Mi è capitato di recente d’incontrare la responsabile di una grande organizzazione umanitaria che mi ha detto di avere ancora alcune difficoltà nell’esprimersi in italiano. Figlia di una polacca e di un italiano, ha passato gran parte della sua infanzia soprattutto con sua madre, che si vergognava di parlarle in polacco. Riteneva la sua una lingua minore, che non avrebbe aiutato l’inserimento di sua figlia, così le ha sempre parlato solo in italiano, ma in un italiano approssimativo, povero di parole, perché non era la sua lingua. Nonostante la figlia abbia una vita lavorativa ricca e soddisfacente, a decenni di distanza sente ancora il peso di quella ferita linguistica originaria, di quella mancanza di parole.
Torno a questo ricordo perché oggi, 21 febbraio, è la giornata internazionale della lingua madre, proclamata dall’Unesco nel 2000 per «promuovere le diversità linguistiche e culturali e il poliglottismo». Spesso noi maestre e maestri delle scuole primarie suggeriamo alle mamme immigrate di parlare ai loro figli in italiano a casa, commettendo, a volte inconsapevolmente, un grave errore. Avere pieno possesso della propria lingua madre, infatti, è una importante premessa per imparare la lingua del paese in cui si vive.
La lingua madre è una lingua humus, un terreno fertile indispensabile per dare linfa alle lingue della formazione e dell’incontro. Così sostiene Graziella Favaro, instancabile ricercatrice e attivista nel campo dell’intercultura, citando Tullio De Mauro: «Una lingua, voglio dire la lingua materna in cui siamo nati e abbiamo imparato a orientarci nel mondo, non è un guanto, uno strumento usa e getta. Essa innerva dalle prime ore la nostra vita psichica, i nostri ricordi, associazioni, schemi mentali […] È dunque la trama visibile e forte dell’identità».
Nei miei anni d’insegnamento ho collezionato alcune prove di quanto un rapporto intenso con la propria lingua materna aiuti figlie e figli di origini immigrate, ma anche le loro compagne e i loro compagni, che così hanno occasione di accorgersi di quanto è grande il mondo e di come la sua bellezza stia nell’infinita varietà delle espressioni umane che lo popolano.
Per diverse stagioni, ad esempio, ci siamo interrogati su dove si nascondesse la matematica e Nisrin, di origine marocchina, un giorno ha detto: «La matematica è un omino che va in bicicletta dentro la testa. Se si ferma, cade, se corre risolve tutti i problemi». L’immagine era così bella che l’abbiamo scritta a caratteri grandi sul muro della classe. La trovavo particolarmente efficace perché, ogni volta che osservavo un bambino in difficoltà di fronte a un problema, pensavo a quel disequilibrio e a quella caduta così ben descritta da Nisrin, che nasceva da una sua difficoltà reale, sofferta.
Un giorno, parlando con suo padre, gli ho raccontato della frase di sua figlia e lui mi ha detto che in arabo matematica si dice alriyadiaat, parola che ha la stessa radice di sport e di esercizio fisico, aggiungendo che evoca anche l’idea di acrobazia. Scopriamo così che l’origine della metafora di Nisrin si trova nella sua lingua madre, in cui a volte pensa e forse sogna.
È vero che ogni lingua incarna una visione del mondo diversa, o addirittura che impone specifici schemi di pensiero a chi la parla?
Sono sempre stato attratto dalle parole intraducibili e a volte in classe abbiamo giocato a collezionarne alcune in diverse lingue. Sono parole che evocano l’unicità e la lontananza di una lingua e di una cultura e, insieme, invitano a bussare a quella porta chiusa. La parola spagnola ensimismarse, per esempio, utilizzata in Cent’anni di solitudine da Gabriel García Márquez per descrivere il carattere di alcuni componenti della famiglia Buendía, azzarda la possibilità di rendere transitiva la più riflessiva e immobile delle azioni, che è l’entrare in noi stessi.
Per anni la nostra classe è stata gemellata con una di Ayuub, un villaggio nel sud della Somalia nato per accogliere orfani e vedove sopravvissute alla guerra civile. Mana Sultan, la straordinaria donna che lo ha fondato, in visita nella nostra scuola ci ha raccontato che il somalo è una delle lingue africane che da meno tempo conosce la scrittura. Osservando un testo scritto in somalo abbiamo scoperto che nella trascrizione dall’orale chi aveva assegnato dei segni scritti a quella lingua aveva scelto di arricchire molte parole di doppie vocali, così da renderle vicine alle sonorità del parlato. Mana ci ha spiegato che loro vivono prevalentemente in campagna, sempre all’aperto, e dunque si chiamano e parlano a distanza. Se non ci fosse questo prolungamento dei suoni non ci si riuscirebbe a sentire. Ecco che, in quel caso, la lingua ci parla anche del paesaggio, dei luoghi in cui sono nati quei suoni.
