di Rosa Serra


Mail art 2024 organizzata dalla Merlettaia di Foggia insieme alla Rete delle Città Vicine e all’Atelier di artiste dell’Alveare di Lecce: “Trame di vita” “Trame di pace” due temi che si intrecciano tra di loro, si annodano, si rafforzano.


È un appuntamento atteso con le artiste e gli artisti e anche con chi artista non lo è, ma che ci prova e lo diventa per il tempo e nello spazio di una cartolina.

La ricerca delle parole, dei colori, delle immagini, le modalità per rappresentare il proprio messaggio diventano una sfida, una pacifica sfida dove, grazie al cielo, non si vince nulla.

Una sfida con sé stessi e con il proprio desiderio che è anche quello di affidare la propria creazione allo sguardo critico, benevolo, severo, indulgente di chi si fermerà davanti alla piccola opera.

La mail art non è solo il prodotto finito che sono le cartoline.

È una strada percorsa da persone che si incontrano in tanti modi e si lasciano attraversare dalle altrui sensibilità.

Il suo iter, meraviglioso, comincia con le idee, le proposte sugli argomenti da sviluppare e le motivazioni.

Le problematiche che ogni giorno il mondo ci elargisce, con una generosità pari solo alla mancanza di senso di responsabilità in fatto di guerre, ambiente, questioni sociali, libertà, libertà femminile, discriminazioni, sono tante che non è difficile trovare il tema che sta più a cuore (eh sì proprio a cuore) a tutte e tutti sia individualmente che come associazioni.

Scelto il tema, segue la condivisione con il mondo degli artisti e delle associazioni con relativi inviti a partecipare.

La casa di Katia Ricci per oltre un mese diventa punto di raccolta di tutti i lavori, ogni anno più numerosi e di provenienza anche estera.

Arriva di tutto, carta cartoncini collage tavolette metallo ricami uncinetto fiori foglie foto e le previste piccole dimensioni, non sono da freno alle ambizioni artistiche, anzi si aggiungono alle sfide a cui accennavo prima.

Non mi dilungo sulla fase della ricerca dei luoghi dove tenere la mostra e le relative difficoltà, in quanto gli iter burocratici sono sempre un po’ noiosi da descrivere e a volte irritanti da vivere.

Però mi piace anche dire, per mia diretta esperienza, che quando ci si confronta con le istituzioni non solo sulla base dei ruoli, ma come persone, la relazione si fa più agile, più vera e diventa anche piacevole.

Tra una richiesta da un lato ed una concessione dall’altra e scambi più personali, ognuna/o comprende meglio le problematiche dell’altra/o con reciproca soddisfazione.

Con l’installazione delle artiste Rosy Daniello e Anna Fiore, le nude pareti del museo di Foggia, luogo della prima esposizione, hanno preso vita; vita che proseguirà coi successivi itinerari.

Colori, poesie, frasi, foto diventano il prolungamento dell’anima degli artisti/e della loro forza, delle loro fragilità.

Ma c’è un’altra fase artistica, una parte irrinunciabile della mostra che è la realizzazione a cura di Rosaria Campanella del video delle foto di tutte le opere (visibile su you tube digitando trame di vita trame di pace).

La mostra è itinerante e Anna Fiore, con la stessa attenzione con cui ha affisso al muro le opere, a chiusura della mostra, ha provveduto a toglierle, con amorevole cura e rispetto per il lavoro degli artisti/e.

Ciascuna opera l’ha avvolta in un foglio di carta per poi unirle in piccoli gruppi onde evitare che si potessero danneggiare. Ha recuperato quindi diligentemente spilli e pinzette varie, utili per la successiva esposizione e infine consegnandomi il tutto perché lo portassi a Vico del Gargano, successiva sede della nuova inaugurazione, mi ha chiesto, premurosa, se per caso volessi anche il martello (suo).

L’ho abbracciata per tutto l’amore che ci ha messo.

Così come mi viene di abbracciare Katia per la generosità e la pazienza (con gli artisti ce ne vuole, si sa);

Rosy alla quale siamo tutte legate con un tenace lungo filo di stima ed amore;

Rosaria per il video che rende ancora più belle le già belle opere;

e tutti e tutte senza il cui sostegno mai nulla si potrebbe realizzare.

Messaggi, sogni di pace, poesie desideri, esempi di un’altra vita possibile, sono stati espressi nelle cartoline, come nella mia dal lungo fiore azzurro, attraverso la quale desidero che sulla Terra venga seminata la Pace per far crescere e raccogliere la pietà, la speranza e veder rifiorire i sogni in nuove notti d’amore.

Ma questa mia utopia non riesce a lenire l’inquietudine, il disappunto, la rabbia che provo per ciò che accade nei luoghi del potere, dove la pace sembra essere un argomento di rari incontri autoreferenziali e sterili.

Di altro tenore e solerti nelle decisioni, invece, sono quelli sulla guerra e sulle armi vendute dalle ricche case di produzione.

Da qui nasce a mia poesia “Non hanno cieli gli uccelli” che condivido in questo scritto.

Lungi dal chiudersi a ogni speranza, la mia vuole essere una denuncia verso chi, pur avendo prerogative decisionali e strumenti, non si adopera concretamente per far cessare sofferenze e disumanità e non “libera la colomba della pace dalla inutile cornice in cui è stata messa”.

È una poesia che affianca il desiderio di pace, di fiducia, di attesa della mostra stessa, aggiungendosi così alla voce degli artisti e al positivo coinvolgimento emotivo che il pubblico sta esprimendo davanti alle opere e a tutta la manifestazione.


Non hanno cieli

gli uccelli

in tempo di guerra.

Non volano per i campi di grano

tra i rossi papaveri,

né sui paesi a cinguettare stagioni.

Hanno perso il nido

e anche le nuvole nelle quali nascondersi.

Cercano la pace,

la colomba di pace.

Fedele a se stessa, su rami anneriti,

è rimasta ad attenderla, seppur accartocciata,

una tenace piccola foglia d’ulivo.

Ma… non si vedono bianchi voli

in questi cupi cieli,

rumorosi di ferro e di fuoco.

Eppure una colomba c’è.

Proprio lì sulla tela,

l’artista ha dipinto una grande colomba luminosa.

Le sue ali sono … candide

le sue ali sono … aperte

le sue ali sono … ferme.

Sembra una croce e forse lo è.

Una croce che rammenta

il dolore … la morte,

ma non la redenzione.

È lì la PACE

dentro una inutile cornice dorata.

La inchioda

lo sguardo incolore

del pubblico che conversa distratto,

mentre sorseggia, lentamente,

il calice di un fresco prosecco

offerto dalla ricca Casa d’arte.


(AP Autogestione e Politica prima, ottobre-dicembre 2024)

di Roberta Scorranese


Due mostre in Italia ricordano la figura dell’artista, pioniera di un genere


Se per il centenario del futurismo (nel 2009) in Italia si è fatto poco, le celebrazioni dei primi 150 anni degli impressionisti sembrano non finire mai. E di quella pionieristica mostra allestita a Parigi il 15 aprile del 1874 si continua a parlare anche in Italia e a volte da prospettive poco familiari, per esempio attraverso la pittura delle donne. Avviene così che dopo decenni di silenzio o quasi, due città in contemporanea, Torino e Genova, dedichino una mostra a Berthe Morisot, la prima donna impressionista, nonché una delle figure più importanti del movimento reso famoso da Monet e da Renoir. A Genova “Impression, Morisot” (Electa) sarà allestita a Palazzo Ducale fino al 23 febbraio, mentre la Gam di Torino ospita “Berthe Morisot, pittrice impressionista” (24Ore cultura) fino al 9 marzo.

Non è stata l’unica pittrice impressionista, ce ne saranno altre e famose (per esempio Mary Cassatt), però Morisot è stata l’unica donna a esporre in quella celebre mostra ospitata nell’atelier di Félix Nadar, al 35 di rue des Capucines di Parigi. Al di fuori del Salon ufficiale, Monet, Pissarro e altri decisero di esporre per proprio conto, affrontando le (inevitabili) critiche dalle quali nascerà per paradosso il termine “impressionismo”, coniato dal critico Louis Leroy quando volle parlare male del bellissimo Impression, soleil levant di Claude Monet, del 1872. Berthe Morisot, in quella occasione, espose il suo dipinto più toccante, anche questo del 1872: La culla. Raffigura una madre finemente vestita che veglia con dolcezza il suo bambino nel sonno. Sarà questo dipinto a consacrarla nella storia dell’arte, ma non solo: è proprio qui che Morisot ricava quella “singolarità” di cui scrisse Paul Valéry parlando di lei, quella originalità che permise a una donna di entrare a far parte di una cerchia d’artisti.

Ma forse, per parlare di Morisot, è più utile partire dalla fine, dalla tomba: se andate a visitarla, nel cimitero parigino di Passy, scoprirete che le tombe di Berthe e del gigante della pittura francese, Édouard Manet, non sono tanto distanti. In fondo erano cognati, lei aveva sposato il fratello di lui. Eppure, se a ricordare la grandezza del pittore si erge un alto busto commemorativo, la tomba della pittrice è contrassegnata solo da una scarna epigrafe: «Berthe Morisot, vedova di Eugène Manet». Peggio ancora fece l’anagrafe della capitale francese quando registrò la sua morte, avvenuta nel 1895 a soli cinquantaquattro anni, a causa di una polmonite: nel certificato di avvenuto decesso scrissero «Berthe Morisot, senza professione». Bruciando così, in poche righe, una intera vita dedicata all’arte e alla sperimentazione.

Morisot era nata in una famiglia colta e benestante, nella quale l’arte non era bandita, anzi: sia Berthe che le sue sorelle Yves e Edma avevano preso lezioni private di pittura. Però, nelle intenzioni della madre Cornélie, queste dovevano servire a un intento preciso, cioè renderle “coltivate” e pronte per una vita sociale ricca e brillante.Detto in poche parole: dovevano servire a maritarle bene. Il problema fu che Berthe cominciò a pensare come un’artista vera e dunque quando andava nei grandi musei come il Louvre e copiava diligentemente i corpi pieni di Rubens, non si lasciava ingabbiare in un banale compito accademico. Studiava l’anatomia, le espressioni, le tecniche. Solo così si diventa bravi davvero, copiando con originalità. E allora un artista molto popolare all’epoca, Henri Fantin-Latour, la notò e le presentò Édouard Manet.

Questo, nella seconda metà dell’Ottocento, poteva essere una svolta nella carriera. Perché conoscere Manet non voleva dire solo entrare a far parte di un giro di conoscenze importanti nell’avanguardia, ma era anche come imboccare una direzione tutta nuova, distante dai canoni dell’accademia, considerare insomma l’arte come un territorio di coraggiosa sperimentazione. E i timori della madre di Morisot assunsero una concretezza allarmante: come può una donna dell’Ottocento pensare di fare l’artista e, per giunta, l’artista “sperimentale”, contraria ai dettami della tradizione? Sopravvivrà? Berthe sapeva bene che avrebbe dovuto muoversi con intelligenza: non diventare “di maniera”, ma nemmeno poteva permettersi quello che aveva fatto Manet nel 1863, quando diede scandalo con Le Déjeuner sur l’herbe, un dipinto nel quale una donna completamente nuda si lascia ritrarre in una quieta conversazione con due uomini vestiti, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.

Morisot aveva osservato e studiato il lavoro del maestro, anche perché lui la ritrasse in numerosi dipinti. E quindi sapeva che lo “scandalo” in questo caso non stava tanto nel nudo in sé e per sé(le sale del Louvre erano piene di nudi pittorici) quanto nel fatto che quella donna era una cortigiana conosciuta in tutta Parigi, quindi la provocazione di Manet consisteva nell’inserire in una dimensione quasi rinascimentale (tizianesca) il corpo e il viso di una modella molto chiacchierata. Morisot comprende che non bastano l’originalità del tratto pittorico o la tecnica o i temi – peraltro, alle donne era permesso poco anche in questo senso. Comprende che deve trovare una sua “singolarità” e così si colgono bene le parole che a lei riservò un grande critico come Paul Valéry, nel 1941: «La singolarità di Berthe Morisot fu di vivere la sua pittura e di dipingere la sua vita».

Rimase così nell’alveo tematico del femminile: culle, madri, bambini, giovani donne, eleganti signore. Ma torniamo a osservare La culla, il dipinto che venne esposto nella prima mostra impressionista: nulla si ferma al dettame accademico, nulla è stereotipato. Non c’è una madre vestita di retorica, ma nell’osservare la piccola si coglie, assieme alla dolcezza, una certa apprensione, come un presagio dei tempi che verranno. E c’è un’ombra di stanchezza, modernissima perché la figura della madre, idealizzata da secoli di pittura, qui comincia ad assomigliare alla realtà. La maternità è tutt’altro che riposante, come ci dirà più apertamente in seguito Louise Bourgeois. Ecco perché questo dipinto piacque prima di tutto agli uomini, che apprezzarono molto anche le altre opere di Morisot, attenta a calibrare la sperimentazione con un gusto personale, un’attitudine. L’artista restò legata a Manet per tutta la vita e il matrimonio con il fratello del pittore sigillò un sodalizio segreto, quasi carbonaro tra i due. Per Berthe fu come scegliere una strada, quella dell’avanguardia, con un’enfasi e uno spirito critico che le fecero affrontare le inevitabili difficoltà. Infatti le sue opere – come anche quelle degli altri impressionisti – vennero criticate aspramente dai conservatori, ma per lei ci fu una punta di veleno in più in quanto donna. Per esempio, una volta fu insultata in pubblico da un avventore che la chiamò “prostituta”, scatenando la reazione violenta di Camille Pissarro. Morisot non arretrò di un passo, anzi. Negli autoritratti che – via via sempre più di frequente – riservò a sé stessa, la si vede ora madre e ora gran dama a suo agio nell’alta società. Grazie alla pittura, ha raccontato la sua vita e così trovano un senso compiuto le parole di Paul Valéry: «La singolarità di Berthe Morisot fu di vivere la sua pittura e di dipingere la sua vita».


(Corriere della Sera, 25 ottobre 2024)

di Manuela De Leonardis


Marianne Heier racconta la mostra “La passione” alla Fotogallieret di Oslo. Il nucleo principale tra fotografie, video e libri proviene dalla celebre collezione di Donata Pizzi


«Il mio ruolo è soprattutto di guida per il pubblico norvegese nella conoscenza del femminismo radicale italiano e della sua relazione con le arti visive», afferma Marianne Heier (classe 1969, vive e lavora a Oslo), co-curatrice della mostra La passione (fino al 29 dicembre) insieme a Antonio Cataldo, ex direttore artistico della Fotogalleriet di Oslo, lo spazio istituzionale che la ospita.

Realizzata con il sostegno della Arts and Culture Norway e dell’Istituto italiano di cultura di Oslo, la collettiva offre una panoramica sul lavoro di artiste italiane di diverse generazioni che riflettono l’energia e la forza nella lotta alla parità di genere: Chiara Fumai, Pippa Bacca, Silvia Giambrone, Bingöl Elmas, Betty Bee, Ottonella Mocellin, Marcella Campagnano, Agnese De Donato, Tomaso Binga, Lisetta Carmi, Lucia Marcucci, Alessandra Spranzi e il Gruppo del Mercoledì (Diane Bond, Bundi Alberti, Paola Mattioli, Silvia Truppi).

Il nucleo principale tra fotografie, video e libri proviene dalla collezione di Donata Pizzi, la più importante collezione privata italiana dedicata alla conoscenza del lavoro delle artiste italiane dagli anni ’60 ad oggi. In occasione della serata inaugurale Heier, il cui lavoro artistico è collegato alla tradizione della critica istituzionale, ha reso omaggio alla figura di Carla Lonzi (1931-1982) attraverso una performance-monologo in cui ha raccontato aneddoti e metafore sulla condizione della donna all’interno della storia patriarcale.

Un’altra parte del lavoro sono i poster che affissi in giro per Oslo. «Serigrafie in tiratura limitata con due foto di sculture classiche dell’Afrodite di Knidos che ho scattato una ad Atene e l’altra a Napoli. La venere pudica che si copre o indica i genitali, invita o è intimorita, si protegge o si apre. Un’ambiguità che è ancora oggi alla base della raffigurazione del corpo femminile nell’arte. Sopra ho scritto le informazioni sulla mostra e alcune note che mi sono appuntata leggendo i testi di Lonzi ed altri sul femminismo italiano. Ho, poi, invitato sui social gli abitanti di Oslo a prendere quei poster-opere per appendere una parte di questa mostra nelle loro case, in modo che questo pensiero si espanda anche fuori dalla galleria. Volevo che la mostra fosse il più vicino possibile all’idea stessa di Carla Lonzi sulla porosità dell’arte, sia in termine di creatività che di relazioni. È importante la partecipazione».

In che modo si pone come artista e curatrice di “La Passione”, un omaggio al femminismo radicale italiano?

«In questo caso sono sia artista che curatrice e, allo stesso tempo, né l’una e né l’altra. Una posizione che rispecchia un po’ la mia condizione personale. Infatti, sono nata e cresciuta in Norvegia ma la mia formazione artistica è legata all’Italia, dove ho incontrato le esperienze, le voci e le espressioni delle artiste femministe che mi hanno formata. Quando studiavo all’Accademia di belle arti di Brera a Milano, negli anni ’90, sono rimasta folgorata da quella tradizione di grande complessità e coraggio. Ancora oggi è il mio punto di riferimento nel modo di pormi politicamente come artista. All’Accademia la maggior parte dei docenti erano uomini e i corsi di storia dell’arte erano solo su figure del genio maschile, ma c’erano anche delle artiste che insegnavano e dalle loro conversazioni si coglievano delle frasi. La presenza delle artiste femministe italiane era sospirata ma pervasiva, come fossero spiriti, sotto al monologo costante di quei grandi geni maschili che tutti conosciamo.»

In particolare, cosa la aveva colpita nella lettura di “Sputiamo su Hegel” e degli altri scritti di Carla Lonzi?

«La sua disponibilità e il coraggio nella radicalità. La pratica dell’autocritica è molto difficile, perché si tratta di riconoscere il patriarcato dentro di sé come presenza nella quotidianità, nelle relazioni, nel modo di porsi o di esprimersi. Una pratica continua di cui liberarsi. La stessa Lonzi nel Diario di una femminista scrive: «Vent’anni fa ero una studentessa dell’università/ quindici anni fa ero una dottoressa in storia dell’arte/ dieci anni fa ero scrittrice d’arte e amica di artisti/ due anni fa ero femminista […] Adesso non sono niente, niente assolutamente». C’è questo ridursi, il togliersi di dosso un bagaglio che è la stessa società a proiettarci. M’ispira molto questa richiesta di autenticità che è uno standard altissimo e che funziona come una specie di bussola. Un altro aspetto è la possibilità di trasformare la società. Quella in cui viviamo è una costruzione sociale e politica determinata da determinate condizioni storico-politiche ed economiche, ma che fondamentalmente può essere cambiata, riscritta e ripensata. Questo pensiero, per me, ha uno spazio d’azione e libertà illimitata che riconosco nel lavoro delle artiste presenti in questa mostra. Quante posizioni divergenti, in tensione tra loro, coraggiose, appassionate e che incredibile energia! Come pure l’insistere nell’affermare «io dico io», il peso dell’unicità.»

