musica sul tavolo, dietro alla porta scarpe da tango. Piano settimanale di attività e turni attaccato al frigorifero. Ha un aiuto? «No, facciamo da soli. Le madri dei compagni di classe, gli amici. Qualche rara sera una baby sitter. Poi soli. Il grande, Tiziano, certe volte cucina». È frequente, dice Gina: non è una storia eccezionale, capita. Certo che capita: a più di una coppia su dieci, ecco, vede l’Istat. «Sì, se il matrimonio non funziona cosa vuoi fare, noi ci eravamo sposati anche in chiesa, è stato per compiacere i miei che sono cattolici. Visti da fuori sembravamo una famiglia felice, una coppia di riferimento per gli amici ma non era vero, tante volte la realtà è così diversa da quello che sembra. Quando è arrivato Ludovico eravamo già in crisi fonda ma lui si era nascosto benissimo, fino al quarto mese di gravidanza risultavo negativa ai test perciò quando l’ho visto in ecografia gli ho detto va bene, ok, hai vinto tu. Mi sono avvicinata al buddismo. Meno male che è nato».
Due figli, lavoro precario, nessun aiuto domestico, orari incompatibili coi tempi della scuola e delle attività del pomeriggio, dei prendilo-accompagnalo-portalo. Qualche desiderio di leggerezza, anche, perché a 43 anni la vita non è mica finita. «All’inizio è stata durissima. Sono anche andata in Africa a lavorare in una missione umanitaria: due settimane, ho lasciato i bambini a lui. Sono tornata, non ce la facevo. Ho cominciato a mandare curriculum, cercavo lavoro stabile. Mi hanno aiutato, ci hanno aiutato anche gli psicologi dalla Asl. Un Centro famiglia, sì. I ragazzi hanno sempre saputo tutto dal principio. Il piccolo pensava che il papà non volesse più stare con lui e piangeva e allora lo prendevo in braccio e gli dicevo “non è con te, è con me che non vuole stare più”. Però penso che sia bene che abbiano visto la mia fragilità: si può affrontare un grande dolore e si può continuare a vivere. Il male si affronta si attraversa e si supera». I soldi, c’è il problema dei soldi. Molti lavori a contratto ma nessuna sicurezza. Il padre dei ragazzi precario anche lui, ha un lavoro solo da pochi mesi. Come si fa coi soldi?
«Certo con lavoro sicuro sarebbe diverso: a noi per vivere ci servono 1500 euro al mese, con 1800 facciamo un po’ di vacanza ma non sempre ci sono e non sempre ci sono stati. Adesso abbiamo comprato la casa, è costata poco era una casa degli enti. L’abbiamo riscattata insieme, il padre dei ragazzi ed io, anche se siamo separati: per loro. È un pensiero in meno e un impegno in più. Soldi da buttare non ce ne sono, ecco, per niente. Non sono mai stata a sindacare su quanto mi dava il padre e se me lo dava. Se non poteva pazienza. Non abbiamo fondi pensione, non abbiamo altra assistenza sanitaria che quella pubblica. Lavoro da quanto ho 18 anni. Vorrei poter spendere cento euro per un corso serale per me senza sentire che li sto togliendo a loro. Il corso di coro gospel non costa quasi i figli restano i miei maestri preferiti». niente, pochissimo «ma sapesse quanto aiuta cantare in coro, ascoltare le voci degli altri, il canto mette pace nei cuori». C’è il tango, anche. «Ecco sì il tango. Per una come me, che ha sempre fatto tutto da sola come un carroarmato, che si è sempre portata dietro anche quelli che arrancavano sapesse che risettaggio è camminare all’indietro a occhi chiusi, farsi portare. Un’ora la domenica, niente. Ma è proprio come fare reset al computer, ricominciare da capo». Il piccolo gioca alla play station, il grande è a basket. Vuole giocare da professionista nella Nba. «Allora gli ho detto ok, ci dobbiamo mettere a studiare inglese. Quest’estate si va in Inghilterra. Non so come faremo ma faremo. Loro mi insegneranno come. Tra i tanti insegnanti che ho trovato per strada i miei maestri preferiti sono i figli».
(1- continua)

Stefano Rossi

«Una scelta che ci è costata sofferenza. Non contro la Chiesa, a fianco della Chiesa». Paolo Miranda, un lavoro al sindacato, e Giuliana De Ruvo, impiegata nelle indagini di mercato, hanno 48 anni e stanno insieme da quando ne hanno diciotto. Chiacchierano cordialmente nel salotto di casa, alle spalle tanti libri. Giuliana, caschetto castano e occhi chiari, indossa un golfino grigio. Paolo, sorriso aperto, porta i jeans e un maglione blu. Andrea, 12 anni, e Matteo, 8, esibiscono capelli lunghi e un ghigno furbetto. Si nasconde qui il germe distruttore della famiglia italiana?
Già, Giuliana e Paolo in trent’anni di vita comune non si sono mai sposati: «Ci siamo conosciuti al liceo – racconta Paolo – io in ultima fila e lei, secchiona, in prima». Si sono innamorati, fidanzati, hanno messo su casa, sono arrivati i figli. Ma il sì e le fedi davanti all’altare, mai. Eppure sono credenti, vanno a messa anche se magari non tutte le domeniche, impartiscono ai loro figli una educazione cattolica innervata di valori trasmessi da loro come genitori e dai sacerdoti della parrocchia come educatori, a cominciare dalla frequentazione dell’oratorio. Vivono la vita con grande attenzione alla fede, si interrogano, riflettono.
Perché, allora, non sposarsi? «Il matrimonio religioso richiede un impegno per la vita – rispondono – mentre noi rinnoviamo il nostro legame giorno per giorno, con la consapevolezza che staremo insieme finché ci saranno amore e rispetto reciproco. L’obiettivo è che questo duri per tutta la vita, tuttavia non potevamo giurarlo davanti alla Chiesa. Perché crediamo nel divorzio, se le ragioni del nostro amore non esistono più». E dunque? «Dunque non potevamo dire “sì” a un sacramento pensando invece “no”. È per il rispetto per la Chiesa e i suoi sacramenti, per una forma di coerenza con il nostro essere cattolici, che abbiamo scelto di non sposarci».
E così vanno le cose da allora. Il matrimonio civile no (Giuliana: «Sembrava un contratto un po’ arido, nessuno di noi due si sentiva una parte debole da tutelare»), e nell’attesa di qualcosa come i Pacs o i Dico, la speranza di non averne mai bisogno, di non venire respinti dai medici per non avere titolo a informarsi sulla salute di lui o di lei, la speranza di non vedersi negata la pensione di reversibilità. Non si sono mai presentati – informalmente, per brevità – come marito e moglie, non parlano del partner come «compagno» o «compagna», la trovano una formula «troppo ideologica» perché loro, appunto, sono laterali alla Chiesa, non contro. Quindi Paolo, agli altri, per significare Giuliana dice solo «Giuliana», Giuliana dice «Paolo», senza ostentazioni né reticenze.
All’inizio non è stato facile (parliamo anche, non dimentichiamolo, di trent’anni fa) ma i contrasti maggiori sono sorti con la nascita dei figli. Soprattutto nella famiglia di lui, dice Giuliana. Paolo smorza un po’: «Quando ho detto in casa che Giuliana era incinta c’è stato non dico un rifiuto, ma una reazione un po’ forte. Alla fine i miei hanno rispettato la nostra scelta e, anzi, da allora i nostri rapporti sono più schietti». Dodici anni fa, quando è nato Andrea, il prete poteva rifiutare il battesimo ai figli delle coppie non sposate ed è quanto fece il parroco di San Giovanni Battista a Trenno, il quartiere dove Giuliana e Paolo hanno casa.
Eppure, è pacifica la consapevolezza che «la famiglia non è dominio esclusivo della Chiesa e che in nessun modo – scandiscono in coppia – ci sentiamo diversi dalla famiglia cattolica sposata». Se non, aggiunge Giuliana, «nella esplicitazione onesta del fatto che il matrimonio non ci vede pienamente d’accordo». E Paolo: «Noi non avremmo impedimenti a sposarci ma sappiamo di persone con un matrimonio alle spalle che vivono con sofferenza il rifiuto della Chiesa. Lo trovo sbagliato». Giuliana ricorda di aver conosciuto una donna divorziata, cattolica osservante e mamma in lacrime: «Il marito l’aveva lasciata, non era una scelta sua. E non si era risposata. Esclusa dai sacramenti, e non potendo fare da madrina alla comunione dei figli, ha pagato due volte».
Oggi Paolo e Giuliana non fanno mistero, benché credenti, di far parte della comunità ecclesiale principalmente perché i figli crescano nel solco dei valori cattolici. Spiega lei: «Ci sentiamo stretti in questa Chiesa, che non dovrebbe mai respingere bensì includere». Ora ci sono i Dico, e la presa di posizione del cardinale Tettamanzi sulle coppie di fatto. I Dico: «Una scelta dovuta, un’alternativa noi l’avremmo, altri no. È importante tutelare anche i gay e le convivenze non matrimoniali». Paolo avrebbe gradito «meno timidezza da parte del governo, non vedo impedimenti a una assoluta parificazione di diritti fra conviventi e coppie sposate. Però capisco il contesto politico». Giuliana invita il cardinale ad andare avanti: «Non si lasci intimorire dalle posizioni più radicali. La Chiesa assolve la sua funzione nella società se abbraccia una collettività ampia».
Resta un’ultima domanda: Matteo e Andrea, educati nel cattolicesimo per volontà dei genitori, come vivono questa situazione? «Sanno che non siamo sposati, talvolta ne parliamo, ma non pare davvero che sia fonte di preoccupazione per loro». E il motivo è semplice, chiaro, inattaccabile: «Noi non siamo, e nessuno si permetta di dirlo, una famiglia di serie B».

