di Paolo Tamassia


La singolare concezione dell’attività letteraria di Annie Ernaux è esplicitata fin dal titolo del breve e intenso La scrittura come un coltello (L’orma, pp. 168, € 18,00), raccolta di una serie di interviste realizzate via mail, e concesse da Ernaux a Frédéric-Yves Jeannet – scrittore messicano di origine francese – tra il 2002 e il 2003, nelle quali l’autrice si sofferma con analisi dettagliate e appassionanti sulle motivazioni che stanno dietro la sua opera: i due interlocutori si riconoscono molto distanti l’uno dall’altra, con punti di vista lontani, quasi opposti, che paradossalmente – riconosce Ernaux – hanno permesso una grande libertà di espressione in obbedienza a un «duplice mandato di sincerità e precisione».

L’approdo a se stessa

Con grande lucidità e chiarezza, l’autrice ripercorre le tappe della sua vita e della sua scrittura, legate tra loro indissolubilmente. La conquista della propria voce, dichiara la scrittrice francese, si compie nel 1983 con Il posto: «In quel libro ho inaugurato una postura di scrittura, che mantengo tuttora: un’esplorazione della realtà esterna o interna, dell’intimo e del sociale in un unico movimento che si colloca al di fuori della finzione».

La sua presa di coscienza politica, a partire dalla posizione di “transfuga” che approda a una classe sociale più agiata di quella d’origine, fa maturare via via in lei il desiderio di voler realizzare con la letteratura «non più qualcosa di bello, ma innanzitutto qualcosa di reale». Da qui, la sua «scrittura piatta» che in una rastremata economia verbale intende restituire una realtà personale e collettiva, «perché in fondo di universale non esiste nulla». È in questo senso che la sua scrittura si fa «coltello», vera e propria arma e «atto politico», in grado di operare uno «svelamento e un cambiamento del mondo». Scrivere è nella concezione di Ernaux l’intrapresa di un’esplorazione rischiosa, che deve muoversi sempre “tra”: tra la letteratura, e la sociologia, tra la sociologia e la storia, allo scopo di giungere a quella che la scrittrice chiama «transustanziazione», ossia una «trasformazione di ciò che avviene al vissuto, a “me”, in qualcosa che esiste completamente al di fuori della mia persona». Questo passaggio si può compiere proprio grazie a quella lama affilata, la scrittura, che, abbandonata la funzione di specchio dell’Io, si fa ricerca di una verità al di fuori di sé.

Tutt’altro che narcisistica, la prosa di Annie Ernaux si investe della missione di salvare dall’oblio persone e cose. Eppure questo salvataggio della memoria non è mai scindibile dalla funzione della letteratura come scoperta: «Se dovessi dare una definizione di ciò che è la scrittura, sarebbe questa: scoprire scrivendo quel che è impossibile scoprire in altro modo, attraverso le conversazioni, i viaggi, gli spettacoli eccetera. O anche solo attraverso la riflessione pura e semplice. Scoprire qualcosa che non esiste prima della scrittura. E questa è la gioia – e la paura – della scrittura: non sapere cosa farà ergere, cosa farà accadere».

La lunga intervista è seguita da un «Aggiornamento» scritto da Ernaux dieci anni dopo, in un contesto generale profondamente mutato, e vale come dimostrazione di quanto siano rimasti fedeli a se stessi i principi estetici della scrittrice normanna nel corso del tempo, pur nella varietà dei territori narrativi esplorati.

Impietosa precisione

In chiusura, una nota del traduttore e editore, Lorenzo Flabbi, ripercorre la storia dell’incontro con l’opera di Annie Ernaux e l’approdo all’Orma fin dall’anno della sua fondazione. Le sue note alla traduzione del primo testo pubblicato, Il posto, sono preziose proprio perché illustrano le difficoltà nel rendere la precisione della “scrittura piatta” di Annie Ernaux e ne fanno comprendere la particolarissima fisionomia: «L’esattezza… La sua impietosa precisione priva di fronzoli, uno stile inconfondibile e anche, proprio in virtù della sua ricercatissima semplicità, massimamente fraintendibile».


(il manifesto – Alias Domenica, 24 novembre 2024)

di Simonetta Fiori


Osservatele bene, queste donne. Sorridono quasi sempre, anche quando invocano la rabbia. Sfidano l’obiettivo guardando dritte in camera, a volte sembra che lo vogliano sbeffeggiare, caricate a mille da secoli di sottomissione. Sono diverse le une dalle altre, alte e slanciate, piccole e tarchiate, ricce e lisce, giovani e vecchie, borghesi e proletarie, non c’è una estetica comune se non l’esibita noncuranza con cui indossano gonnellone, ponchos e maglioni peruviani. Possono alzare la voce e picchiare sui tamburelli ma generalmente danno l’impressione di essere serene, anche orgogliose di sé stesse, capaci di suggerire ricette su qualsiasi cosa, «dalla poesia al pollo arrosto», come scrisse Lidia Menapace, «le mani affondate nell’impasto del mondo per farlo diverso e migliore». Guardatele bene queste ragazze degli anni Settanta perché tra un girotondo, un concerto, una manifestazione e centinaia di slogan hanno cambiato l’Italia, uniche rivoluzionarie in un Paese che non conosce rivoluzioni.

Bisogna sfogliare il bellissimo album “Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta” per capire perché le ragazze di quella stagione non invecchiano mai. Oggi potranno pure essere vegliarde e piene di acciacchi, ma lo sguardo resta irriverente, la postura mai arresa, e integra negli occhi la luce di chi sa captare a distanza la coda violenta di un patriarcato che non muore.

A raccontarcele attraverso le immagini è una di loro, Paola Agosti, fotografa del movimento femminista negli anni più tumultuosi, figlia del partigiano Giorgio e pioniera in un terreno ancora monopolizzato dai maschi. E ad accompagnare questi scatti d’autrice con esemplari didascalie narrative è una ragazza che potrebbe essere loro figlia, Benedetta Tobagi, nata nello stesso anno in cui Paola fermava in una celebre foto-manifesto un gruppo di donne molto divertite nel lanciare in alto le loro mani in forma di rombo davanti ai poliziotti in assetto di guerra (era il 1977). «Quale migliore risposta alla P38?», commenta laconica Tobagi, che ripropone in queste pagine una felice formula già sperimentata con successo nel libro sulle partigiane.

Al tema dell’uso legittimo della violenza cedette anche una parte delle femministe, ma la cifra che accomuna queste immagini è l’allegria di chi fa la cosa giusta, abbattendo muri di silenzio e di subalternità. Le donne prendono la parola e insieme scoprono l’autocoscienza, partendo da sé stesse, dalle storie personali, da storie di ingiustizia e anche umiliazione.

Una liberazione collettiva che è una corsa ad ostacoli, ovunque sono le resistenze maschili, a casa con il compagno di vita, in fabbrica tra operai e sindacati diffidenti verso un’imprevista e contagiosa “isteria”, anche tra i movimenti dell’estrema sinistra perché va bene fare la rivoluzione, ma questa storia del separatismo femminista si fa fatica a digerirla, che vi siete messe in testa, non vi basta fare gli angeli del ciclostile? E se poi non ci stai, allora sei frigida o repressa.

E non fu certo un caso che Lotta Continua – dove le donne venivano chiamate con il genitivo dell’appartenenza maschile, Maria di Gigino o Lorenza di Gigetto – fu sciolta grazie alla protesta delle compagne contro l’autoritarismo dell’organizzazione. E i ragazzi di Potere Operaio arrivarono a interrompere nel 1972 una seduta di femministe a Roma lanciando preservativi pieni d’acqua. Il Manifesto s’affrettò a stigmatizzare, ovviamente, ma con un’interessante postilla: «Non c’è niente di serio nel trattenersi in assemblee unisessuali».

Ci si accapiglia tra maschi e femmine, ma anche tra le donne è una discussione senza fine, di qua le emancipazioniste del Pci e dell’Udi – eguali diritti per tutti – di là le teoriche della differenza e del separatismo, che mettono più radicalmente in discussione il patriarcato, accusando le prime di connivenza con il nemico e venendo a loro volta accusate di mettere i bastoni tra le ruote della rivolta sociale.

Ma poi alla fine si trovò una intesa, anche tra le madri partigiane e le irrequiete figlie del Sessantotto, perché il femminismo di quella stagione fu proprio la scoperta di tutte le altre: soltanto unite, tenendosi per mano, in una solidarietà che andava oltre sé stesse, si potevano conquistare nuove frontiere, la legge sul divorzio, i consultori, poi la legalizzazione dell’aborto, i processi collettivi per stupro, per la prima volta a porte aperte. E non importa se difetti e incompiutezze segnavano i comuni traguardi perché comunque andava cambiando il corso della storia.

Una rivoluzione affettuosa, che passa attraverso gesti di sorellanza, sorrisi e sguardi incrociati, carezze tra chi per la prima volta condivideva «un’esperienza fondativa e totalizzante», anche la scoperta del corpo e della sessualità. Mossa da empatia, la macchina fotografica di Agosti riesce a cogliere la fisicità complice delle ragazze che indicava un nuovo modo di stare al mondo. Una complicità estesa anche ai bambini, portati nelle piazze con allegria, quasi a rivendicare l’orgoglio di una maternità felice contro l’immagine luttuosa proiettata sulle donne che si battevano per legalizzare l’aborto, assassine allora e infanticide ancora oggi nella propaganda dei cosiddetti comitati che si dichiarano “pro-vita”, come se tutte le altre fossero pro-morte e non per una gravidanza voluta e consapevole.

La domanda che attraversa questo straordinario viaggio per immagini è se realmente sia stata una rivoluzione, anche perché mezzo secolo dopo il panorama è tra i più sconfortanti, con il patriarcato che appare più agguerrito che mai – nonostante il ministro dell’Istruzione Valditara lo ritenga una bizzarra invenzione ideologica –, con le istanze antiabortiste che trovano sponda nei nuovi padroni politici e con le donne di nuovo in tribunale non in veste di vittima ma in quella di imputata se fanno i figli con una compagna. Ma la parola rivoluzione riferita al femminismo serve a rimarcare il valore assoluto dei diritti conquistati, come a dire che indietro non si deve tornare.

E ancora oggi le spavalde protagoniste degli anni Settanta ci dicono che non bisogna abbassare la guardia, che la solidarietà femminile deve andare oltre «uno sguardo maschile che continua a dividere tra belle e brutte, giovani e vecchie, accondiscendenti e riottose» (copyright Silvia Vegetti Finzi), che non esiste una liberazione personale se non ci si impegna in un cambiamento della società per renderla più giusta e aperta. Tra tutte – conclude Tobagi – è forse questa l’eredità più importante per le donne del XXI secolo. Anche la più impegnativa, in un mondo sempre meno umano.


Covando un mondo nuovo, di Paola Agosti e Benedetta Tobagi (Einaudi, pagg. 152, euro 35). 


(la Repubblica, 23 novembre 2024)

di Nuccia Nunzella


Il 14 dicembre 2024 sarà presentata in Libreria delle donne di Milano la graphic novel di Francesca Bellino e Lidia Aceto Matilde Serao. La voce di Napoli, edizioni BeccoGiallo (Ndr).


«Donna Matilde ha il giornalismo nel sangue» scrive Anna Banti nella sua biografia. «Passa la Signora» bisbigliano i napoletani quando, nei pressi del Mattino, appare la sua carrozza trainata da un cavallo bianco. Qualcuno allunga anche il collo per spiarne la figura goffa eppure carismatica, sempre vestita di scuro e con lunghe collane di perle, con la segreta speranza di essere notato da lei.

Lei, la Signora col giornalismo nel sangue è Matilde Serao (ne abbiamo già scritto qui), pioniera del genere in Italia e scrittrice da Nobel (mancato nel 1926 solo perché antifascista).

Al tempo della carrozza e del cavallo bianco è già una personalità nota e influente: tutti sanno, a Napoli, che La Signora ha occhi per vedere sia lo splendore della città, sia la sofferenza della sua gente, e che in più ha quel “supplemento d’anima” indispensabile, secondo Henri Bergson, per comunicare quello che ha visto e che ha capito.

Greca per nascita ma napoletana per temperamento, Matilde Serao è una donna appassionata, scaltra e intelligente tanto da inventarsi un destino eccezionale per una donna di fine Ottocento. È arrivata a Napoli subito dopo l’Unità, quando il padre, giornalista antiborbonico in esilio, ha potuto farvi ritorno e, ancora molto giovane, è stata costretta a contribuire al bilancio di casa con un lavoro da ausiliaria presso le Poste e Telegrafi della città.

È andata a scuola tardi, ma a quindici anni ha già un diploma da maestra di cui peraltro non si servirà mai, e legge, legge di tutto e voracemente, a cominciare dall’opera completa di Shakespeare e di Balzac, dal quale erediterà anche la fragorosa risata con cui taglia corto i giudizi e le lungaggini che non le garbano.

Oltre a leggere, Matilde scrive instancabilmente, con identica passione. «Io appartengo alla gente da tavolino» afferma in un’intervista e in una lettera alla figlia (rinvenuta da poco) arriverà a dire: «Sono grafomane e la carta, la penna e il calamaio sono le sole cose che mi avvincono, fra tutti gli oggetti di questa terra». Forse esagera, anzi esagera di certo, se si può chiamare esagerazione quella che è una vera, esigente vocazione a cui Matilde si concede senza risparmio, per tutta la vita.

Anche per l’influenza del padre, Matilde si misura fin da subito con il giornalismo, mondo in prevalenza maschile, dove può mettere a frutto la particolare combinazione di intelligenza e sensibilità femminile verso i temi della vita quotidiana, dal cibo alla moda allo sport, inquadrati nel contesto storico dell’epoca.

Con prorompente creatività, inventa supplementi letterari e la Piccola Posta dei lettori; scrive per la neonata pubblicità e per il cinema; fonda quotidiani locali e infine imprime per sempre il suo nome nella storia del giornalismo italiano con la fondazione del Mattino di Napoli e del Giorno.

Come stregata dalla sua stessa abilità, e dal bisogno incessante di esprimersi, Matilde si dedica contemporaneamente alla narrativa con racconti spesso incentrati su figure femminili che, oppresse da miseria e pregiudizi, lei guarda e valuta con una empatia di stampo quasi materno.

«Il femminismo non esiste», scrive, ma non dimentica di aggiungere: «Esistono solo delle questioni economiche e morali che si scioglieranno quando saranno migliorate le condizioni generali della donna e si sarà assicurato alla donna il diritto di vivere».

Due i romanzi che, tra gli altri, segneranno la vicenda esistenziale e la fama di Matilde Serao: il primo è Fantasia che, pubblicato nel 1883, narra la storia avventurosa e patetica di due amiche ed è molto apprezzato dal pubblico, non così dalla critica. «Ha uno stile tutto suo, aspro, rotto», scrive infatti Edoardo Scarfoglio, il giornalista sulla cresta dell’onda, bello e ammirato dalle donne che quando poi incontra l’autrice ne è tanto colpito da innamorarsene e sposarla. «Mi piace troppo, troppo, troppo», scrive a un amico, anticipando in qualche modo l’ammirazione che di lì a poco Matilde riscuoterà ovunque, dai salotti aristocratici ai circoli culturali più esclusivi, a Napoli e a Roma, come a Londra o a Parigi.