Ha affermato che in Norvegia si conosce ben poco delle artiste femministe italiane…

«Dopo aver trascorso 11 anni a Milano, durante la mia formazione artistica e personale, nel 2000 sono tornata in Norvegia perché in Italia, per me, era impossibile vivere da artista. Qui la condizione finanziaria e la produzione dell’arte è diversa, ci sono sovvenzioni pubbliche che rendono possibile l’esistenza di un’artista come me che non ha un mercato. Però l’Italia mi manca moltissimo, soprattutto l’energia, il rischio che si riflette – lo sottolineo ancora una volta – nel lavoro delle artiste femministe italiane. Un femminismo che è diverso da quello norvegese che ha ottenuto tantissimo, ma che non ha passione e neanche il fuoco sul lavoro interiore. Il femminismo norvegese è rivolto soprattutto alla ridistribuzione del potere, alla sua accessibilità per le donne, mentre per Carla Lonzi si trattava di ridefinire lo stesso concetto di potere. Due approcci diversi. Molte volte mi sono chiesta se questa radicalità italiana, il dramma, la passione e l’energia quasi febbrile del lavoro femminista derivino dalla presenza del cattolicesimo. Qui non c’è mai stata quell’aggressione, oppressione e controllo sul corpo e sulle vite delle donne.»

Un approccio che si riflette anche nel titolo della mostra?

«La scelta del titolo La Passione deriva proprio da queste considerazioni e implica l’ambiguità di amore e sofferenza. Tutto nasce dalle conversazioni che ho avuto con Antonio Cataldo che è il vero curatore della rassegna, perché la mia è una co-curatela da artista esterna. Anche Antonio, che è uno dei più importanti curatori in Norvegia, si è trasferito qui dall’Italia. Abbiamo scoperto di avere tanti riferimenti in comune. Per me è stato come un ponte tra lì e qui, passato e presente. Per la prima volta c’era qualcuno che poteva confermare quelle figure sulle quali basavo molta della mia pratica artistica. Materiali, voci, donne che esistevano ma di cui in Norvegia non si sapeva nulla. Non si era mai parlato del lavoro di queste artiste, né tradotto e reso accessibile il pensiero di Carla Lonzi, malgrado si conoscessero i movimenti italiani come quello dell’arte povera. Però era tutto declinato al maschile. La storia raccontata è parziale, non è questione di qualità, volontà di sperimentazione o fervore intellettuale, artistico ed estetico. Il modo stesso in cui se ne parla deriva dalla visione patriarcale.»


(il manifesto – cultura, 23 ottobre 2024)

di Flaminia Genni Santori


Nel 1980, in occasione della riorganizzazione delle collezioni africane del Museo Pigorini, venne ritrovato un oggetto di cui si erano perse le tracce: un indumento realizzato nell’Impero ottomano nel 1665 circa e approdato poco dopo a Roma nelle collezioni di Athanasius Kircher. Si tratta di una rarissima camicia talismanica in tela di cotone bianca, con corpetto, maniche e colletto coperti di iscrizioni a caratteri arabi in blu, nero, rosso e oro, disposte in una elaboratissima composizione simbolica che culmina con i 99 nomi di Allah racchiusi nella decorazione del colletto. Un mistico sufi, un astrologo, un calligrafo e almeno un illuminatore hanno concorso alla realizzazione di questa stupefacente pagina miniata in tessuto che aveva la funzione di proteggere dalla malasorte il personaggio di alto rango che la indossava.

La camicia talismanica è il punto di partenza della mostra Tessere è umano: Isabella Ducrot e le collezioni del Museo delle Civiltà di Roma (a cura di Anna Mattirolo, Andrea Viliani con Vittoria Pavesi, fino al 16 febbraio), che raccoglie alcuni straordinari tessuti conservati nelle collezioni del museo assieme a opere di Isabella Ducrot nelle quali i tessuti sono protagonisti.

Nel grande ambiente dove è allestita la mostra attraversiamo cinque continenti e quasi quattro secoli di storia delle collezioni: a partire dal “Teatro del mondo” fondato da Athanasius Kircher nel 1651, attraverso le relazioni diplomatiche vaticane e l’ambiziosa istituzionalizzazione compiuta da Luigi Pigorini alla fine dell’Ottocento, fino alle raccolte dedicate alle tradizioni popolari e alle colonie, nelle quali prendono forma quotidiana irrisolte tragedie novecentesche.

Incontriamo, per la prima volta raccolti insieme, frammenti preistorici, sopraffini kimono giapponesi, evanescenti garze precolombiane e tessuti in corteccia dell’Oceania e dell’America latina.

Tutto si tiene insieme in virtù dell’intreccio di trama e ordito, struttura essenziale di ogni tessuto, e della storia di Isabella Ducrot. Andrea Viliani, direttore del Museo delle Civiltà dal 2022, ha eletto il coinvolgimento di artisti contemporanei a metodo per esplorare e ri-semantizzare le collezioni, ma questa mostra si discosta da altri progetti in corso.

Da vari decenni Isabella Ducrot raccoglie stoffe in tutto il mondo e di tessuti ha anche scritto in varie occasioni. Più che ricerca di manufatti rari o di particolare valore, il suo è un collezionismo di tracce umane rimaste imbrigliate nei pezzi di stoffa, nel quale è centrale l’attenzione ai tessuti che fanno da tramite tra l’umano e il divino.

Non lontano dalla camicia talismanica è esposta una preghiera tibetana blu del XVII secolo proveniente dalla sua collezione, nella quale il testo non è ricamato o dipinto a posteriori ma elemento strutturale del tessuto: ordito e trama. Questo intreccio costitutivo tra la dimensione materiale e quella immateriale è l’elemento ricorrente di tutti i manufatti in mostra.

Negli anni ottanta Ducrot ha cominciato a combinare nei suoi lavori d’artista i tessuti che aveva raccolto, restituendogli il valore d’uso che avevano perduto quando erano diventati pezzi da collezione, come scrisse Patrizia Cavalli molti anni fa. Anche il più prezioso dei tessuti è quasi sempre servito a qualcosa, ma persino il più umile è stato contemplato.

Riuscire a tenere in vita la dimensione d’uso degli oggetti, lasciando spazio alla loro contemplazione, è forse la sfida maggiore per un museo di collezioni etnografiche, e senza dubbio i tessuti che ci accompagnano dalla nascita alla morte sono la categoria ideale per coglierla: palinsesti, documenti e linguaggi; inconsapevoli strumenti di trasmissione e mediazione culturale; frutti corali di imprese collettive; merce di scambio e trofeo di conquista.

In alcuni casi la funzione spirituale è espressa nella struttura stessa della stoffa, vedi il tessuto rituale indonesiano realizzato a Sumatra nel XIX secolo, dove parte della trama non viene completata e i fili dell’ordito non vengono tagliati perché rappresentano la circolarità della vita e conferiscono al tessuto un potere protettivo.

La preghiera tibetana, la camicia talismanica e il tessuto indonesiano, posti al centro della sala e circondati da alcuni lavori recenti di Isabella Ducrot, sono membrane tra la temporalità del corpo e l’atemporalità dello spirito.

Attorno a questo centro gravitano umiltà e potenza, ricchezza e potere di scambio, vita quotidiana e riti di passaggio.

Un punto di raccordo suggestivo con la ricerca di Isabella Ducrot è la vetrina con indumenti e costumi di uso quotidiano provenienti dalle collezioni di arti e tradizioni popolari e dedicata ai tessuti a quadretti. La stoffa a quadri è il titolo di un saggio (Quodlibet, 2018) nel quale Ducrot racconta della sua epifania di fronte all’Annunciazione di Simone Martini (Uffizi, 1333): nel celeberrimo trittico a fondo oro, summa della sinuosa preziosità del pittore senese, il mantello svolazzante dell’Angelo annunciante è foderato di una stoffa a quadretti, pattern domestico e umile per eccellenza e ciò nonostante scelto dell’artista per mostrare la sua straordinaria maestria.

Dal lato opposto incontriamo un rarissimo manufatto tessile mesoamericano cinquecentesco che, secondo la tradizione, probabilmente celebra un condottiero che all’arrivo degli spagnoli scelse di schierarsi dalla parte di Hernán Cortés, e forse per questo è decorato con aquile bicefale di ascendenza asburgica.

In questo caso ordito e trama ospitano delle preziosissime piumette cangianti – i popoli americani consideravano gli oggetti impiumati depositari di forza divina – e danno vita a un tessuto che è monumento e poema del tracollo delle potenze precolombiane.

Pur lavorando da decenni, Isabella Ducrot ha incontrato la fama tardivamente, a ottant’anni compiuti: l’estate scorsa le è stata dedicata una grande retrospettiva al Consortium di Digione e il prossimo anno sarà la volta del Museo Madre di Napoli.

È anche la protagonista di Tenga duro signorina. Isabella Ducrot Unlimited, un documentario di Monica Stambrini presentato all’ultimo festiva di Venezia e in sala in questi giorni, che osserva come persino la vecchiaia, uno degli ultimi tabù, non sia poi così terrorizzante. Rispetto a questi progetti la mostra Tessere è umano va ben oltre la persona dell’artista o la celebrazione della sua opera: come nei tessuti oceanici o sudamericani, in alcuni lavori Isabella Ducrot usa la corteccia, e basterebbe questo per dimostrare che l’umanità è ancora interconnessa.


il manifesto – Alias, 20 ottobre 2024)

di Safaa Odah


Sono una cartoonist di Gaza. Dal 7 maggio 2024 vivo a Khan Yunis, nel campo di Ain Jalut, in una tenda con mia sorella e con i miei fratelli accanto a noi. Quando la carta finisce, disegno sulla tenda.


Video



(Erbacce, 29 settembre 2024)

di Adriana Cavarero


Fra i grandi meriti di Omero, nota Hannah Arendt, c’è quello di aver reso immortali gli eroi di cui racconta la storia. Non sappiamo chi fosse Omero, il narratore che chiamiamo con questo nome, ma sappiamo chi fossero Achille, Ettore e Ulisse perché ne conosciamo le storie e non ci stanchiamo di rileggerle e raccontarle. Racchiusa nelle storie, la loro fama è imperitura e li salva dall’oblio. Non sono però solo i guerrieri a guadagnarsi questa immortalità donata dal canto omerico. Penelope, la tessitrice che fa e disfa la sua tela, è la protagonista di una storia davvero memorabile che la tradizione non ha infatti mai potuto dimenticare.

A Roma, promossa dal Parco archeologico del Colosseo, si è di recente aperta Penelope, la prima mostra dedicata al personaggio omerico, a cura di Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni, con l’organizzazione di Electa. Potete visitarla fino al 12 gennaio 2025, ammirando cinquanta opere che, attraverso la tradizione visiva e letteraria, ripercorrono il mito e la fortuna della regina tessitrice, celebre per il suo gesto di fare e disfare. Genialmente, l’esposizione comprende anche un omaggio a Maria Lai, artista che ha messo al centro del suo lavoro la materia tessile. Da Penelope alla grande artista sarda, dall’immaginario antico all’arte contemporanea, la mostra ci invita ad esplorare l’universo, simbolico e operativo, delle donne che tessono, che fanno del gesto della tessitura una trama di libertà, creatività e riscatto.

Racconta il mito che fu la dea Atena a donare alle donne l’arte del tessere, riservando invece agli uomini quella del guerreggiare. Ovviamente la parola greca è techne, un termine che, al contrario dell’italiano arte, non convoca immediatamente la bellezza, bensì una certa rigorosa perizia, una capacità del fare, un’abilità e una competenza fondate su un sapere. In Platone la figura del ‘tecnico’, comprensiva di quello che noi chiameremmo artigiano e artista, implica la conoscenza di un campo specifico o, meglio dell’idea, della forma che è al centro di questo campo – poniamo, l’idea di letto, guardando alla quale il costruttore di letti trae le regole oggettive così come il materiale adatto per la fabbricazione del letto. Ogni tecnico ha un sapere specifico dell’oggetto di cui è competente e che impone un ordine preciso al suo operare, dettandone le procedure, i tempi e la materia. Nel dire che un’opera è fatta a regola d’arte c’è dunque una sorta di ridondanza: l’arte, ovvero la techne, consiste sempre, e di per sé, nella sua regola. Il tecnico è precisamente l’esperto che vede e segue, esegue, questa regola. L’arte del tessere, in cui eccelle la regina di Itaca, sarà quindi un sapere specialistico delle regole, degli strumenti e del materiale, nonché delle modalità di intreccio, trama e ordito, adatti a produrre il tessuto. Diciamo, nel caso di Penelope, a produrre la tela, il sudario per Laerte.

L’algida spiegazione razionale dell’operare tecnico, fatta da Platone, ci aiuta qui tuttavia solo fino a un certo punto. Platone non prevede infatti che il tecnico, una volta fabbricata la tela, la disfi. Il gesto della tessitrice Penelope è anomalo, anzi scandaloso. Penelope possiede certamente un sapere perfetto della tecnica del tessere ma evidentemente sa qualcosa di più, qualcosa che, pur accadendo nella stanza dei telai in cui, come tutte le donne, è confinata, travalica questo confine, questo ruolo, questa specie di prigione femminile, e agisce sull’assetto politico del regno, là dove dominano gli uomini e lei è esclusa. Tessendo la tela di giorno e disfacendola di notte, Penelope per quattro anni tiene in scacco i pretendenti alla sua mano e la sorte di Itaca. Come con l’astuzia, la metis, il marito ha escogitato il trucco del cavallo di legno per sconfiggere il nemico in battaglia, così la metis di Penelope escogita il trucco del fare e disfare la tela per sconfiggere i pretendenti al governo di Itaca. Al contrario del marito, che opera nella propria sfera di competenza, ovvero nella sfera maschile del guerreggiare, Penelope, pur operando nella sfera propriamente femminile del tessere, fa in modo che gli effetti della sua astuzia riesca a travalicarla. Quel che avviene nella stanza dei telai riguarda direttamente la vicenda politica di Itaca, è questo il nucleo memorabile della storia.

Come ci raccontano Omero e la letteratura antica in generale, nella cultura occidentale, al contrario di ciò che avviene in altre culture, la tessitura è riservata anticamente alle donne o, meglio, il loro confinamento nell’ambito domestico prevede che esse vi svolgano il lavoro di tessitrici. Gli esempi testuali abbondano. Basterà qui, per stare ai poemi omerici, ricordare le parole che Ettore, pur dolce e mite marito, rivolge alla moglie Andromaca che, uscita dalla casa, si reca alla porta Scea per scongiurarlo in lacrime di non scendere in battaglia: «su, rincasa e bada ai tuoi lavori, il telaio e il fuso – le dice Ettore – e ordina alle ancelle di mettersi all’opera; alla guerra penseranno gli uomini» (Iliade, VI, vv. 490-93). Penelope stessa, che ha osato parlare nella sala degli uomini, il megaron, viene invitata dall’arrogante figlio Telemaco a tornare nella stanza dei telai. La politica e la guerra spettano agli uomini, la casa in cui si svolgono i lavori domestici e, in primis, la tessitura, spetta alle donne. I ruoli di genere, come oggi si direbbe, sono chiari. Donando alle donne l’arte della tessitura, in un certo senso, è stata miticamente Atena a escluderle dall’ambito pubblico e a imprigionarle in quello domestico. Ciò non implica che, per i Greci, quella della tessitura sia un’arte inferiore o secondaria, visto che di tale arte si pregia, anzi, la stessa Atena e molte divinità femminili. C’è nell’arte del tessere un orgoglio per l’abilità di produrre splendidi e utili oggetti, nonché una riconosciuta creatività che va al di là dell’utile. Dal tessuto, dall’ambito del textum, derivano del resto parole molto significative come testo e trama. Il tessuto istoriato è tale perché, come il grande Omero, racconta storie. Le crea, le inventa e le tramanda.

Si legge nel catalogo della mostra che nella tradizione iconica Penelope appare spesso malinconica. La malinconia, insieme alla fedeltà e alla pudicizia, scrive la curatrice Alessandra Sarchi nel suo saggio illuminante, costituiscono le sue principali caratteristiche. Pudore e riservatezza sono sottolineate anche nel saggio, altrettanto illuminante e documentato, dell’altro curatore, Claudio Franzoni. Sono saggi ricchissimi e avvincenti, indispensabili per chi visiti la mostra o voglia approfondire i vari filoni letterari, artistici, speculativi e simbolici che si stringono intorno alla figura di Penelope o da essa sgorgano.

Secondo un’autorevole tradizione, la casta e malinconica Penelope, modello di tutte le mogli, è un’icona dell’attesa. Forse ha una struggente nostalgia del marito e ancora spera che torni. Forse simboleggia appunto la moglie fedele alla quale manca il marito, ovvero la moglie che l’assenza del marito e l’incertezza per la sorte di lui rende triste e sconsolata. O forse suggerisce che nello stare confinata tutta la vita nella stanza dei telai, in fondo, c’è ben poca gioia. Molto stupore desta comunque il fatto che, quando Ulisse finalmente torna, travestito da vecchio mendicante, al contrario del cane Argo e del porcaro Eumeo, Penelope non lo riconosca. È Omero a raccontarci questo fatto davvero strano, tutt’altro che trascurabile. Quando Ulisse si palesa, lei non gli crede, vuole le prove. Avrà pensato che dopo tanti anni fosse improbabile che Ulisse fosse ancora vivo? (e alquanto forte e vigoroso come si evince dalla prova dell’arco). O avrà pensato che il suo trucco di fare e disfare per tenere sotto scacco il trono e il destino di Itaca, il suo astuto gioco della politica, fosse giunto inesorabilmente alla fine? Dopo tutto, che ne è di Penelope quando Ulisse si reinsedia nel regno? La regina Penelope, protagonista di una memorabile storia, dopo il ritorno del re, suo legittimo marito, ha ancora una storia?

In effetti è plausibile persino ipotizzare che, nel momento in cui la sua memorabile storia finisce, quando il suo personaggio, che ha svolto un ruolo cruciale nella trama del racconto, esce di scena; che quando Omero chiude la vicenda del fare e disfare perché è tornato il re, Penelope abbia nostalgia del passato. Ora sarà come tutte le altre tessitrici, seguirà diligentemente la regola della sua arte, produrrà splendidi e utili tessuti ma non li disferà più. Anche la complicità con le ancelle per fare funzionare il trucco sarà solo un ricordo. La fama che ne ha fatto una delle icone fondamentali nell’immaginario dell’occidente svanirà nella noia casalinga dell’ordinario.