Ida Dominijanni

L’antidoto più efficace alla visita del papa a Valencia lo trovate a pagina 30 e seguenti del numero in edicola di Internazionale. E’ un lungo articolo di Susan Dominus tratto dal New York Times Magazine, si intitola Famiglia modello e vale come rovesciamento del «modello famiglia» che Ratzinger e i neocons uniti di tutto il mondo ci vogliono propinare. Attraverso la storia di Ry Russo-Young, 24 anni, seconda delle due figlie di una coppia di donne omosessuali, Dominus disegna il profilo sfumato che la realtà delle famiglie omosessuali sta assumendo negli Stati uniti. E analizzando pezzo per pezzo il puzzle Dominus smonta uno per uno tutti i pregiudizi, negativi e positivi, che gravano sulle coppie gay-lesbian e sulla loro capacità di allevare dei figli. La materia, racconta Dominus, infiamma il dibattito pubblico americano, fa fiorire associazioni pro e contro, dà lavoro a psicologi e sociologi. Da quelle parti il fenomeno ha ben altra consistenza che da noi – il censimento del 2000 contava 150.000 famiglie composte da persone dello stesso sesso con bambini -, «ma proprio adesso che l’ambiente culturale sembra più sereno, quello politico è diventato ipersensibile»: se da una lato a Boston, a Los Angeles e altrove le scuole organizzano mostre su gay e lesbiche famosi, dall’altro l’Arkansas, il Mississippi, lo Utah e la Florida sfornano leggi contro la possibilità per le coppie omosex di adottare bambini o di averne in affidamento. Lì come qui, i conservatori battono duro sostenendo che le convivenze omosessuali danneggiano l’istituzione familiare. E ne cercano le prove monitorando campione su campione i figli di gay e lesbiche, per capire se e quanto si distanziano dai figli di genitori «normali» quanto a successo professionale, equilibrio psicologico, scelte sessuali eccetera: tirati da una parte e dall’altra, i risultati alimentano la guerriglia fra l’ American college of peditricians, associazione reazionaria che tenta di dimostrare che i figli delle coppie gay sono svantaggiati rispetto agli altri, e l’American civil liberties union, associazione libertaria che cerca di dimostrare che sono uguali.
A fronte di questa prevedibile scacchiera della sfera pubblica, la storia di Ry narrata in prima persona spiazza tutte le parti in commedia, dando voce a una differenza che non implica svantaggio ma al contrario apertura di libertà. Giovane regista venuta al mondo nell”82 grazie allo sperma di un amico gay delle madri e all’uso artigianale di una siringa sterilizzata, Ry racconta un’infanzia e un’adolescenza felici, una ironica complicità con le sue due madri ( 23 e 38 anni all’epoca del concepimento), uno slalom neanche tanto difficile fra i piccoli pregiudizi nascosti delle scuole progressiste che ha frequentato. Dove magari non l’aggredivano per la sua famiglia «diversa», ma negavano che potesse essere considerata una vera famiglia. Oppure non osavano denigrare il lesbismo delle sue madri, ma davano per scontato che fosse lesbica anche lei. Che invece è eterosessuale e ha un fidanzato, mentre sua sorella Cade, un anno più grande e anch’essa figlia della provetta, a 16 anni ha comunicato di essere omo. Ry dunque è «normale», il che lungi dal tranquillizzarla la infastidisce: a confronto delle lotte che hanno dovuto sostenere le madri per essere accettate, «ho la sensazione di perdermi qualcosa». Anche se un quarto di secolo dopo quelle lotte possono accadere strane cose rovesciate: ad esempio di trovarsi a Dublino con il fidanzato, tentare di entrare in un locale gay a bere qualcosa ed essere mandata via perché gli eterosessuali non sono graditi. Ma i vantaggi sono più grandi dei piccoli svantaggi: «Mi sento a metà strada fra la cultura omo e quella etero, a volte ho la sensazione di non appartenere a nessuna delle due e mi sento un po’ isolata, ma non cambierei la mia situazione: mi ha dato una prospettiva privilegiata, la capacità di vedere le cose contemporaneamente da tanti punti di vista». La prospettiva da cui guardiame le cose in Italia, invece, privilegiata davvero non è. Nella cartina europea pubblicata da Internazionale, l’Italia è rosa – paesi senza statuto per le coppie omo – in compagnia della Polonia, dell’Ungheria e del Portogallo, tutti gli altri paesi sono rosso chiaro, prevedono cioè i Pacs, o rosso scuro, ammettono cioè il matrimonio fra gay e lesbiche.