A dispetto della sua figura tutt’altro che aggraziata, Matilde è magnetica, vulcanica, fuori da ogni canone (anche stilistico), capace di imporsi per intelligenza e libertà di pensiero all’ammirazione di personalità di indiscusso valore intellettuale, come Henry James o Edith Warton che, in un memoir del 1934, scrive: «La viva immaginazione della narratrice (due o tre dei suoi romanzi sono magistrali) era alimentata da vaste letture e da una varia esperienza di classi e di tipi che le veniva dalla sua carriera giornalistica; e la cultura e l’esperienza si fondevano nello splendore della sua poderosa intelligenza».

Non sappiamo a quali romanzi si riferisca Edith Wharton, ma di certo non può mancare il secondo dei romanzi di cui si diceva, ossia Il ventre di Napoli, analisi minuziosa, commossa, scandalizzata, delle reali condizioni di Napoli dopo che il colera del 1884 aveva causato 6000 morti e la fuga di molti tra gli abitanti più abbienti.

E mentre da Roma il ministro tuonava «Bisogna sventrare Napoli» Matilde ne visita di persona i bassifondi più bui e miseri dove la povera gente si accalca e muore in condizioni disumane, e dopo averla ancora una volta guardata, osservata, compatita, scrive: «Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve sapere tutto», dando inizio a un’opera tuttora insuperata per realismo e forza morale.

Gli stessi caratteri che poi ritroveremo in molti aspetti della vicenda esistenziale di Matilde Serao, come: l’accoglienza materna che riserva alla bambina che, in un giorno di agosto del 1894, l’amante respinta da Edoardo Scarfoglio aveva depositato sulla sua soglia prima di suicidarsi; o il viaggio in Palestina, sola e sempre con una pistola a portata di mano, sulle tracce di una spiritualità solo all’apparenza in contrasto con la disinvoltura con cui Matilde ha conquistato il mondo dei salotti più esclusivi dell’epoca, o il nuovo patto sentimentale e professionale che dopo la separazione da Scarfoglio la lega a Giuseppe Natale, giovane giornalista romano col quale fonda Il Giornoe, a quarantotto anni, dà alla luce Eleonora, la quinta figlia così chiamata in omaggio all’amicizia che la lega alla Duse.

Impareggiabile fino all’ultimo istante di vita, Matilde muore il 25 luglio del 1927 per un infarto mentre, al tavolino, è intenta a scrivere l’ennesima opera. «Amabile», pare sia l’ultima parola digitata sulla macchina da scrivere.


(Maremosso, 13 marzo 2024)

di Adriano Ercolani


Da studioso, non accademico, di simboli e archetipi, nei miei anni di ricerca mi sono obbligatoriamente imbattuto nella necessità di frequentare l’ambito archeologico. Non posso accampare competenze tecniche, mi limito a riportare, da appassionato, la testimonianza dell’influenza di determinate figure ed incontri sul percorso intellettuale del sottoscritto (e di molti altri).

Per il mio percorso intellettuale e spirituale, legato in particolar modo allo studio della devozione degli aspetti femminili del divino, non ho potuto non imbattermi nella lettura dei saggi di Marija Gimbutas. Parliamo di una figura fondamentale nello studio della preistoria europea, in particolare per il suo approccio ai culti della Grande Madre. Le sue ricerche, condotte principalmente tra il ’46 e il ’71, hanno messo in luce l’importanza delle società matriarcali e dei culti legati alla fertilità, proponendo una reinterpretazione della storia antica.

Gimbutas ha identificato e analizzato numerosi reperti archeologici, come statuette di donna e simboli associati alla fertilità, provenienti da culture neolitiche dell’Europa, suggerendo che queste culture avessero un forte legame con la venerazione della Dea Madre, simbolo di fertilità, vita e rigenerazione.

A differenza della visione più largamente storico-culturale del matriarcato di Bachofen, per alcuni versi simili a livello concettuale ma che sorgeva da una combinazione di fonti mitologiche e storiche, l’archeologa (nata lituana, poi naturalizzata americana) basava le proprie tesi sullo studio di dati archeologici concreti.

Gimbutas interpreta molte delle divinità femminili ritrovate nei reperti archeologici in un modo per molti versi convergente alla visione dell’archetipo junghiano della Grande Madre; chiaramente, la sua interpretazione pertiene più all’aspetto simbolico-religioso che strettamente psicanalitico (soprattutto se pensiamo al saggio di Erich Neumann La grande madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, che sottolinea anche il ruolo potenzialmente oppressivo di una potenza inconscia così “ingombrante”).

L’opera di Gimbutas ha influenzato non solo la ricerca archeologica, ma anche i movimenti femministi e ha contribuito a plasmare una nuova visione della spiritualità, che, nel calderone fertile quanto confuso della New Age, si è sposata facilmente con la riscoperta di massa della filosofia orientale, alimentando un rinnovato interesse per il sacro femminile e le pratiche cultuali legate alla Dea.

Il saggio più importante di Marija Gimbutas è probabilmente The Language of the Goddess, pubblicato nel 1989 [trad. it. Il linguaggio della Dea, Venexia 2008, Ndr]. In quest’opera, Gimbutas riassunse la sua tesi fondamentale ovvero, appunto, l’idea che le antiche civiltà europee neolitiche fossero fondate su una struttura sociale matriarcale e una forte venerazione per il divino femminile, come testimoniato da una vasta e variegata iconografia di dee.

A Gimbutas si deve anche la famosa “ipotesi kurganica”, pubblicata nel 1956 all’interno del saggio The Prehistory of Eastern Europe: una delle teorie più affascinanti e influenti sull’origine delle popolazioni indoeuropee e sul cambiamento culturale che ha trasformato il volto dell’Europa antica. Secondo questa ipotesi, le popolazioni indoeuropee, portatrici di una cultura guerriera e patriarcale, ebbero origine nelle steppe a nord del Mar Nero, in un’area che oggi si estende tra Ucraina, Russia e Kazakistan, circa tra il V e il III millennio a.C. Queste popolazioni, conosciute come “kurgan” (termine che in russo significa ‘tumulo funerario’ e si riferisce alle sepolture monumentali caratteristiche di questi gruppi), si sarebbero espanse verso l’Europa e l’Asia, portando con sé una cultura, una lingua e un sistema di valori nuovi, che gradualmente sostituiranno quelli delle popolazioni autoctone.

Gimbutas, come detto, sostiene che prima dell’arrivo dei Kurgan, l’Europa fosse abitata da comunità agricole e matrilineari, pacifiche e basate su un culto della fertilità e su una venerazione della Dea Madre. Queste società, incentrate su valori di cooperazione e armonia con la natura, svilupparono un simbolismo complesso che celebrava il ciclo della vita e la rigenerazione. Con le ondate migratorie delle popolazioni Kurgan, Gimbutas ipotizza l’arrivo di una società patriarcale e gerarchica, basata sul potere militare e sul dominio maschile. La spiritualità della Dea Madre e della natura cedette il passo a divinità maschili e a un simbolismo centrato sul potere e sulla guerra.

Come spiegò lei stessa in un’intervista del 1992: «Il sistema da cui proveniva la cultura di matrice materna antecedente agli Indoeuropei era molto diverso. Dico di matrice materna e non matriarcale perché quest’ultima desta sempre idee di dominio, ed è semanticamente contrapposta al patriarcato. Quella era una società equilibrata, non è vero che le donne fossero talmente potenti da usurpare tutto ciò che fosse maschile. Gli uomini occupavano le loro legittime posizioni, facevano il proprio lavoro, avevano i loro compiti e avevano anche il loro potere».

Del resto, come spiega Eva Cantarella (nella voce “matriarcato” da lei curata nell’Enciclopedia delle Scienze Sociali), Gimbutas non amava il termine “matriarcale”: «nella ricostruzione di Gimbutas questa dominanza delle donne non sarebbe stata sopraffazione e sottomissione degli uomini. Nel periodo al quale risale il complesso di simboli di cui sopra, infatti, non vi sarebbe stato né matriarcato né patriarcato bensì “gilania”, parola coniata da Gimbutas utilizzando le radici greche gy (donna) e an (uomo), unite da una l centrale, quasi a simbolizzare il legame tra le due componenti sessuali dell’umanità».

Com’è noto, gli studi della Gimbutas hanno ricevuto diverse critiche: dal punto di vista strettamente storico-archeologico, si considerano le sue conclusioni troppo speculative e orientate ideologicamente al fine di enfatizzare il ruolo (financo per alcuni l’esistenza) delle società matriarcali, in assenza di evidenze testuali. D’altro canto, uno studioso come Joseph Campbell, discepolo di Jung, definì il suo contributo in termini epocali come la scoperta della Stele di Rosetta.

Rimane, per chi scrive, comunque l’importanza determinante della sua opera, nel tentativo coraggioso e illuminante di “riscrivere” la storia dell’archeologia (dunque, la storia della civiltà), da un’altra prospettiva.

In anni più recenti un impatto simile, se non superiore almeno come clamore mediatico, è stato causato dalla scoperta archeologica di Göbekli Tepe, nella zona della Turchia prossima al confine della Siria. Si tratta di uno sito archeologico dalla rocambolesca scoperta: prima scambiato nel ’63 per un sito funebre, fu riscoperto casualmente nel ’95 da un pastore; a quel punto partì una missione guidata da Karl Schmidt, a guida di un doppio team (del vicino museo di Şanlıurfa e dell’Istituto archeologico germanico), successivamente passata alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.

La scoperta è stata veramente sorprendente: un’imponente costruzione megalitica, formata da recinti circolari formati principalmente da enormi pietre calcaree a forma di T, decorati con rilievi animali e motivi astratti, alcune delle quali con tracce antropomorfe (ad esempio delle mani allungate lungo i fianchi della struttura), ribattezzate per questo da Schmidt “i vigilanti”.

La scoperta ha rivoluzionato la linea fino ad allora supposta dello sviluppo della civiltà umana, predatandola e capovolgendone l’interpretazione: sintetizzando in maniera brutalmente provocatoria, non sarebbero i culti sciamanico-devozionali a derivare dalla scoperta dell’agricoltura nella mezzaluna fertile, al contrario sarebbe stata proprio la spinta comunitaria alla devozione in luoghi sacri a indurre il processo di sedentarizzazione.

Parliamo di circa diecimila anni fa.

Un’ipotesi vertiginosa che riporterebbe il Sacro al centro dell’esperienza umana, come motore dello sviluppo sociale, non come sovrastruttura successiva allo sviluppo delle attività umane.

Anche in questo caso, per correttezza, devo riportare come una serie di ultime ipotesi derivate dagli ultimi scavi (secondo l’opinione di Lee Clare) facciano tramontare lo scenario del “tempio” come unico ruolo del sito, propendendo per una sorta di ampio rifugio per una comunità di cacciatori e raccoglitori.

Ma al di là del dibattito, chiaramente ancora in fieri, questa scoperta, e le speculazioni derivatene, ha ispirato una serie di intriganti suggestioni romanzesche: personalmente, confesso di essermi appassionato al tema durante la visione della serie turca The Gift (ingenua quanto suggestiva), fino a visitare il sito con degli amici archeologi; l’effetto dal vivo non può non far pensare, rimanendo su un piano di suggestioni da archeologia misteriosa, a uno scenario stile X-Files.

Ancor più impressionante è il sito “gemello”, i Karahan Tepe (“tepe” in turco vuol dire “collina”, “cima”), sempre nella provincia di Şanlıurfa, a circa 40 km dal più noto, ancora anteriore (circa 12mila anni fa), ma attualmente ancora in fase di studio, dunque meno promosso mediaticamente.

Posso testimoniare l’emozione “primordiale”, se mi consentite un’espressione così vaga e ingenua, nel vedere dal vivo statue antropomorfe, dal volto impressionante per intensità espressiva, che ci guarda con fissità ieratica dalla Preistoria.

Da qualche settimana a Roma, nel Parco Archeologico del Colosseo, è aperta una mostra, “L’enigma di un luogo sacro”, dedicata proprio alla sconvolgente scoperta archeologica di Göbekli Tepe.

Personalmente, ho avuto la possibilità di visitare il Museo Archeologico di Şanlıurfa, che ricostruisce su scala 1:1 il sito archeologico e consente quindi di visitarlo “virtualmente” con una capacità di dettaglio molto realistica (il sito dal vivo è chiaramente visitabile solo da una distanza di sicurezza), ma credo che sia comunque una possibilità interessante per scoprire un vero e proprio “evento” della storia dell’archeologia.

In un periodo in cui le masse sono preda di un’accelerazione tecnologica inversamente proporzionale alla ricerca interiore, riscoprire l’archè può essere una fonte di salvezza.

Credo che sia più saggio cercare di ritrovare il senso dell’esistenza seguendo le indicazioni contenute nei frammenti di Eraclito o nel Prologo di Giovanni, piuttosto che nei tweet di Elon Musk o nelle risposte di Chat Gpt.


(kobo.com, 19 novembre 2024)

di Gabriele Nicolò


Desta un brivido di inquietudine la lettera che Virginia Woolf scrive a Vanessa Bell nel marzo del 1941. «Ora sono certa — confessa — che sto nuovamente impazzendo. Come la prima volta, sento in continuazione le voci, e ora so che non ce la farò. Ho lottato, ma non ce la faccio più». È questa la missiva che chiude il prezioso libro Vanessa Bell, Virginia Woolf. Se vedi una luce danzare sull’acqua. Lettere tra sorelle. 1904-1941, a cura di Liliana Rampello (Milano, il Saggiatore, 2024, pagine 410, euro 35, traduzioni di Andrea Cane, Silvia Gariglio, Silvia Gianetti, Camillo Pennati e Sara Sullam). La corrispondenza, in gran parte inedita in Italia, abbraccia circa quarant’anni di vita di due donne che, in virtù di un sentito legame di sangue, condividono con slancio e senza diaframmi o comode circonlocuzioni fervide passioni e brucianti delusioni, successi letterari e tragedie private. Sullo sfondo di questo dramma umano, venato talora di tratti di commedia, si proietta l’eco delle due guerre mondiali, come a ricordare che il macrocosmo di queste sorelle non è un universo conchiuso, ma si innerva delle dinamiche, tumultuanti e complesse, di un mondo ben più vasto.

Virginia, scrittrice, è sempre stata cagionevole di salute: i suoi nervi sono labili e la dispongono a una depressione logorante e crescente. Ne è consapevole Vanessa, pittrice, che non si risparmia nel cercare di aiutare la sorella. Lo scambio di missive ha inizio quando le due donne hanno poco più di vent’anni. Quel terribile biglietto d’addio Virginia lo firmerà sulla soglia dei sessant’anni. «Le loro — rileva Rampello, la curatrice — sono lettere spontanee, ironiche, disinibite, scritte in una lingua scintillante da cui affiora tutta la grandezza e la fragilità di due personalità irripetibili, ma anche il brusio spregiudicato della cerchia di Bloomsbury». Si tratta, in sostanza, di un epistolario che si configura come la biografia di un rapporto umano indissolubile, come «qualcosa che è più della somma di due vite». È qualcosa che «sta tra due vite». In quel “tra” si specchia tutto il vulcanico fluire di pensieri e sentimenti che contribuisce a definire e a forgiare la personalità delle due sorelle.