Il segreto dell’arte di Maria Lai è efficacemente espresso dal suo motto secondo il quale «essere è tessere», a cui si accompagna la sua acuta osservazione sulla somiglianza fra il filo della tessitura e quello della scrittura. Lo testimoniano, fra le realizzazioni dell’artista, i celebri libri di stoffa così come i telai, i grovigli e i fili che legano la montagna e l’abitare in un’opera collettiva. Nell’antichità erano le Moire a filare, e filavano la vita singolare di ogni essere umano, dalla nascita alla morte, essendo la morte semplicemente il filo troncato, spezzato. Sì, essere è tessere, anche perché, secondo il mito delle Moire, il nostro essere qui, in questo mondo o, se si vuole, il nostro esistere come singolarità incarnate, è un filo sottile, intrecciato con altri fili, che si dipanano in una trama collettiva, istoriata temporaneamente, per un tratto, per nodi provvisori, dalla storia di ciascuna vita. Notoriamente le Moire si sono guadagnate nella tradizione una fama sinistra perché tagliano il filo, decretano la morte. Si dimentica però che esse sono all’opera anche quando il filo si forma e nasce, al suo inizio. Come ben sa Penelope, c’è un inizio per ogni filatura, così come, intrecciando i fili, per ogni tessitura. Forse anche per questo la regina disfaceva di notte la tela: per ricominciare, per far sì che la sua storia non finisse e diventasse interminabile, perché sempre tornava al senso davvero memorabile e infinitamente ripetuto del suo inizio.


(Doppiozero, 28 settembre 2024)

di Redazione


“Vi chiediamo visioni di società senza armi, stati senza eserciti, comunità liberate dal lutto della guerra. E vi chiediamo di farlo nello spazio di un poster”. Questa è la richiesta di Cheap nella loro ultima call for artists.

Cheap è un progetto di arte pubblica fondato a Bologna nel 2013 da sei donne che hanno scelto di lavorare con la poster art. Ogni anno lanciano un invito rivolto a chiunque si occupi di arte visiva per realizzare poster da attaccare nelle strade di Bologna. Il tema di quest’anno è stato: Fuck war!

Il collettivo bolognese ha deciso di dedicare questa edizione alla guerra, con un occhio di riguardo alla Striscia di Gaza. “Era inevitabile che il massacro che si sta compiendo in Palestina fosse al centro del lavoro di molte delle artiste che hanno partecipato alla call. Non è nemmeno una guerra: quello a cui stiamo assistendo è un genocidio che il sistema dell’informazione – soprattutto in Italia – si sta in larga parte rifiutando di indagare e denunciare. Abbiamo voluto tentare di aprire una breccia nella conversazione pubblica surreale che sentiamo attorno a noi su quello che sta succedendo in Palestina. Chiedere il cessate il fuoco non è una richiesta radicale come viene bollata: davanti a 40mila civili uccisi è il minimo a cui ci si possa appellare”.

L’invito ai partecipanti è stato quello di disertare l’immaginario bellico e sabotare la retorica che lo sostiene. Sono arrivati 1.120 poster da 41 diversi paesi nel mondo, 662 partecipanti che hanno lavorato con diverse tecniche e mezzi: fotografia, collage, illustrazione, tipografia, intelligenza artificiale e grafica.

I manifesti per le strade di Bologna rimandano a un immaginario non solo di pace ma anche di giustizia sociale, invitano ad azzerare la spesa militare per investire in istruzione e sanità, visioni di società senza armi e di stati senza eserciti.

La artiste di Cheap saranno a Ferrara il 4 ottobre, durante il festival di Internazionale, per presentare il loro ultimo libro Disobbedite con generosità (People).


(Internazionale, 25 settembre 2024)

di Giuseppe Frangi


A MILANO. Triennale, la mostra di Gae Aulenti, a cura di Giovanni Agosti. Il percorso si sviluppa «in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica» (Aulenti). Edifici negozi mostre musei, e il teatro con Luca Ronconi. E in un gioco di carte, gli «attori» della sua vita professionale e privata…


Come avrebbe immaginato Gae Aulenti una mostra dedicata al proprio percorso creativo? Possiamo dedurlo da qualche suo pensiero: «Il sistema espositivo non può essere un semplice supporto del materiale da rappresentare, ma deve partecipare ad esso, esserne coinvolto e insieme coinvolgere lo spettatore, con chiara volontà». Quanto al percorso, dovrebbe essere immaginato «in modo che l’esperienza spaziale, procedendo per amplificazioni e variazioni continue, si sviluppi con forme autonome successive, in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica». Si coglie immediatamente un’idea espositiva orientata al teatro; non a caso il visitatore, con un upgrade di status, diventa spettatore. Il coinvolgimento è reale se contempla però anche uno spaesamento: perdersi per ritrovarsi con un’aumentata consapevolezza. Di qui la necessità di cambi di ritmo che interrompano la linearità del percorso e stimolino uno sforzo di conoscenza e di critica.

La mostra che la Triennale di Milano ha dedicato a Gae Aulenti (fino al 12 gennaio) prende avvio da una sala che immediatamente inghiotte lo spettatore nel meccanismo della macchina espositiva: sotto un soffitto di onde di stoffa si procede circondati dalle sagome ritagliate nel legno delle donne picassiane che corrono felici verso il mare. Il prototipo è il piccolo capolavoro dipinto dal malagueño nel 1922 durante le vacanze sulle spiagge di Dinard. La sala ripropone l’allestimento, pensato insieme a Carlo Aymonino e Steno Paciello, per la sezione italiana alla Triennale milanese del 1964, che era valsa a Gae Aulenti il Gran premio internazionale assegnato dalla stessa Triennale. Nel gioco di squadra quell’idea così teatrale è come una firma: infatti quindici anni dopo Aulenti avrebbe voluto un dettaglio di quell’allestimento sulla copertina del catalogo della sua prima mostra monografica al PAC di Milano. Questo impatto trascinante fa subito i conti con il brusco cambio di passo dell’allestimento del negozio Olivetti di Buenos Aires del 1968: macchine da scrivere e oggetti di design disposti su gradoni, ricavati entro spicchi di piramide che precipitano in direzione dell’osservatore. Così siamo calati immediatamente in un territorio aulentiano, nel segno di una calcolata discontinuità.

Una mostra su Gae Aulenti non poteva essere pensata secondo i canoni di una mostra di architettura. Anche per questo la curatela è stata affidata a Giovanni Agosti, che, come lui stesso ammette nell’introduzione alla guida che accompagna i visitatori (in attesa del catalogo, la cui pubblicazione è prevista per l’autunno: l’una e l’altro per i tipi di Electa), non è né storico dell’architettura, né del design, né del teatro, «ma solo uno storico dell’arte che le ha voluto però molto bene». Hanno affiancato Agosti Nina Artioli, nipote dell’architetto e contitolare dello studio Tspoon che ha progettato l’allestimento, e Nina Bassoli, curatrice del settore Architettura della Triennale.

Il congegno drammaturgico del’esposizione prevede una sezione «tradizionale» in cui sono esposti materiali documentari (incuriosiscono i diari e alcune lettere) e disegni, tra i quali spiccano gli splendidi lucidi a china e retino con le piante e gli alzati di alcuni dei progetti più famosi di Aulenti. È un lungo corridoio perimetrale che si innesta nel tratto superstite della Galleria dei disegni, che lo stesso architetto aveva progettato per la Triennale del 1994. Dal corridoio si può gettare l’occhio sulla «macchina evocatoria», come la definisce Agosti, che in tredici spazi incastrati l’uno nell’altro, rispettando l’ordine cronologico, restituisce, con spezzoni ricostruiti in dimensioni reali, altrettante tappe fondamentali della storia di Gae Aulenti.

Per una felice combinazione il percorso aperto dalla corsa delle amazzoni picassiane si chiude con i due progetti per, rispettivamente, la stazione Museo della metropolitana di Napoli (2001) e l’«aeroportino» di Perugia (2012), che è l’ultimo lavoro: una chiusura che suona come un commiato, con il tocco struggente dato dall’apparire sui monitor degli arrivi e partenze dei disegni dell’amatissimo nipote Pietro, inseriti come lampi nell’elenco dei progetti, realizzati e non, di nonna Gae.

Tra l’incipit e l’exit della mostra, lo spettatore ha sperimentato continui spiazzamenti. Davanti a lui si è palesato uno spaccato del negozio Fiat di Zurigo (1973) con le automobili disposte spericolatamente su una parabolica, come se la strada avesse fatto irruzione nel negozio. Ha messo piede nel salotto di casa Brion a San Michele di Pagana (1973), dove il senso di morbidezza dato dalla moquette è chiamato a una resa dei conti con le complicazioni introdotte dai rialzi, dai gradini e soprattutto dal brusco presidio dei pilastri.

I pilastri sono un marchio di fabbrica, una cifra «psichica» più che stilistica che pervade, in modo trasversale, i lavori di Gae Aulenti: dominano con la loro caratura drammatica sulla scena

della celebre Elektra scaligera con la regia di Luca Ronconi (1994); stipano lo spazio aggraziato dell’aeroportino di Perugia; si fanno foresta urbana nel rifacimento di Piazza Cadorna a Milano (2000); diventano elementi attorno ai quali far ruotare lo spazio labirintico immaginato per la mostra dedicata a Christo alla Rotonda della Besana a Milano (1973). Il pilastro è una sorta di costante drammatica che vigila sulla scena architettonica mettendosi di traverso rispetto a ogni rischio di percezione accomodante. È il segno, volutamente invasivo, del pensiero e dell’energia critica che abita ogni progetto della Gae.

Per lei, scriveva Alberto Arbasino, c’è un’equivalenza di piani tra «riflessioni critiche, idee, muri e mattoni», tutti allo stesso modo «strumenti culturali e concreti». Un concetto chiarito nel meraviglioso incipit dello scritto dedicatole in Ritratti italiani (Adelphi): «Gae Aulenti dice, con calma: mai Decoration; soltanto Design. Spiega meglio, criticamente: Struttura non superficie. Cioè Forma, non epidermide, né rivestimento».

Questa visione emerge liberata in tutta la sua drasticità nei due allestimenti teatrali riproposti nella «macchina evocatoria» della mostra milanese: l’Elektra, dove la reggia di Micene era trasformata in un mattatoio insanguinato, e le Baccanti (1977), sempre per la regia di Ronconi, al Laboratorio di Progettazione di Prato. In mostra ci si addentra nello spazio claustrofobico dove davanti a due letti d’ospedale gli spettatori (solo 24) assistevano alla recita di una parte del secondo stasimo della tragedia. La traduzione era di Edoardo Sanguineti, che dopo lo spettacolo ammise di aver capito «per la prima volta cos’è una tragedia greca».

Quello con Ronconi è un rapporto chiave per Gae Aulenti. Si erano conosciuti nei camerini della Scala nel 1974, dopo la prima contestatissima dellaWalkiria con le scene di Pier Luigi Pizzi. Lei si era fatta avanti per esternare tutta la propria ammirazione, e da lì era scattata la voglia di iniziare a collaborare. Ronconi, semplicemente «Luca», non poteva mancare nel mazzo delle 88 carte (disegnate da Giovanna Buzzi) dei personaggi, pubblici e privati, che hanno popolato i mondi di Gae Aulenti. Un «Gioco», in vendita a 20 euro, che è parte integrante del congegno della mostra. Come scrive Agosti «gli spazi sono degli stati in luogo, quasi la realizzazione delle didascalie di un dramma, dove gli attori sono quelli figurati dalle carte da gioco».

Ma sulla scena di Gae Aulenti si poteva entrare anche per vie privilegiate aperte in forza di tenerezza, come testimonia la foto indimenticabile di lei che tiene per mano la nipotina Nina nel tumulto del cantiere del Musée d’Orsay.


(il manifesto – Alias, 14 luglio 2024)

di Marianna Gatta e Filippo Zingone


Hebron Road è la strada che da sempre ha dato la possibilità di raggiungere Al Khalil (Hebron) da Gerusalemme. Se una volta questa via era continua, oggi è interrotta dall’enorme muro che Israele ha costruito dopo la seconda intifada nel 2002. Palazzi abbandonati a fianco di grattacieli nuovi danno vita a un contrasto che assume tratti surreali quando si inizia a scorgere l’immensa struttura di cemento che blocca l’orizzonte.

«Questa strada è un microcosmo, rappresenta la situazione generale in tutte le sue contraddizioni» dice Emily Jacir, direttrice del centro culturale e residenza artistica Dar Jacir. Il centro sorge proprio su questo grande viale a Betlemme. Una struttura costruita nel 1880 da un avo di Emily, che oggi ospita artisti da tutto il mondo e, soprattutto, da tutta la Palestina storica, rendendolo luogo di eredità radicate nella terra. «I palestinesi non hanno accesso ai musei di Gerusalemme dove è conservata la nostra storia», dice Emily, che aggiunge «la nostra comunità è frammentata e disseminata in tutto il mondo, la nostra narrazione è interrotta».

Dar Jacir è un luogo di salvaguardia del patrimonio culturale palestinese: «Quando le persone vedono le vecchie fotografie di questa strada, riconoscono il nostro passato. Noi veniamo da qua». «I nostri vicini sono i campi profughi di Aida e di Azza, qui lavoriamo molto con i bambini, offriamo corsi di musica, agricoltura, arte e danza – prosegue Emily – questo è uno spazio interdisciplinare e transgenerazionale dove le persone si riuniscono per vivere insieme, farsi domande e creare progetti».

Ad Al-Khalil, al capo opposto di questa lunga strada, è stato concepito il progetto Artist + Allies x Hebron (AAH), fondato dal fotografo sudafricano Adam Broomber e dall’attivista palestinese Issa Amro. Il collettivo artistico si propone di preservare l’arte e la natura agricola della Cisgiordania meridionale e di sostenere gli artisti palestinesi e internazionali impegnati nella resistenza culturale contro l’occupazione.

Dalla collaborazione tra Dar Jacir e AAH è nata l’esposizione South West Bank: Landworks, Collective Action and Sound a Palazzo Contarini Polignac, come evento collaterale alla 60a Biennale di Venezia. I territori palestinesi non hanno mai avuto uno spazio all’interno dei Giardini, pur essendo sempre rappresentati da un notevole numero di artisti. Quest’anno le proteste contro il genocidio a Gaza hanno portato alla chiusura del padiglione israeliano.

«Penso che sia molto importante che in un momento come questo la Palestina sia presente alla Biennale» sostiene Broomberg. La mostra South West Bank comprende sia le opere di artiste palestinesi, come Dima Srouji e Shaima Hamad, che quelle di internazionali. Tra queste il progetto fotografico “Anchor in the Landscape” di Adam Broomberg e Rafael González, che riflette sul ruolo totemico dell’ulivo nell’identità palestinese.

L’albero era già stato protagonista di un’altra opera firmata AAH, “H2 – Counter Surveillance”. Per sensibilizzare sull’uso pervasivo della video sorveglianza da parte dello Stato israeliano, gli artisti hanno inserito alcune telecamere di sorveglianza tra le fronde degli alberi, registrando giorno e notte le colonie israeliane. I filmati sono stati proiettati in tempo reale in musei di tutto il mondo, capovolgendo la prospettiva di ipervigilanza militare di Israele.

Adam Broomberg, di famiglia ebraica di origini lituane, è nato e cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid, in cui riconosce somiglianze e differenze con l’occupazione nei territori palestinesi. Tra gli obiettivi del collettivo AAH c’è anche quello di portare la comunità internazionale in Cisgiordania, «perché si può parlare e parlare, ma una volta lì, ci vogliono cinque minuti per capire cosa significano discriminazione e apartheid», spiega Broomberg. Il fotografo è stato definito antisemita e ha perso la sua posizione di professore all’università di Amburgo per le sue dichiarazioni a sostegno della Palestina. «Il lavoro culturale come questo funziona, perché altrimenti non vorrebbero fermarci», sostiene Broomberg: «Penso che l’arte sia un modo sottile di rendere le persone consapevoli di ciò che sta accadendo».

A due passi dall’enorme struttura divisoria di cemento armato, Dar Jacir sembra un’oasi in mezzo al caos. Ulivi, diversi tipi di piante e grandi alberi che «nascondono il muro ai nostri occhi per qualche istante», dice Bisho, un giovane artista di Betlemme in residenza. Il ragazzo palestinese, che si occupa di riciclo di tessuti e tinture naturali, racconta di aver trovato un luogo di pace ma anche di incontro, dove gli artisti palestinesi scambiano idee e visioni con quelli internazionali. Bisho crede «nella condivisione delle esperienze. Per noi è difficile spostarsi e quindi siamo molto aperti a scambi con gli stranieri, è una possibilità di viaggiare senza muoversi».


(il manifesto, 11 luglio 2024)

di Dario Pappalardo


«Mi diceva: lavora in cucina, in bagno, in camera da letto, ovunque. E mettitelo bene in testa: hai un sacco di tempo davanti a te». Nei ricordi di Tracey Emin, Louise Bourgeois è ancora lì che la sprona, la rimprovera, le dà consigli, condividendo con lei il mistero dell’arte. L’ex ragazza terribile della scena inglese, appena nominata Dame Commander dell’Impero britannico dal re Carlo III, ha vissuto con la madre di tutte le artiste contemporanee un curioso sodalizio. Lontane quasi mezzo secolo per l’anagrafe, firmarono insieme il progetto Do Not Abandon Me, fondendo il loro stile e i colori in acquerelli unici. Tracey ha poi dedicato all’amica un documentario della Bbc e oggi, mentre è alle prese con una mostra a Bruxelles, prepara quella del 2025 al fiorentino Palazzo Strozzi e revisiona una monografia in uscita da Phaidon, si abbandona volentieri al racconto di una Bourgeois vista da molto vicino.

Dame Tracey Emin, quando si è imbattuta per la prima volta nell’arte di Louise Bourgeois?

«Nel 1996: il curatore Stuart Morgan fu il primo a parlarmene. Mi invitò a vedere la mostra della “sua amica Louise” alla Tate, dicendomi che sicuramente l’avrei apprezzata. E così mi ritrovai davanti ad alcune acqueforti. Erano datate anni Quaranta e iniziai a chiedermi perché mai. Guardando quelle opere, ero convinta che Bourgeois avesse la mia stessa età. Non ne sapevo niente, non avevo mai letto nulla di lei. Solo più tardi avrei scoperto che era molto, molto più anziana. E diventammo amiche».

Dove vi incontraste?