Il presidente della Puglia Nichi Vendola: cambiata la concezione liberista della famiglia. Diritti estesi a tutti
Antonio Massari

“Abbiamo cambiato la concezione dello stato sociale”. Il presidente pugliese Nichi Vendola ieri ha portato a casa la legge più discussa del suo mandato presidenziale: quella sui servizi sociali. Una vera battaglia, con l’opposizione armata di oltre 7000 emendamenti.
Ventiquattrore di dibattito solo per approvare il primo emendamento. Avreste dovuto discutere per almeno venti giorni ancora. L’opposizione vi ha fatto paura?
Ho deciso che era necessaria una mediazione, sono stato sostenuto dalla mia maggioranza e l’ho portata fino in fondo.
Ma avendo la maggioranza alle spalle non t’è costato dover mediare a tutti i costi? Oppure qualcuno remava contro?
Siamo stati compatti dall’inizio alla fine. E mediare non m’è costato. Piuttosto, prendere sul serio le posizioni degli altri, costringerli a uscire dai fortini ideologici per misurarsi con la carne viva della società, su un terreno sgombro dai veleni, dagli insulti iniziali, questo per me è un risultato politico importante. E’ una mediazione che ho voluto fino in fondo.
A quale prezzo?
Abbiamo salvato i principi della legge. Questo è l’importante: l’estensione dei diritti ha una ricaduta sociale effettiva.
Un esempio?
Le politiche abitative: ora non ci sono vincoli di discriminazione per nessuno. Una coppia di fatto può chiedere e ottenere incentivi per la prima casa, per avere alloggio nelle case popolari.
Anche una coppia gay?
Certo. Se è una coppia portatrice di diritti perché dovremmo escluderla? Ma questo vale anche per la nipote che vive con la nonna.
Un altro esempio.
Abbiamo cancellato la “monetizzazione” delle nascite. La vecchia legge diceva: ti pago se non abortisci. Era un’offesa alla dignità delle donne. E’ cambiata la concezione di stato sociale: non abbiamo guardato alle persone come se fossero dei problemi, ma come se fossero risorse. Dinanzi a un diversamente abile non ci siamo posti in una logica di mera tutela. Ci siamo detti: diamo un valore reale alla sua diversa abilità. I migranti non sono un problema, tanto meno di ordine pubblico, ma soggetti che portano ricchezza culturale nel nostro territorio. E questo vale anche per la tutela dei detenuti o dei minori a rischio. E’ un cambio di filosofia.
Ma la mediazione in cosa s’è concretizzata?
Il dibattito s’è incentrato sull’estensione dei servizi alle coppie di fatto: c’era un’opposizione viscerale da parte del centrodestra e della gerarchia ecclesiastica. Credevano che volessimo minare la famiglia. La loro era un’apologia acritica della famiglia. Decadeva nel puro familismo. E io credo che il familismo abbia una molteplicità di varianti amorali: da quello mafioso a quello fondato sulla soggezione violenta della moglie, a una sorta di diritto di proprietà sui figli. Ho puntato l’attenzione sulla realtà: la famiglia in carne e ossa è stata scorticata viva dalle politiche liberiste e dalla desertificazione dei servizi sociali. Nella prospettiva liberista la famiglia diventa parcheggio, ammortizzatore sociale.
Questi erano i presupposti: e la mediazione?
Siamo andati a cercare la verità nelle posizioni dei nostri avversari.
E quale era?
Temevano la commistione nella forma giuridica. Io dico: la famiglia fondata sul matrimonio è una “coppia di patto”. Ma ci sono anche le coppie di fatto. E hanno diritti anche quelle. La mediazione sta nel tenere distinti i due terreni. Il centrodestra aveva minacciato di raccogliere firme per un referendum. Avrebbe generalizzato, in una dubbia campagna politico-culturale, un argomento così delicato. Io invece ho offerto un confronto sul merito.
E come?
La Cdl chiedeva di preservare la legge sulla famiglia firmata dall’ex presidente, Raffaele Fitto. In cambio della fine dell’ostruzionismo abbiamo offerto di conservare solo i primi due articoli, quelli di principio, a tutela della famiglia. D’altronde non volevamo attaccare la famiglia, ma estendere i diritti.
Concretamente cosa è cambiato?
Ora c’è un titolo della legge, denominato “La famiglia nei sistema dei servizi”, che raggruppa ciò che è immaginato come implementazione dei servizi nei confronti della famiglia.
Quella fondata sul matrimonio.
Esatto. Poi c’è un altro titolo, denominato “Carattere universalistico del sistema dei servizi”, nel quale facciamo riferimento agli articoli 2 e 3 della Costituzione, estendendo i servizi sociali a tutti i nuclei di persone legate da vincoli solidaristici. Si tratta di tenere un equilibrio: da un lato la famiglia come scolpita e protetta dalla Costituzione, dall’altro il principio d’uguaglianza, uno dei pilastri della nostra Carta.

Vita Cosentino

Appartengo a quella generazione che Serena Zoli ha definito fortunata perché ha potuto fare sogni come progetti personali e collettivi, ha potuto con baldanza giovanile scappare di casa, vivere nelle comuni, nelle «coppie aperte»…. Sono consapevole che tutto questo sperimentare e soffrire ha contribuito alla fine di un certo modello di famiglia e ha messo in circolo libertà femminile. E oggi, in un’epoca che transita da un tipo di famiglia patriarcale che non c’è più a qualcosa che ancora non sappiamo, vedo soprattutto donne più giovani, ma anche uomini (compreso mio figlio), portare avanti una ricerca di nuove forme di vita e relazioni amorose che in molti casi diventa una testimonianza che rimane muta. La discussione sui Pacs, che si è concentrata prima e dopo le manifestazioni, è destinata a durare fino alle elezioni. Con il riferimento prevalente alle coppie omosessuali e discorsi incanalati sui binari dei diritti e della visibilità pubblica del loro legame da una parte, e della difesa della famiglia tradizionale dall’altra. Sono favorevole ai Pacs e appoggio la proposta Prodi. Ma ragionare come se ci fosse un fronte laico e uno cattolico, una destra per i valori e la famiglia e una sinistra contro i valori e a favore di qualunque tipo di legame, rischia di essere una rappresentazione falsa della realtà. Realtà molto più contraddittoria e in movimento, come mostra ad esempio il dibattito nelle gerarchie ecclesiastiche dopo le decisioni del Sinodo sulla comunione ai divorziati.

Nella polarizzazione rimane in ombra la posizione femminile mutata nella società e nella famiglia e non si riesce a vedere «il buono che c’è nel nuovo venuto con la fine del patriarcato» (Luisa Muraro). Nel mio intendimento la libertà femminile è un cambiamento che chiama sì in causa aspetti della tradizione ormai superati, non per distruggerla, piuttosto per salvarne l’essenziale nel senso della convivenza umana. Di certo ha mutato i termini stessi della questione famiglia e matrimonio. Le parole comuni ne fanno vedere qualcosa, come «single» invece di «zitella» e «scapolo»: al posto di due parole italiane che definivano per negazione, una inglese a dire un modo considerato normale di vivere. Il mercato l’ha recepito, vedi le confezioni monodose.