Sia per Virginia che per Vanessa risulta inafferrabile la natura dell’esistere, la vita che palpita nel mondo umano, vegetale, animale. Ma se i quadri di Vanessa sono silenziosi, muti — e devono essere tali perché «la tela appesa al muro continua comunque a dire qualcosa di suo» —, Virginia ha invece bisogno delle parole, sebbene possano essere inadeguate. «Oh potersene restare in silenzio! Oh essere un artista!» lamenta.

La corrispondenza rivela anche un assiduo scavo interiore, alla ricerca di un’identità che sia stereotipata e data una volta per tutte. «Ormai — scrive Vanessa —, da quando ho capito che basta cambiare l’idea che si ha di sé trasformandosi in una specie di donna delle pulizie o in un barbone, per camminare indisturbati e vestiti di stracci o a piedi nudi, non ho più vergogna». E quindi, con lo spirito bizzarro e un po’ ribelle che le era proprio, aggiunge: «Non capisco perché si debba sempre ritenere necessaria la decenza, per non parlare dell’intelligenza, quando in effetti non si ha nessuna voglia di bazzicare persone decenti o intelligenti».

A proposito di una delle sue opere più note, Gita al faro, Virginia osserva che con questo romanzo non ha voluto dire «niente». Occorre «una linea centrale» che percorra il libro per tenere insieme il disegno. «Mi sono accorta che sentimenti di ogni genere si sarebbero accumulati lì dentro, ma ho evitato di elaborarli e ho confidato che la gente ne facesse il deposito delle proprie emozioni. E così è stato, e uno pensa che significhi una cosa, e un altro un’altra cosa. Non riesco a trattare il simbolismo se non in questo modo vago, generico. Se sia giusto o sbagliato non lo so, ma non appena mi spiegano il significato di una cosa, mi diventa odiosa». Parole, queste, illuminanti riguardo alla sua concezione della vita e al suo ideale di letteratura che, della vita, ambiva ad essere dignitosa e rispettosa espressione.

Un’espressione che si fa visione nell’ultima riga del romanzo, quando Lily Briscoe, spossata, nel mettere giù il pennello, si trova a pensare — mirabile epifania — che ha avuto una visione. Di conseguenza la pittrice, nello spazio di un fulmineo istante, traccia «una linea lì nel centro» della tela. Ma non è il quadro a essere descritto: a imporsi è l’esperienza visiva di una composizione che ha una sua specifica dimensione cognitiva e non ha un equivalente verbale. Ciò che la scrittrice ha scoperto — grazie alla pittura — è come scrivere la propria visione. Anche entro questa prospettiva di carattere narrativo s’inserisce il valore del reciproco rapporto fra le due sorelle sul piano professionale: c’è la scrittrice che dalla pittura mutua un linguaggio che le risulta funzionale alla manifestazione del suo sentire, e c’è la pittrice che riconosce nell’arte letteraria (come sottolineato da ella stessa in alcune missive) lo strumento cui attingere per «far parlare» la tela. Si consacra così la felice simbiosi tra penna e pennello.


(L’Osservatore Romano, 19 novembre 2024)

di Franca Fortunato


Riportare in vita una madre, strapparla all’oblio della morte, raccontare di lei in onore della figlia, è un gesto di amore femminile per la madre. È quello che ha fatto la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli col suo libro Maria Giudice. Vita folle e generosa di una pasionaria socialista (Neri Pozza 2024), scritto in onore della figlia Goliarda Sapienza, sua amica e compagna di scrittura, in ricorrenza quest’anno del centenario della nascita. È dal ricordo del gruppo di scrittrici femministe, tra cui Adele Cambria e Elena Gianini Belotti, di cui facevano parte entrambe, che l’autrice parte per introdurci nel racconto della vita straordinaria di Maria Giudice, vissuta tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Una vita segnata dalla militanza politica, sindacale e giornalistica, dal carcere e dall’esilio. Una militanza vissuta a fianco degli operai e dei contadini, in particolare delle operaie e delle contadine, da segretaria della Camera del Lavoro di Voghera, Torino e Catania. Il racconto della sua vita si intreccia col contesto storico del suo/nostro tempo. Per Maria la politica non è «mestiere» o «voglia di comando», ma una visione del mondo e un accesso alla «sua personale libertà». Il partito, a cui si iscrive giovanissima, per lei non è solo una tessera, ma un modo di essere e «di agire in ciascuna circostanza della propria esistenza». E il giornale è «uno strumento politico» che unisce «i lavoratori dei campi, delle officine e quelli della penna» ma è convinta che è il socialismo «l’unica vera scuola». È una brava oratrice e le donne affollano i suoi incontri e conferenze per lo più clandestine. Non autorizzate. Nei rapporti delle prefetture è definita una «socialista intransigente». In carcere incontra Umberto Terracini e con Gramsci, compagno di partito, dirige il giornale “Grido del popolo”, organo dei socialisti piemontesi. Donna determinata, fiera, appassionata e anticonformista, Maria eredita la passione politica dal padre Ernesto che da ragazzo si arruolò nelle truppe di Garibaldi, e dal nonno che fu seguace di Mazzini e affiliato alla Carboneria. Dalla madre, Ernesta, eredita l’amore per la scrittura e per i poeti, classici e moderni, amore che trasmette alla figlia Goliarda. La madre la fa studiare e diventa maestra elementare. Insegna, ma per poco. Viene licenziata per condotta immorale, in quanto unita in “libera unione” con Carlo Civardi, prima, e Peppino Sapienza, poi, suoi compagni di vita e di lotta, perché madre di figlie/i fuori dal matrimonio e per le sue idee politiche e religiose. Motivi per cui sotto il fascismo la sua domanda di insegnare viene respinta. «L’amore è cosa così intima, così assoluta che il farne un atto pubblico, peggio ancora, ufficiale, è un profanarlo», scrive. Accetta come necessità, ma non per sé, il matrimonio civile perché «questa società, ingiusta e imprevidente, ancora non si crede in obbligo di provvedere ai nati di donna». Tiene comizi e conferenze non autorizzate contro la guerra e viene arrestata. «Prendi il fucile, gettalo per terra, vogliamo la pace, mai più la guerra» è il suo grido pacifista. La dittatura fascista la condanna all’isolamento con lo scioglimento dei partiti, dei sindacati e dei giornali d’opposizione. Il suo corpo si ribella, si ammala e finisce in una clinica per malattie mentali. Il compagno Sapienza entra nella Resistenza e la figlia Goliarda fa la staffetta. Con la fine della guerra Maria ritrova se stessa e con l’antica compagna Angelina Balabanoff riprende l’attività politica. Muore nella notte del 5 febbraio 1953, tra le braccia della figlia Goliarda. Al suo funerale Terracini, Saragat e Pertini e «un mare di garofani e compagni di ieri e di oggi». Dopo, per la figlia comincia «il lutto interminabile».


(Il Quotidiano del Sud, Rubrica “Io Donna”, 18 novembre 2024)

di Franca Fortunato


Il parto di che mondo e mondo è un’esperienza solo delle donne che per secoli hanno partorito in casa aiutate da levatrici, poi ostetriche, mammane, vicine di casa, donne anziane esperte. Donne custodi di saperi, competenze e relazioni cancellate dall’ospedalizzazione e medicalizzazione del parto, ritenuto dalla medicina ufficiale più sicuro. Un “Gruppo di ostetriche” di Mestre, sulla spinta del movimento politico delle donne, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha tenuto in vita la pratica del parto in casa, rendendo onore al «sapere scientifico femminile» e ponendo al centro la relazione tra madre ed ostetrica. Un’esperienza la loro che Franca Marcomin, fondatrice del gruppo, racconta nel libro Parti in casa a Venezia. Storia di un’ostetrica femminista e delle sue colleghe, edito da Il Poligrafo. Ciò che spinge l’autrice è il desiderio di lasciare memoria e testimonianza di quarant’anni di straordinaria esperienza sua e delle sue colleghe, di formazione e trasmissione di memoria che hanno cambiato la concezione di questa antica professione. Destinatarie del libro sono le giovani ostetriche neolaureate o in procinto di laurearsi perché «sappiano che non partono da zero. C’è una genealogia femminile a cui riferirsi, che costituisce un precedente di forza» e perché traggano orientamento «dall’elaborazione e dal pensiero delle donne sul parto». Al racconto diretto dell’autrice si unisce la voce delle colleghe attraverso interviste e quella di alcune delle madri aiutate in questi anni a partorire in casa in modo naturale, restituendo «autorità ai saperi, alle pratiche e alle relazioni femminili presenti sulla scena della nascita». Racconti e testimonianze che ci dicono come la casa «si è rivelato il luogo più vicino a una nascita naturale e non violenta», senza traumi e ferite, di cui le madri sono protagoniste attive e non passive, e le ostetriche si riappropriano di quella autonomia di cui hanno goduto per secoli le loro ave e che negli ospedali è stata loro tolta da medici, ginecologi e primari. Le donne hanno sempre saputo come fare nascere le loro creature, le ostetriche sanno come aiutarle a partorire in modo “naturale”. È pur vero che «non tutte le donne possono partorire a casa propria», allora perché non «rendere l’ospedale il più possibile simile a una casa?». Trasformare le strutture ospedaliere per «fare del momento della nascita un’esperienza soddisfacente per la madre, il padre e il neonato o neonata», come nel parto in casa, è stato l’obiettivo dell’autrice e delle sue colleghe che hanno continuato a lavorare anche in ospedale, qualcuna, invece, si è licenziata. Si sono impegnate per avere ovunque «forme pubbliche di assistenza per il parto in casa e l’assistenza a domicilio dopo la dimissione precoce dall’ospedale dopo il parto». Qualcosa in molti ospedali è cambiato, grazie a loro e a tante altre: c’è di nuovo l’autonomia nell’assistenza al parto fisiologico e l’ostetrica può far intervenire il medico solo quando ne ravvisa la necessità clinica. Alcune regioni nei loro piani sanitari hanno inserito la possibilità di scelta dei luoghi del parto e/o il rimborso delle spese dei parti a domicilio. Molto deve ancora cambiare: il parto in casa è solo l’1%, non è offerto dal Servizio sanitario e nessuna legge nazionale in tal senso è stata mai approvata, anche se presentata. «Credo sia giusto che ogni donna possa scegliere di partorire nel modo che lei sente più sicuro e giusto per sé», dice una madre con esperienza di parto sia in casa che in ospedale. In un tempo in cui si cerca di cancellare la madre attraverso l’utero in affitto non ci si deve dimenticare «che comunque il luogo del parto è il corpo sessuato» di donna. Un corpo che si vuole cancellare come le levatrici, che le figlie, loro eredi, onorano con il loro racconto.


(Il Quotidiano del Sud, Rubrica “Io Donna”, 11 novembre 2024)

di Federica Barboni


Oltrepassare, come Alice, lo schermo del mondo… Un numero di «Riga» su Giulia Niccolai (1934-2021), singolare artista dalle molte esperienze: fotografa, scrittrice sperimentale, monaca buddista


Se si apre la pagina Wikipedia dedicata alla poetessa, scrittrice, fotografa e traduttrice Giulia Niccolai, la voce Biografia si chiude con una curiosità: la fine della relazione intrattenuta con Adriano Spatola, col quale Niccolai ha convissuto per nove anni nel Mulino di Bazzano, la cosiddetta «Repubblica dei poeti», ispirerebbe il testo di una canzone di Guccini, Scirocco (lo segnala Alessandro Giammei su «Engramma», 145, 2017). La nota è succosa e in linea con il contesto divulgativo in cui è inserita, ma non rischia anche di suggerire, posta com’è a conclusione della (breve) scheda biografica dedicata all’autrice, una marginalizzazione della sua esperienza artistica, da misurarsi magari «in appendice» a quella della Neoavanguardia o, in questo caso, del compagno co-fondatore della rivista «Tam Tam»?

Chi conosce l’opera di Niccolai non ha dubbi riguardo alla sua autonomia e originalità, e sa che la vita della scrittrice potrebbe diventare il canovaccio di una sceneggiatura: italo-americana bilingue, esplora giovanissima il mondo come fotografa (immortalando, fra gli altri, Kennedy, Kubrick, Fidel Castro, Fellini…) per poi abbandonare, delusa, il reportage; a Roma, vive a casa di Giosetta Fioroni e si lega al Gruppo 63, come segretaria di redazione di «Quindici». Nel ’69 l’avanguardia chiude i battenti e Niccolai si trasferisce al Mulino con Spatola – ha stretto amicizia con Corrado Costa e Giorgio Manganelli, il suo «primo lettore» – per poi fuggire nel 1978 a Milano («feci una vigliaccata, […] scrissi una lettera e scappai»).

Ha già all’attivo un romanzo, numerose raccolte sperimentali, il libro d’artista Poema&Oggetto. Poi, l’ictus cerebrale, che la rende momentaneamente afasica (ecco una prima, strana coincidenza: lo stesso era capitato a Baudelaire, col cui nome gli amici pare chiamassero proprio l’ex compagno, Spatola), e la conversione al buddismo, il viaggio in India nel 1989 e la sua ordinazione a monaca. Continua a scrivere, accumulando riconoscimenti (nel 2006, l’onorificenza di Grande Ufficiale della Presidenza della Repubblica Italiana) e, quando viene intervistata da Sara Pagani nel 2018, ha più di ottant’anni e pensa alla morte senza paura, perché «è come decidere di cambiare vestito», «nasco dove voglio io la prossima volta».

Commemorandone la scomparsa, Andrea Cortellessa ricordava sul «manifesto» del 24 giugno 2021 la molteplicità delle vite che Niccolai sembra aver vissuto; si possono ripercorrere, oggi, sfogliando il ricco volume che «Riga 45» ha dedicato a Giulia Niccolai, a cura di Alessandro Giammei, Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti (Quodlibet, pp. 495, € 26,00), attraverso interviste, una raccolta antologica e di interventi critici, saggi, scritti autobiografici. La numerosità dei contributi fa sì che queste disparate vite si ricompongano come in un mosaico, e tuttavia permane la sensazione che il ritratto definitivo di Niccolai, l’unico completamente «a fuoco», sia sempre imprendibile e rimanga «sul retro» della composizione, in un negativo pur così ben sviluppato.

Il che è, a ben vedere, una sorta di rovello per la stessa artista, nel corpo a corpo costante con la decifrazione della realtà che la circonda, dalla fotografia alla poesia al romanzo – che si intitola proprio Il grande angolo, rimarcando l’ulteriore prova dello sguardo dell’autrice sul mondo, recensita nel ’66 da Walter Pedullà e commentata per «Riga» da Graziella Pulce.