«A casa sua a New York, nel 2007. Riuscii ad avere un appuntamento. La cosa assurda fu che la porta era aperta. Entrai e chiamai. L’assistente, Jerry Gorovoy, scese giù dalle scale e mi chiese: come sei entrata? E io: la porta era aperta. E lui: impossibile. Forse era stata Louise stessa ad aprirla. Non lo scoprimmo mai. Lei, già ultranovantenne, era nel suo studio e ogni cosa in quella stanza appariva grigia e monotona, eccetto il pavimento che splendeva del magenta dei suoi disegni. Brillava intensamente. Louise era seduta al tavolo da lavoro. La guardavo e ricordo di essermi resa conto che aveva un seno enorme, gigantesco, e che non ero mai stata nella stessa stanza con una persona così anziana, la più anziana con cui avessi mai parlato. Fu tutto strano e intenso: andammo subito d’accordo».

Bourgeois le chiese di collaborare con lei. Fu una richiesta unica. Non era mai capitato con nessuno.

«Sì, accadde un anno dopo. Una sorpresa enorme per me. Ero abbastanza nervosa per questo. Lei iniziò a dirmi: fa’ quello vuoi, qualsiasi cosa, incasina tutto. Fa’ quello che vuoi. Più lo diceva e più diventavo nervosa. Alla fine, mi ci sono voluti due anni prima che realizzassi la mia parte, aggiungendo il mio tratto alle sue invenzioni. Ho fatto tutto in un solo weekend, ho arrotolato i disegni e glieli ho rispediti. Lei era a letto quando le sono stati recapitati. Jerry glieli srotolava e, ogni volta che Louise ne vedeva uno, esultava. Li ha apprezzati tantissimo. Compresi i peni, gli uomini nudi. Fu molto sorpresa. Voleva che effettivamente il risultato finale della nostra collaborazione risultasse come di una sola mano. L’ego non era contemplato».

Bourgeois iniziò a lavorare in un mondo dell’arte ancora tutto maschile: è stata una pioniera.

«La sua rivoluzione fu di realizzare progetti di qualsiasi dimensione. Dai piccoli disegni alle sculture giganti. Nulla era impossibile per lei. Non si poteva dirle di no. È stata la prima donna artista a ragionare così. Faceva esattamente ciò che voleva, anche se, certo, si muoveva in un mondo

ancora tutto maschile. Eppure manteneva una sua femminilità nei lavori. Nessun uomo avrebbe potuto fare quello che faceva Louise: qualcosa di ultra-femminile e, talvolta, enorme nelle proporzioni. Ha rotto una marea di barriere per noi. È stata un modello eccezionale. Il suo vero insegnamento era dire: fallo e basta».

Che cosa è cambiato da allora nel mondo dell’arte?

«Fino a una decina d’anni fa, il pubblico riusciva a stento a fare il nome di dieci artiste. Ora ci sono tante artiste e artisti black, c’è più diversità. Quando Louise era giovane, c’erano donne nel mondo dell’arte, ma erano più figure legate alle istituzioni o al mercato, penso a Peggy Guggenheim. Artiste come Joan Mitchell hanno impiegato tanto tempo per essere apprezzate. Bourgeois stessa ha dovuto superare la sessantina per essere riconosciuta. E pensare che adesso sono io ad avere sessant’anni! La mia generazione ha vissuto un sacco di cambiamenti».

Louise si sentì più libera di creare dopo la morte di suo marito, Robert Goldwater, nel 1973.

«Decisamente. Trasformò la casa di New York nel suo studio. Ogni singola parte. Amava suo marito, ma come artista credo si sentisse un po’ frenata, durante il matrimonio. Ricordiamoci che era anche madre. Aveva un mucchio di distrazioni domestiche».

Una volta, lei, Tracy, ha detto che per continuare a essere artista non avrebbe potuto diventare madre.

«È vero. Non sarei stata in grado di conciliare entrambe le cose. Alcune donne ci riescono. Ma per me sarebbe risultato impossibile. È il mio cuore che mi guida, che mi sveglia al mattino. Sono i sentimenti. Per questo, se avessi avuto un bambino, non sarei riuscita a separarmene. E non avrei potuto fare anche l’artista. Avrei fatto male una delle due cose, sicuramente. La mia energia funziona così. Il mio tempo è questo. Ma sono una madre di gatti, e va bene così».

Bourgeois ha definito la sua idea di maternità con il ragno: la serie di aracnidi giganti ribattezzati “Maman” che sono nei musei di tutto mondo.

«Per lei il ragno è l’essere femminile che depone le uova, ha più gambe, è in grado di essere qualsiasi cosa, apparentemente fragile ma forte. I ragni che Louise realizza su ampia scala, poi, sono come dei rifugi. Ci si può riparare sotto e sentirsi sicuri. E questa idea di maternità così concreta è geniale. La sua Maman è una creatura che protegge».

Ricorda l’ultima volta che vi siete incontrate?

«Era a New York, un paio di mesi prima che morisse, nel 2010. Guardammo insieme un libro di opere giovanili e parlammo un sacco. Mi diceva sempre: (ne imita la voce) tu hai tempo, tu hai tempo. Era una cosa che mi ripeteva spesso perché effettivamente io non me ne rendevo conto. Non capivo quanto tempo avessi rispetto a Louise. E quanto ancora ne avessi a disposizione per cambiare completamente la mia vita. Louise cambiò la sua a sessantaquattro anni. Io ancora non sono arrivata a quell’età».

L’ha mai sognata in questi anni?

«Sì, uno strano sogno. L’ho vista su una diga, sembrava di essere a Venezia. Louise era in piedi davanti all’acqua, che mi aspettava».


(la Repubblica – Robinson, 23 giugno 2024)

di Leonetta Bentivoglio


Due grandi mostre, aperte alla Galleria Borghese di Roma e al Museo Novecento di Firenze, celebrano finalmente in Italia l’artista vissuta quasi un secolo che ha definitivamente liberato la creatività dal monopolio maschile. E che oggi continua a ispirare


Quanti interrogativi affiorano dal suo ghigno secco e da quel reticolo di rughe che è una matassa di ricordi emersi in superficie. Quanta ironia possiede ogni immagine della sua persona. E di quanta capacità di filtrare, modellare, spezzettare per poi rivisitare le cose del mondo, soffrendo ma anche giocando, si nutre ogni sua opera. Louise Bourgeois è un’artista sovraccarica di rinvii simbolici che esprime dimensioni spesso bipolari per raccontarci l’esistenza con le sue contraddizioni, i suoi traumi, le sue oscenità e i suoi conflitti, addensandola in una sfera traversata dalla psicoanalisi e dal mito. È una portatrice di affondi nella violenza relazionale e un’artefice di dilatazioni barocche degli sconvolgimenti del Novecento. È pure la fattucchiera che in un celebre ritratto di Robert Mapplethorpe reca sottobraccio un fallo enorme. Bellicoso? O difensivo come una clava? Si tratta di una sua scultura, Fillette, cioè ragazzina: «Per fare la foto avevo portato con me una piccola Louise», scrive lei. «Quell’opera mi rassicurava». Brandisci il pene, prima che lui catturi te.

Ora due grandi mostre in Italia, a Roma e a Firenze, celebrano il genio di Louise, nata a Parigi nel 1911 e morta a New York nel 2010. Visse in Francia fino al 1938 e poi in America, viaggiando nel frattempo in Europa e in Italia, dove passò periodi a Pietrasanta e a Carrara, nei laboratori del marmo. L’attuale riconoscimento italiano, forse tardivo vista la mole del personaggio e dei suoi influssi, esalta il segno di un’inventrice prolifica e autonoma, distante dai minimalismi, dai concettualismi e dagli espressionismi astratti del secolo scorso. Alla Galleria Borghese s’apre Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria, esposizione votata alla sua prassi scultorea, mentre il Museo Novecento presenta Louise Bourgeois in Florence, progetto sdoppiato col Museo degli Innocenti, sede di Cell XVIII (Portrait), cioè di una delle famose “Celle” di Louise. Questa categoria di lavori anni Novanta consiste in una trafila di paesaggi ingabbiati che contengono emblemi e relitti: specchi, ghigliottine, sedie fluttuanti, sacchi di stoffa, pelli di coniglio, letti, fantocci, ex voto… Illusioni carcerarie o monastiche. Ricettacoli di proliferazioni dell’inconscio. Ma anche sviluppi del tema della donna-casa che negli anni Quaranta era al centro della serie di pitture Femme-Maison, dove i corpi metà donna e metà edifici scavavano nell’identità femminile soffocata dalle prigioni domestiche.

Aveva genitori pesanti, Louise, e li portò sulle spalle per tutta la vita. La sua arte fu una pluridecennale seduta psicoanalitica per affrancarsi da loro, o ridisegnarli a modo proprio. Qualcosa di universale, nella rappresentazione di quegli spettri, oltrepassa di molto l’autobiografia parlandoci di spirito e sesso, vita e morte, anima e corpo, misoginia e fallocrazia. Sua madre era Joséphine Fauriaux, suo padre era Louis Bourgeois. Restauravano arazzi. Lui era dispotico, umiliante e fanatico dei bordelli. Lei teneva insieme la famiglia distogliendo lo sguardo dai tradimenti del marito. Louise impara la cura delle stoffe, la pratica dei colori, la ricomposizione dei pezzi mancanti nei corpi. Inizia studi di matematica alla Sorbonne e li lascia per l’École des Beaux-Arts. Poi trasmigra negli atelier di artisti come Ferdinand Léger, che la spinge verso la scultura. Farà anche installazioni, narrazioni oggettistiche, teatrini onirici, gouaches (scarlatte e colme di senso d’umido, evocative di fluidi corporei) e iperbolici ragni materni. Userà il gesso, il cemento, il lattice, il marmo, il bronzo, il legno e la stoffa, corteggiata con l’antica arma infantile dell’ago. Non si dà confini: indaga materiali e disposizioni delle forme in spazi minimi e massimi, da esploratrice del cosmo. Sposa l’americano Robert Goldwater, che insegna storia dell’arte, e parte con lui per gli Stati Uniti. A New York trova i surrealisti Marcel Duchamp e André Breton, maschi indifferenti all’arte delle donne. «Erano interessati alle donne ricche, questo sì», scrive Louise, «ed erano interessati soprattutto a sé stessi». Lei è rimasta ancorata ai voli azzurri di Joan Miró, scoperto negli anni parigini e descritto come «un magnifico shock estetico». A New York la memoria è il suo racconto: nel ’50 plasma figure totemiche, diciassette sculture lignee che richiamano le persone lasciate in Francia. «Mi mancavano disperatamente».

In tempi successivi privilegia i falli, che però non sono mai soltanto falli. Sono fiabe, sfide, gusci misterici. Escrescenze microbiologiche e aggregazioni collinari. Vedi gli addensamenti di cazzetti in marmo nero dell’opera Colonnata. A volte paiono fanciulline oblunghe e pettorute (Fillette); a volte si miscelano nel bronzo di una forma organica bifronte che mima testicoli e fessure, o insegue mammelle amalgamabili coi genitali maschili (Janus Fleuri). Opposizione, scissione, ansia di risolvere il dualismo.

Risale al ’74 The Destruction of the Father, ritratto di famiglia situato in un antro pieno di protuberanze viscerali. «È l’orrida cena capeggiata dal padre che si siede e gode», scrive. «E gli altri, la madre e i figli? Stanno in silenzio. La madre cerca di soddisfare il tiranno, suo marito». Tramite frammenti di carne macellata allestisce il banchetto cannibalesco. È una vendetta rituale. «Più mio padre si pavoneggiava, più ci sentivamo insignificanti», spiega. «Improvvisamente si creava una tensione terribile e noi lo afferravamo, lo trascinavamo sul tavolo e lo smembravamo. Fantasie, ma talvolta la fantasia è vissuto». Nell’estro di Bourgeois si stagliano scenari da tragedia greca che ispireranno non poco la Abramović, ma non soltanto. Un’ondata femminista di fine Novecento (Kiki Smith, Rona Pondick e altre) prese Louise come punto di riferimento per svelare la corporeità, anche nei tabù e nell’enfasi del rapporto madre-figlio. L’ultima, ossessiva icona di Bourgeois sono i ragni, col loro abbraccio dominatore e protettivo. Di proporzioni abnormi, sorgono in diverse città del mondo. Il ragno è la madre. È intelligenza procreativa. Ma è anche tessitura di una tela, costruzione dell’arte, emanazione della fillette Louise che ammanta con una cupola le nostre paure.

Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria è alla Galleria Borghese di Roma fino al 15 settembre, a cura di Cloé Perrone, Geraldine Léardi e Philip Larratt-Smith in collaborazione con The Easton Foundation e l’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici. “Esistere come donna” è il programma di incontri e proiezioni a cura di Electa e Fondamenta che la accompagna: galleriaborghese.beniculturali.it Louise Bourgeois in Florence Do Not Abandon Me è al Museo Novecento di Firenze fino al 20 ottobre, a cura di Philip Larratt-Smith e Sergio Risaliti: Cell XVIII (Portrait) a cura di Philip Larratt-Smith con Arabella Natalini e Stefania Rispoli è nelle stesse date al Museo degli Innocenti di Firenze.


(la Repubblica – Robinson, 23 giugno 2024)

di Brunella Torresin


Torna l’opera che la grande femminista dedicò ai suoi amici più geniali: Pascali, Fontana, Accardi, Twomby. Fotografia collettiva di una rivoluzione


Carla Lonzi pubblicò Autoritratto nel 1969,con l’editore De Donato: era ed è rimasto il suo ultimo lavoro di critica d’arte. Da quel momento e fino alla sua scomparsa, nel 1982, si sarebbe dedicata anima e corpo alla teoria e alla militanza femminista, con l’elaborazione di testi ancor oggi fondativi. Già in queste pagine le ragioni della sua svolta esistenziale sono esposte con perentoria chiarezza: «Quando mi sono trovata a fare la critica d’arte, ho visto che era un mestiere fasullo, completamente fasullo», afferma, e ne parla già al passato. Autoritratto nasce dalla raccolta e dal montaggio di una serie di conversazioni con quattordici artisti, registrate tra il 1965 e il 1969: Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, cui si aggiungono le domande, senza risposta, rivolte a Cy Twombly nel 1962.

Un libro formidabile che, dando seguito alla ripubblicazione delle opere complete di Carla Lonzi iniziata con Sputiamo su Hegel (2023), La Tartaruga restituisce al pubblico in un’edizione curata da Annarosa Buttarelli (pp.416, 22 euro). Non solo l’epoca e il luogo delle registrazioni sono diversi, ma varia anche la composizione degli interlocutori che partecipano a ciascun incontro. Nel trasporne i contenuti dal parlato allo scritto, Carla Lonzi lavora sul montaggio e crea una sorta di flusso di coscienza, o autocoscienza, che solo di rado interrompe con le proprie osservazioni.

Definisce Autoritratto «un libro un po’ divagato». Possiamo intuire le domande – sulla poetica, sulla tecnica, sull’ontologia stessa dell’arte, la politica, il mercato, il pubblico, la ricerca in divenire – ma non sempre sono dichiarate. È dichiarato, invece, lo scopo di questo convivio: dimostrare che l’artista è naturalmente critico e che l’opera d’arte rappresenta naturalmente una «possibilità di incontro e un invito a partecipare» a «un’altra condizione dell’uomo».     

Come nessun altro, la natura “implicitamente” critica dell’artista è innervata di vissuto e di tecnica, di capacità immaginativa e sfondamenti politici, di potenza simbolica e di evocazione. È il motivo per il quale nel 1969 Carla Lonzi inserisce, come racconto parallelo al testo, fotografie le più diverse, pubbliche e private: immagini degli artisti da bambini, da soli o con i genitori, adulti assieme a mogli e compagne, immagini di opere e immagini realizzate in occasioni espositive. In copertina, anziché il Concetto spaziale di Fontana scelto all’epoca dall’editore, avrebbe desiderato l’immagine che ora Claudia Durastanti, curatrice editoriale de La Tartaruga, ha voluto per questa edizione: la fotografia di Teresa di Lisieux (1895) che interpreta Giovanna d’Arco seduta in catene nella sua prigione.

Cosa c’è sullo sfondo di Autoritratto? Ovviamente il Sessantotto, il Maggio francese, la Biennale contestata. «La nostra società – scrive Lonzi nella premessa – ha partorito un’assurdità quando ha reso istituzionale il momento critico distinguendolo da quello creativo e attribuendogli il potere culturale e pratico sull’arte e sugli artisti». E davanti a sé? Lo dichiara Jannis Kounellis quando osserva che noi «abbiamo fatto di tutto per abolire il mestiere dell’artista e, una volta abolito il mestiere, non per fare un altro mestiere, ma per essere un uomo diverso». O una donna diversa: perché, come dice Carla Accardi, gli uomini «se lo devono levare, eh, un poco, questo terrore della donna che ragiona. Il Potere io l’ho conosciuto, certo che l’ho subìto: come educazione, come ordinamento della società stabilito dagli uomini, con la forza, con l’addomesticamento, con l’asservimento, con l’intontimento, insomma».

È la magnifica utopia dell’artista che, con le parole di Luciano Fabro, si spinge a «prendere possesso del mondo, aprire una breccia attraverso cui possano passare tutti coloro che sono disponibili». Pino Pascali, all’epoca della pubblicazione di Autoritratto scomparso da un anno, confessa che «io cerco di fare quello che mi piace fare, in fondo è l’unico sistema che per me va bene», il che non esclude «una propria identità morale». Lucio Fontana, portentoso, preconizza la liberazione dell’uomo dalla materia: «Diventerà un essere semplice, come un fiore, una pianta e vivrà solo della sua intelligenza, della bellezza della natura e si purificherà del sangue». Ancora Carla Accardi usa un’espressione bellissima nel descrivere il proprio lavoro: «Mi piace che uno capisca dove il mio cuore tocca e dove la mia parola, invece, circonda». È una sintesi perfetta anche per l’altra Carla – l’amica, la femminista, la rimpianta Carla Lonzi.


(Robinson – la Repubblica, 16 giugno 2024)

di Katia Ricci


Dal 12 al 22 giugno 2024 presso il Museo Civico di Foggia sono esposte le cartoline della mostra di mail art Trame di vita Trame di pace, organizzata dalla Merlettaia di Foggia insieme alla rete delle Città Vicine e all’Atelier di artiste dell’Alveare di Lecce. Dopo Foggia la mostra sarà itinerante tra luoghi delle Città Vicine.


Inevitabile la scelta del tema di quest’anno in un periodo buio dell’umanità, ma nello stesso tempo illuminato da sprazzi di luce e di speranza per le azioni di tante donne e uomini in ogni parte del mondo tese al cambio di civiltà. La guerra non ha un volto di donna è il titolo di un libro di Svetlana Aleksievič che dice: «Le donne sono legate all’atto di nascita, alla vita». Papa Francesco invita a guardare alle donne per trovare la pace e uscire dalla spirale della violenza e dell’odio. Purtroppo c’è anche qualche segnale femminile a sposare la logica maschile riguardo alla guerra a cui le donne sono rimaste storicamente estranee.