La posta in gioco sui Pacs mi sembra questa: se e come il mutamento epocale rappresentato dalla libertà femminile può diventare un ampliamento di libertà per tutti. Se e come l’abbandono di aspetti e norme che presupponevano la donna come merce di scambio tra uomini può favorire il ripensare nei termini di una cultura dei due sessi gli elementi di base del convivere umano. Tra questi ci metto l’amore, di cui stranamente si è parlato pochissimo, pur parlando di coppia, etero od omo che sia. E a occuparsene in questi giorni è il papa.

Non mi dilungo sull’analisi della famiglia patriarcale, lo ha già fatto Luce Irigaray (La Repubblica, 16-9), affermando che, per quanto se ne possa avere nostalgia, quella Storia è finita. E la parola «famiglia» si apre per nominare nuove forme della vita relazionale. A una mia amica sposata che, uscite di casa le figlie, ospita gratis un giovane straniero per permettergli di frequentare l’università, e lo chiama «nipote».

I dati delle ultime indagini demografiche sono impressionanti. Il matrimonio è al minimo storico, nell’ultimo decennio il numero delle unioni di fatto è salito a 550.000 circa, il doppio dei matrimoni (Istat). In Europa una creatura su tre nasce in una coppia di fatto (Eurostat 2004). Due donne su tre che amano un uomo non lo sposano. Azzardo un’ipotesi: la libertà femminile, a livello sotterraneo, profondo, ha aperto una crepa proprio in quel senso comune femminile che vedeva nelle nozze il compimento dell’incontro tra i sessi. Quello che era il sogno d’amore, l’esito della vita di una giovane donna, il matrimonio, oggi appare sospeso. Sembra esserci una strategia femminile complessa che sceglie di non arrivare alle nozze, ma non per questo rinuncia all’amore. Anzi. Poiché molte donne amano più l’amore che il potere, e lì si vogliono giocare. Nell’attuale contraddizione tra i sessi non sposarsi è una scelta per continuare a farsi amare e amare? Va in questa direzione la testimonianza di Marina Mastroluca (L’Unità) che, rispondendo alla’ttaco di Ruini alle «coppie di fatto», sostiene la sua scelta: un amore che non vuole essere sancito per legge, spento in obbligo, ruoli, status, ma vuole vivere di vita sua, in uno scegliersi ogni giorno.

Ci sono poi non poche donne che di famiglia non vogliono più sentir parlare. Ne conosco molte che hanno fatto della rete delle amiche, delle relazioni amorose e politiche nella società femminile, una forma di vita radicalmente diversa dalla famiglia. Ricordo una donna indimenticabile della Libreria delle donne di Milano, alla quale siamo state accanto, accompagnandola fin nella malattia e nella morte.

Sono favorevole ai Pacs perché registrano la libertà che già donne e uomini si sono presi e permettono nella società una dinamica viva tra le scelte di vita che ciascuna/o intende portare avanti, etero o omosessuale che sia. A mio modo di vedere fanno bene allo stesso matrimonio troppo spesso ridotto a una faccenda burocratica di punteggi e pensioni o a un rito privo di sacralità. Un contesto sociale che offre più possibilità chiama a dare senso alla propria scelta. Per esempio, le coppie che scelgono il matrimonio religioso perché veramente ci credono, con il loro stesso atto gli restituiscono valore. La libertà agita apre uno spazio per ripensare le forme del celebrare e condividere con le persone care, del vivere la dimensione spirituale propria di ogni essere umano, che si aderisca o no a una religione rivelata. Va bene, purché ci sia libertà, purché ci sia amore.

Lo rivela un sondaggio dell’Eurispes. La maggioranza a favore anche di aborto e divorzio
Clementina Boso

Una risposta al gioco al rimpiattino che, da mesi, il leader dell’Unione Romano Prodi e il segreteraio della Margherita Francesco Rutelli hanno ingaggiato con le alte gerarchie vaticane arriva, ieri, da una più che tempestiva indagine dell’Eurispes. Che a sorpresa rivela: il 68,7% dei cattolici italiani è a favore dei Pacs, il 65,6% difende la legge sul divorzio, del 77,8% è la percentuale di coloro che si dichiarano contrari al divieto dell’eucarestia per i divorziati mentre arrivano addirittura all’83,2% quanti si dicono favorevoli all’interruzione di gravidanza se la madre è in pericolo. Scende è vero la percentuale – rispettivamente del 72,9% e del 61,9% – per i feti affetti da gravi anomolie o per gravidanze provocate da violenza sessuale. E ancora più cala quando a essere motivo di interruzione di gravidanza sono le condizioni economiche della madre (26,4%) o la volontà di non avere figli (21,9%).

 

Come che sia è un popolo disobbediente, quello cattolico, che poco sembra voler abbracciare la linea della Santa sede e dei partiti centristi che le si stringono attorno certi di poter pescare dentro un bacino di voti sicuri.

 

L’indagine Eurispes – contenuta nel Rapporto Italia 2006 e condotto su un campione rappresentativo della popolazione italiana di 1.1070 intervistati tra il 22 dicembre 2005 e il 5 gennaio del 2006 – parla un’altra lingua. E lo fa all’indomani delle due grandi manifestazioni di Roma e Milano – quella a favore dei Pacs e quella in difesa della 194 e della libertà femminile – spacciate per offensive laiche e laiciste dall’intero mondo cattolico istituzionale.

 

«La realtà – spiega il presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara – è che in Italia, tra la Chiesa cattolica e i suoi fedeli, c’è la stessa discontinuità che esiste, politicamente parlando, tra paese ufficila e paese reale». Come dire, insomma, che le gerarchie ecclesiastiche «non corrispondono – nell’eleborazione dell’indirizzo religioso – alle difficoltà e alle esigenze dei fedeli cattolici».

[…]

Luisa Muraro

Chi ha letto Chiara Zamboni, Pubblici legami d’amore e d’amicizia (il manifesto 22 nov.2005, p. 10) si ricorderà che lei, dopo aver invitato il movimento omosessuale ad essere creativo di nuove forme di vita e di socialità, termina con una domanda: a chi affidiamo il riconoscimento che rende pubbliche queste nuove forme di convivenza e di socialità? Domanda difficile, commenta lei stessa e spiega brevemente perché. Io aggiungo un motivo ulteriore, forse sottinteso da lei. C’è il pericolo di esproprio dei propri desideri e della propria esperienza nel momento in cui si affida la loro interpretazione e realizzazione alla politica, intendo quella dei politici di professione, compresi i porta parola e rappresentanti vari, compresi i cosiddetti esperti e gli autori di libri di inchiesta, compresi i mezzi di comunicazione che si incaricano di rappresentare e di “portaparolare”. È come un grande dispositivo che s’impadronisce, a proprio uso e consumo, delle sofferenze che agitano le persone in carne e ossa. La democrazia, lo sappiamo, è sempre più finta, a prescindere dalla buona volontà delle persone.