Basti prendere gli esperimenti prospettici di Facsimile, che giocano deformando, tramite rappresentazione, la realtà – una lattina e la fotografia di un barattolo, ritratti frontalmente, sembrano solidi e tridimensionali, ma spostando l’angolo dello scatto si svela la verità, ché «un oggetto fotografato si trasforma in un oggetto fotografato, e tale rimane» (si contempla, insomma, «la differenza tra apparenze fenomenologiche e stati ontologici», Taylor Yoonji Kang). O ancora, si pensi allo scavo linguistico della poetessa, al «lavoro di costruzione e decostruzione su significante […] e significato» di Greenwich – «Riga» ne accoglie l’introduzione di Manganelli, del ’71 – e al suo celebre calembour topografico «Como è trieste Venezia…», che ricerca una nuova correspondance tra senso e nonsenso nella deformazione del significante, un po’ come accadeva nei Facsimile.

Ciò significa che gli strumenti dell’indagine derivano dalla neoavanguardia, ma il loro impiego è orientato in una direzione privata, ironica e giocosa, non politicizzata (l’allontanamento da Roma è dovuto alla sensazione che «lì era impossibile fare una rivista di poesia perché tutti erano concentrati su altri scenari», afferma Niccolai nell’intervista di Massimo Rizza). La sua ricerca ruota, piuttosto, intorno alla discrasia fra le cose «come appaiono» e le cose come «effettivamente sono» (Beppe Sebaste), in una specie di tentativo di superare, come Alice attraverso lo specchio, lo schermo del mondo come rappresentazione. Non è un caso che Carroll rappresenti il feticcio della poetessa esordiente in Humpty Dumpty (1969), un «vampirico omaggio» di giochi di parole «trasgressivi» (Belpoliti), descritto qui da Milli Graffi, che prepara il terreno alle acrobazie verbali successive, da Substitution (’75) alle varie declinazioni dei famosi Frisbees, le «poesie da lanciare», alle ballate composte come «un’insalata russa» di lingue delle Russky Salad Ballads – fra cui la celebre Harry’s Bar Ballad, in cui l’autrice dichiara, come imprimendo un marchio a fuoco sul testo, la propria identità: «voglio del gin perché sono G. N. / Giulia Niccolai»; a mancare, nell’acrostico, è la I inglese di «io» prestata però, sub specie di passaporto identitario, alla chiusa della prima raccolta, «And Lewis I Carrol End», also known as A.L.I.C.E.

Emerge sempre, anche a partire dalle interviste a Giulia e dai contributi critici (Raffaele Manica, Rossana Campo, Cecilia Bello Minciacchi, Roberto Galaverni e molti altri) questo refrain della ricerca della corrispondenza fra la «parola» e la «cosa», la rappresentazione e la realtà, indagata facendo deflagrare le apparenze, semantiche o dell’oggetto, scrutate come attraverso un obiettivo fotografico mai dismesso. Ecco allora la seconda e ultima coincidenza: è proprio il testo che si citava all’inizio, Scirocco, che sembra inquadrare questa predisposizione, descrivendo non solo (o non tanto) la fine di una storia d’amore ma anzi suggerendo l’inizio di un altro rapporto, quello di Niccolai col mondo, per la propensione dell’artista a spingersi «a guardare dietro alla faccia abusata delle cose, / […], dietro allo specchio segreto d’ogni viso».

Se i tentativi – condotti tramite il medium fotografico e, poi, poetico – di attraversare lo specchio e incidere il velo schopenhaueriano finiscono per coincidere, è comunque la fede buddista a dare a Niccolai una risposta, perché è grazie a quest’ultima che la tensione irrisolta a ricomporre la realtà si placa e la poesia si rende inessenziale: «quando si riesce a squarciare anche solo momentaneamente il velo di Maya il senso di compiutezza è tale che la scrittura e la necessità di esprimersi per dare un senso alla vita non sussistono più».

E «adesso», si chiede Niccolai nel Diario del 2009, «come mi sento? Libera». A renderla inafferrabile è la libertà che ne contraddistingue l’esperienza artistica, nella capacità di cambiare percorso, di rileggersi – e personale – di donna che negli anni cinquanta brucia il motore della 600 «guidando in una sola notte da Milano a Lagonegro» (Palmieri). È forse proprio per questo che Silvia Mazzucchelli, che negli ultimi anni ha lavorato con Niccolai al suo archivio fotografico, immagina che l’amica si sarebbe stupita di questa pubblicazione: «Chi l’avrebbe mai detto che un giorno qualcuno mi avrebbe messo in Riga?».


(il manifesto – Alias, 3 novembre 2024)

di Diego Pretini


Facile da qui: provateci voi, mentre vi tirano le bombe in testa in un campo profughi, mentre qualche manciata di proiettili vi rende orfani, mentre soffrite la fame e non avete acqua, mentre non potete andare all’ospedale se state male, provateci voi, mentre vi dovete nascondere in un armadio (col fiato mozzato) perché hanno fatto irruzione a casa vostra, mentre vi rinchiudete in un bunker perché le sirene vi fanno scoppiare la testa e il cuore, mentre vi sparano contro mentre ballate a un concerto. Facile da qui: provateci voi a parlare di pace da lì, dalla Striscia di Gaza e da Israele, in questo momento pieno di dolore e di rabbia in cui il Medio Oriente è sprofondato in un vortice nero, senza fondo e senza cielo, senza più parole. Non sarà facile come da qui, forse, ma chissà se può stupire – in questa epoca che rende un po’ assuefatti dall’indigestione di informazioni – sapere che dal centro di quel vortice nero c’è ancora chi non smette di provare a parlare di pace, nemmeno da lì, nemmeno dopo il crinale del 7 ottobre. Rabbini, suore cristiane, politologi, agricoltori, ex ufficiali dell’esercito diventati attori, attivisti, psicologhe, giovani renitenti alla leva, tour operator. Chiara Zappa, giornalista di Mondo e Missione che da anni racconta storie da quell’area del mondo, li ha definiti Gli irriducibili della pace (Ts Edizioni, 208 pp., 18 euro, prefazione di Noa). Il titolo inquadra con una parola la linea editoriale del libro: il ribaltamento del linguaggio a cui siamo abituati – gli irriducibili come quelli che si battono “all’ultimo sangue”, “fino alla morte” – per neutralizzare un immaginario stratificato negli anni per il quale le figure che non si arrendono sono i “forti” che fanno la guerra e coloro che fanno la pace invece sono disegnati come quelli che cedono, i “deboli”.

In questo libro, invece, l’ostinato è proprio chi solleva la bandiera bianca più in alto, e ancora di più in questi mesi in cui infuria il conflitto, fischiano i missili e il paesaggio è uno sterminato cumulo di macerie. Non tra israeliani e palestinesi, “la lotta dovrebbe essere tra gli estremisti e i moderati che vogliono condividere la terra fianco a fianco come uguali”. Può apparire una frase ingenua, al limite del fanciullesco, eppure a pronunciarla nel libro di Zappa è Mohammed Dajani Daoudi, 78 anni, politologo, professore all’università Al Quds di Gerusalemme, che discende da una delle storiche famiglie arabe della città tre volte santa e ha un passato giovanile ai vertici di Al-Fatah, il partito che fu di Yasser Arafat e combatteva per la liberazione della Palestina. “Al-thawra ḥattā al-nāṣir” c’è scritto nel suo simbolo: rivoluzione fino alla vittoria.

“Dicevamo no alla pace, no ai negoziati e no al riconoscimento dello Stato di Israele – racconta a Chiara Zappa nel libro. – Ricevetti un addestramento militare e mi radicalizzai sempre di più”. Finì bandito da Libano, Israele e Giordania e studiò negli Stati Uniti: “Questo mi permise di muovere i primi passi fuori dalla caverna dell’ignoranza e dell’estremismo e di assumere una nuova prospettiva”. Un grande sogno o una piccola speranza? è stata la domanda che ha fatto da crocevia della sua storia: è diventato il nome del suo modello di risoluzione del conflitto. Bisogna passare – è il ragionamento – dalla contrapposizione ebrei-arabi alle categorie di “coloro che, da entrambe le parti, accettano un compromesso in nome della pace oppure vi si oppongono”. In una parola wasatia che letteralmente significa via di mezzo e nel Corano – spiega Daoudi nel libro – indica l’equilibrio, la giustizia, la tolleranza”.

Sembrano parole cadute da un altro mondo eppure sono la copertina del lavoro di Chiara Zappa. “Dai margini del discorso pubblico a cui si è cercato di relegarli – sottolinea l’autrice nell’introduzione – gli ‘irriducibili della pace’ stanno provando a tornare al centro, per proporre la loro alternativa. Spesso sono liquidati come folli, ingenui, illusi. Ma l’utopia che inseguono è in realtà la forma più chiara di pragmatismo” perché “la forza, anche la più soverchiante, non potrà mai garantire incolumità e benessere a nessuna di queste due comunità talmente vicine da essere inseparabili”. Per rompere il muro del suono che investe tutto il mondo con la incessante descrizione di attacchi e vendette, raid e rappresaglie puntualmente giustificati dalle classi dirigenti di tutto punto armate, Zappa alza il volume della voce di 15 cittadini “comuni”: tra loro c’è chi ha perso dei parenti negli attacchi di Hamas del 7 ottobre e c’è chi ha pianto un figlio di 6 mesi perché dopo aver respirato i gas lacrimogeni lanciati dai militari israeliani nel villaggio di Battir (vicino a Betlemme) innumerevoli posti di blocco non permisero di arrivare in tempo a un ospedale.

Lo stile asciutto e l’esposizione britannica di Chiara Zappa permettono al libro di avere più livelli di lettura. Grazie alle informazioni di contesto e alle note esaurienti, per esempio, diventa una mappa per chi vuole riannodare i fili di una vicenda che si consuma da decenni, un equipaggiato che rimette in ordine gli elementi in un tornado di titoli strillati. Nello stesso momento riesce a svuotare il serbatoio dell’abituale racconto dei mass media declinata solo su un vocabolario bellico, attraversando le storie di chi è immerso – suo malgrado – nella tragedia di quelle terre. Layla Alsheikh è la mamma di quel bimbo di 6 mesi morto perché non soccorso in tempo. Oggi è un membro di Parents’ Circle che mette insieme 700 famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso parenti stretti. Dice Layla: “Non possiamo sederci ad aspettare che i nostri leader facciano qualcosa: abbiamo aspettato per più di 75 anni. E loro non ci hanno mai chiesto il permesso quando hanno fatto scoppiare l’ennesimo conflitto. È vero, sono i governanti ad avere in mano le scelte politiche, solo loro possono firmare un accordo di pace. Ma solo noi, cittadini comuni, abbiamo il potere di fare la riconciliazione”.

I leader fomentano la polarizzazione tossica, chiarisce a Zappa Sofia Orr. Ha 18 anni ed è la prima obiettrice di coscienza donna dopo il 7 ottobre (“ingenua, egoista, traditrice, persino ebrea antisemita” gli insulti che ha ricevuto). Ha passato 85 giorni in carcere su decisione della corte militare. È una refusenik, come si chiamano i renitenti alla leva: una circostanza sempre più rara. I giovani sono il bersaglio grosso di questa onda dell’odio e della guerra che si autoalimenta. “L’intera sfera politica – dice Sofia nel libro – si è spostata più a destra ed è diventata molto più violenta e aggressiva”. E le nuove generazioni, si spiega ancora, non hanno mai avuto neanche l’opportunità di vedere tentativi di colloqui di pace come invece i loro genitori. Così riconoscere le rivendicazioni degli “altri” non è nel novero delle opzioni. Quando ha spiegato all’opinione pubblica perché si è rifiutata di indossare la divisa dell’esercito, Orr ha messo giù concetti che appaiono indicibili in queste settimane: “Il presente e il futuro dei cittadini palestinesi e israeliani sono inseparabili. Non siamo ‘noi’ contro ‘loro’. La sicurezza e l’incolumità saranno raggiunte solo quando entrambe le parti vivranno con dignità: o perderemo tutti in guerra o vinceremo tutti in pace”. Nessuno può dire quanto tempo sarà necessario. Eppure è proprio dal centro di questi giorni di sconforto che questa israeliana del futuro lancia il suo messaggio verso l’avvenire: “Mi rifiuto di arruolarmi perché voglio creare una realtà in cui tutti i bambini tra il fiume e il mare possano sognare, senza gabbie”.


(Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2024, titolo originale: Ex ufficiali, renitenti alla leva, prof: la buona battaglia di palestinesi e israeliani per la pace in Medio Oriente (anche dopo il 7 ottobre): “La lotta non può essere tra i nostri popoli, ma tra estremisti e moderati”)

di Franca Fortunato


«Quello che succede oggi in Medio Oriente è per Israele un vero e proprio suicidio. Un suicidio guidato dal suo governo, contro cui – è vero – molti israeliani lottano con tutte le loro forze, senza riuscire a fermarlo. E senza nessun aiuto, o quasi, da parte degli ebrei della diaspora» scrive la storica Anna Foa nel suo libro di recente pubblicazione Il suicidio di Israele edito da Laterza. Ebrea della diaspora, l’autrice si rivolge a tutte/i le/gli ebree/i del mondo, in particolare a quelle/i dell’Italia, affinché prendano coscienza della necessità e dell’urgenza di agire per riappropriarsi dell’ebraismo e della memoria della Shoah, separandoli dallo Stato d’Israele e dai sionisti al governo, per fermare, prima che sia troppo tardi, l’antisemitismo insorgente.

«Gli ebrei – scrive – sono assimilati tout-court agli israeliani, ai sionisti e la guerra di Gaza alimenta ovunque l’antisemitismo» che «non è mai morto del tutto nel mondo, nemmeno nell’Europa i cui ebrei sono stati completamente distrutti nella Shoah». «Come fermare il suicidio di Israele se non attraverso una sollevazione dell’intera società? E come possono partecipare gli ebrei della diaspora?», visto che «quanto avviene si delinea come una catastrofe non solo per lo Stato ma anche per il resto del mondo ebraico?». Come spiegare quella identificazione? Per farlo, l’autrice ripercorre la storia del sionismo, anzi dei sionismi, e quella dello Stato d’Israele, nato come Stato ebraico, di tutti gli ebrei del mondo, cancellando «quella parte del sionismo che avrebbe voluto ebrei e palestinesi insieme in un solo Stato». Tale identificazione si completò col processo a Gerusalemme ad Eichmann con cui «lo Stato d’Israele si poneva come l’erede dei sei milioni di ebrei assassinati nella Shoah e si assumeva il ruolo di mantenerne la memoria». Poi nel 1974, con l’occupazione di Gaza e Cisgiordania, arrivarono i coloni, i sionisti religiosi messianici, oggi al potere, sostenitori della «terra d’Israele data loro da Dio e loro compito era colonizzarla e mantenerla ebraica». «Essi chiamavano – e ancora oggi chiamano – i territori occupati coi loro nomi biblici, Giudea e Samaria, a significare la volontà di considerarli parte integrante di Israele».