Una gerarchia ingiusta
Il problema è che anche le lingue subiscono ingiustizie e sono sottoposte a gerarchie rigide, che a volte sconfinano in forme d’esclusione, o di vero e proprio razzismo linguistico. È quello che è successo ai nostri dialetti nei decenni caratterizzati dalle grandi migrazioni interne, prima della diffusione della televisione che, insieme alla scuola di massa, ha modellato la lingua nazionale.
Negli anni settanta la nascita del tempo pieno, oltre ad andare incontro ai nuovi bisogni lavorativi delle famiglie, si diffuse soprattutto nelle scuole del nord per rispondere alla necessità pedagogica di avere più tempo per affrontare in modo positivo le difficoltà create dalla presenza di grandi differenze linguistiche portate dalle bambine e bambini immigrati dal mezzogiorno.
Sono più dell’11 per cento gli studenti di famiglie immigrate che, oltre a non avere diritto alla cittadinanza, vivono sulla loro pelle una scissione linguistica netta, dovuta molto spesso a una totale rimozione della loro lingua madre nella scuola.
Tra i molti progetti di educazione interculturale di qualità che si sperimentano non ha ancora trovato lo spazio che merita la valorizzazione delle lingue madri, mentre credo sia della massima importanza nelle nostre classi trovare tempi e modi per dare spazio alla presenza di lingue materne di più continenti, che vivono nelle memorie e accompagnano pensieri ed emozioni di bambine e bambini.
Nelle linee pedagogiche 0-6 del 2021, un documento del ministero dell’istruzione di grande importanza – la cui scrittura fu coordinata da Giancarlo Cerini, uno dei migliori ispettori scolastici che abbia avuto la nostra scuola – s’invita ad «avere attenzione alla lingua parlata nel contesto familiare, che costituisce la base per l’apprendimento della lingua italiana». E poi: «Creare contesti nei quali si possono usare più lingue consente di riconoscere il patrimonio culturale di ogni bambino, di sviluppare abilità comunicative diversificate, di sollecitare curiosità ed esplorazione di lingue diverse».
In un altro documento ministeriale del marzo 2022, che delinea con lungimiranza gli orientamenti interculturali che dovrebbero arricchire le nostre scuole, c’è scritto: «Un’educazione al plurilinguismo […] si deve porre obiettivi quali: il riconoscimento delle lingue parlate da bambine e bambini nei contesti extrascolastici e la raccolta delle biografie linguistiche; la valorizzazione di ogni lingua e della diversità linguistica presente nella comunità; l’attivazione di processi metalinguistici e di comparazione e scambio tra le lingue».
Favaro – che per anni ha anche diretto la meritoria rivista interculturale «Sesamo», edita da Giunti – racconta di un’interessante ricerca condotta in alcune scuole dell’infanzia e primarie, in cui bambine e bambini di classi multietniche sono stati invitati a disegnare le compresenze linguistiche che incarnavano.
Su un foglio Kaifa si disegna con due linee colorate che gli escono dalla testa, commentando: «Io parlo bangla e italiano. Le lingue sono nella mia testa e sono come fumo. Il bangla è forte e rosso, l’italiano è leggero e di colore verde». Mentre Rayan dice: «Le mie lingue sono come una sciarpa. Prima girano insieme intorno al collo, poi si dividono in due parti: una va a destra e una a sinistra».
Anche le questioni aperte che sono state raccolte durante la ricerca sono di grande interesse. Una bambina si disegna divisa tra due bandiere, sotto cui si domanda: «Sono indiana o sono italiana?». Un altro bambino decide di sostituire la o con la e, affermando convinto: «Sono italiano e sono albanese». Altri esempi interessanti si trovano sul sito Mammalingua. (https://www.mammalingua.it/)
Una questione delicata
Durante un piccolo spettacolo preparato a dicembre di qualche anno fa nel piccolo paese umbro di Giove, non posso dimenticare l’emozione che traspariva nei volti delle mamme romene quando ascoltarono due canzoni cantate nella loro lingua dall’intera scuola primaria. Un gesto di accoglienza che riconosceva alle numerose famiglie romene presenti nel paese piena dignità alla loro lingua.
La questione naturalmente è molto delicata. C’è sempre il pericolo dell’esotismo e del paternalismo, e spesso bambine e bambini appartenenti a famiglie immigrate non amano che siano rimarcate le loro differenze, anche linguistiche, perché sanno sulla loro pelle quante volte la percezione delle differenze scivola in forme evidenti o nascoste di discriminazione.