 

Sulla strada dei diritti si perde qualcosa e forse si perde, in assoluto. Le donne possono essere equiparate in tutto e per tutto nel diritto agli uomini, la coppia omosessuale può essere equiparata in tutto e per tutto nel diritto a quella eterosessuale. Fatta questa operazione, la differenza diventa spesso una indifferenza, la gente si abitua, compresi gli interessati, con un effetto di entropia, cosa micidiale per la vita del desiderio. Oppure no, non si forma nessun’abitudine e c’è solo una tolleranza esteriore, nel qual caso la differenza negata entra nel reale che non riceve mediazioni, e cova per venir fuori come disprezzo, odio, risentimento, ecc.
Perché questi esiti deteriori? Seguendo il testo di Simone Weil da cui abbiamo tratto il “non credere di avere dei diritti” (Quaderni II, p. 41), la ragione è questa, che non possiamo legittimamente aspettarci che le cose avvengano secondo giustizia, così lei si esprime. E completa il suo pensiero affermando che “Bisogna essere riconoscenti se si viene trattati con giustizia”, un’idea così in contrasto con la mentalità dominante che bisogna fermarsi a pensarci, per coglierne il profondo significato.
Dunque, se la realtà è “ingiusta” nel senso che noi stessi, ammettiamolo, siamo spontaneamente ingiusti, credere di “raddrizzarla” con il diritto è una forzatura, aspettarsi che sia giusta, un (auto)inganno.
La Weil si sofferma sull’ipotesi di poter imporre a tutti il comportamento che fa uscire me e altre/i che sono nella mia situazione, dall’ingiustizia patita. Forse aveva in mente il comunismo e la sua lotta titanica, allora non ancora perduta, per eliminare l’ingiustizia sociale. Ma l’idea può estendersi anche all’ipotesi, oggi largamente ammessa, teorizzata e praticata, di una politica dei diritti. Si tratta, comunque, di affidare all’ordine della legge quello che rientra piuttosto nell’ordine della “gratitudine”, per usare la sua parola. Che cosa? Per fare qualche esempio: la possibilità di stare accanto alla persona amata che ha bisogno di assistenza, il bisogno di vedere comunemente rispettata la propria scelta sessuale, il desiderio di vivere insieme a bambini piccoli che crescono, l’aspirazione a consacrare la propria persona al servizio liturgico (che la Chiesa cattolica, come noto, non intende riconoscere alle donne e agli uomini omosessuali), ecc.
La Weil sembra dubitare che sia desiderabile prendere questa strada. Potrebbe comportare “conseguenze pericolose”, scrive e possiamo intuire quello che pensa. Si sa che la coercizione sociale che oltrepassa certi limiti, provoca un rigetto. Mi si potrebbe obiettare che i diritti degli omosessuali non obbligano all’omosessualità, ecc. No, certo, ma si può reagire malamente all’obbligo sociale di convivenza civile con omosessuali o, in seconda istanza, al giudizio negativo sulla propria intolleranza. E poi non c’è solo la coercizione sociale, c’è anche l’invasione delle cose “giuste” pensate e decise da altri, dall’alto, che intasano ogni spazio di libera emozione pensante, non so come dire. Secondo il filosofo Baudrillard, sarebbe questo che ha portato i francesi a rispondere NO al referendum sull’Europa.

 

Weil parla anche di “un cattivo modo di credere di non avere dei diritti”. Questa è l’altra faccia del suo pensiero. Se non sono trattata con giustizia, questo rispecchia la realtà di questo mondo, ma non significa che io allora debba rinunciare alla mia giusta esigenza di esistere e di contare. O, peggio, pensare che non sia giusta.
Qui si affaccia un’altra questione, sul come lottare contro l’esclusione senza ridursi alla mera richiesta di inclusione. Si tratta del credito da dare ai propri desideri e bisogni: su che cosa lo baso? Come lo misuro? Come lo sostengo nei confronti di chi mi tratta ingiustamente? Come lo difendo nei confronti di chi pretende di rappresentarmi? Ricordate la domanda difficile di Chiara Zamboni. Chi o che cosa risponderà alla mia giusta esigenza di riconoscimento, senza espropriarmi della mia esperienza e dei miei desideri? Senza assimilarmi a sé? Senza cancellarmi nell’insignificanza? Sappiamo che alcuni hanno risposto: ti risponderà la storia, intesa come progresso, come politica, come partito, come provvidenza, ecc. altri invece hanno avanzato la necessità di allargare l’orizzonte ad una visione utopica, altri ancora hanno parlato di Dio, della sua legge, della sua provvidenza, ecc., risposte che s’intrecciano variamente nella storia del pensiero.
Anche la politica dei diritti può essere vista come una risposta a questo problema, anzi, forse, la risposta che oggi va per la maggiore. Questa risposta gode di un favore che in parte è abusato. Molte e molti, infatti, che la condividono, sembrano ignorare o trascurano di pensare che i diritti comportano necessariamente un carico di doveri. I famosi Pacs sono dei contratti e comportano vincoli e obblighi che potrebbero diventare pesanti o addirittura insopportabili per l’una o l’altra delle due parti. Vero è che noi godiamo di molti diritti che sembrano senza controparte. Se però andiamo a guardare bene, ci accorgiamo che il loro rovescio non ricade su di noi ma su persone terze. Più privilegi che diritti, insomma. Impossibile trovare qui la giusta misura di quello che desidero essere e avere.

 

Il problema per me resta irrisolto e si congiunge, nella mia testa, con tutto il tema del passaggio dall’ordine dei rapporti di forza all’ordine della gratitudine, per usare una parola già usata qui, dove tu entri perché qualcuno (una infermiera…) ti fa entrare, passi perché qualcuno, un abitante del luogo, ti fa passare…

Vita Cosentino

Io sono qui a spendere una moneta a favore della proposta Prodi sull’introduzione dei Pacs in Italia. Non sono una che si affida alle leggi, penso che il cambiamento vero è quello che in prima persona riusciamo a fare nelle nostre relazioni e nella nostra vita, e il senso del mio gesto sta nel fatto che la vedo come una proposta che non fa che recepire qualcosa di un cambiamento molto più grande che già c’è stato nella società a causa della libertà femminile che, come cercherò di mostrare, ha cambiato i termini stessi della questione matrimonio e famiglia. È una legge che viene dopo, come per es. è stata quella sul divorzio, a cui si può ricorrere o no, non obbliga nessuno, con una libera scelta. Do il mio appoggio continuando a basarmi sull’idea che le cose importanti sono quelle che continuiamo a far capitare nelle nostre vite prendendoci libertà e quindi ritengo che possiamo approfittare del dibattito attorno ai Pacs per cominciare a raccontarle e a dare valore alle nostre scelte, come ha fatto di recente Chiara Zamboni in un articolo sul manifesto in cui metteva in luce nuovi rapporti di amore-amicizia che già corrono nella società.