Il libro è un crescendo di domande. Come possono gli ebrei della diaspora non reagire di fronte ai morti di Gaza che sono opera di uno Stato che si dice democratico, ma che non esita a colpire vecchi e bambini per uccidere un solo capo di Hamas? Come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare a ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza? Come respingere l’assimilazione fra israeliani ed ebrei quando nella diaspora le voci contro Netanyahu sono flebili e accusate troppo spesso di antisemitismo? Come possiamo oggi limitarci a condannare l’antisemitismo che cresce, estendendo il termine “antisemitismo” ad ogni condanna della guerra di Gaza?

«Occorre una definizione dell’antisemitismo – è la sua risposta – che consente di distinguere nettamente ciò che è antisemitismo e ciò che non lo è». Certo, aggiunge, «è ingiustificabile l’atroce massacro del 7 ottobre ma altrettanto ingiustificabile però è chiudere gli occhi di fronte al massacro di Gaza, alle parole di pulizia etnica dei ministri di Israele, alla politica di Netanyahu che sta trascinando Israele nell’abisso» e rischia di trascinare con sé anche gli ebrei della Shoah vanificando l’insegnamento di tutti questi anni dei testimoni «mai più a nessuno». Conclude il libro con la consapevolezza che «non si può dare per scontato» che l’odio scatenato da entrambe le parti un giorno cesserà. Ma non ci sono altre strade. Un libro di una ebrea coraggiosa.


(Il Quotidiano del Sud, Rubrica “Io Donna”, 2 novembre 2024)

di Antonella Mariani


L’industria della maternità surrogata «è per sua natura criminale»; riduce la donna a merce e il bambino a oggetto di compravendita: per questo Kajsa Ekis Ekman, femminista svedese, giornalista e scrittrice, da anni impegnata in una battaglia contro la gestazione per altri (Gpa) e contro la prostituzione, gioisce per la legge approvata la settimana scorsa dal Parlamento che definisce il ricorso alla maternità surrogata “reato universale”, cioè perseguibile anche se i cittadini italiani vi fanno ricorso all’estero. «Sono stata molto felice quando ho saputo che la legge è stata approvata. È ora che la maternità surrogata venga riconosciuta per quello che è: un reato. Spero che la legge italiana costituisca un precedente e venga seguita da altri Paesi. Contrariamente a quanto mi aspettavo, non è stato il Nord, ma il Sud del mondo (India, Thailandia…) a vietare per primo la maternità surrogata. Finalmente un Paese del Nord lo segue. È importante che anche i Paesi in cui vivono gli acquirenti si assumano la responsabilità del comportamento dei loro cittadini».

Nel suo libro “Essere ed essere comprate” (Meltemi, pag. 250, euro18) lei sottolinea la somiglianza della maternità surrogata alla prostituzione. Un paragone che sorprende. Può spiegarne i motivi?

Entrambe sono industrie che mercificano le donne e trasformano in prodotti ciò che è al fondamento della vita umana. Nella prostituzione ciò che viene venduto è il sesso senza riproduzione. Nella maternità surrogata, si tratta di riproduzione senza sesso. In entrambi i casi, però, è la donna a essere venduta e le viene negato il punto fondamentale dell’attività stessa: non prova piacere dal sesso e non ottiene alcun figlio dalla riproduzione. In entrambi i casi è totalmente disumanizzata.

Lei è una femminista e come tale combatte la sua battaglia culturale contro la maternità surrogata. Ma è difficile, perché l’immagine prevalente è quella della coppia con problemi di sterilità che desidera realizzare il sogno di un figlio, e dall’altra parte la madre surrogata è presentata come una donna generosa, una sorta di fata madrina… In realtà sappiamo che si tratta di un business mondiale, e per questo difficile da ridurre o sradicare. Insomma, dottoressa Ekman, qual è la strada per abolire la maternità surrogata?

La maternità surrogata è, come disse la prima madre surrogata americana, Elizabeth Kane, un trasferimento di dolore. Una donna è infelice perché non può avere figli, ma quando compra la maternità surrogata, prende il figlio di un’altra donna. Le madri surrogate non sono robot. Hanno sentimenti e spesso sono traumatizzate dalla perdita del figlio. Inoltre, al bambino viene negato il diritto di conoscere la propria madre, il che rappresenta una violazione dei diritti dei bambini. Per rispondere alla domanda, la maternità surrogata non è difficile da sradicare: gli Stati devono solo smettere di essere complici. Se gli Stati non riconoscessero più la validità dei contratti di maternità surrogata, questa industria scomparirebbe da un giorno all’altro.

In Italia la legge sulla maternità surrogata “reato universale” è stata presentata dal centrodestra e ha spaccato la sinistra. Da un lato le femministe storiche plaudono a un tentativo di contrastare la gestazione per altri, pur con alcuni distinguo, dall’altro i partiti di opposizione al governo la considerano liberticida, punitiva per le coppie omosessuali maschili e discriminatoria per i bambini. Cosa ne pensa?

Qualsiasi movimento di sinistra che voglia essere credibile deve opporsi alla vendita dei bambini. Altrimenti è un movimento per i diritti dei capitalisti.

Qual è la situazione globale oggi? Ci sono casi gravi di sfruttamento delle donne che potete documentare?

L’industria della maternità surrogata è per sua natura criminale. Viola una serie di leggi nazionali e internazionali. Quando un Paese dopo l’altro la vieta, si sposta e si installa in un altro luogo. Quando l’India e la Thailandia hanno chiuso i battenti, si è spostata in Nepal e poi in Messico. Finge di essere un’attività rispettabile e crea siti web patinati, ma in realtà è una mafia. Ci sono casi in cui le donne vengono rapite e vendute per la maternità surrogata. Ci sono casi in cui lo sperma utilizzato non è nemmeno quello degli acquirenti, ma quello dei gestori, che semplicemente violentano le donne per metterle incinte. Ci sono estorsioni di ogni tipo. Alcune donne sono morte a causa della maternità surrogata, come Natasha Caltabiano e Brooke Brown.

Qualcuno dice anche che dovrebbe essere autorizzata la gestazione surrogata solidale, escludendo solo quella commerciale. Questo potrebbe eliminare il sospetto che ci sia uno sfruttamento dei più ricchi sui più poveri. È d’accordo?

Se non pagare un lavoratore elimina lo sfruttamento, allora dovremmo abolire del tutto gli stipendi! Nessuno dovrebbe essere pagato e tutti i lavoratori dovrebbero lavorare per solidarietà con i loro padroni. No? Be’, se non potete chiederlo a un lavoratore che produce il vostro telefono cellulare, perché dovreste chiederlo a una donna – che deve rimanere incinta per nove mesi, rischiare l’infertilità e la morte, sottoporsi a tutti i tipi di interventi medici dolorosi, astenersi dai viaggi e dalle attività sessuali, partorire e rimanere con cicatrici sul corpo a causa del cesareo – gratuitamente? A me non sembra solidarietà, sembra schiavitù.

Lei è svedese. Com’è la situazione nei Paesi scandinavi?

È molto negativa. Le leggi non sono al passo con la situazione. Nel frattempo, l’industria della maternità surrogata si è affermata qui e vende bambini a prezzi scontati dall’Ucraina. Nel 2011 c’è stata un’indagine statale che ha proposto di vietare la maternità surrogata, ma non è mai stata votata in Parlamento. Non esiste alcuna legge e le autorità sono complici di questi crimini gestendo i casi di adozione presso le nostre ambasciate nel mondo.

Un’ultima domanda: la maternità surrogata riduce la maternità a un lavoro, disumanizza la madre e in definitiva il bambino. Perché è così difficile da capire?

Perché quando i ricchi vogliono qualcosa dai poveri, fanno credere che sia un diritto umano ottenerlo.


(Avvenire, 24 ottobre 2024)

di Annarosa Buttarelli


La necessità di contribuire alla fuoriuscita dal caos cognitivo in cui tutto il mondo è precipitato, ha suggerito a due filosofe femministe, del calibro di Adriana Cavarero e di Olivia Guaraldo, di portare un contributo imprescindibile alla chiarezza e all’assunzione di responsabilità soggettiva nel momento in cui si sceglie per quale causa lottare. La causa per cui, nel travaglio contemporaneo, si impone il loro libro Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa), (Mondadori, Milano 2024) ha molti motivi. Tra i più urgenti quelli che occupano il dibattito pubblico, non solo italiano, e che riguardano soprattutto i rapporti tra i sessi, i generi, la maternità, le famiglie, le richieste delle minoranze sessuali, le neolingue, il linguaggio impreciso che, ad esempio, inventa “persona che mestrua” per evitare di dire donna. Parecchie recensioni hanno messo a fuoco l’importanza del libro nell’affrontare temi cruciali come il femminicidio e la violenza contro le donne.

Oppure l’intersessualità che contesta il cosiddetto binarismo maschio-femmina, come fanno anche le identità trans-sessuali. È molto importante l’affondo sull’equivoco prodotto dall’uso eccessivo di gender, tradotto come “genere”, una parola che prende la scena in ogni contesto senza che si sappia veramente cosa significa: «(per il pensiero della differenza) la distinzione tra genere e sesso è secondaria, anche perché ciò che si intende per genere è spesso sostituibile con la categoria di stereotipo culturale» (p.11). Il lavoro di chiarificazione espande il testo delle autrici fino a coprire tutto il campo dell’aspra discussione contemporanea: ad esempio, nel capitolo intitolato “Sesso e genere”, Cavarero e Guaraldo hanno la possibilità di dare ampia voce a Judith Butler, la più famosa teorica del gender, che imposta le sue proposte a livello di «regimi discorsivi che intendono produrre la verità sui sessi e sulle loro differenze» (p. 120). Butler, scrivono le autrici, non lavora sui dettami misogini del patriarcato, ma propone di concentrarsi sulle «ingiunzioni di quella che, riprendendo Adrienne Rich, Butler chiama matrice eterosessuale o eterosessualità obbligatoria […] stabilendo quindi ciò che è normale e ciò che non lo è» (p. 124).

Nel cruciale capitolo “Maternità surrogata. Corpi in vendita?”, si può vedere come sia questo il campo in cui infuria maggiormente la “lotta per il linguaggio”, e nel quale, ancora una volta, si provi a cancellare l’esistenza delle madri proponendo di chiamarle portatrici gestazionali: «È questo forse il sintomo più mostruoso di una terminologia che deve fare i conti con uno stravolgimento del concetto stesso di maternità, ora frammentata in più corpi di donna, dall’assemblaggio delle cui funzioni organiche nasce un bambino che è figlio di terzi (p. 165)».

Dal mio punto di vista di filosofa femminista coinvolta, trovo decisivo assumere l’impegno del libro riportato in quarta di copertina: «Il femminismo della differenza sessuale non intende affatto definire in maniera rigida e stereotipata il femminile, anzi, ne vuole liberare le potenzialità espressive, esaltandone la libertà». Bisogna rendersi conto dell’urgenza con cui è presentato il compito dal libro, un’urgenza che deve farsi largo tra le più drammatiche del nostro tempo non certo privo di pericoli radicali: la divenuta precaria presenza nell’agonica cultura del presente dell’autorevolezza del femminismo, sostengono le autrici. Il femminismo si è certamente diffuso tanto da moltiplicare le sue declinazioni e da obbligare a dire che ormai esistono parecchi femminismi.

La diffusione, da un lato, è un bene, poiché significa l’irreversibilità della rivoluzione mondiale delle donne che fa accedere a un senso comune della libertà femminile; dall’altro lato può anche significare perdita di qualità e di pensiero profondo, significato come “espressività” dalle autrici, cosicché la “libertà” può declinarsi facilmente in una generica richiesta di diritti o, ancor peggio, può indurre a rendersi complici dei consumi culturali che il neoliberismo propone di continuo, sfruttamento dell’ondata queer compresa. In un momento storico in cui si gioca quasi tutto sulla scena mediatica, in cui l’appello ai diritti è sostenuto dall’individualismo identitario che ha forgiato la cultura europea-occidentale, in cui la scientificità ha abbandonato l’insegnamento, la formazione, la cultura umanistica stessa, il confronto tra posizioni, il moltiplicarsi dei femminismi, e la conseguente difficoltà a unirsi in lotte comuni urgentissime, tutto questo sta producendo quasi una rimozione della presenza vivificante del pensiero e delle pratiche della differenza sessuale.

«Il (vocabolario pubblico) è in perpetuo accrescimento strutturalmente equivoco, e i singoli termini, assumono un significato diverso a seconda dello schieramento politico e culturale di chi li usa (p. 7)». Non è solo per questo che si è persa la scientificità del pensare e dell’agire (una perdita incalcolabile nel campo dell’istruzione e della formazione delle giovani generazioni), ma si è persa generalmente anche nel compito fondamentale di un filoso-fare degno di questo nome: saper leggere la realtà per come è, «le cose per ciò che esse sono». E non è stata solo la fenomenologia di inizio ’900 e reindirizzare così la ricerca filosofica, lo è stata ancor di più e differentemente la ricerca filosofica delle pensatrici del secolo scorso (Weil, Murdoch, Arendt, Lonzi, Zambrano, Lispector, Irigaray…) che hanno forgiato la loro offerta di discernimento, di coraggio di fronte alla realtà, di rivoluzione filosofica improntata dal segno differente del loro pensiero di donne. Oggi sarebbe il momento di ripristinare quella che un tempo si chiamava “onestà intellettuale”, e di ribadire che c’è ignoranza nel mondo della cultura e dell’insegnamento dove si è installata una certa mancanza di scientificità. Le letture della realtà che prescindono pervicacemente dalla differenza sessuale sono astratte e troppo imprecise.

Le rimozioni del materno, quindi delle origini concrete di ogni essere umano, e del fatto che anche le donne fanno filosofia eccellente, ribadiscono le autrici, hanno creato all’interno della filosofia stessa, che ha a sua volta creato la cultura occidentale dicotomica, la differenza sessuale negativa «tradotta in inferiorità femminile», dunque hanno imposto la caduta verticale della capacità scientifica di presentare letture aderenti alla realtà così com’è raccontata, almeno, dalla Rivoluzione francese in poi, come pervasa dall’utile metafora dell’uguaglianza. Tanto che le autrici si interrogano sulla probabile incompatibilità tra democrazia moderna ugualitaria e esistenza concreta della differenza femminile, genealogicamente capace di praticare politicamente la «soggettività relazionale e anti-individualista» (p. 136).

A questo punto, come ringraziare adeguatamente Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo per il contributo che stanno dando al cambio di civiltà in corso, nel quale, se lo vogliamo accompagnare, non si potrà più ignorare l’autorità del pensiero della differenza sessuale?


(Doppiozero, 28 ottobre 2024

di Alessandra Pigliaru


Le carte dell’autrice di «Sputiamo su Hegel», saggista e critica d’arte verso una nuova sede


L’Archivio Carla Lonzi arriva alla Fondazione Basso. Si apprende da una nota del centro di ricerca romano di via della Dogana Vecchia, con cui è stata annunciata la nuova sede delle carte della femminista, saggista e critica d’arte italiana, dopo che pochi giorni fa Battista Lena, figlio di Lonzi e proprietario del Fondo, ha firmato il contratto di comodato.