L’arte è lo spazio in cui tutte le differenze, a partire da quella sessuale, possono incontrarsi e confrontarsi senza i conflitti distruttivi che stanno appestando questa nostra epoca, portandovi bellezza e fiducia.

Nello scenario della società contemporanea, l’arte assume un rilievo fondamentale come strumento critico e politico. In particolare negli ultimi anni, è cresciuto l’impegno di artisti/e sulle questioni che riguardano l’attualità attraverso le loro opere, facilitato dall’uso di strumenti digitali, dei social media e delle piattaforme online, che hanno consentito loro di raggiungere un pubblico più ampio e di diffondere in modo rapido ed efficace i loro messaggi. Anche le città sono investite da nuove forme d’arte che mirano all’occupazione dello spazio pubblico e diventano teatro di nuove sperimentazioni culturali, in cui artisti/e agiscono su territori non deputati generando spazi di socialità, occasioni di incontri, attraverso forme d’arte e performance agite anche in modo illegale.

In particolare la pratica della mail art, arte postale, con la sua lunga tradizione di carattere politico e di resistenza a ogni forma di potere, è particolarmente adatta a veicolare pensieri, parole, messaggi che hanno stretti legami con l’attualità e profondi significati sociali e politici. È, infatti, lontana dai condizionamenti, dalle mode e dalle trappole del cosiddetto sistema dell’arte ed è basata sulla comunicazione creativa. «La Mail Art – dice il mailartista Ruggero Maggi – non si fa per soldi, non si fa per la fama… si fa… si vive… è emozione».

Ma è anche un atto politico, come ogni azione che nasce dal desiderio di aprirsi all’altro e ad altro, dalla necessità di creare relazioni, in questo caso tra mittente, destinatario, spettatore. La comunicazione mailartistica si avvale di reti che coprono l’intero pianeta. Non c’è paese, infatti, in cui non ci siano artisti che si servono di questa pratica per comunicare e scambiarsi idee, anche a costo di persecuzioni, come nei paesi a regime totalitario.

Nelle cartoline di Trame di vita trame di pace, sia nelle immagini che nelle poesie ci sono manifestazioni di dolore, quasi incredulità per quello che sta accadendo, espresse da simboli di guerra, da colori cupi o dal rosso del sangue versato, ma anche e soprattutto di speranza che ci ricorda che in tante e tanti stanno costruendo una nuova civiltà. Certo assistiamo a una brusca e drammatica interruzione di quel percorso, ma il male che ci circonda non ci deve far dimenticare quante /i ovunque operano per la pace, cambiando il proprio stile di vita, prendendosi cura gli uni degli altri e della natura con piccoli gesti quotidiani, mattoncini lego, per costruire la grande città di donne, uomini, esseri viventi e inanimati che avranno finalmente sconfitto l’orrore. Frequenti i simboli che rimandano alla dimensione materna, alla genealogia femminile e al mondo dell’infanzia, su cui si appuntano speranze e ragioni per bandire la guerra.

La novità della mail art di quest’anno è che vi hanno partecipato molte bambine e bambini, alcune/i italiani, altri, guidati dalla loro maestra, di una scuola d’infanzia tedesca. Vi partecipa anche una bambina dall’Islanda.

Colombe, cuoricini, sole, farfalle, colori accesi esprimono tenere e fresche emozioni; la parolaFrieden (pace), scritta in caratteri grandi, a colori, o con collage, che spesso campeggia sopra tutto lo spazio, è come un’invocazione, un grido rivolto agli adulti di fermarsi, di arrestare l’orrore, un grido che i bambini di Gaza, dell’Ucraina, di tante parti dell’Africa e del pianeta non riescono più neanche a sussurrare. Mi hanno colpito alcuni disegni che rivelano dolore e paura: una mano le cui dita si trasformano in un coccodrillo vorace e un monte con tre croci. In guerra Cristo è crocifisso ogni volta che qualcuno muore e si fa del male a un bambino.

Commovente la cartolina di una bambina che disegna sagome di adulti tenuti per mano e guidati da bambini perché, come dice Susanna, gli adulti dovrebbero ascoltare i piccoli perché «nel pensiero di noi bambini la guerra non esiste». Kría scrive: «La pace è piena d’amore, invece la guerra di odio e dolore. Siate gentili e non usate i fucili».


Partecipanti:

Michelina Boccia, Maria Bonaduce, Rossana Bucci, Federica Cananà, Giorgia Cananà, Monica Carbosiero, Rosalba Casmiro, Marilena Cataldini, Daniela Cecere, Ornella Cicuto, Alberta Crescentini, Rosy Daniello, Michela Del Tinto, Wanda Delli Carri, Gianni De Maso, Vittoria Di Candia, Michelina Di Conza, Anna Di Salvo, Anna Fiore, Antonio Fortarezza , Donatella Franchi, Carmen Fuiano, Viola Gesmundo, Donata Glori, Nando Granito, Clelia Iuliani, Francesca Lamberti, Antonietta Lelario, Nicola Liberatore, Oronzo Liuzzi, Adele Longo, Rosanna Macrillò, Nelli Maffia, Ruggero Maggi, Mariangela Magnelli, Madia Daniela Massagli, Pina Massarelli, Carmen Matteo, Giovanni Morgese, Clelia Mori, Pina Nuzzo, Vincenzo Patti, Stefania Piccirilli, Maria Paola Quattrone, Cornelia Rosiello, Enzo Ruggiero, Concetta Russo, Adriana Sbrogiò, Rosa Serra, Emilia Stefania, Enrico Straccini. Emilia Telese, Stella Zaltieri.

Bambine/i: Susanna, Francesco, Fabrizia, Kría. Scuola dell’infanzia di Riesenzwerge di Radebeul a Dresda: Johanna, Jonas, Zoey, Lina, Leonie, Ludovica, Ferdinand, Elliot, Gabriel, Philippa, Juna.


(Facebook, 10 giugno 2024)

di Mario Finazzi


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Francesca Woodman da Angel series, Roma 1977


Chi ama e ha amato il lavoro di Francesca Woodman sa che quella ricerca pulsa intorno a una disparizione di sé: paradossalmente proprio nel suo autoritrarsi ossessivamente attraverso il mezzo fotografico l’artista pareva quasi sempre eludere quest’ultimo, e ritrarsi dal suo mortifero incantesimo – peculiarità della fotografia, il legame fotografia-morte, così accoratamente individuato da Roland Barthes nella Chambre claire. Gran parte del fascino enigmatico esercitato dal lavoro della Woodman risiede appunto in una sorta di continua e baluginante oscillazione tra offuscamento ed evidenza, che scandisce quelle sue fotografie in fondo alle quali era usa, mostrandosi, nascondersi, mai rivelarsi, pur dandosi, allo stesso modo in cui il corpo suo si dissimulava nell’incastro tra gli oggetti e gli ambienti.

Nonostante la tentazione di connettere intimamente arte e vita della Woodman – chi non ha mai anche solo sospettato, a una lettura postuma, che dietro quelle messe in scena da cui tracimavano sensazioni di perdita, di desiderio, di costrizione del corpo, di un camuffarsi esistenziale nel mondo, non si celassero sinistri presagi? –, va ribadito che l’artista tenne sempre separate le proprie nature identitarie: quasi mai appare come persona nei suoi autoritratti – sempre velata, mascherata, la testa girata, nascosta, esclusa dalla fotografia, fuori fuoco –, dove appare invece come modella di se stessa, la modella più complice e affidabile che potesse trovare per comprendere ed eseguire le proprie istruzioni di artista, e questo è stato letto, per esempio da Rosalind Krauss in anni recenti, in relazione a un metodo operativo che voleva essere formalistico, non interessato alla narratività, né tanto meno espressionistico.

È la disparizione che strega letteralmente Bertrand Schefer, autore del volumetto Francesca Woodman ora tradotto da Johan & Levi (pp. 68, euro 14,00). Il filosofo e romanziere francese e l’artista americana si incontrano idealmente nel 1999, quando lei era già morta da diciotto anni, toltasi la vita all’età di ventuno, e lui, già traduttore in francese di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, si trovava alla Fondation Cartier pour l’art contemporain per iniziare un lavoro nel settore editoriale. Gli mostrarono allora, a scopo esemplificativo, il catalogo di una mostra sulla Woodman da loro appena pubblicato. Schefer ne rimase estremamente colpito, forse inizialmente disturbato, ma fu l’innesco di un’ossessione dai risvolti personali che, anni dopo, verrà attizzata e intensificata dalla visione di alcune fotografie amatoriali scattate alla Woodman da un compagno di corso durante i tempi della Rhode Island School of Design.

Schefer inizia proprio da tali immagini un’indagine dai toni a tratti intimi, alla ricerca di quella Woodman più autentica – la ragazza americana adolescente, che cercava di affermarsi come artista, senza sacrificare la sua genialità alla costruzione della carriera, opportunisticamente, e per questo forse rimasta ai margini –, che in anni e anni di rimuginio sul suo lavoro era rimasta per Schefer, per noi tutti, una figura necessariamente evanescente e indeterminabile. Per quanto possa sembrare opinabile questa posizione dello scrittore, che appare ribaltare il senso di lettura della vita e dell’opera della Woodman, spostando l’interesse del proprio racconto su quell’aspetto estremamente privato che lei aveva teso a obliterare, il suo libro nasce da qui.

Rimarrà quindi profondamente deluso il lettore che cerchi un’esaustiva biografia dell’artista americana, o una dotta sistematizzazione storica e critica, poiché il libro di Schefer si propone piuttosto come un racconto letterario e affettivo, a tratti poetico, forse cinematografico nel ritmo, che vuole essere «une sorte de dialogue entre elle et moi», e che risuona dell’urgenza di un atto d’amore – un amore impossibile, come quelli tra uomini e fantasmi.

Il libro ben si inserisce in prospettiva con le altre produzioni di Schefer, dotto traduttore dall’italiano, sì, eppure anche autore di riflessioni ellittiche sospese tra racconto autobiografico, saggio e poesia in prosa, in cui entra spesso e volentieri la riflessione sul mezzo fotografico, e che prendono la forma ora di intime meditazioni sul ricordo di una persona scomparsa, amata e mai nominata (Cérémonie, 2012), ora di un processo di ricomposizione della figura della madre, e della propria esistenza, innescato proprio da una fotografia vista da bambino, e ricordata (La photo au-dessus du lit, 2014), ora di un ennesimo svolgimento sul tema della relazione tra immagini e parola, teso a definire il filmare la disparizione come elemento motore del cinema (Disparitions, 2020).

La Woodman pure, d’altra parte, mostrava interesse per il rapporto fotografia-scrittura. Alcuni suoi scatti erano corredati di brevi frasi, per non parlare dei quaderni fotografici, sulla scia del misterioso Nadja di André Breton, libro che il vate del surrealismo aveva composto con testo e immagini associati, a restituire il ricordo e l’essenza di una donna amata, svanita, e di se stesso insieme: «Vorrei che le parole avessero con le mie immagini lo stesso rapporto che le fotografie hanno con il testo in Nadja di André Breton – enunciava la Woodman in una dichiarazione riportata da Roberta Valtorta –. Egli coglie tutte le illusioni e i dettagli enigmatici di alcune istantanee abbastanza ordinarie e ne elabora delle storie. Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza». E Nadja aleggia anche tra i convitati di pietra, assenti eppure mai eludibili, che infestano la poetica di Schefer: «Chi sono io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio, in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto», attaccava del resto Breton il suo libro. Va insieme al Barthes che cerca in fondo alle fotografie la madre scomparsa.

«You cannot see me from where I look at myself», scriveva Francesca sul suo diario, frase citata nel libro e associata al primo, potentissimo quanto inconsapevole, autoscatto realizzato a tredici anni con la Yashica appena regalatale: si direbbe quasi che Schefer l’abbia presa come una sfida personale.


(il manifesto, Alias, 19 maggio 2024)

di Katia Ferretti


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Da una infanzia ucraina. Una galleria di scatti presi da librerie, archivi privati, artisti contemporanei, bancarelle, commentate da pagine narrative, che compongono un cifrario dell’oggi: “La foto mi guardava”, Adelphi


Costruito come corredo di didascalie narrative a una galleria di cinquantasette immagini fotografiche della più disparata provenienza, il libro di Katja Petrowskaja La foto mi guardava (traduzione di Ada Vigliani, Adelphi, pp. 259, € 24,00) sprigiona una forza che attinge in eguale misura al dominio della parola e a quello dell’immagine: l’una rinvigorisce e feconda l’altra, la colora di senso e magia. Per realizzare il suo lavoro – che raduna brani nati tra il 2015 e il 2021 come singoli pezzi giornalistici, ognuno dotato di un titolo carico di significato – l’autrice compulsa volumi fotografici e archivi privati, visita gallerie di artisti contemporanei, setaccia librerie antiquarie e bancarelle.

Attenta al punctum di Roland Barthes come alla sezione aurea, insegue la logica che vige nello spazio di ogni foto, la sua capacità di farsi “esperienza”, di essere vissuta con un alto grado di interattività (in “Babuška in cielo” la figura di anziana vestita di tutto punto, stile primi anni ’70 sovietici, e librata a mezz’aria su una seggiovia che si inerpica su una qualche vetta, innesca un intenso scambio di visione tra chi è ritratto e chi vede la foto).

Petrowskaja seleziona scatti evidentemente fortuiti, di un minimalismo disarmante, o immagini cesellate «fino a che non resti altro che l’anima distillata». Se «ogni foto mette in salvo qualcosa di transitorio», in alcuni casi «ciò che accade all’improvviso plasma il tempo», come nell’inquadratura di Vanessa Winship commentata nel pezzo titolato “Sul Mar Nero”, in cui conta ciò che resta fuori dal campo visivo, ciò che è immaginato come “in procinto” di entrare in scena.

L’intento dichiarato è quello di cogliere il rapporto trasognato che si instaura tra luce e oscurità, umanità e paesaggio, movimento e immobilità: tutte le «transizioni tra natura e cultura», insomma. Non senza interrogarsi sullo statuto di verità reclamato da una foto, per rilevare eventuali distorsioni tra realtà e imposture: è il caso di “Curva radiosa” – con la simulazione di normalità inscenata dal governo sovietico alla Corsa per la Pace partita in bicicletta da Kiev nel maggio 1986, mentre le onde radioattive di Černobyl’ colpivano alla stregua di un nemico invisibile;  o di “Paese calpestato”, in cui l’Ucraina del ’42 è fotografata da un soldato tedesco come se le tracce della guerra fossero parte del ciclo delle stagioni.

Nelle pagine di questo volume Petrowskaja rincorre temi e luoghi prediletti, capi di una trama narrativa già dipanata diffusamente in Forse Esther, itinerario romanzesco e documentario al tempo stesso nei meandri della propria genealogia: le peculiarità del mondo ebraico e i diritti delle donne, il destino storico dell’Ucraina e le vicissitudini di Praga o Berlino, i relitti dell’utopia sovietica andata in pezzi (nel brano “Restricted Areas” il sogno della felicità futura viene fatto indietreggiare fino a toccare il più remoto passato, quello dell’era glaciale). Ma anche «lo scollamento tra vita reale e American Dream», e perfino l’incontro tra quei due blocchi al tempo della guerra fredda – come in “Samantha dello spazio”, o “Disgelo”; o in “Eyes Wide Shut”, in cui viene richiamato il viaggio nell’Urss del 1947 di John Steinbeck e Robert Capa.

Il libro è saturo di rimandi culturali, al crocevia di molte arti, emozioni e saperi: ci imbattiamo nei nomi di Andrej Tarkovskij, David Lynch o Wim Wenders, ma anche nelle performance del giovane artista russo Pëtr Pavlenskij – assimilato ai martiri protocristiani per il suo uso del corpo come strumento di sfida allo stato. Su tutto dominano gli scrittori: Calvino e Lispector, Kafka e Šalamov, Kerouac e molti altri ancora, ad animare un personalissimo, decisamente accogliente pantheon letterario ideale.

E se la pittura, madre della fotografia, è costantemente sullo sfondo, alcuni tra i più classici prototipi artistici universali trovano nuova carne e veste in creature del più concreto oggi: ci viene così incontro una Venere di Botticelli in panni di migrante, avvolta nel velo dorato di profuga scampata al mare ed emblema di tutti i salvati; o una “Madonna dell’Alentejo “– la madre rom portoghese intenta ad allattare nel primo piano di una movimentata foto di gruppo che «mostra tutte le sfumature tra l’autenticità e la messinscena», «tra la street photo e il tableau vivant».

Mettendosi sulle tracce delle biografie di fotografi variamente noti, o accumulando congetture su quelli anonimi, Petrowskaja lascia emergere una manciata di tratti che si stagliano indelebili: il genio di Francesca Woodman, morta suicida a ventidue anni; il volto ineffabile della regista e danzatrice Maya Deren (ripreso in copertina); le imprese documentaristiche di Josef Koudelka al tempo della Primavera di Praga. Su tutto si innesta la grana del ricordo, senza eccessive distinzioni tra reminiscenze dell’infanzia sovietica e memoria storica, déjà-vu più o meno veritieri, che rendono possibile abbracciare stratificazioni temporali multiple, o ricordi mancati che scattano nell’atto stesso del guardare e colmano vuoti o afasie indicibili. Oppure sogni altrui in cui veniamo catapultati.

Ne viene fuori un libro-caleidoscopio della modernità e dei suoi smarrimenti, taccuino di catastrofi immani e di singoli gesti coraggiosi, che è al contempo camera oscura della memoria personale di Petrowskaja e flip book del presente dell’umanità. Un cifrario dell’oggi che si srotola nella ricerca di verità e bellezza, vivificato da gioie minime di artista: quando l’autrice fotografa una nuvola insolita, si dichiara felice come se fosse stata lei a crearla.


(Alias – il manifesto, 5 maggio 2024)

di Giordana Masotto


In occasione della presentazione in Libreria delle donne di Milano di Brothels di Libera Mazzoleni (Boîte Editions, 2023)


Il libro è nero, com’è giusto che sia. In copertina un taglio, la ferita feritoia da cui entreremo nelle stanze dell’orrore: stanze invisibili nei campi di concentramento, segrete e nascoste vicino ai reparti di esperimenti con cavie umane; stanze disciplinate e controllate nelle case di tolleranza fasciste; professionali nella vasta gamma di casini e bordelli parigini; fino alle vaste pratiche degli eserciti stupratori e dei campi militari di prostituzione forzata e alle schiave in gabbia dei quartieri a luci rosse di Tokyo.

No alla Cancellazione

Libera Mazzoleni fa un lavoro di svelamento che si rivela anche nei fogli semitrasparenti che trovi dentro al libro e che non sono rilegati come le altre pagine, sono mobili: li puoi togliere se vuoi!

C’è svelamento nel silenzio di quelle immagini deformate: il silenzio è sentire il mondo. E quel flusso deformato ci chiama in causa. Architetture e persone ci fanno vedere città che non vediamo.