 

Credo che questo ci aiuti a toglierci dalla logica degli schieramenti, che rimpicciolisce la questione nello scontro tra laici e cattolici, tra una destra per i valori e la famiglia e una sinistra per l’ammissione di qualunque tipo di legami. È una rappresentazione della realtà falsa, basti pensare che a proporre i Pacs è un cattolico, sposatissimo, che ha appena scritto un libro con sua moglie dal titolo “Insieme” e a parlare contro, è un altro cattolico, delle alte gerarchie, il Cardinal Ruini, di cui con una felice battuta la Lettizzetto ha detto che ormai “parla anche quando dorme”. Io sono mossa anche da una preoccupazione del momento: è già successo, di recente, per la legge 40, che il campo è stato interamente occupato da politici, scienziati, alti prelati, tutti uomini schierati gli uni contro gli altri, e delle donne si è detto che sono state in silenzio. Questo non è vero alla lettera. Alcune hanno provato a parlare e avevano parecchio da dire, come Maria Luisa Boccia che studia da anni la questione, ma non c’era spazio simbolico perché si sentisse la loro voce. Per me è stata un’amara lezione e non voglio che ricapito la stessa cosa, nel dibattito sui Pacs. Perché la voce delle donne si possa sentire è necessario costruire un’altra cornice di senso facendo vedere come e in quali direzioni la libertà femminile ha cambiato i termini stessi della questione matrimonio e famiglia. E questo è il mio intento.

Le ultime indagini demografiche danno risultati abbastanza impressionanti. Il matrimonio è al minimo storico, nell’ultimo decennio il numero delle unioni di fatto è salito a 550.000 circa, il doppio dei matrimoni (rapporto ISTAT). In Europa una creatura su tre nasce in una coppia di fatto (Eurostat 2004). Due donne su tre che amano un uomo non lo sposano. Io stessa conosco parecchie giovani donne che la pensano così e ho ragionato soprattutto a partire da una mia cara amica che ormai ha le figlie grandi e fin dall’inizio non ha mai accettato di sposare l’uomo con cui vive e con questo gesto ha proposto a lui di stare in una contrattazione libera dell’amore. Su questa base azzardo un’ ipotesi: la libertà femminile, a livello sotterraneo, profondo, ha aperto una crepa proprio in quel senso comune femminile che vedeva nelle nozze il compimento dell’incontro tra i sessi. Quello che era il sogno d’amore, il finale delle fiabe, l’esito della vita di una giovane donna, come racconta nei suoi romanzi Jane Austen, il matrimonio, oggi sembra sospeso. Sembra esserci una strategia femminile complessa che non si muove più così, sceglie proprio di non arrivare alle nozze, ma non per questo rinuncia alla posta in gioco dell’amore. Anzi. Questo è un fenomeno veramente nuovo. Possiamo vedere la libera contrattazione dell’amore come un bene portato dalla libertà femminile e significato dalla scelta del non matrimonio.
Va in questa stessa direzione la testimonianza risentita di Marina Mastroluca che risponde al cardinal Ruini sulle “coppie di fatto” da lui ritenute un modo di vivere che mina la convivenza sociale. (Unità, 21-9-05), Sostiene la sua scelta mettendosi dalla parte di un amore che non vuole essere sancito per legge, spento in obbligo, in ruoli, in status sociale, ma vuole vivere di vita sua in uno scegliersi ogni giorno. la Mastroluca parla di quella che chiama la “sua famiglia”: una convivenza di 16 anni con la stessa persona e due figli che stanno crescendo insieme. Dice: “Non ci siamo sposati senza avere un motivo particolare, se non la voglia di rinnovare ogni giorno l’impegno a stare insieme, in un certo senso -potrei dire- ci siamo sposati ogni giorno senza scriverlo da nessuna parte”.
La Mastroluca, chiamando la sua convivenza “famiglia”, solleva poi un problema non da poco: o accettiamo che “la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio”, come dice la Costituzione, e allora dobbiamo anche accettare che la famiglia è in profonda decadenza e forse si avvia all’estinzione; oppure è necessario orientarsi diversamente e prendere in considerazione una “famiglia” non fondata sul matrimonio, come lei intende.

La parola famiglia è ben più sottoposta a scossoni dalla libertà femminile. Irigaray intervenendo nel dibattito sui Pacs ha posto l’accento sulla fine della famiglia patriarcale, (La Repubblica,16/9/05), affermando che per quanto se ne possa avere nostalgia e tentare di ripristinarla, quella Storia lì è finita. Poi ricordando l’origine della parola famiglia da famulus, servo, ha fatto un’apertura a un possibile nuovo sviluppo riferito all’entrata nelle nostre case di donne e uomini stranieri come un luogo di relazioni interculturali. Esattamente dice: “Nei nostri tempi la famiglia potrebbe diventare un luogo di apprendimento della convivenza multiculturale”. Io penso che la parola famiglia sia oggi una parola “vacante”. In attesa di nuovi significati. E che si stia aprendo per nominare aspetti nuovi della vita relazionale di oggi. Nello stesso senso proposto da Irigaray va l’esperienza di una mia amica sposata, che, uscite di casa le figlie, ospita gratis un giovane straniero per permettergli di frequentare l’università. E lo chiama “nipote”. Ora di “nipoti” ne ha tre, un maschio e due femmine, che segue negli studi. Sarebbe interessante vedere che cosa sta capitando a questa parola in altre esperienze femminili qui dentro. Che cosa sta capitando anche per negazione, per donne che di famiglia non ne vogliono più sentir parlare, capire quali altri modi di vivere si sono inventate.

Sono favorevole ai Pacs perché in qualche modo recepiscono – nei limiti di quello che può fare una legge – la libertà che già donne e uomini comuni si sono presi e, se non c’è più il matrimonio come unico modello sociale, si può creare nella società una dinamica viva tra le scelte di vita che ciascuna, ciascuno intende portare avanti, eterosessuale o omosessuale che sia. E questo a mio modo di vedere farà bene allo stesso matrimonio, che viene restituito a una scelta libera e dunque di valore. Mentre oggi oscilla: c’è chi sceglie il matrimonio religioso perché ci crede davvero, ma spesso è ridotto a una faccenda burocratica per avere punteggi o pensioni reversibili; oppure a un rito sociale privo di sacralità in cui – lo notava Don Milani ormai parecchi anni fa – le classi povere inseguono quelle ricche e si indebitano pur di esibire un uguale sfarzo. Un contesto sociale che offre più possibilità, chiama a dare senso alla propria scelta.

Non c’è propriamente una battaglia da fare per i Pacs, in quanto c’è già una proposta in tal senso (casomai il problema si sposta e diventa a chi dare il voto). In realtà non ci sarebbe neppure una battaglia da fare contro, in quanto è un fatto che quel tipo di famiglia tradizionale che tanto evoca il Cardinal Ruini ormai non esiste più e invece sempre più esistono situazioni nuove che vogliono essere guardate con attenzione.

 

Io da ragazza sono scappata di casa, ho vissuto nelle comuni, insomma appartengo a quella generazione che ha potuto sperimentare di persona, prima nel 68 poi nel movimento delle donne, quanto può essere trasformativo dell’intera società ciò che liberamente scegliamo in prima persona assieme ad altre e altri. So che oggi è più difficile percepire questa possibilità, ma c’è. Ci si può fare forti di un simbolico di libertà femminile che circola e si esprime nel gesto anonimo di moltissime giovani donne che semplicemente dicono: “no, io non mi sposo”. La legge viene dopo. Può risolvere forse problemi pratici, ma io non affiderei allo stato la funzione simbolica, di riconoscimento simbolico, proprio quando si è aperto uno spazio per ripensare e reinventare le forme del celebrare, del condividere con le persone care, del vivere la dimensione spirituale che è propria di ogni essere umano, che si aderisca o meno a una religione rivelata.