Cinque mesi fa, la direzione della Galleria nazionale (ovvero Renata Cristina Mazzantini) aveva infatti sospeso anzitempo il comodato tra lo stesso Lena e la Gnam che nel 2017, per volontà dell’allora direttrice Cristiana Collu, avviava il primo riordino delle carte. La ritirata aveva suscitato, legittimamente, non poche perplessità e richieste di chiarimento tra cui una interrogazione parlamentare di Luana Zanella (Avs) al Mic per domandare, insieme alle ragioni per cui non fosse stato chiesto a Battista Lena di donare il fondo preferendo l’interruzione dei rapporti con tre anni di anticipo, che lo stesso archivio potesse diventare «Bene Culturale, rappresentando esso rilevante interesse artistico, storico, archivistico e bibliografico» (ne avevamo scritto su queste pagine il 30 maggio, ndr).

Ora, insieme alla buona notizia della nuova dimora che ospiterà le carte di Carla Lonzi, il cui prezioso inventario, a cura di Marta Cardillo, con la collaborazione di Lucia R. Petese, il coordinamento di Claudia Palma e la consulenza scientifica di Annarosa Buttarelli è consultabile nel sito della Gnam, sappiamo che il destino dell’autrice di Sputiamo su Hegel non sarà la dispersione. Potrà invece essere consultato da studiose e studiosi nella sede storica della Fondazione Lelio e Lisli Basso, che oltre a conservare quasi 90 fondi archivistici e un indiscutibile prestigio, nel 2015 aveva organizzato con il Centro Riforma dello Stato un ciclo di tre seminari proprio intorno alla figura di Carla Lonzi declinando tre parole cruciali: politica (con gli interventi di Maria Luisa Boccia e Ida Dominijanni), arte (con Laura Iamurri e Maria Antonietta Trasforini) e profezia (con Gaia Leiss e l’indimenticata Rosetta Stella).

«Sono felice che l’archivio di mia madre trovi la sua collocazione alla Fondazione Basso, che l’ha accolto con entusiasmo», dichiara Battista Lena, che accenna a «nuovi e interessanti materiali» del fondo per cui, nel luglio di quest’anno, la Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio ha avviato la procedura per la dichiarazione di interesse storico.

Tra i lasciti più grandi di Carla Lonzi vi è il lavorio mai esausto nel solco della libertà femminile, capace di generare simbolico ancora oggi. Ecco spiegate le numerose – e fortunate – iniziative intorno al suo nome, alla produzione – sua e di Rivolta femminile – e alla sua esperienza, multiforme se consideriamo quanto ancora riesca a interrogare generazioni di donne assai diverse, non solo anagraficamente. In questa direzione si legga, per esempio, la recente ripubblicazione da parte de La Tartaruga della sua opera completa, come anche i convegni, le mostre, le discussioni pubbliche riguardanti i suoi testi, che hanno il pregio di saper parlare al presente. Del resto si tratta di un’eredità d’amore senza testamento.


(il manifesto, 27 ottore 2024)

di Giusi Fasano


Capita che a un incontro pubblico, in qualche titolo di giornale, in una discussione privata, ci sia qualcuno che a un certo punto dica: ci sono anche donne che uccidono uomini però non se ne parla mai. A parte il fatto che non è vero; le rare volte che succede se ne parla eccome. Ma quello che risulta fastidioso è la tracotanza di chi accende un faro sulle (pochissime) storie di violenza femminile convinto che sia giusto dare a quella violenza la stessa rilevanza che meritano – tutti assieme – i casi di uomini che si accaniscono contro le donne. Che poi: quando parliamo di violenza contro le donne spesso evochiamo unicamente il femminicidio ma come sappiamo c’è molto altro. C’è la violenza economica, con la quale si alzano muri per tenere prigioniera una donna in una relazione, soprattutto quando ci sono di mezzo dei figli. C’è la violenza psicologia, sottile e tagliente come lama di coltello. E ci sono moltissime donne che portano i segni della brutalità del partner: lividi, fratture, lesioni di vario genere non di rado gravi o gravissime.

Nel libro “Il futuro mi aspetta” (Feltrinelli Up) scritto a quattro mani con Daniela Palumbo, Lucia Annibali racconta del suo “dopo”. Dopo l’acido in faccia ordinato per lei dal suo ex e dopo il tempo della sofferenza fisica, del processo. In quel dopo ci sono anche gli incontri con i ragazzi nelle scuole e le domande più frequenti che le rivolgono. Una, definita «ricorrente» e «inquietante», e che in genere viene dalla voce di un ragazzo, è proprio quel «perché si parla sempre di violenza sulle donne e mai viceversa?». Lucia scrive che «è un quesito terribile che svilisce la cura e la fatica del mio racconto». E aggiunge che «è anche capitato che a questa domanda seguissero applausi di gruppi di studenti presenti… Quando succede ci resto male. Mi sembra una provocazione e dunque un’occasione sprecata».

Per quanto scoraggiante sia la domanda, la risposta è facile ed è nei dati. Donna uccisa = movente da cercare in una relazione intima, quasi sempre. Uomo ucciso = moventi vari, quasi mai legati a una relazione intima. Certo, poi sarebbe necessario andare alla radice del problema, e cioè alla domanda – questa sì – che bisognerebbe farsi: da dove arriva l’incapacità di accettare un abbandono che fa scegliere ai più violenti la morte di lei piuttosto che la vita senza di lei?


(Corriere della Sera, 27 ottobre 2024)

di Nadia Terranova


Scrittrice sassarese, di sé lascia pochissime tracce biografiche, muovendosi sempre ai limiti del canone. Collabora con il cinema di Fellini e Zavattini e consegna alla storia del costume indimenticabili istantanee di personaggi letterari e no. E due romanzi che hanno per protagoniste donne, amiche, sorelle.

Nel discorso sempre molto frequentato sul canone letterario, il crinale più interessante negli ultimi tempi non è tanto la distinzione tra ciò che è canone (o lo è stato o forse lo sarà) e ciò che non lo è, ma la galassia scivolosa e multiforme di quegli autori che vivono un’esistenza indifferente e parallela ai parametri, e in quella zona, solo in apparenza opaca, trovano a volte un’originale forma di fortuna. Appartiene a questa genìa Leila Baiardo, scrittrice sarda di cui si rintracciano poche notizie biografiche e ancor meno fotografie, che la ritraggono quasi tutte da anziana, negli ultimi anni della sua lunga vita conclusasi qualche anno fa. On line è difficile scoprirne la data di nascita, le bandelle dei suoi romanzi la omettono (un vezzo adorabile) e il canone l’ha ignorata: le scarne notizie su di lei riportano perlopiù informazioni filtrate da lei stessa.

Nata a Castelsardo, vicino Sassari, dopo la maturità classica si sposta a Roma, dove inizia a collaborare con le maggiori riviste letterarie della sua epoca, tra cui Noi donne e Nuovi Argomenti, occupandosi di interviste e recensioni. Nel 1976 pubblica con Bompiani L’inseguimento, proposto all’editore da Cesare Zavattini, con il quale all’epoca l’autrice collaborava nella stesura di soggetti per il cinema. Il romanzo ha un buon riscontro di critica, Leila Baiardo è piuttosto conosciuta nell’ambiente letterario e cinematografico, lavora con i fratelli Taviani e, sette anni dopo il suo esordio, vince il Premio Noi Donne con il romanzo Sogno d’amore. Risalgono a quegli anni i suoi ritratti di poeti e scrittori oggi raccolti nell’antologia Incontri, pubblicata per la prima volta in formato elettronico nel 2010 da La Recherche e oggi disponibile in cartaceo nel catalogo delle Commari, piccola e attivissima casa editrice indipendente che di Baiardo sta curando l’opera omnia e la riscoperta. Incontri è un libro fresco e spigolosamente sincero, ideale per fare la conoscenza del personaggio, prima ancora che dell’autrice: in queste pagine gli intellettuali vengono fotografati con una libertà che può apparire disarmante nell’eccesso di sussiego al quale oggi siamo abituati. «Devo dirlo subito e poi spararmi. Era una donna antipaticissima» scrive Baiardo di Elsa Morante. E di Jolanda Insana: «Un’altra antipaticona (quasi quanto la Morante) ma una buona poetessa». Amelia Rosselli «era intelligentissima e contemporaneamente stupida e pazza. Forse più pazza che stupida. Ma non è un giudizio e tantomeno una diagnosi. Anch’io sono pazza. E a volte anche stupida». Leila Baiardo ricorda poi le lunghe quasi oniriche conversazioni con Sandro Penna e i suoi guai con i ragazzini di cui si invaghiva e che portava nella casa dove viveva con la madre, l’affabilità affettuosa di Federico Fellini, il dialogo fulmineo e ricco di presagi con Anna Proclemer.

Sempre, la notizia delle morti di questi conoscenti la coglie anni dopo, quando è già lontana dai loro mondi e appartata, quasi isolata, tanto che si ritrova a fare le condoglianze a sé stessa, celebrando a ogni addio un altro pezzo della fine del suo mondo. In questo librino irresistibile l’autrice mette insieme con audace disinvoltura Antonio Delfini e Mike Bongiorno, Topazia Alliata e Fred Buscaglione, il tutto introdotto da un’accorata prefazione di Elio Pecora, che per Leila Baiardo, «donna molto singolare e con un’esperienza di vita assai varia », si augura un destino preciso: «Vorrei tanto che toccasse a Leila, anche se con troppo ritardo, l’attenzione che merita dalla famiglia ampia e composita di chi cerca nella narrativa la qualità e il piacere, la complessità del reale e la leggerezza del sogno».

Il lavoro della casa editrice Le Commari raccoglie questo augurio.

La santa e Dies Illa, i due romanzi in catalogo, giocano sulla stessa schiettezza di scrittura, sulla stessa fresca ironia, ma qui il registro è alto, non più di costume si tratta ma di opere di valore letterario, che rielaborano ritagli di vissuto dell’infanzia e dell’adolescenza per restituirli in forma narrativa. In Dies Illa, esplicitamente ambientato a Castelsardo, le protagoniste sono Ela e Mira, al secolo Electa e Mirìce, sorelle adolescenti, molto diverse fra loro: attraverso le loro vite possiamo leggere il cambiamento epocale della Sardegna negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’isola fu travolta dall’arrivo del turismo e i sogni di tutti offuscati dal miraggio del benessere. Anche La santa ha per protagoniste una coppia di ragazze, stavolta cugine: una delle due, la più capricciosa e stupida, ma forse invece la più illuminata, costruirà intorno a sé un’aura mistica, raccontando di avere delle visioni e ritirandosi sempre più a una vita mortificata: il filo esile che tiene insieme egocentrismo e santità viene tenuto magistralmente dall’autrice fino alle ultime pagine.

Abbiamo iniziato la conoscenza di Leila Baiardo premettendo una sua estraneità al canone, è vero. Eppure, di Dies Illa Toni Maraini ha scritto: «C’è qualcosa di antico in questo libro, un pathos che evoca i grandi romanzi del Novecento». Inoltre, Baiardo figura tra le cinquanta scrittrici della mitica antologia Il pozzo segreto, pubblicata da Giunti nel 1993, accanto a nomi come Natalia Ginzburg, Goliarda Sapienza e Maria Bellonci. Forse il canone è più imprevedibile di quanto pensiamo. Forse l’augurio di Elio Pecora si sta segretamente avverando. Forse possiamo solo godere di una scrittura interessante e disinteressata a vendite e promozioni, lasciando ad altri la costruzione dei totem editoriali.


(Robinson – Repubblica, 27 ottobre 2024)

di Vittoria Martinetto*


Clarice Lispector, La città assediata, Adelphi 2024


In un’intervista concessa a Julio Lerner nel 1977, Clarice Lispector definiva la propria scrittura «caotica, intensa, completamente fuori dalla realtà della vita», sottolineando di avere iniziato a scrivere poco dopo aver imparato a leggere, già da bambina. Forse per questo, la scrittrice mal sopportava certe analogie che la critica soleva instaurare, quale quella con l’esistenzialismo sartriano. Dicendosi timida e coraggiosa al contempo, puntualizzava: «Non sono una professionista: scrivo quando voglio. Sono una dilettante e ci tengo a continuare a esserlo», spiegando che questo le permetteva di mantenere la propria libertà. Sentiva i periodi fra la stesura di un romanzo e un altro come momenti di vuoto insopportabile: «Quando non scrivo sono morta», dichiarava con la sua congenita erre moscia che si adattava alla perfezione all’accento carioca, il bellissimo volto slavo, serio, le palpebre sottolineate dall’eyeliner come appaiono in tutte le immagini – fotografie in bianco e nero irresistibili per le copertine dei suoi libri –, palpebre che continuamente chiudeva quasi per raccogliere frammenti dal proprio mondo interiore e restituirli, uscendone esausta, all’intervistatore. Si ha la sensazione, guardandola, che la necessità di scrivere sia per lei stessa un mistero, che non sente il bisogno di sciogliere. Sempre nel corso di quell’intervista, parlando dei bambini per i quali aveva scritto storie, Lispector definiva gli adulti tristi e solitari, ma alla domanda di quando e perché ciò accadesse nella vita, si mostrava perentoria ed evasiva: «È un segreto, se non le spiace preferisco non rispondere. Sono triste perché sono stanca». La fine dell’intervista è impressionante: «In questo momento sono morta, ma rinascerò», dice riferendosi a quando avrebbe ripreso a scrivere. Quello stesso anno, però, Clarice Lispector muore davvero, di cancro, all’età di cinquantasette anni.

Nata in Ucraina nel 1920 da una famiglia ebrea costretta a emigrare per via delle persecuzioni razziali e stabilitasi in Brasile, Lispector ha sempre considerato il paese latinoamericano la sua vera patria dal momento che della Russia non aveva mai, letteralmente, calpestato il suolo, essendone venuta via in braccio, quando aveva due mesi. La scrittrice è, di fatto, una delle più grandi, se non la più grande scrittrice brasiliana del XX secolo. Malgrado l’ermetismo poetico della sua prosa abitata da epifanie e folgorazioni con venature di “misticismo laico” come nell’indimenticabile La passione secondo G.H. (1964), questa autrice «schiva e insieme popolare, anti-letteraria e insieme raffinatissima» come l’ha definita Rita Desti, ha conquistato un vasto pubblico proprio grazie a una voce talmente originale da renderla unica. Scoperta, per così dire, in Italia negli anni ottanta dalla piccola raffinata casa editrice torinese La Rosa, l’opera di Lispector ha suscitato l’interesse di editori quali Feltrinelli e Sellerio, approdando ad Adelphi che ne ha ripreso tre romanzi (Vicino al cuore selvaggio, 1987; Acqua viva, 2017; Il lampadario, 2022) e pubblicato per la prima volta nel 2019 Un soffio di vita (cfr. “L’Indice” 2019, n. 6) e ora La città assediata, scritto a Berna nel 1949 e terzo romanzo dell’autrice. Ancora una volta, la traduzione di questa lingua affascinante e difficile che si misura di continuo con l’indicibile è stata affidata all’impeccabile penna di Roberto Francavilla qui in collaborazione con Elena Manzato.