Denuncia la cancellazione, dà visione/immagini e parola/testi, a queste donne cancellate: è proprio questo che non le blocca, non le oggettiva nella condizione di vittime. È il “fuori campo” (come ci ha ben spiegato Daniela Brogi, Lo spazio delle donne) che spezza la visione consolidata.

E, insieme alle immagini, ci sono testi che rivelano tutto il lavoro di ricerca che ci sta dietro, ma anche poesie dell’artista, testimonianze, lettere alla senatrice Merlin. Giustamente varie e plurali sono le voci di queste donne: pro e contro la Merlin, le tenutarie, le imprenditrici creative, le schiave.

Ma attenzione, questa non è documentazione storica: la memoria è viva quando la metti in gioco con il presente, ti metti in gioco con il tuo sguardo, con il tuo corpo di oggi. È generativa: dar voce è rigenerare.

Incrinare lo storytelling

Svelare l’indicibile. Il corpo della donna può essere usato dal potere come incentivo/premio di produzione con una graduatoria: SS, militari, internati. Il corpo della donna è contenitore per il “bisogno/sfogo” maschile, relax, divertimento, arma di guerra.

Non c’è bisogno di spettacolarizzare (come “la stanza dello stupro” nella mostra su Artemisia Gentileschi a Genova).

Questi uomini li vediamo nelle immagini e nelle storie: non sono mostri, sono uomini normali. Possiamo usare l’aggettivo “normale” nel senso svelato da Hannah Arendt in La banalità del male. Voglio ricordare queste parole preziose di H.A.:

«Oggi, in effetti, sono dell’avviso che il male sia sempre e solo estremo, ma mai radicale: non ha profondità e non ha niente di demoniaco. Può devastare il mondo intero perché prolifera in superficie, come un fungo. Profondo e radicale, invece, è sempre e solo il bene».

Oggi possiamo chiederci: che cosa c’è di disumano che consideriamo normale?

Il grande rimosso: il contratto sessuale

Dal bordello al matrimonio il passo è breve, come ci ha spiegato un testo che rimane fondamentale: Carole Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna. Il contratto sociale istituisce il potere che regola l’umana convivenza. La convivenza umana, infatti, deve essere pensata, non può essere lasciata alla natura: per questo gli uomini liberi acconsentono liberamente a subordinarsi al potere. Invece – come ha ben svelato C.P. – il diritto degli uomini sulle donne viene considerato naturale. Poi c’è l’avvento della libertà delle donne: ma il contratto sociale non viene ripensato in maniera radicale, viene semplicemente rimosso il contratto sessuale che gli sta dietro. È questa rimozione che fa sì che emergano oggi ipotesi di contrattualizzare la prostituzione e la maternità, come argomenta nel capitolo finale del libro. Ma, più in generale, tutte sappiamo la fatica che ci vuole per portare il nostro “stare intere” nei diversi contesti sociali in cui viviamo, mettendo in discussione la logica paritaria dell’inclusione nel contratto sociale esistente. O per resistere alla logica invasiva dell’individuo neutro competitivo che cancella la vita di donne e uomini.

Dal bisogno al desiderio

Per spezzare l’invasiva e devastante banalità del male dobbiamo “rimettere in relazione”. La natura della relazione amorosa non può andare distinta dai rapporti sociali e questa interazione va portata alla luce, svelata, in ogni ambito: amore, lavoro, politica. È questa rottura di barriere che può cambiare donne e uomini, generare insieme nuovo mondo.

Esempio: nella modalità bordello, ma anche in altri rapporti sessuali, oggi anche in rete, il sesso si trasferisce dalla modalità desiderio alla modalità bisogno (Sarantis Thanopulos, La Città e le sue emozioni, Edizioni ETS 2019). Libera Mazzoleni lo dice benissimo nella poesia “L’uomo idraulico” in cui ladonna è contenitore per il bisogno impellente di “svuotare”. Ma non è diversa anche la logica del sesso premio di produzione.

Questo discorso – rianimare il desiderio – è più che mai attuale e impellente in tutti i campi. Detto in altre parole, si tratta di vivere nella logica non di trovare, ma di cercare. Riscoprire il desiderio per rigenerare la convivenza nello spazio comune, le relazioni come incontro tra differenze.

Essere artista o Lavoro Artistico

E proseguendo in questo cammino aperto dal desiderio, arrivo lì: essere artista. C’è qualcosa di radicale nell’arte, qualcosa che si genera radicalmente da te, dall’essere insieme corpo-pensiero-desiderio. È il bello che si può trovare anche nel lavoro artigianale, nel canto, nel recitare. Le opere d’arte sono strutturalmente relazionali, si fanno in due, chi opera e chi guarda: dobbiamo metterci in gioco, farci coinvolgere attivamente nella relazione.

Ma l’arte è anche politica per nascita, perché genera novità rispetto all’esistente. Come ho letto da qualche parte: «Si fotografa, si dipinge e si scrive per rendere meno chiare le cose che all’apparenza sembrerebbero inconfutabili ed evidenti». L’arte è necessaria alla politica e tutte e tutti dobbiamo riaccendere l’immaginario.

Anna Longo, citata da Judith Butler (Perdita e rigenerazione. Ambiente, arte, politica)dice: «Nei tempi in cui viviamo l’arte sembra non solo impossibile ma anche frivola impotente. È proprio in momenti simili che abbiamo più bisogno dell’arte, o piuttosto di diventare artisti [corsivo mio]: non creatori di nuove maschere che indurranno le masse a desiderare la propria schiavitù, ma agenti vivi, capaci di affermare la vita contro ciò che, col pretesto di renderla possibile, la mutila».

Ragionando e confrontandomi sul tema del lavoro ho visto che sempre di più chi lavora cerca/vuole esprimersi. Vuole coltivare integrità, in sé e intorno a sé. Cercare insieme impegno e piacere. Competenza e passione. Espressione e riconoscimento. Potremmo dire che c’è un desiderio di “mettersi in opera”, non diversamente dal lavoro dell’artista, che vuole vivere ed esporsi nel proprio lavoro.

Contemporaneamente questo desiderio si scontra con contesti spesso sempre più mortiferi che aprono contraddizioni radicali, fino all’andarsene e mollare tutto. Oppure a vivere come puro privilegio la possibilità di “esserci”: se ti esprimi, se fai qualcosa in cui ti identifichi profondamente non sei pagata!

Chiamo questo aspetto del problema “lavoro artistico”: lo chiamo volutamente così per mettere in connessione questi due poli, che per certi aspetti si intendono in genere pertinenti a due ambiti contrapposti: necessità e libertà, bisogno e desiderio. E che anche nell’ambito propriamente artistico possono generare non poche contraddizioni. Problemi più che mai aperti.

Finale

E poiché tutte le opere d’arte sono strutturalmente relazionali, si fanno in due, chi opera e chi guarda, ed è giusto farsi coinvolgere attivamente nella relazione, adesso voglio fare la mia parte. Ho guardato le immagini di Libera Mazzoleni e ho immaginato che quegli uomini banalmente malvagi si riscuotessero e vedessero tutto quello che avevano fatto. E quelle donne silenziose dietro le sbarre e le finestre potessero uscire con i loro corpi e i loro desideri. E quegli uomini e quelle donne finalmente si vedessero, si incontrassero e – incontrandosi davvero – potessero vivere. Perché «profondo e radicale, invece, è sempre e solo il bene».


(www.libreriadelledonne.it, 29 febbraio 2024)

di Elena Caslini


L’artista piacentina, classe 1974, porta per la prima volta le sue opere intrise di poesia naturale nell’istituzione milanese. Con Chiara Camoni, il femminile primigenio si coagula in forme e materiali organici. Attraversati da una magica forza generatrice.


Nella sua celebre conferenza sul Rituale del Serpente, nel 1923 lo storico dell’arte Aby Warburg rifletteva su come la perdita di una visione mitologica sul mondo non avesse davvero aiutato l’uomo a dare risposte adeguate agli enigmi dell’esistenza.

A distanza di un secolo, dal senso di questa esistenza ci siamo forse allontanati un po’ di più; e il ritorno a una dimensione magica può forse aiutarci a ritrovare quelli che l’artista Chiara Camoni (Piacenza, 1974) definisce come «piccole epifanie, momenti di grazia e di bellezza che sembrano rivelare il senso del vivere. Questi attimi, velocissimi, si coagulano intorno all’opera d’arte, che lavora su un piano emotivo e inconscio, nel momento del processo creativo e della sua fruizione».

Tenendo lo sguardo disponibile e aperto, la realtà può cambiare sotto i nostri occhi. Le ciotole di porcellana e onice impilate in ritmi sinuosi si trasformano in quei serpenti di cui parlava Warburg, depositari di antichi poteri, e, contemporaneamente, in quelli così reali visti da Camoni nel suo giardino a Seravezza, dove vive e lavora. Silenziosi, scandiscono il ritmo della retrospettiva che l’Hangar Bicocca dedica all’artista da oggi fino al 21 luglio, raccogliendone il corpus di opere più ampio mai presentato finora. «Le mie serpentesse disegnano i corridoi, le stanze e gli spazi della mostra come in un sito archeologico, un giardino all’italiana dove c’è architettura ma lo sguardo vola libero, verso un centro che rimane vuoto e attorno al quale chiamo a raduno le mie creazioni». Sono le Sorelle, falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse del titolo della mostra, che, come un incantesimo, evoca queste presenze fatte di erbe, bacche, fiori, argilla, terra e ceneri. Materiali di ordinaria mitologia.

La sacralità delle opere di Camoni si esprime nel loro essere femminili. Un concetto che per l’artista assume connotazioni olistiche, dove totalità e riappacificazione degli opposti ne definiscono l’essenza. Camoni è un’artista donna senza rivendicazioni né denunce. Lo è, al contrario, nel suo appellarsi a un’antica forza generatrice che, dagli inizi dei tempi, è propria di ogni donna. «Nella costruzione dell’oggetto scultoreo metto al mondo qualcosa che comprende e accoglie tutto: il maschile, il femminile, il neutro, l’animale, il vegetale. Le mie opere sono ricolme di loro stesse, delle loro migliaia di forme, in continua trasformazione. Sono distintamente femminili nel loro vivere con agio nel cambiamento e nell’indeterminatezza. Il vaso in ceramica, declinato nei miei Vasi-farfalla, è l’apoteosi di questa ambiguità, nel suo essere allo stesso tempo pieno e vuoto, dentro e fuori, bellissimo e drammatico».

Nella coralità della sua visione, Camoni si inserisce in una storia di donne, che scarseggia di figure materne per come la Storia ci è stata raccontata, ma che si alimenta di una sensibilità e un sentire condivisi. Insieme alle artiste, poetesse, intellettuali, sorelle spirituali con cui Camoni collabora o a cui si ispira per opere come Pavimento (for Clarice), omaggio alla scrittrice brasiliana Clarice Lispector, l’artista contribuisce a un significativo passaggio di testimone, affinché l’idea di un’identità femminile, ancestrale ma ancora così reale, possa continuare a fiorire. Proprio come i suoi vasi.


(Vogue, 14 febbraio 2024)

di Marco Ferrante


L’edizione originale in tedesco e francese prevedeva 101 oggetti per raccontare una storia delle donne. L’edizione italiana (Annabelle Hirsch, Una storia delle donne in 100 oggetti, Corbaccio, pp.416) si ferma a 100, l’unesimo – se potessimo decidere noi lettori italiani alla fine di quest’anno che ha segnato una accelerazione della consapevolezza di donne e uomini sulla condizione dei loro reciproci rapporti – potrebbe essere il libro illustrato trovato accanto al corpo senza vita di Giulia Cecchettin, la giovane donna uccisa per una assurda epperò ancora ordinaria negazione della libertà da parte di un uomo. La libertà e la difesa della libertà delle donne è uno dei principali argomenti di questo libro. In una presentazione romana Annabelle Hirsch insieme alla scrittrice Ilaria Gaspari ha scelto alcuni oggetti per spiegare il senso del libro. Il primo: lo spillone da cappello in voga nei primi anni del ’900 per fissare i grandi copricapo alla moda alle sottostanti acconciature femminili. Lo spillone divenne un oggetto di autodifesa nella doppia transizione delle donne lavoratrici e dei mezzi di trasporto pubblici. Il 28 maggio del 1903 – scrive Hirsch – Leoti Blaker del Kansas salì su un autobus molto affollato sulla Fifth Avenue di New York e dopo pochi minuti, per difendersi dalle molestie di un passeggero gli piantò il suo spillone da otto centimetri nel braccio. Fu trattata come un’eroina. E così per qualche tempo le sue emulatrici. Ma dopo alcuni anni, all’inizio degli anni ’10, in America, Francia e Germania vennero approvate nuove norme per limitare le dimensioni degli spilloni. Nella coscienza pubblica – generata ed elaborata dai maschi – le vittime erano diventate aggressori.

In una sequenza serrata – contemporaneamente informativa e letteraria (cosa alla quale, almeno qui da noi, non siamo più abituati nella innaturale separazione tra forme di scrittura che non dialogano più tra loro) – Hirsch definisce due ambiti di racconto e di riflessione. C’è una storia dell’indipendenza femminile quasi autonoma rispetto alle spinte della componente maschile dell’universo. E poi una storia della lotta trai sessi: il conflitto feroce per stabilire equilibri in costante cambiamento determinati dalla Storia Maggiore, dalla Tecnologia, dal Progresso (e Regresso), dalla Democrazia.

Le due storie si intrecciano e si rincorrono. Ogni oggetto può servire alla prima o alla seconda o a entrambe. È un percorso che sceglierà il lettore. Qui si parte da un oggetto molto emblematico della lotta tra i sessi, un settecentesco piccolo gruppo in porcellana di Gottlieb Glück, intitolato La buona madre. È un genere di soprammobile borghese, una madre e tre figli, il più piccolo in allattamento. Per Jean-Jacques Rousseau la madre dedicata principalmente alla cura diretta dei figli è l’unico modello di madre. E la donna che allatta è perfettissima. Hirsch spiega come in quegli anni, in pieno Illuminismo, nasce l’immagine «tuttora ancora molto diffusa in diverse parti del mondo, della buona madre contrapposta alla cattiva madre», uno stereotipo di controllo costruito dall’uomo. È un lungo cammino sociale che si svolge lungo il libro e approda, per esempio, quasi duecento pagine più avanti alla copertina di Il Piacere di vivere da sola, una specie di guida o manuale per donne single, successo editoriale del 1936 di Marjorie Hillis, all’epoca quarantasettenne redattrice di Vogue. Basta principi azzurri e relative angoscianti attese, si può stare da sole. Per Hirsch, Marjorie Hillis è sostanzialmente la progenitrice di Sex and the city, per quanto in Il piacere di vivere da sola non si parli in modo esplicito di sesso. Vi si allude solo nel capitolo dedicato ai piaceri del letto singolo. Ottanta anni dopo Hillis, Hirsch invece affronta la questione della sessualità, perché è insieme al Lavoro uno dei punti più delicati degli equilibri avanzati, nella relazione tra autonomie di genere che si fronteggiano. I maschi antimodernisti a cavallo dei due secoli trascorsi asseriscono che alcune nuove invenzioni che rafforzano l’indipendenza femminile come la bicicletta e la macchina da cucire siano sessualmente eccitanti a causa del movimento continuo. Nel Novecento molti simboli dell’identità femminile da Chanel n.5, al rasoio per le ascelle al rossetto investono contemporaneamente la sfera dei consumi e quella della sessualità in un balletto contraddittorio che non ci è ancora completamente chiaro. Una strana combinazione di vecchio e nuovo che nei macchinosi tempi attuali complica la vita degli adolescenti – ragazze e ragazzi – ai primi passi nel gioco della seduzione. Alcuni oggetti descritti nel libro affrontano direttamente il tema, un dildo in vetro del XVI secolo e il VHS di Gola profonda (1972) con l’ingresso della fellatio nell’immaginario pop occidentale e relative conseguenze.

Naturalmente c’è anche molta, moltissima politica. Il manifesto delle 343 donne francesi che nel 1971 rendono pubblico il loro aborto e il poster con la faccia di Golda Meir e la frase in basso: ma sa battere a macchina? Golda Meir è un archetipo. Per Margaret Thatcher è lei l’esempio di capo politico femminile, da lei nasce tutto. È una fondatrice dello Stato d’Israele, la donna della raccolta fondi del 1948 si fa ritrarre con la borsetta al braccio. Dopo lo choc iniziale di Yom Kippur ferma l’esercito israeliano alle porte del Cairo, fondamento necessario della pace del 1979. Hirsch racconta un bellissimo aneddoto. Conferenza stampa congiunta con Richard Nixon, lei accavalla le gambe, accende una sigaretta (GM fuma anche in Munich di Steven Spielberg) e dice: allora, cosa pensa di fare riguardo agli aeroplani di cui ha bisogno Israele? C’è in lei un elemento tipicamente femminile, va fatto quel che è necessario fare, spingere il bottone in ascensore perché – spiega Golda – nessun altro lo fa in quel momento (cit. Antonio Funiciello, Leader per forza, Rizzoli 2023). La questione a volte non è così semplice. E il potere femminile si confronta con quello maschile non tanto nella pretesa diversità nell’esercitarlo, ammesso che ci sia una simile diversità, ma quasi per la fonte da cui origina e cioè il mondo a misura d’uomo. La statua di Hatshepsut racconta la storia della figlia di Thutmose I che per complicate questioni dinastiche resse il regno d’Egitto per vent’anni nella seconda metà del 1500 avanti Cristo. Fu donna e uomo contemporaneamente, la statua la rappresenta come donna (il seno) e come uomo (la testa e il copricapo) e fu un/una Faraone importante. Per riferirsi a lei si usavano elaborate combinazioni di genere “sua maestà la regina sovrano” che ricordano l’attuale dibattito italiano su come rivolgersi al/alla presidente del Consiglio. La memoria di Hatshepsut fu cancellata forse perché era un esempio di cui gli uomini avevano paura. 

La storia del potere femminile è accidentata, diseguale, procede per strappi. Questo – da questa prospettiva – è il succo del libro. Anna Morandi Mazzolini fu un’anatonoma settecentesca bolognese, una delle prime scienziate della modernità. Insieme al marito introdusse la tecnica della ceroplastica per lo studio del corpo umano. Realizzò un celebre autoritratto nella sua specialità: un busto di cera, lei in taffetà rosa, collana di perle, acconciatura d’ordinanza, ma con uno scalpello e una pinza tra le mani e in grembo un cranio appena dissezionato, il cervello in vista. Il busto fu un atto affermativo della sua identità. Una storia emblematica già ai suoi tempi. Caterina la Grande, la modernizzatrice che studiava Beccaria e Montesquieu, ne teneva una miniatura nel suo appartamento nella formidabile reggia di Peterhof e a chi le chiedeva chi fosse rispondeva: mia nonna. Quel cervello così in vista assumeva un altro significato e diventava un monito spiritoso della crudeltà.