Chiara Zamboni

“Quelli come noi che son venuti su un po’ strani” cantava Claudio Lolli in un disco che ho amato molto. E per questa stranezza, per questo senso di inquietudine, di essere sempre leggermente fuori posto, e per la scommessa che di questa stranezza si potesse fare una invenzione politica, non da sola, ovviamente, ma nell’agire con altre e con altri, è passata una parte della mia vita. Così mi sento ancora una volta fuori posto, a disagio rispetto alla piega che ha preso la discussione sui patti di convivenza. Come ha segnalato Nichi Vendola su la Repubblica di qualche tempo fa, accanto al matrimonio c’è in Italia una grande proliferazione di forme di relazioni amorose e di convivenza che sfuggono al matrimonio: etero, gay, coppie fondate su un semplice patto di mutua assistenza. Questa molteplicità di forme provoca tutti, laici e cattolici a interrogarsi su che cosa sia oggi amore, impegno alla fedeltà, legame tra affetto, sessualità e amicizia. I patti di convivenza dunque non inventano un fenomeno, ma danno delle garanzie sacrosante a donne e uomini che incontriamo dappertutto accanto a noi.

Il mio disagio non riguarda certo la richiesta di garanzie essenziali come la possibilità di assistere la compagna o il compagno in situazioni di emergenza, ottenendo licenze dal lavoro di solito permesse solo per i famigliari, oppure di avere garantita la possibilità di continuare ad abitare la casa che si viveva in comune, o una certa sicurezza economica: tutte questioni materiali fondamentali, che toccano la vita quotidiana di queste coppie. Quello che mi inquieta è che nella discussione sulle varie proposte di legge in discussione, il metro di riferimento sia sempre il matrimonio. Sui giornali ho visto tabelle che a sinistra collocano il matrimonio con i suoi diritti e poi, via via, da sinistra a destra le proposte di Pacs più vicine al matrimonio quanto a diritti garantiti. Dove è evidente l’idea suggerita: quelle più vicine sarebbero, per così dire, più progressiste e coraggiose, quelle più lontane timorose e un po’ oscurantiste. Di modo che l’unica misura della discussione risulta essere comunque il matrimonio, la famiglia e i diritti ottenibili dallo stato. Bene, se dovevamo fare nella nostra vita un percorso così lungo di sperimentazione di forme diverse di vita – con tutti gli errori, nel senso dell’errare e del camminare un po’ a caso che questo ha comportato -, per ritrovarci poi col matrimonio come unica misura di valutazione di questa sperimentazione, penso che il motivo della mia delusione sia evidente.

Non sto tanto parlando a favore o contro la famiglia, sto suggerendo che “l’esser venuti su un po’ strani” lo abbiamo mostrato in pratiche, in scelte, in azioni politiche in sintonia con la sfera affettiva dell’amicizia e dell’amore. Senza separare troppo l’una dall’altro. E che dare spazio di invenzione a modi di amarsi nuovi e diversi, può aprire una campo di libertà e di pensiero per le ragazze e i ragazzi che iniziano ora a orientarsi nelle loro scelte esistenziali.

Forse sono stata facilitata in questo dall’essere donna, dal fatto che per le donne della mia generazione ci sono stati diversi percorsi, coinvolti direttamente o indirettamente nel femminismo, cioè in una vera e propria rivoluzione nel modo di vivere gli affetti, la sessualità, l’amicizia, nel modo di pensare i rapporti d’amore con le donne e gli uomini. Il parlare di erotismo diffuso non sfociava inevitabilmente in una esperienza sessuale, ma ne apriva la porta a chi voleva sperimentarla. Erano gli anni in cui Mary Daly, una teologa cattolica, femminista e lesbica, scriveva in Al di là di Dio Padre che la contrapposizione tra eterosessuali e omosessuali faceva il gioco del patriarcato separando le donne tra loro. Il femminismo ha modificato profondamente il nostro presente, segnandolo in modo irreversibile.

Oggi ci sono pensatori che si esprimono in modo simile. Gianni Vattimo ad esempio ha scritto recentemente in La gaia utopia che, di fronte all’alternativa tra il pragmatismo di quella parte del movimento gay che chiede più diritti cercando di riprodurre nei rapporti omosessuali la “normalità” del matrimonio da una parte, e dall’altra l’ansia rivoluzionaria di trasformare alla radice la società, la sua vocazione è quella profetica. Nel senso che la vocazione omosessuale, vissuta non come una faccenda superficiale, implica la messa in discussione di molte più cose di quante non si creda e non si vorrebbe. Porta ad uno sguardo di verità.

In lui, come anche in Michel Foucault, è presente la tensione verso una apertura creativa di azione e di pensiero, che, pur appoggiando la questione dei diritti, li mette sullo sfondo. Non ne fa il centro del discorso. In una intervista del 1984 Foucault invita a non chiudersi nella difesa di una identità gay: piuttosto ad inventare nuove forme di vita, di rapporti, di amicizia nella società, nell’arte, nella cultura. Per un divenire trasformativo: il movimento omosessuale ha bisogno di trovare una vera e propria arte di vivere. E i passaggi essenziali sono quelli di mettere al centro un piacere non ossessivamente identificato con la sessualità e un senso nuovo e sperimentale di amicizia.

Proprio questo è mancato nel dibattito sui patti di convivenza: un pensiero che apra ad un senso nuovo dell’amore, visto nella prospettiva più ampia dell’amicizia. E il fatto che questo amore-amicizia possa prendere più forme, nelle quali c’è comunque piacere, erotismo, senza escludere, ma senza identificarlo con la sessualità.

Credo che in molti che scelgono la via di legami diversi da quello del matrimonio vi sia il desiderio di altro, la fedeltà profonda ad un sogno non ancora sognato, che porta a compiere scelte nella propria vita materiale in un processo non lineare, pieno di svolte e di ripensamenti. Certo anche per queste diverse forme di convivenza c’è bisogno di una condivisione pubblica, di modo che il legame intimo, in cui si è impegnati interiormente, si inscriva nel simbolico. Ma a chi desideriamo veramente affidare la forza di uno sguardo altro, che ci rimandi simbolicamente l’esistenza pubblica di tale legame? Pensare di affidarlo alle istituzioni impersonali dello stato significa evitare questa domanda. Che è comunque una domanda difficile, perché porta a chiederci che cosa sia autenticamente spazio pubblico, relazione di visibilità allo sguardo degli altri, e come e in quali modi sia per noi necessario, possibile, desiderabile esserci.