La città assediata è ambientato durante gli anni venti nel sobborgo di São Geraldo dov’è nata e vive la protagonista Lucrécia Neves, giovane donna che pur non essendo bella è dotata di un «eccesso di bellezza che non si trova nelle persone belle», la quale – come tutte le eroine di Lispector – è animata da una ricerca, quella di dare una forma al mondo che la circonda, divisa fra il desiderio romantico della metropoli, con i suoi teatri e giardini, e l’identificazione con il proprio borgo natale ai margini della modernità, che in qualche modo rimane indelebilmente associato a lei, diventando esso stesso un personaggio che prende forma specchiato nel suo sguardo inaugurale: «La ragazza non possedeva immaginazione bensì un’attenta realtà delle cose che la rendeva quasi sonnambula; aveva bisogno di cose perché queste esistessero». In preda a inquietudini senza nome che non è in grado di esprimere nella sua incantata ottusità, Lucrécia non è solo assediata dal proprio contesto, ma da sé stessa, è lei La città assediata. Clarice Lispector sosteneva che fosse stato il suo libro più difficile da scrivere. Narrato in terza persona e sviluppato in dodici capitoli secondo una cronologia lineare, segue l’itinerario di andata e ritorno della protagonista, fra città e campagna, che la vede transitare per diverse figure maschili: il tenente Felipe, il cui fascino risiede nella divisa ma disprezza São Geraldo e quindi la stessa Lucrécia; Perceu Maria tanto bello quanto vuoto; e il prospero commerciante Mateus Correia, che sposa realizzando il sogno della grande città subito frustrato dalle mansioni di casalinga e moglie. Tornata in paese dopo la vedovanza, troverà che anche São Geraldo ha subito un’inesorabile e deludente metamorfosi in nome della modernità. Focosa come un cavallo e irraggiungibile come una statua, sempre in bilico fra equilibrio e squilibrio, Lucrécia Neves si aggiunge alle tante memorabili figure femminili della narrativa di Lispector, anche qui in virtù della scrittura che ce la restituisce facendosi ancora una volta essa stessa protagonista indiscussa del romanzo. È forse semplicistico e livellante, come ricordava Luciana Stegagno Picchio, dire che un autore scrive sempre lo stesso libro, ma per Lispector la sentenza anziché riduttiva diventa illuminante: anche qui l’autrice sembra infatti scrivere con il corpo anziché con il cervello, e con il corpo e non solo col cervello va ricevuta La città assediata.


(“L’Indice dei libri”, ottobre 2024)


(*) Vittoria Martinetto insegna lingua e letterature ispanoamericane all’Università di Torino.

di Elena Petrassi


Segnaliamo una nuova voce apparsa quest’anno sull’Enciclopedia delle donne, a cura di Elena Petrassi: quella dedicata alla scrittrice, filosofa e femminista francese Simone de Beauvoir. Curata, documentata e ricca di informazioni, ne raccomandiamo la consultazione. Qui due brevi estratti dell’incipit.

(La redazione del sito)


«Sono una scrittrice, una persona la cui esistenza è interamente determinata dalla scrittura.»

(Simone de Beauvoir)


Icona dell’intellettuale “engagée”, scrittrice, filosofa, saggista, femminista, amante, Simone è stata una donna poliedrica che ha incarnato lo spirito esistenzialista della Francia del Novecento e consegnato al mondo alcuni dei libri che più hanno contribuito alla lotta dei movimenti femministi del secondo dopoguerra a partire dal celebre motto «Donne non si nasce, lo si diventa». La sua opera e la sua vita hanno influenzato generazioni di studiose in tutto il mondo come nessun’altra scrittrice del Novecento, forse più ancora nel mondo anglosassone che in quello francese.

Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir è nata il 9 gennaio 1908 in una famiglia borghese di inizio secolo. Cresciuta in boulevard Montparnasse al numero 103, nel piccolo edificio d’angolo con boulevard Raspail […].

La futura scrittrice mostrò sin da bambina un temperamento appassionato e vivace e l’acutezza di uno spirito critico che la sosterrà sempre e la condurrà a far diventare sé stessa e le persone che facevano parte della sua vita materiale primario sia della nota autobiografia in più volumi, a partire dalle Memorie di una ragazza perbene, che dei romanzi che la consacrarono regina delle lettere francesi con I Mandarini.

Accovacciata sul balconcino di casa la bambina amava osservare il viavai dei passanti e dei lavoratori, ascoltare le loro voci, immaginare le loro vite. Prediletta della madre che si occupava personalmente della sua educazione, Simone dimostrò sin da piccola di essere destinata a una vita eccezionale. Anche il padre, seppure in maniera meno diretta della madre, appoggiava le passioni intellettuali della bambina e aveva composto per lei, in un quadernetto in similpelle nera, un’antologia che conteneva anche brani di Racine, Corneille, Molière e Hugo; fu proprio Georges a trasmetterle l’idea che al mondo non esisteva niente di più bello del mestiere di scrittore. […]


(enciclopediadelledonne.it, voce pubblicata nel 2024)

di Marina Montesano


Itinerari critici intorno al libro «Arsenico e altri veleni» di Beatrice Del Bo, per Il Mulino.


L’accusa di avvelenamento, in particolare se rivolta a donne, è stata spesso intrecciata con quella di maleficio e pratiche magiche, creando una sovrapposizione che ha radici profonde. In tale contesto, il concetto di maleficio, inteso come l’uso di magia o poteri soprannaturali per fare del male, si confonde con quello di veneficio. Il legame tra genere femminile e uso di sostanze tossiche affonda le sue radici nel mondo antico, trovando espressioni emblematiche già nel mondo romano. Uno degli episodi più noti di questo fenomeno è il processo del 331 a.C., in cui, secondo Tito Livio, ben centosettanta matrone romane furono accusate di aver avvelenato i propri mariti.

Da qui possiamo tracciare una linea che attraversa i secoli fino al famigerato «Affare dei Veleni» che scosse la corte di Luigi XIV in Francia nel XVII secolo. La figura dell’avvelenatrice divenne sempre più comune, soprattutto a partire dal XII secolo, quando si verificò un forte revival della cultura classica.

Fu in questo periodo che la letteratura medievale iniziò a rappresentare le donne come figure potenti e pericolose, in grado di manipolare la magia e creare veleni letali. Il Roman d’Enéas, scritto attorno al 1160 e ispirato all’Eneide di Virgilio, introduce una maga ispirata a figure classiche come Medea, la famosa maga della mitologia greca che aveva ucciso i propri figli e utilizzato veleni nelle sue vendette.

In altre opere medievali, come il Cligès di Chrétien de Troyes o Amadas et Ydoine, appaiono donne dotate di straordinarie capacità magiche, esperte nell’arte di creare pozioni, spesso per curare o danneggiare a seconda del contesto. In questi testi, le maghe possiedono abilità che spaziano dalla guarigione di malattie come l’idropisia e la gotta, fino al controllo degli elementi e al potere di manipolare i sogni degli uomini. La figura di Isotta, nell’epopea di Tristano e Isotta, è particolarmente rilevante per capire come lo stereotipo dell’avvelenatrice venisse legato alla donna non solo per il suo potere magico, ma anche per la sua “alterità” culturale e geografica. Isotta, figlia della selvaggia Irlanda, viene vista come una nuova Medea, una “barbara venefica” le cui conoscenze sui veleni alimentano lo stereotipo della donna pericolosa, in grado di controllare la vita e la morte attraverso le sue pozioni.

Fuori dall’ambito letterario, la realtà storica mostra un quadro più complesso, come spiega il bel libro di Beatrice Del Bo, Arsenico e altri veleni. Una storia letale nel Medioevo (il Mulino, pp. 302, ill.17, euro17). Organizzato in una serie di brevi paragrafi tematici, scritto con uno stile narrativo vivace, il volume si legge con estremo piacere, ma è evidentemente frutto di accurate ricerche che consentono di presentare un quadro molto ampio. Come scrive Del Bo nell’introduzione: «Da un lato, sarà come visitare un museo del veleno, allestito con libri, immagini, erbe, fiori, funghi, animali medicine e minerali, e, dall’altro, sarà come leggere una silloge di racconti a sfondo noir, con la differenza che i protagonisti sono persone realmente vissute, e morte, secoli e secoli fa».

Le accuse di avvelenamento rivolte alle donne, soprattutto quelle di potere, erano spesso legate a contesti di crisi politica o dinamiche di lotte interne alle corti: come nel caso dei Visconti, sui quali l’autrice si sofferma. Ma se il genere colonizza l’immaginario in rapporto ai veleni, essi non sono certo uno strumento soltanto femminile e tantomeno sono soltanto appannaggio delle corti.

Gli ambienti mercantili non sono da meno, e anzi Arsenico e altri veleni parte proprio da lì, dalle spezierie, come quella gestita dalla famiglia Turconi a Verona durante la prima metà del XV secolo, i cui beni sono attestati da un inventario redatto nel 1438. Del Bo ne traccia una vera e propria storia culturale: partendo dalle botteghe dove si producono, ci parla di erbe e piante altamente tossiche, e poi degli animali, come i rospi e le tarantole, ma con una varietà inattesa. Ci sono poi i controveleni, ossia i rimedi per gli avvelenamenti, nonché una serie di casi divertenti (per chi non è coinvolto…) attestati dalle fonti: dai tortellini ai fichi, la minaccia può celarsi dove meno te l’aspetti.


(il manifesto, 24 ottobre 2024)

di Anna Simone


«Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista», edito da DeriveApprodi. Il volume scritto da Silvia Lippi e Patrice Maniglier è il primo della nuova collana editoriale «Sabir». Un testo a metà tra l’invettiva, la ricostruzione storica e la critica radicale al maschilismo insito nella teoria freudiana e lacaniana. L’autrice e l’autore si affidano idealmente alla guida di Valerie Solanas che immagina un mondo costituito a partire dalle sole relazioni tra donne


Se la pratica politica dell’autocoscienza, il «partire da sé», l’idea di un posizionamento che parte dal corpo, anziché dal ruolo e dallo status giuridico, hanno segnato profondamente la storia dei femminismi negli anni Settanta, è altrettanto vero che negli stessi anni si andava dipanando una matassa molto più complessa: il rapporto tra psicoanalisi e femminismi inglesi, francesi e italiani, con approdi diversi eppure accomunati dall’idea secondo cui scavare a fondo significa decolonizzare l’inconscio dallo sguardo maschile e patriarcale per aprirlo ad una sessualità libera e indipendente, in poche parole al desiderio di ciascuna.

Coscienza e inconscio hanno a che fare sempre con il linguaggio, ma la prima risponde alla possibilità di prendere parola sulla propria condizione a partire dalla riflessività, il secondo richiede sicuramente un processo di emersione più lento e articolato perché assai lontano dalla razionalità. 

Sinteticamente, infatti, si potrebbe dire che «prendere coscienza» di una condizione risponde più alle logiche sociali e culturali, mentre maneggiare l’inconscio significa riportare alla luce gli abissi che si manifestano sotto forma di sintomi, fantasmi, linguaggi scomposti e notturni. Pertanto, potremmo dire che se l’inconscio si manifesta sempre a partire dal proprio vissuto singolare, la coscienza può anche manifestarsi collettivamente.

In tal senso gli anni più floridi del rapporto tra femminismi e psicoanalisi sono senz’altro stati i primi Settanta della seconda metà del Novecento. L’approccio freudo-marxista di Juliet Mitchell, ad esempio, è stato importantissimo nel contesto anglosassone e poi ovunque per sostenere la tesi secondo cui nei femminismi socialisti riferirsi solo a Marx, senza tener conto di Freud, significa ridurre la portata di quest’ultimo nel momento in cui ha indicato nel profondo l’origine della scena edipica, a partire dalle figure paterne e materne, nonché della sessualità.

Secondo Mitchell, infatti, al di là della condizione di subalternità femminile prescritta dalla biologia, l’inconscio incamera anche la condizione sociale e culturale dell’asimmetria disegnata dal patriarcato divenendo un fatto psichico di matrice storica, non solo biologica.

Parallelamente, in quegli anni, in Francia si andava costituendo il gruppo fondato da Antoinette Fouque «Psy-et-Po» (psicoanalisi e politica), da cui poi emergeranno figure fondamentali per il femminismo radicale della differenza, quali Luce Irigaray, Julia Kristeva e altre.

Su quest’ultimo approccio diveniva centrale l’influenza di Jacques Lacan, dello strutturalismo e della centralità del linguaggio. Loro, a differenza di Mitchell, non faranno sconti né a Freud, né a Lacan, né all’intero plesso costitutivo della filosofia occidentale, al punto che la stessa Irigaray, come noto, con le sue idee centrate sulla valorizzazione della sessualità e del sesso femminile inteso come «speculum» e non come «specchio» del e dal maschile, sarà letteralmente cacciata dalla scuola lacaniana.

In quegli anni, in altre parole, il gesto dell’inconscio o, se vogliamo, il taglio dal logos maschile e dal fallocentrismo, in sintesi dall’ordine simbolico del padre, si sarebbe poi andato a sedere sull’ordine simbolico della madre e della sessualità femminile, non senza generare problemi, equivoci, conflitti intergenerazionali.

Da allora, a parte Judith Butler che ha criticato con veemenza alcune categorie lacaniane, collocandosi all’interno di ciò che potremmo definire «post-strutturalismo», a parte altre psicoanaliste interessanti come Manuela Fraire da una parte e Clotilde Leguil dall’altra, con la sua interessantissima critica al concetto di «genere» inteso come linguaggio incline all’ideologismo, nonché al nascondimento del valore singolare di ogni essere umano, donna o uomo che sia, e poco altro, non abbiamo assistito a vere e proprie scene di rottura rispetto alla tradizione teorica e clinica della psicoanalisi. Quantomeno non dal suo interno.

A rompere tutti questi schemi, invece, è arrivata da poco nelle nostre librerie, l’edizione italiana di “Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista” (pp. 256, euro 20) di Silvia Lippi e Patrice Maniglier, primo testo di una promettente collana di Derive Approdi dal titolo “Sabir”, diretta da Federico Chicchi, Luca Negrogno e Marco Rovelli.

Il volume, già uscito in Francia nel 2023, si presenta sin dalle prime pagine come un testo a metà tra l’invettiva, la ricostruzione storica del rapporto tra femminismi e psicoanalisi, la critica radicale al maschilismo insito nella teoria freudiana e lacaniana, provando con ogni mezzo a ritessere un rapporto critico e articolato tra femminismi contemporanei, psicoanalisi e politica.

Scritto da una psicoanalista e da un filosofo, un «noi» sempre declinato utilizzando un linguaggio al femminile, il volume mira a compiere una serie di mosse ardite e sorprendenti.

Proviamo a sintetizzarne alcune.