Politico è il più emblematico dei racconti di questo libro. Una fotografia di Robert Capa scattata nell’agosto del 1944. Il titolo, La donna rasata di Chartres. Una delle migliaia di collaborazioniste francesi (oltre 20.000 si stima) cui dopo la liberazione furono tagliati i capelli a zero, sottoposte a linciaggio ed espulse dai centri d’origine. La ragazza della foto si chiamava Simone Toseau, aveva ventitré anni, aveva avuto una bambina da un soldato tedesco durante l’occupazione. Quando la foto viene scattata, Simone ha la bambina di tre mesi in braccio. È rasata a zero, semicircondata da un gruppo di uomini e donne che minacciosi la accompagnano fuori dalla cittadina di Chartres. «Punire le donne era un modo per ricostruire la mascolinità scalfita: ecco perché la resistenza doveva avere il viso di un uomo, mentre la collaborazione con i nazisti il volto di una donna». La questione femminile e l’antifemminismo durante la resistenza e dopo la guerra è un tema molto delicato in molti paesi d’Europa (sulla parte relativa al nostro paese vedi il recentissimo Uomini contro la lunga marcia dellantifemminismo italiano, Mirella Serri, Longanesi 2023). Ma la foto di Chartres è terribile anche perché quasi controintuitiva. Anche di fronte ai torti della storia, c’è un trattamento diseguale, spiega Hirsch. Nel momento dell’attribuzione della colpa, gli uomini fucilati dietro i muri, le donne umiliate pubblicamente.

Non tutto è un dramma in quello che leggerete, il tono del resto è volutamente privo di effetti – a tratti quasi conviviale – anche nelle storie più cruente. E a questo proposito un’ultima nota. C’è in generale un’atmosfera molto seduttiva per il lettore, che viene dalla combinazione dell’elenco come idea – una lista di 100 – e dal gusto della selezione: 100 cose, artefatti, oggetti da vedere, toccare, sentire. Francesca Rigotti (Il domenicale del Sole 24ore del 10 dicembre) ha scritto che l’idea di una storia in cento oggetti è la base di un fantastico libro di Neil MacGregor sulla storia del mondo. (Qui si autodenuncia nell’elenco di MacGregor una preferenza per la meravigliosa storia di un piatto prodotto dalla russa manifattura imperiale di porcellana qualche mese prima del 1917 e decorato con simboli costruttivisti dalla sovietica manifattura di porcellana qualche mese dopo il 1917). Sì, l’idea dei 100 oggetti è ormai quasi un fattore aritmetico permanente, MacGregor continuerà a influenzarci. Però Hirsch ha raccontato che per vocazione lei è un’appassionata di marginalità e di fatti minori. Con lo stesso ritmo naturale scandito dalla sua intelligenza di analista della realtà avrebbe potuto selezionare altri 100 o 200 oggetti, e ha detto che il libro avrebbe potuto essere “Una storia delle donne in 300 oggetti”. Gli elenchi vivono in se stessi e le singole cose anche. La sacca di Ashley, la Récamier (chi non vorrebbe dare il suo nome a un mobile?), la Remington, il bikini, la copertina di Sur – l’iconica rivista di Victoria Ocampo – l’autoritratto di Sarah Goodridge, il gioco di Hnefatafl e l’arazzo di Bayeux. Tutto di corsa. Buona lettura. Annabelle Hirsch fa riflettere.


(Doppiozero, 20 gennaio 2024)

di Claudia Bruno*


Attraversare Queen Victoria Street, a Londra, in un pomeriggio qualsiasi, e trovarsi inaspettatamente davanti Forgotten Streams – una vasca immensa inondata di radici che si spalanca come una ferita nel cuore della city, opera urbana della scultrice spagnola Cristina Iglesias – potrebbe richiamare alla mente le parole che Anna Maria Ortese affidava alle pagine della sua raccolta Corpo celeste, nell’aprile del ’97: “Invece, su un corpo celeste, su un oggetto azzurro collocato nello spazio, proveniente da lontano, o immobile in quel punto (così sembrava) da epoche immemorabili, vivevamo anche noi” scriveva nell’introduzione alla sua preziosa successione di ragionamenti data alle stampe l’anno prima di morire. “Oggetto del sovramondo, era anche la Terra” spiegava, non ci sarebbe stato bisogno di andare nello spazio, lo spazio era già qui e noi ci eravamo dentro.

O ricordare la serie di autoritratti realizzati dalla fotografa Judy Dater tra l’80 e l’83, durante i suoi viaggi nei parchi nazionali americani. In uno dei suoi scatti realizzati in Idaho, fondendo la tecnica dell’autoritratto alla fotografia di paesaggio si rappresentava come una presenza aliena, dalla figura longilinea e decentrata – l’ombra di un treppiedi in primo piano, solo dieci secondi per posare prima che si chiudesse automaticamente l’otturatore – esponendo il suo corpo nudo e infinitamente piccolo alla luce lattea dei “crateri della luna”; in un altro, sdraiata su un fianco, raccolta in posizione fetale e ripresa da dietro, la sua persona assumeva i contorni di un sasso argentato, levigato da un ambiente vulcanico.

C’è qualcosa di ultraterreno in noi, nella terra su cui poggiamo i piedi, qualcosa di precedente a quello che siamo. Forgotten Streams, realizzata da Iglesias nel 2017 davanti alla sede centrale europea di Bloomberg, tra i colossi del mercato globale dei dati, funziona come una voragine emotiva: è ai piedi di uno dei suoi edifici simbolo che la città finanziaria, affollata di traiettorie apparentemente inarrestabili, restituisce al presente la sua dipendenza da un’era geologica remota anni luce. Bronzo, acqua, pietra, acciaio, permettono al corso di uno degli affluenti scomparsi del Tamigi, il Walbrook, di riaffiorare simbolicamente assottigliando il confine tra organico e inorganico, e intercettano un’istanza allo stesso tempo extraterrestre e sommersa, capace di tenere insieme l’immensità del cosmo con gli sprofondi del sottosuolo

Le radici s’intrecciano nella grande vasca di cemento scomposta in tre parti, affondano nell’acqua e riemergono qualche passo più in là alla maniera di un’impuntura indomita. Per un istante l’impressione è di trovarsi di fronte alla corrispondenza aumentata delle fotografie in bianco e nero scattate dall’artista slovacca Maria Bartuszová negli anni ’80, durante le sue passeggiate invernali sugli argini ghiacciati del fiume Hornád, a Košice, sulle tracce sentimentali di un altro fiume che le era stato caro da bambina, il Vltava che scorreva a Praga – “Winter Nature Studies” il titolo della serie che ritraeva il corso d’acqua costellato dagli ammassi lattiginosi di neve che avrebbero ispirato negli anni a seguire le sue sculture di gesso e di pietra.

È come se il mondo avesse una crosta e si potesse sbucciare, come se sotto la superficie intatta delle cose scorresse un flusso inarrestabile di senso, la linfa invisibile di un rimosso abissale. Iglesias le chiama “sculture liquide”, ne ha realizzate diverse in parti del globo tra loro distanti nel corso della sua carriera – a Madison Square Park a New York (Landscape and Memory, 2022); sull’isola di Santa Clara, in Spagna (Hondalea. Marine Abyss, 2021); davanti al Museum of Fine Arts di Huston, in Texas (Inner Landscape. The Lithosphere, the Roots, the Water, 2020); nel giardino della Fundació Per Amor a l’Art, a Valencia (A través, 2018); e prima di Londra a Toledo, Anversa, Santander, passando per Messico, Norvegia e Brasile. 

“Ho iniziato a interessarmi all’utilizzo dell’acqua nei miei lavori come elemento di movimento e trasformazione all’interno di una cultura, e quindi anche di una città: è osservando l’acqua che possiamo comprendere che niente, se guardiamo attentamente, resta uguale a se stesso” spiegava in un’intervista del 2021 alla Whitechapel Gallery di Londra. “Penso che l’acqua in qualche modo renda tutto questo evidente, velando e svelando continuamente le cose mentre si muove. Nelle sequenze a cui lavoro alcune volte l’acqua scorre velocemente e poi va più lentamente, per me è soprattutto un elemento che ci parla del tempo, del trasferimento di una conoscenza” proseguiva. “Nelle mie sculture, attraverso l’acqua creo l’illusione di una profondità, perché è di questo che voglio parlare: di un sottosuolo, del fatto che una città possa avere una sua propria interiorità”.

L’esperienza generata è preverbale, ricontatta in qualche modo il sentimento che così bene Ana Mendieta esprimeva nel documentario Fuego De Tierra diretto nel 1987 dalla regista americana Kate Horsfield. “La mia arte” sosteneva l’artista nata a Cuba nel 1948 ed esiliata negli Stati Uniti insieme a sua sorella quando era ancora una ragazzina “è fondata sulla convinzione che esiste un’energia universale che attraversa ogni cosa: dall’insetto all’uomo, dall’uomo allo spettro, dallo spettro alla pianta, dalla pianta alla galassia”. “Le mie opere” recitava come una preghiera “sono le vene di irrigazione di questo fluido universale. Attraverso di esse risalgono la linfa ancestrale, le credenze originarie, gli accumuli primordiali, i pensieri inconsci che animano il mondo. Non c’è passato originario da riscattare, c’è il vuoto, l’orfano, la terra non battezzata dell’inizio, il tempo che dall’interno della terra ci guarda. C’è prima di tutto la ricerca dell’origine”.

Le sculture di Iglesias sono intrise di una affine insanabile nostalgia, genealogicamente connessa a quella emanata dalle opere terra-corpo di Mendieta, si incasellano le une con le altre in un collage di Silueta in negativo, dove il corpo dell’artista scompare, viene affidato al paesaggio circostante, esteso al passo di chi attraversa lo spazio e si ferma a guardare, all’improvviso assorbito da un richiamo ipnotico che ne pretende l’attenzione.

Se nella “Earth-body art” di Mendieta il corpo dell’autrice si fondeva con la terra, diventava l’opera attraverso il sangue, l’evocazione della sepoltura, la combustione, qui resta lo sprofondo, l’assenza, l’inclinazione generativa della materia che di continuo si riproduce spaventosa e salvifica. L’esilio dalla terra è la città, un inghiottitoio immateriale dove l’impermanenza si fa strada lungo cavi di silicio. Se nella ricerca di Mendieta il corpo o il suo calco tornavano alla terra, si lasciavano inghiottire – da un ruscello, da un deserto messicano, da un campo di margherite – nell’atto finale di un incondizionato abbandono; nelle sculture di Iglesias è il regno di sotto a tornare a galla, riprendersi il mondo, diventare un silenzio che interrompe il rumore del traffico per raccontare il passato al futuro. È un canto incrinato che ha la dolcezza di un sonnifero, l’andatura di un inconscio collettivo, qualcosa che sarebbe capace di parlarci in sogno.

Jocelyn Mc Gregor, artista nata in Lincolnshire nel 1989, usa la tecnica della stop-motion per integrare il suo corpo con le sculture che produce inscenando in modo vivido ed efficace la fine della realtà come un ritorno alla natura dal tono alterato. “Non sei in nessun posto normale che conosci” recita la sua voce in un monologo diffuso online. “Nessuna area di straordinaria bellezza naturale. Nessun sito del patrimonio mondiale dell’Unesco. Scatta solo foto, lascia solo impronte”. In un video di pochi secondi realizzato montando tra loro una serie di scatti fotografici e pubblicato su Instagram, mostra in primo piano la bocca semiaperta da cui fuoriesce la coda di un lombrico. Quello che le spunta tra i denti è in realtà un manufatto che lei stessa ha prodotto, trasformarne le immagini delle diverse posizioni nello spazio in un video e creare l’illusione del movimento equivale a giocare col confine tra animato e inanimato, digitale e analogico.

“Una piccola luce rossa si accese, illuminando una nascita giurassica di uova perfettamente circolari” scrive in una pagina di diario pubblicata online e datata 2018, Isola di Yakoshima, in Giappone. Potrebbe essere la traccia di una science fiction dove gli insetti governano il mondo e partorire la terra è una funzione alla portata di tutte le creature. Le sue opere ne riproducono le atmosfere illuminate e desertiche. Il suo universo si dissecca in un terrario di vermi, paesaggi partoriti da ragazze distese supine sui gomiti, le gambe divaricate con naturalezza come durante un esercizio di ginnastica. Qui, capelli e crini di cavallo crescono direttamente dalle piegature delle braccia, ci sono piedi che riposano affiancati dentro un nido di paglia, arti che fuoriescono da gusci di lumaca, vermi giganti ricoperti di unghie che si appollaiano comodi su poltrone impagliate. Impossibile non pensare alle body extension realizzate da Rebecca Horn negli anni ’70 per le sue performance, o alle parole di Clarice Lispector ne La passione secondo GH – anch’esse dopotutto un’estensione oltreumana di qualcosa di finito.

“Il tesoro era un pezzo di metallo, era un pezzo di calce di parete, era un pezzo di materia sotto forma di blatta” faceva dire in quelle pagine alla sua protagonista dopo averle messo in bocca il corpo dell’insetto. “Dalla preistoria io avevo cominciato la mia marcia attraverso il deserto […] e avevo infine trovato lo scrigno. E dentro lo scrigno, sfavillante di gloria, il segreto nascosto. Il segreto più remoto del mondo, opaco, ma che mi accecava irradiando la sua esistenza semplice che lì sfavillava in gloria fino a farmi dolere gli occhi. Dentro lo scrigno il segreto: un pezzo di cosa”.

Mc Gregor architetta attraverso le sue opere un horror rassicurante, che fa del ritorno alla natura una spedizione verso l’ignoto. “In silenzio arrancavamo nell’oscurità” continua il diario giapponese “lei non era che un’ombra e il rumore degli stivali nella sabbia accanto a me. Avevamo perso il gruppo, che era stato frettolosamente scortato lungo la spiaggia davanti a noi…”. A metà strada tra le estensioni inumane di Horn e il labirinto di gusci di Maria Bartuszová, Mc Gregor si muove forse prima di tutto in un paesaggio fondato sull’incontro tra specie.

La sua scultura tattile Earthing, attualmente in Aldgate Square, a Londra, espone al passaggio pubblico il racconto intimo di una fecondazione, dove il corpo dell’artista riprodotto in un calco presta la sua forma segmentata a una simbiosi: un braccio e un paio di gambe fuoriescono da enormi gusci di lumaca; altre due gambe emergono da un ammasso di pietre rivestite dalla muta di un serpente, dorate come quelle di un mimo, incrociate su se stesse come quelle di un fachiro. A differenza di quanto avveniva nei lavori di Horn, dove piume, matite, unicorni e ventagli si applicavano vistosamente alle estremità dei corpi non più o non ancora umani, nelle opere di Mc Gregor il legame si fa intangibile a testimoniare l’esistenza di una nuova parentela. 

Diversamente dagli involucri bianchi e sottili che nelle sue sculture Bartuszová articolava intorno al vuoto e spesso in sospensione come a scandagliare l’origine stessa di una forma nella sua irriproducibile fragilità, Mc Gregor colleziona conchiglie spesse dai colori non perfettamente naturali, membrane che contengono sempre un tutto pieno, si accordano alle tinte sature delle storie di folklore, ognuna con la propria ambizione di lasciarsi scivolare fuori l’imprevedibile risposta che stavamo aspettando, qualcosa che comincia nel momento stesso in cui ritorna.

Joanna Zylinska, che insegna Filosofia dei Media presso il dipartimento di Digital Humanities del King’s College di Londra e molto ha scritto negli ultimi anni su arte, realtà virtuali ed estinzioni di massa, la chiamerebbe “la fine dell’uomo”. Nel video Exit Man, realizzato per accompagnare uno dei suoi saggi più recenti, un pamphlet articolato intorno a una contro-apocalisse femminista (La fine dell’uomo, Rogas, 2021, uscito nel Regno Unito nel 2018), mette in scena un “museo locale dell’Antropocene” ad auspicio di un futuro diverso da quello che siamo abituati a prefigurarci. Un esercizio di pensiero che funziona come un esorcismo culturale, dove slogan scritti a mano nelle strade del pianeta – Sorry! The lifestyle you ordered is currently out of stock; Businesses open as usual; Last day; New idol is coming; We have closed early today for optimisation purposes; It won’t make the difference – si alternano a scheletri animali e umani, prospettive interstellari e inquadrature spaziali, tra sculture, rampicanti, manufatti e pitture rupestri, gigantografie trumpiane e scarpe migranti, pesci morti sulle rive e diverse architetture industriali; testimoniando così bene la prospettiva parziale della storia che ci stiamo raccontando.

Nel suo saggio, passando per le teorie di Donna Haraway, Karen Barad, Rosi Braidotti, Anna Lowenhaupt Tsing, Zylinska si serve di una sottile ironia femminista per mettere in crisi la definizione stessa di “antropocene” e smontare la narrazione della fine del mondo come esito scontato della storia. Le smanie di colonizzazione maschilista dello spazio e di elevazione dell’umano a condizione divina attraverso l’intelligenza artificiale vengono in poche pagine smascherate e descritte come facce dello stesso marchingegno: la paura del maschio bianco benestante di essere spodestato di ogni privilegio da cui deriva l’illusione cognitiva che confonde la fine del patriarcato con la fine della specie. Nel discorso di Zylinska le smanie di salvezza che hanno la forma di un’exit strategy – dall’estinzione di massa come prospettiva liberatoria ai traslochi su Marte dell’umanità che se lo può permettere o se lo “merita” – lasciano spazio alla precarietà come condizione dell’esistenza, ai legami come pratica fondante di qualsiasi etica necessaria alla sopravvivenza sul e del pianeta.

In questa cornice, che va oltre la visione tragica e conservatrice dell’antropocene, dove la fine dell’uomo coinciderebbe con la fine del mondo, si inserisce sicuramente il lavoro della designer e artista turco-americana Pinar Yoldas, che dal concetto di “eccesso” è partita per articolare una “nuova tassonomia del vivente”. Nel suo lavoro più noto, Ecosystem of Excess – esposto all’interno della rassegna Eco-visionaries alla Royal Academy of Arts di Londra fino a febbraio 2020, proprio qualche giorno prima dell’inizio della pandemia – Yoldas mette insieme una serie di eccentriche creature colorate simili a microorganismi ingranditi, contenuti in degli acquari cilindrici che molto ricordano le lava lamp degli anni ‘70, e inventa così un ecosistema “post-umano” di “organismi speculativi” immersi in un ambiente immaginario. Sito di interesse e luogo di nascita di queste “specie in eccesso”, spiega Yoldas nei suoi interventi pubblici a commento dell’installazione che ha portato in questi anni in giro per il mondo, è il great pacific garbage patch, vortice di immondizia delle dimensioni dell’Europa centrale, composto da diversi milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, situato nel Pacifico settentrionale.