Se assumiamo tuttavia la compresenza in classe di memorie che attingono a universi linguistici diversi e lontani come possibilità di arricchimento culturale per tutti le cose possono cambiare. E poiché la lingua non è solo uno strumento di comunicazione, ma di creazione di mondi, e traccia viva dei diversi modi di abitare e di convivere, ecco che si aprono campi di ricerca che possono appassionare e mettere in moto piccoli e grandi.
Ngũgĩ wa Thiong’o, grande scrittore keniano che ha pubblicato i suoi primi romanzi in inglese, a un certo punto decise di tornare alla sua lingua madre scrivendo in gikuyu. A chi lo criticava, sostenendo che la sua lingua era capita da pochi, rispondeva citando Dante, a cui fu rimproverato di rinunciare all’immortalità, scrivendo la sua Commedia in italiano: «La lingua gikuyu per me è come latte materno di cui non posso fare a meno».
Dal punto di vista linguistico nelle famiglie immigrate succede di tutto. Ci sono a volte madri che vivono gran parte del loro tempo isolate in casa, che non parlano quasi l’italiano ma che più o meno lo capiscono, perché i loro figli si rivolgono a loro nella lingua dei compagni, della scuola e del gioco. Ci sono bambine e bambini a cui a volte è cambiato il nome, sostituito per precauzione con uno italiano, sospettando che gli italiani difficilmente compiranno lo sforzo di chiamarli per esempio con il loro nome cinese. La doppia appartenenza è così sancita addirittura da nomi diversi, impiegati in contesti diversi, che può generare scissioni di cui non abbiamo ancora piena consapevolezza.
Il poliglottismo in molti paesi del sud del mondo è la norma, per via di secoli di colonizzazione e per i continui spostamenti di popolazioni. Raccontando di un suo incontro con Ivan Illich, Alexander Langer ha appuntato queste sue frasi intorno a cui sarebbe interessante riflettere e discutere: «Ricreare un’aura di convivenza, di tolleranza dell’alterità (anche linguistica) è il presupposto per la riscoperta del plurilinguismo: questo conta molto di più che non i corsi di lingua o le invenzioni scolastiche. Pensate quante caratteristiche del parlare si sono cancellate e uniformate: dall’intonazione agli accenti, dal tono alla voce, dalla melodia alla frequenza dei vocaboli. Le lingue sono molte di più di quante non ne segni la linguistica, le cui pretese ideologiche devono essere smascherate come tutte le altre pretese di delimitazioni scientifiche fatte in realtà in nome dell’economia, per rendere più misurabile, amministrabile e dominabile il mondo».
C’è ancora molto lavoro da fare perché tutte le lingue madri trovino un loro posto nella scuola, nonostante sia evidente che costituiscano ponti indispensabili per una comprensione reciproca più aperta e profonda. Tutto deve partire dalla curiosità di noi insegnanti, che dovremmo sempre coltivare attenzione verso il mondo intimo e spesso nascosto delle bambine e dei bambini a cui insegniamo.
(Internazionale.it, 21 febbraio 2024)
di Katia Ricci
«“No professoré, basta con la Shoah”, questa è stata la reazione della classe alla mia proposta fatta al ritorno dalle vacanze di Natale di organizzare la Giornata della Memoria». Così mi dice un’insegnante del Liceo artistico Sacro Cuore di Cerignola, Stefania Creatura, invitandomi a parlare alle e agli studenti del mio libro Lupini violetti dietro il filo spinato: Artiste e poete a Ravensbrück, Tufani editrice.
«Ho scelto il tuo libro – mi aveva detto – perché tratta l’argomento in maniera diversa, da un altro punto di vista, che non è quello di raccontare le vessazioni, le violenze fino alla morte delle donne rinchiuse nel campo femminile, ma il modo in cui alcune o tante hanno reagito con creatività, conservando il senso di sé e della propria femminilità e dare delle donne l’immagine di forza».
E così in una piovosissima e fredda giornata siamo arrivate da Foggia a Cerignola. Durante il non lungo viaggio mi aveva avvisato che avrei trovato molti problemi perché la scuola era completamente allagata in tutte le stanze, laboratori e corridoi. E non per la rottura improvvisa e inaspettata di qualche tubo, come avevo subito sospettato, ma perché questo succede ogni volta che piove e l’acqua cade dal soffitto dell’edificio costruito abbastanza recentemente.
– E voi insegnanti che fate, e le/gli studenti, i genitori?
«Sono dieci anni – mi racconta – che facciamo scioperi, manifestazioni davanti agli uffici provinciali e regionali, scriviamo esposti e denunce, ma non succede niente, molte promesse, ma stiamo sempre nelle stesse condizioni. Oggi rischiavamo o di rimandare l’incontro in attesa di una giornata di sole o di farlo con i piedi nell’acqua, ma poi – aggiunge mentre la guardo sempre più perplessa – abbiamo deciso di allestire l’incontro nella palestra, che è l’unico spazio in cui non piove».