L’inconscio è sempre rivoluzionario, è senz’altro singolare, ma può anche diventare collettivo, connotandosi attraverso il filtro della «sorellanza» al fine di decostruire la triade eterosessuale «madre, padre, bambino/bambina»; per mettere in luce «l’impensato eteropatriarcale, coloniale, borghese, eventualmente anche omofobo e razzista», bisognerebbe decostruire i discorsi della psicoanalisi al fine di renderla più attuale e rispondente alle realtà sociali della contemporaneità; la «psicoanalisi sororale» è indispensabile per destrutturare il nesso tra essa e i contesti storici patriarcali in cui è nata; sul fronte femminista è bene, invece, recuperare il nesso che secondo Lippi e Maniglier esiste tra il Manifesto “SCUM” di Valerie Solanas e il #metoo contemporaneo per permeare di nuova psicoanalisi il femminismo odierno di quarta ondata.

Per fare cosa? Semplice, rispondono Lippi e Maniglier: «Per ricominciare con la psicoanalisi su un’altra strada. Non più quella del fallo, ma della sorellanza». Come noto, Solanas ha avuto una biografia alquanto complessa: spara a Andy Warhol che cerca di appropriarsi illegittimamente di un suo scritto lasciandolo inabile per il resto della sua vita, vive ai margini della società, trasforma la sua labile psiche in qualcosa che, secondo Lippi e Maniglier, «colpisce nel segno».

Ma cosa può voler dire davvero in questo testo «eliminare tutti gli uomini», nonché fare della vita «delirante» di Valerie Solanas qualcosa di rivoluzionario anche per la psicoanalisi, oltre che per il femminismo?

Innanzitutto, vuol dire definire le donne e tutto il femminismo odierno senza fare più riferimento al maschile se non attraverso il filtro delle relazioni reciproche, ma significa anche rimettere al centro il concetto di sorellanza intendendo con ciò il principio secondo cui una donna può diventare una sorella, mentre un uomo è sempre ciò che ostacola la sorellanza, proprio come accaduto quando molti uomini attaccavano il movimento #metoo considerandolo bigotto, vittoriano e criminalizzante.

Messa così, con questa sintesi, potrebbe persino apparire un libro a sua volta provocatorio, oltre che molto semplificato. In realtà, invece, i processi di decostruzione e ricostruzione presenti in ogni pagina di questo testo mirano fondamentalmente a sostenere la tesi secondo cui sia il desiderio che la politica non sono saggi, né mai si sono dati in questa forma e dunque perché continuare ad imbastire parole ipocrite basate ancora sull’egemonia del patriarcato e di una sua presunta normalità?

Certamente osare, spingere in avanti, generare tagli epistemologici e posizionati è sempre stato importantissimo per i femminismi. Tuttavia, relazionandosi con questo libro qualche piccola perplessità arriva.

Il concetto di sorellanza, ad esempio, proveniente dall’ideologia socialista ed emancipazionista non si è mai dato nella realtà della relazione tra donne e ciò perché sia la pratica dell’autocoscienza che la psicoanalisi hanno sempre dimostrato quanto di fatto ognuna sia singolare, per esperienza e per vissuto.

Inoltre, il patriarcato old school oggi si manifesta a sua volta come un “sintomo” votato spesso al rovescio violento e aggressivo, risentito, nonché affetto da gravi patologie del desiderio: siamo certe che “castrare” definitivamente il maschile sia davvero fecondo per i femminismi?

La discussione potrebbe continuare all’infinito, intanto non v’è dubbio che questo libro costituisce un nuovo taglio, qualcosa di radicalmente nuovo che senz’altro può contribuire al lavoro di decolonizzazione dal maschile dell’inconscio transfemminile e a cambiare la psicoanalisi.


(il manifesto, 20 ottobre 2024)

a cura di Gabriella Freccero


Il libro L’Iliade cantata dalle dee (Solferino 2024) di Marilù Oliva si può leggere come un reportage della caduta di Troia, raccolto da quelle che c’erano, a dominare e intercedere o a farsi massacrare dal furore di Ares. Nessuna ebbe una sua versione. Ora è il momento di dargliela.


Gli dèi amano i sacrifici, e rispondono a coloro che li invocano solo se vengono saziati nel loro inesausto bisogno di bere sangue umano. Così nell’ultima notte di Troia Creusa, moglie di Enea, sorella di Ettore, lasciata indietro nella fuga dal marito intento a trascinarsi sulle spalle lo stanco padre Anchise e a tirarsi dietro per mano il figlioletto Ascanio terrorizzato, fissa allucinata l’altare di Apollo in preda alle fiamme al centro della città, e vede cosa deve fare.

Coglie l’attimo in cui un destino si manifesta. Ora. Adesso.

Adesso, se lo farà, se si consegnerà a loro, le dee si ricorderanno di cantare i destini maledetti di chi soccombette quella notte a Troia e soprattutto di loro, le donne, le regine, le amanti, le figlie, le schiave e le serve dei belligeranti: i grandi e tronfi guerrieri Achei, ributtanti macchine di distruzione e stupro, violatori di patti, altari, giuramenti, trattati, templi, in nome del possesso violento e del puro istinto di saziare l’infinita ingordigia di beni; e dei loro avversari, i perdenti di una guerra dichiarata, come tutte le guerre, per uno scopo ridicolo – qui, in questa, per la riconquista di una donna rapita, ma ci sono stati e ci saranno motivi ancor più futili.

Una guerra già persa già molti anni prima, quando Troia cominciò a luccicare di ricchezze e suscitare cupidigie, perdendo la semplicità dei modi di vita passati, quando la comunità viveva povera e unita sulle rive dello Scamandro. Ma questa storia l’ha già raccontata Christa Wolf in Cassandra, capitolo secondo di tutte le guerre perse: gli errori degli sconfitti. 

Creusa sacrifica la sua vita tagliandosi il delicato collo con la spada dimenticata a terra. Si lancia tra le fiamme che avvolgono l’altare, provando la breve sofferenza che ha visto negli occhi di tanti agnelli e giovenche sgozzati ritualmente, la sua vita davvero ridotta a poca cosa confronto alla perdita del regno, del rango regale, forse anche del marito che proprio se la scorda nell’impeto visionario della fuga, già presentendo l’approdo sulle coste italiche.

Così, strappa alle dee l’impegno di ricordare. Di ricordarle, le donne di Troia, quelle Troiane che Euripide farà lamentare lugubremente in scena come spettri e che prima di essere un informe bottino bellico senza volontà erano spose fiorenti, giovani madri, figlie luminose, vecchie sagge. Le dee narreranno, allora, in prima persona, la loro versione dei fatti, ma lasceranno anche posto alla versione delle donne di Troia, le cancellate, le zittite, le stuprate, le profetesse inutili, le trascinate per i capelli, le impazzite dal dolore.

Qualcuno vuole usarti, qualcuno vuole essere usato da te. Qualcuno vuole abusarti, qualcuno vuole essere abusato da te cantava Annie Lennox in Sweet dreams, e tutti capivamo che l’enigmatico testo parlava della caduta dei sogni, delle dolci illusioni, nell’agire e nel patire reciproco, nel fare male e nel farsene, o farsene fare.

Perché Troia fu un campo di battaglia dove uomini e donne, dee e dei, giocarono una partita infame con carte truccate e barando a tutto spiano, in cielo e in terra, ma poi il destino assegnò a ciascuno la sua parte di dolore e lutto. Vero, Odisseo, Agamennone, Achille? Sì, i ritorni difficili. O il nessun ritorno. Un mare di lacrime che non servono a lavare il fiume di sangue che rigurgitò dallo Scamandro gonfio di cadaveri sulla pianura arsa dalla battaglia.

Le dee non sono super partes, appoggiano chi gli Achei chi i Troiani. Per motivi personali, ovviamente.

Afrodite sta con i Troiani di suo figlio Enea, come Ares che è il suo amante e fa quello che gli dice lei.

Atena glaucopide parteggia per i Greci, come potrebbe dimenticare i fumi dei sacrifici che si innalzano dalla città che le hanno dedicato, dalla vasta Attica, da Delfi, da Epidauro. Il sovrano di quell’isoletta isolata e boscosa, Itaca, è il suo protetto speciale, il suo campione, la mente più sottile di tutte, anche se ha l’aspetto trasandato di un pastore di pecore.

Teti cerca di difendere suo figlio Achille da se stesso, impresa impossibile da portare a casa. L’eroe perderà in battaglia l’amante Paride, e l’ira funesta per gli sgarbi subiti da Agamennone gli ricadrà sul capo come una granata deviata di fuoco amico. Così si scende nell’Ade da stolti, oppure ci si racconta che era destino. E già. Chi si può opporre al destino.

Era non può sopportare il principe Paride da quando le ha negato il pomo della più bella assegnandola a Afrodite, come era da aspettarsi da un ragazzino senza giudizio incapace di apprezzare il fascino superiore di una donna di potere. Quindi, morte ai Troiani.

Per Eris, dea della discordia, la guerra di Troia è un puro godimento, un banchetto succulento, una torre di babà alla crema in cui tuffarsi, occasione quasi didattica di verificare quanto danno riescano a farsi gli uomini lasciati a loro stessi e alle loro grandiosamente puerili mire. Basta impegnarsi pochissimo, stuzzicandoli appena un minimo in battaglia, e poi lasciarli giocare alla guerra fino all’inconcepibile, all’irreparabile, alla catastrofe. Sempre un vero divertimento, anche conoscendo a memoria il finale.

Elena. Come si può parlare del sogno erotico di ognuno che l’abbia o non l’abbia vista, del più bel corpo che abbia mai posato il piede al suolo, del sembiante più citato raccontato descritto immaginato della storia. A lei questo privilegio ha causato solo danno, iniziando con il rapimento a dodici anni da parte di Teseo, che da vero rispettoso gentleman ateniese quale è non la stupra veramente, ma si limita a sodomizzarla, così la giovane può vantaggiosamente arrivare vergine al matrimonio con Menelao, tra eroi certi dispetti non si fanno, si sa che c’è un certo codice cavalleresco di mezzo. Passata di mano al biondo Menelao, deve essere talmente appagata dello status maritale che persino l’effeminato, hollywoodiano, profumato e inconsistente principe troiano Paride in visita a Sparta le deve sembrare un diversivo passabile, imbarcandosi con lui senza troppe domande verso la Troade per nuove avventure. Ma davvero Elena pensava che lì non l’avrebbero odiata per la spedizione punitiva nel frattempo decisa dai principi greci, che le principesse asiatiche le avrebbero aperto le braccia, le figlie e le nuore di Priamo l’avrebbero considerata una di loro? Che sia un po’ debole di mente, come spesso capita alle bionde? Elena a Troia è un simulacro, ma non come pensava e metteva in scena Euripide, prendendo la situazione alla lettera e immaginandola parcheggiata in Egitto presso il re Proteo, e concupita – of course – dal di lui figlio Teoclìmeno, mentre a Troia gli uomini si squartano per un fantasma. Elena a Troia è un ectoplasma ambulante, un corpo fisicamente vivo ma psichicamente morto, una donna senza legami con alcuno, a parte qualche incursione sempre più rara di Paride nel talamo principesco. Il pensiero di farla finita buttandosi dalle mura le gira intorno, la alletta. Forse la fine dell’esistenza corporea le può dare quel sollievo dal destino di diventare preda di qualcuno che non trova in nessuna terra e nessun porto. Morire. Dormire. Sognare forse. Elena a Troia teneva Shakespeare sul comodino?   

Ma un’altra salute mentale vacilla in quegli ultimi spossanti cinquantuno giorni di una guerra durata dieci anni. Appartiene a Cassandra, la figlia di Priamo ed Ecuba, con un fardello più pesante della bellezza rapinosa da portare: il destino di profetizzare senza essere creduta. Viene tenuta a distanza dalla città e dalla sua stessa famiglia come una paria, una deficiente assoluta; non è infatti concepibile, se non nella follia più totale, che non si sia concessa al suo signore e dio Apollo, infrangendo l’obbligo sacerdotale di unirsi fisicamente e misticamente al dio veggente. Bisogna andare a letto col produttore per fare il film, da quando esiste il mondo, ma lei no, la campionessa di queerness, schifa il dono della vista e il dio che glielo porge. I futuri stupri subiti dal sacrilego Aiace di Oileo per oltraggiare il tempio di Apollo tramite la sua persona, e quello di Agamennone, fattala preda di lusso nella sua tenda, non saranno peggiori del possesso non realizzato dal dio: una mera conseguenza della caduta dalla sua condizione regale, un atto praticamente dovuto sulle donne nemiche. Niente di strettamente personale, semplice lurido ministeriale protocollo di guerra. Rifiutare un dio fu il peggio, l’irrimediabile, il resto brucia la pelle e l’orgoglio, ma non incenerisce una vita. Apollo sì, lei l’ha bruciata. Il dono della vista glielo ha dato ugualmente, se si è la prescelta è inevitabile, ma con una tara permanente in pegno. Sei una bugiarda, principessa. Tutta la vita deve sentirselo dire. Quindi adesso Cassandra si aggira come una disoccupata demente nei sordidi miasmi della Troia degli ultimi giorni, dove tutti aspettano la fine come una espiazione dovuta e troppo a lungo rimandata, il sollievo di un colpo di grazia liberatore sul collo appoggiato al ceppo. È possibile che le due reiette si siano viste? A palazzo, sicuramente, ma non in quel passarsi accanto occasionale, da vicine di condominio. Viste con quel posarsi dello sguardo della meraviglia, della prima volta che si vede una cosa, un essere.

Se è stato, è Cassandra che ha visto Elena, perché è il destino della spartana essere guardata, e di chi la vede sciogliersi nel cuore come un fiocco di neve. Per una volta si posa su Elena uno sguardo che non possiede, non consuma, non depreda; fisso, bloccato nel riverbero di quella bellezza sovrumana, lontana anni luce dalla insignificanza fisica di chi guarda, eppure intrecciando un dialogo senza parole, come un riconoscimento a distanza di un’essenziale identità, pur dalla siderale lontananza che separa la divina bellezza da tutto il resto. Sorelle di un errore nel dna della felicità, sorelle del senso di colpa, una di avere provocato – ma come poteva? – la guerra e l’altra del non averla saputa evitare anche avendola mostrata di continuo a tutti. Avranno corso come ragazzine nei boschetti sacri ad Afrodite, intrecciato l’un l’altra ghirlande di viole sui capelli odorosi di terebinto, ricordato la sera davanti al fuoco i giochi della loro infanzia dorata nei giardini dei palazzi reali, diviso la coperta ricamata ad arabeschi nelle notti umide della Troade? Mentre tutto intorno crollava, le loro disastrose vite hanno conosciuto un lampo di calore umano a scaldarle. È possibile. Ma non è scritto, non è tramandato. La caduta di Troia non contempla possibili resurrezioni a margine. Incontri come questo non fanno parte dell’Iliade già scritta. Possono trovare posto in quella ancora da scrivere, ucronica, fantascientifica o fantapolitica, che le generazioni di aede del qui e ora sentono l’impellenza di cantare, fermandosi ad ascoltare quella parte di canzone espulsa come un vangelo apocrifo dai libri canonici. Cantami o diva, sì, ma cantami tutto, di loro, di me che le ascolto oggi, dello Scamandro tornato azzurro. Sweet dreams are made of this.


(Eredibibliotecadonne.it, 14 ottobre 2024)