L’elemento acquatico torna preponderante nel lavoro di quest’artista, che riprende la teoria della “zuppa primordiale” – secondo cui la vita sulla terra iniziò quattro miliardi di anni fa negli oceani, quando la materia inorganica si trasformò in molecole organiche – e la combina alle ricerche più recenti sui microorganismi in grado di metabolizzare le plastiche, arrivando a inventare un interregno di insetti pelagici, rettili marini, pesci e uccelli dotati di organi adatti a digerire gli scarti prodotti dalla nostra specie. Il suo è un nuovo ordine post-linneano del regno vivente dove gli oceani da gigantesca zuppa di plastica divengono il sito di scambio tra materia organica e sintetica, arte e scienza.

Pinar Yoldas inventa forme di vita complesse, che possono prosperare in ambienti estremi, paesaggi tossici generati dal consumismo umano, trasformare il surplus prodotto dal desiderio capitalistico in “uova, vibrazioni, gioia”. Nei suoi lavori supera così la prospettiva dominante, offrendo una visione decentrata della vita senza l’uomo, e ripensando la biologia a partire dalla presa di coscienza che gli umani non sono indispensabili al pianeta. Immaginare la terra senza di “noi” diventa un prerequisito fondamentale per lo stesso stare al mondo, significa ridimensionare l’importanza che affidiamo alla specie, accordarsi ai processi evolutivi del sistema solare, allargare il campo alle altre galassie. Fine dell’uomo non significa fine del mondo.

Se c’è qualcosa di indispensabile alla terra, invece, questi sono proprio gli oceani. Quando nel 2005 le gemelle Christine e Margaret Wertheim hanno dato vita ai primi nodi del Crochet Coral Reef, che negli anni successivi sarebbe diventato il progetto artistico collettivo più esteso al mondo, lo avevano bene in mente. Al centro della gigantesca barriera corallina realizzata all’uncinetto che avrebbe coinvolto migliaia di donne in ventisette paesi del mondo attraversando tre continenti e nel 2019 sarebbe stata esposta alla Biennale di Venezia, c’era proprio l’intento di fermare l’erosione degli ecosistemi marini dovuta all’acidificazione delle acque, una delle conseguenze dell’innalzamento eccessivo e veloce che le temperature globali hanno subito negli ultimi anni. È solo la spinta iniziale di una storia che affonda le radici tra arte e matematica. In Staying with the Trouble (Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, 2019), la biologa, filosofa della scienza e teorica femminista Donna Haraway la racconta rintracciando nel progetto delle due sorelle le caratteristiche essenziali della fantascienza femminista.

Tutto inizia dopo la lettura di un articolo sullo sbiancamento dei coralli e dall’interesse per gli studi della matematica lettone Daina Taimina, docente alla Cornell University, che nel ‘97 aveva messo a punto un modello fisico della geometria iperbolica utilizzando il metodo dell’uncinetto. È così che a Christine Wertheim, artigiana e poetessa, e alla sua gemella Margaret, matematica e artista, viene in mente di realizzare una barriera corallina filata a mano. Nate a Brisbane nel Queensland, in Australia, vicino alla grande barriera corallina, le due sorelle hanno cominciato a tessere la scultura lanosa quando si trovavano a Los Angeles per lasciare in seguito il filo alle altre che ci avrebbero lavorato nelle più disparate aree del pianeta utilizzando vari materiali – lana e cotone, ma anche buste di plastica, resti di nastro adesivo, fili di vinile, pellicole alimentari.

“La barriera corallina all’uncinetto attiva dei nodi simpoietici tra matematica, biologia marina, attivismo ambientale, consapevolezza ecologica, tecniche artigianali femminili, arti tessili, forme di allestimento museale e pratiche artistiche comunitarie” scrive Haraway. “Infettandosi a vicenda e infettando chiunque venga in contatto con le loro creature fibrose, migliaia di artigiane creano all’uncinetto degli attaccamenti psicologici, materiali e sociali con le barriere coralline negli oceani, ma non praticando la biologia marina o immergendosi tra i coralli o stabilendo altre forme di contatto diretto”. Una “intimità senza prossimità” capace di stabilire “una presenza senza disturbare le creature che animano il progetto”.

Questi fili sembrano trovare il senso perfetto nel lavoro della visual artist italiana Rachele Maistrello, che a partire dal 2018, dopo un viaggio a Pechino, ha lavorato a un progetto artistico a metà tra esposizione fotografica, ricerca storica e fantascienza. Il lavoro di Maistrello è articolato in due atti consecutivi nel tempo ma considerati come opere autonome, Green Diamond e Blue Diamond, entrambe esposte al Museo Maxxi di Roma rispettivamente nel 2021 e nel 2022, la seconda anche alla Galleria Eugenia Delfini nel 2023.

Al centro delle due opere c’è una storia d’amore ambientata in una fabbrica di tecnologia hi-tech “altamente sofisticata”, la Green Diamond, presumibilmente esistita nella Pechino degli anni ‘90 per sviluppare raffinati microchip in polvere di diamante, capaci di provocare nel corpo umano sensazioni e sentimenti legati alla natura. Nello specifico, questa tecnologia prevedeva che sensori impiantati in precise parti del corpo umano, lenti a contatto virtuali e onde ultrasoniche, potessero essere attivati attraverso una serie di gesti, innescando nell’utente sensazioni come il calore del sole sulla schiena, il vento in faccia, il profumo di un fiore, o l’impressione di essere circondati dal verde scuro di una foresta, per dirne alcune.

“Ho passato moltissimo tempo con gli operai a collezionare pensieri sulla natura” racconta l’autrice a proposito della genesi della sua ricerca, iniziata a Pechino dentro l’azienda Bernard Control nel 2018, “una natura possibile, futura e passata: parlavamo dei luoghi di pace della loro infanzia tanto quanto di oasi immaginate durante il lavoro in catena di montaggio”.

I presupposti sono simili a quelli che hanno portato due artiste e ricercatrici nordeuropee, Alexandra Daisy Ginsberg e Sissel Tolaas, a servirsi dell’ingegneria genetica per “resuscitare” l’odore dei fiori estinti “in modo che gli umani potessero sperimentare di nuovo qualcosa che abbiamo distrutto”, come accade in Resurrecting the sublime, opera al confine tra arte, biotecnologie, e scienze olfattive, che dal 2019 hanno portato in giro all’interno di spazi come il Centro Pompidou di Parigi o la Wellcome Collection di Londra. In modo affine ai sensori della Green Diamond immaginata da Maistrello, l’odore dei fiori inventati da Ginsberg e Tolaas sulla base di ricerche reali condotte su specie estinte (l’Hibiscadelphus wilderianus delle Hawaii, o il Leucadendron grandiflorum del Sud Africa, tra quelle considerate), è portatore dell’idea di un paesaggio perduto, sublime, non più conoscibile, raggiungibile solo attraverso la fiction.

Protagonisti della storia raccontata da Maistrello: Li JianPing, operaio addetto alla pulizia dei sensori della Green Diamond tra il 1994 e il 1999, e Gao Yue giovane promessa della scuola di arte acrobatica di Pechino a cui a un certo punto viene affidato il compito di testarli e lavorare sui nuovi gesti per attivarli. In Green Diamond l’artista ricostruisce la storia della fabbrica attraverso lo scambio epistolare tra Li JianPing e Gao Yue, e una serie di foto, video e documenti, senza tuttavia riuscire ad attestarne l’esistenza. Tutto il lavoro ruota “intorno alla costruzione di un sito che funziona come un archivio, ma anche come il moodboard per un film – mescolando documenti, video, trascrizioni di mail e informazioni tecniche” come spiega l’artista, definendo il sito web del progetto “una sorta di piccolo labirinto, in cui immergersi in una realtà fantascientifica che invece di rivolgersi al futuro si rivolge al passato”.

Blue Diamond segue invece le evoluzioni della fabbrica dopo il 1999 e i suoi nuovi esperimenti in mare aperto nel campo della neurologia dei cetacei, e ricompone la vicenda di Gao Yue che qui ritorna in qualità di apneista, chiamata a interagire direttamente con i delfini per conto della società. L’opera comprende pagine di diario, documenti, fotografie e annotazioni attribuiti a Gao Yue e datati tra il 1999 e il 2001, e ne documenta il complicato tentativo di comunicare con il regno subaqueo. È da questi materiali che veniamo a sapere del rapporto di Yue con un delfino, e della comunicazione tra umani e specie acquatiche resa possibile dalla traduzione delle loro frequenze sonore. Qualcosa di simile a quello che Maistrello realizza parallelamente, in collaborazione con lo Jonian dolphin conservation nel Golfo di Taranto, traducendo il linguaggio ad ultrasuoni dei delfini in frequenze, e associando queste ultime al movimento di diversi materiali (sabbia, farina, pigmenti colorati), fino a ottenere dei pattern fotografici attraverso il procedimento analogico della camera oscura, e affidando così una forma visiva a “suoni che noi umani non possiamo vedere, rendere visibile l’invisibile”, come spiega lei stessa in un video dell’Italian Trade Agency.

Da una parte c’è “il mondo marino fatto di specie di cetacei ma anche di abissi e di altri tempi e altri ritmi” ha raccontato a proposito di Blue Diamond in occasione dell’esposizione al Maxxi, e dall’altra “il mondo umano della logica della ragione ma anche del cercare oltre i propri limiti”. E allora è soprattutto il senso di un’assenza che la sua protagonista Gao Yue ricerca “un’assenza che non è mancanza ma possibilità di comunione tra mondi diversi e allo stesso tempo legati, un’assenza che è un vuoto che è molto vicino a una sensazione antica come quella del grembo materno, dove è tutto in possibilità in divenire e si è ancora totalmente natura”.

In questo ritrovato, artificiale, liquido amniotico, materia e visione producono un innesto che si schiude, restituisce alla pratica artistica il suo potere generativo, capace di trasformare il modo in cui guardiamo la realtà, pensiamo le cose, percepiamo il tempo. Solo tenendo insieme anatomia e immaginario potremo ridefinirci in un legame che passa per la soggettività del mondo, sembrano ripeterci i lavori di queste artiste.

Anticipare un ritorno alla terra ancora del tutto irreale significa allora pronunciare parole nuove, considerare la scrittura come un corpo, ogni corpo una forma d’arte. Il concetto stesso ne risulta trasfigurato, disperso in uno spazio fluido, nella promessa infinita di senso che si realizza solo attraverso storie dagli echi primordiali, eppure appena o quasi nate, ancora tutte da raccontare.


(Il Tascabile, 12 dicembre 2023)


*Claudia Bruno scrittrice e giornalista, si è laureata a Roma in Teorie della Comunicazione. È redattrice editoriale di inGenere, scrive di libri sul Manifesto e lavora come consulente editoriale. Suoi articoli e racconti sono stati pubblicati da Minima&Moralia, Not, Colla, Cadillac, Inutile, Abbiamo le prove e altre riviste. Ha scritto Sola andata (NNE, 2022) e Fuori non c’è nessuno (effequ, 2016).

di Jacopo Agostini


L’arte in fuga. Dopo l’invasione dell’Ucraina, parecchie migliaia di russi hanno lasciato il paese, tra questi numerosi intellettuali e artisti in cerca di un futuro sicuro.

Chi era già in possesso di un visto europeo è fuggito in Finlandia o altrove in Europa. Gli altri si sono diretti verso paesi come la Turchia, il Dubai, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Kazakistan, il Tagikistan, la Serbia, la Bulgaria, l’America Latina e la Thailandia. C’è anche chi ha trovato rifugio in Georgia e Armenia (due paesi che non richiedono il visto per i russi), nei Balcani e in Lettonia, dove le comunità russe sono particolarmente attive.

Chi è fuggito si pone molte domande sul futuro. Ne parliamo con alcuni artisti, alcuni dei quali per motivi di sicurezza mantengono l’anonimato. Valeria Lemeshevskaya, che si sta ricostruendo una vita nella capitale del Kirghizistan, è stata pittrice, ora è regista sperimentale, organizza cineclub, proiezioni di film e conferenze sul cinema a Biškek. Ha lasciato la Bielorussia – suo paese di origine – poco dopo l’inizio della rivoluzione delle ciabatte del 2020 per andare a studiare alla Saint Petersburg School of New Cinema. Gli eventi recenti l’hanno segnata nel profondo. «Ero a casa e mi nascondevo sotto il tavolo quando la porta è stata sfondata dalla polizia antisommossa, durante le manifestazioni di protesta scappavo dalle granate stordenti lanciate indiscriminatamente sulla folla e ho visto i miei amici uscire traumatizzati dalle carceri. Non appena è iniziata la guerra in Ucraina ho preso la decisione di andarmene. Sapevo che se fossi stata tagliata fuori dal mondo sarei precipitata in una profonda depressione» racconta.

L’esodo per molti giovani è stato anche un’emigrazione morale: ha rappresentato un atto di coraggio, di resistenza culturale e di dissenso nei confronti delle attuali politiche del governo. Davanti a questi pericoli ognuno ha dovuto scontrarsi con le proprie paure.

Lo ha postulato Kirill, fotografo e regista che si occupa di cinema sperimentale e documentaristico, secondo cui «L’azione libera dalla paura». Dopo che nel novembre 2021 il cosiddetto Archivio Saveliev è arrivato sul web mostrando filmati di torture e stupri di prigionieri nelle colonie russe, il terrore di trovarsi in un ambiente chiuso e sotto tortura lo ha travolto completamente. Per superare questa paura ha realizzato un breve lavoro sull’argomento. «L’atto e l’azione di una persona spinta dal bisogno di “creare” può davvero essere un’opportunità per cambiare sé stessi (solo se stessi, non gli altri, altrimenti cesserebbe di essere pura). Ciò che serve in questo caso è coraggio e precisione» racconta Kirill.

La paura di cui invece ci parla Vladimir (nome d’invenzione), attore e regista di teatro classico, riguarda la realtà della guerra e le conseguenze che ha avuto nel popolo russo.

Vladimir aveva paura di uscire a protestare e di essere in prima linea assieme ai compagni non addestrati, impreparati e spesso ignari del pericolo che li spetta. L’attore parla di concorsi di disegni per bambini con orpelli e fotografie militariste, di educatori che mettono i bambini in ginocchio a forma di lettera Z (simbolo militarista usato nella propaganda russa e dai civili russi come segno di sostegno all’invasione) e che scattano foto a sostegno di Putin e della guerra per poi pubblicarle online. Tutto questo mentre le tombe nei cimiteri stanno aumentando. Vladimir si è trasferito a Biškek dopo che la direzione del teatro per cui lavorava è stata licenziata per essersi opposta all’invasione in Ucraina. Lavora come insegnante di recitazione, attore e regista in un teatro classico da 700 posti, in un teatro più piccolo con una black box da circa 40 posti e collabora con artisti locali per creare performance, happening e masterclass, oltreché letture di drammi contemporanei contro la guerra.

Come fa notare ulia (anche questo è un nome fittizio), il filone principale della cultura russa è la sofferenza. Lo si può rintracciare da Dostoevskij all’arte moderna. Yulia è una DoP e una regista di film e di videoarte. Al momento si sta concentrando sui lungometraggi, in particolare sui film drammatici d’autore. Il suo stile risente delle influenze di Marina Abramović, Yoko Ono e Rebecca Horn, nelle sue opere lavora molto con il linguaggio del corpo.

«Per me fare arte in Russia significa dover attraversare il dolore. Non solo il dolore personale, ma anche quello del proprio popolo. Si tratta di cercare il punto più dolente e di esaltarlo. Quando si vive in Russia e si riflette sulla vita di un artista, si può capire il modo molto specifico in cui i russi si sentono, pensano e affrontano le ferite dell’anima» ci racconta.

Molti russi non vogliono «permettere che una guerra venga condotta in loro nome», per questo abbandonano il paese, incrementando così la fuga di cervelli e la perdita di capitale umano che da diversi anni contraddistingue la Russia. «Non appena ho lasciato il territorio russo ho trovato la forza di fare volontariato. Ho insegnato in una scuola di animazione online per bambini provenienti dalla Bielorussia, Russia e Ucraina che si trovavano senza un’istruzione. Mi ha aiutato ad affrontare l’orrore di ciò che stava accadendo, ho smesso di sentirmi impotente e lasciando la Russia mi sono liberata della mia paura» racconta Valeria.

Nonostante l’esodo verso l’estero, gli emigrati russi mantengono un forte legame con la madrepatria. Il sogno di Yulia è tornare nella Russia libera. È convinta che dopo la caduta del regime totalitario, l’arte e la cultura di chi è sopravvissuto alla guerra costituirà terreno fertile per la futura generazione. «Spero un giorno di poter costruire un nuovo paese, come è avvenuto nel ’900 dopo il crollo dell’Unione Sovietica» ci spiega l’artista.

Ma com’è la vita nei nuovi paesi? Esistono anche qui la censura e la violazione della libertà di parola. «Pure in Kirghizistan sussiste lo stesso problema con le autorità e la polizia. Recentemente alcuni attivisti russi sono stati arrestati per un’azione a sostegno dell’Ucraina – ammette Kirill – Tuttavia il totalitarismo provoca resistenza, energia e confronto. Per noi è importante alimentare questo senso di resistenza». Essere un artista in questi paesi solitamente significa vivere dentro un dilemma morale e trovare dei compromessi: mantenere la distanza dalle controversie politiche e non criticare apertamente il governo mentre si esprimono le proprie idee.

Yulia, emigrata in Georgia, ha trovato un paese tradizionale e conservatore dove la Chiesa ortodossa ha una grande influenza. E come nel suo paese d’origine anche qui esistono problemi di omofobia e corruzione. Nonostante queste somiglianze, «gli artisti possono esporre le loro opere in pubblico in qualsiasi modo, possono proiettare i loro film nei cinema ed esporre le loro opere in qualsiasi galleria senza temere la persecuzione politica» ci spiega l’artista.

«Fare arte in Russia, Bielorussia e Kirghizistan significa non avere alcun sostegno da parte dello Stato, doversi confrontare costantemente con la svalutazione di ciò che si sta facendo e avere paura di parlare apertamente di argomenti che ci stanno a cuore» racconta Valeria. Chi fa trasparire le proprie idee, i propri sentimenti e l’orrore della guerra nelle proprie opere è oscurato e preso di mira dall’apparato di controllo sociale. «Sono a Biškek da quasi un anno e vedo molti problemi simili con la Russia e la Bielorussia, tra cui la censura, la libertà di parola, l’ecologia, la corruzione, etc. Ma il fatto di trovarmi nel territorio di un Paese che non è un aggressore in un conflitto militare mi rassicura» sottolinea la regista. L’arte fuori dalla guerra e contro la guerra.


(Alias – Il manifesto, 18 novembre 2023)