Il figlio di Maria Secondogli evangelisti Gesù,nel suo concepimento,è figlio di una ragazza madre.Solo quando Maria è già incinta Giuseppe la sposa
Enzo Mazzi

Prendiamo a mo’ di esempio questa radicale determinazione dei vertici ecclesiastici nell’opporsi ai Pacs e nel blindare il matrimonio. Dicono di voler salvare l’amore e in realtà lo denigrano, lo distruggono. Questa radicale determinazione dei vertici ecclesiastici nell’opporsi ai Pacs e nel blindare il matrimonio è spiegabile solo con una grande paura. Sono angosciati dal timore che si sfasci la società. Insistere nel considerare il patto matrimoniale sancito dalle istituzioni e consacrato dalla Chiesa come unica ed esclusiva cellula fondamentale della società è frutto di una sfiducia totale nella forza intrinseca dell’amore umano. L’amore ha bisogno di essere protetto e imbrigliato perché in lui cova il male. I sentimenti umani, la spinta sessuale, il bisogno del piacere, la creatività affettiva, sono ormai tutti sotto il dominio distruttivo del peccato. Per redimerli vanno posti sotto il segno della grazia e ciò può avvenire solo col sacramento del matrimonio. Si fa eccezione per il matrimonio civile, sebbene non venga considerato un sacramento, perché comunque esprime un controllo sull’amore da parte di un’autorità pubblica.

Le contraddizioni che si aprono sono abissali. Oltre alle contraddizioni politiche e sociologiche sulle quali si concentra il dibattito, aggiungiamo qualche spunto, a mo’ di esempio, sulle contraddizioni che si annidano più in profondità, nella cultura, nell’etica e nella stessa teologia. Ad esempio: oltre all’ambiguità nella considerazione del matrimonio civile, che non è affatto chiara anzi è intrisa di ipocrisia, c’è la contraddizione del «matrimonio fra divorziati». Cosa dicono le gerarchie a proposito dei divorziati che si risposano? Il Catechismo parla chiaro: sono semplicemente adulteri e concubini. Gli negano l’assoluzione e la comunione e arrivano a colpire con sanzioni i ministri, preti e vescovi, che osano distribuire l’ostia sacra ai divorziati. Interi episcopati, come quello tedesco, sono sotto stretta osservazione da parte del Vaticano. Questo fanno a livello mondiale. Ma allora se il matrimonio fra divorziati non è per loro un vero matrimonio che cosa è mai? A me sembra lapalissiano: è un Pacs.

Caro card. Ruini, si rassegni, la sua battaglia per blindare il matrimonio difendendolo dall’assalto dei Pacs è già persa. Il nemico è già dentro le istituzioni pubbliche. E vi è massicciamente. Pensi quanti sono i matrimoni fra divorziati: tutti Pacs!

(…)

Chantal Podio

Noi siamo in difesa della famiglia… affermazione lapidaria, un po’ altisonante utilizzata da più parti ultimamente per chiudere in partenza il dibattito sul riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali.
Come se tale affermazione contenesse in sé un’ovvietà che a pensarci bene è tutt’altro che ovvia.
Che cosa si vorrebbe difendere e da quali pericoli?
Riecheggia in sottofondo lo spauracchio di una possibile “sovversione dell’ordine sociale”, una messa in discussione “di valori sociali”fondanti.
Famiglia e sociale quindi è la prima associazione che mi viene da fare.
Nella Costituzione la famiglia viene in effetti definita come “società naturale” , come quindi formazione che ci si attende in grado di accompagnare un individuo nella sua crescita, educandolo secondo le norme del gruppo sociale a cui appartiene.
Funzione educativa quindi…capacità di trasmissione tra generazioni non solo di patrimoni ma in primis di una visione del mondo, delle possibilità di libertà e di realizzazione dei desideri ma soprattutto dei limiti al desiderio stesso.
Terreno di confronto- scontro tra le differenze: i generi, le generazioni, le stirpi.
Primo incontro col limite, col “questo non si può” reso “familiare” e di conseguenza non troppo angosciante perché mediato dagli affetti.
La famiglia in questo senso è il luogo in cui viene svolta una funzione simbolica che “forma l’umano” a partire da un piccolo di uomo.
Le gerarchia vaticana propone spesso come modello familiare la Sacra Famiglia e forse non ha tutti i torti.
Ma cos’è che costituisce la struttura portante di questa famiglia?
Il fatto che sia costituita da un uomo, una donna e un bambino o piuttosto da una madre , un padre e un figlio?
La paternità e la maternità sono vincolate in modo indissolubile al sesso maschile e femminile rispettivamente o sono piuttosto funzioni, posti simbolici che possono essere variamente incarnati?
L’esperienza comune mostra come la maternità e la paternità spesso non siano prerogativa esclusiva dei genitori biologici: basti pensare ai figli cresciuti dalle balie, dai nonni, dai genitori adottivi, a volte da un unico genitore.
Ma a volte partire dall’esistente può spaventare…la vita non può essere certo ingabbiata in una ideologia.
A livello “ideale” è già ritenuta non del tutto “sana” la posizione di chi ha un unico genitore che svolge entrambe le funzioni , ancora di più lo è la possibilità che
la funzione materna o paterna non siano svolte rispettivamente da un uomo ed una donna.
Che una donna possa fare da padre o un uomo da madre viene da molti vissuto come una perversione.
Ma è davvero così raro?
Gli insegnanti, gli educatori , gli analisti e coloro che svolgono in generale lavori di tipo relazionale non svolgono già queste funzioni?
La mia esperienza di psicoterapeuta mi ha fatto più volte sperimentare come alcuni pazienti mi percepiscano come materna, in una veste di maggior accoglienza, o paterna, in una funzione più normativa, e a volte in una posizione oscillante tra questi due poli.
Perché ci ostiniamo ad appiattirci sul piano reale quand’è proprio l’aspetto simbolico della realtà che ci permette di spiccare il volo verso mondi inattesi e affascinanti?
Come se ancora si ritenesse che solo una coppia eterosessuale sia equipaggiata per un’adeguata funzione educativa: “la famiglia è fondata sul matrimonio” tuonano molti dall’alto.
Ma altri sottolineano che la progettualità della famiglia non si limita
alla procreazione e tanto meno alla riproduzione, alla stregua del mondo animale, bensì si estende alla generatività , alla capacità cioè di dare forma umana,di generare un bene relazionale.
Ciò però implica il superamento dell’idea, molto radicata, dell’omosessualità come pratica sessuale piuttosto che relazione affettiva e sessuale …il fantasma della relazione simbolicamente sterile e priva di progettualità è dietro l’angolo.
Se una relazione non riproduttiva fosse priva di valore potrebbe essere messa in discussione anche la legittimità delle coppie eterosessuali sterili e ancora di più di quelle coppie che scelgono di non riprodursi ; quest’ipotesi mi sembra si contesti già da se.
Ciò che fa “tessuto sociale” è la capacità di mettersi in relazione con la differenza, con l’altro che non necessariamente è “dell’altro sesso”.
La richiesta di un riconoscimento giuridico da parte delle coppie omosessuali è a mio avviso il frutto della consapevolezza del valore sociale della propria relazione e il legislatore è chiamato a fungere da terzo simbolico perché la funzione primaria della legge è proprio quella di “legare”, di far si che dei soggetti possano prendere un impegno che rendono pubblico.
In fondo credo che in questo l’orientamento sessuale non sia determinante: il desiderio di rendere “pubblica” e non solo “privata” la propria relazione, “urlando” al mondo il nome di chi si ama è un ‘esperienza condivisa da molti.