La palestra era già piena di giovani seduti a terra e di insegnanti, il tempo di aspettare che arrivi la preside Giuliana Colucci che saluta i presenti e cominciamo.
«Abbiamo scoperto – dice la collega che mi ha invitata – tutto un mondo di bellezza nascosta dietro quel senso di orrore e di dolore che avvertiamo quando si parla di Giornata della Memoria. Abbiamo cercato di dare valore alle cose belle che sono state realizzate persino nel buio più totale a cui le donne erano state condannate da chi voleva fiaccare la loro anima insieme al corpo. È stato davvero illuminante scoprire la resistenza di donne che riuscivano addirittura ad avere senso dell’umorismo, a fare ironia dissacrante, a disegnare, a comporre operette di cabaret, a raccontarsi ricette, barzellette e a scrivere poesie, tutto a rischio della propria vita, sarebbero state, infatti, uccise immediatamente se fossero state scoperte».
Il mio racconto e la proiezione di diapositive sono stati intervallati da danze di cerchio ebraiche, canti, accompagnati dal suono di chitarre, eseguiti dalle ragazze, un pezzo di cabaret di un giovane, un bel monologo recitato con commozione da una giovane studente e un videomessaggio del maestro Francesco Lotoro, compositore, pianista e direttore d’orchestra, studioso della musica concentrazionaria. Mi ha fatto particolarmente piacere vedere con quanto impegno ed entusiasmo abbiano lavorato le studenti sotto la guida di un nutrito gruppo di professoresse, di cui voglio riportare i nomi: Stefania Creatura, Maddalena Albanese, Mary Lastella, Anna Bracco, Concetta Frontino, Antonia Guerra, Emanuela Gigantiello, Barbara Vetrarte, Maria Teresa Sorbaro, Grazia Bizzoca e Stefania Matrella.
C’erano naturalmente anche insegnanti uomini che hanno collaborato alla buona riuscita della mattinata, come Paolo Ricci, che ha fatto rispettare la scaletta degli interventi dando la parola a turno e il tecnico del suono, Luigi Manduano, e altri.
È stato inevitabile accostare la forza delle donne rinchiuse a Ravensbrück con il coraggio indomito di quelle che nel mondo lottano per la libertà come le iraniane, perché, conclude Stefania Creatura, «finché esisterà anche solo in una parte del mondo l’ingiustizia di tatuare un numero sugli esseri umani, di imprigionarli in un’identità, di dare etichette, non ci lasceremo mai alle spalle gli orrori della storia e se le donne in condizioni difficili ieri come oggi riescono a mettere in campo tanta forza e bellezza, che cosa potrete fare voi giovani che vivete in una situazione tutto sommato di agio?»
L’intero evento mi è apparso come una grande metafora molto efficace: il vecchio sistema culturale sta collassando, simboleggiato dallo sgretolamento dell’edificio che non regge la pioggia, come fosse un ombrello bucato mentre sono già operanti la forza, l’entusiasmo e l’abilità delle donne giovani e delle ragazze, coadiuvate e sostenute dai loro compagni e colleghi, pronte a cambiare radicalmente il sistema con gioia e allegria e a porsi alla sua guida.
(L’Attacco – Foggia, 1° febbraio 2023)
di firmatarie e firmatari
Alla Ministra dell’Università e della Ricerca, al Ministro dell’Istruzione,
alle Studiose, agli Studiosi, alle Case Editrici
Esimia Ministra, esimio Ministro, illustri Colleghe e Colleghi, spettabili Case Editrici, siamo un gruppo di docenti della Scuola e dell’Università che da anni si impegna tra l’altro, insieme alle studentesse e agli studenti, nel portare i testi classici antichi e moderni in strada e nei teatri, tra la gente, e nel proporli pubblicamente non come modelli valoriali universali e fuori dal tempo ma come portatori di idee e pratiche altre con cui sfregare il tempo presente: perché esso vi faccia i conti, si lasci da esse criticare e aiutare a diventare più consapevole di sé.
Vi scriviamo questa lettera aperta perché grande è la nostra preoccupazione per le forme di violenza dilaganti, in particolare quella bellica e quella patriarcale.
Nonostante tutti gli avanzamenti fatti in molti campi, gli esseri umani vivono costantemente immersi in una dimensione violenta e rischiano di lasciarla in eredità alle generazioni future: sia come realtà concreta, sia come categoria per pensare la gestione dei conflitti e il rapporto tra le differenze; o forse come realtà concreta in quanto frutto di categorie che modellano il modo di pensare la gestione dei conflitti e il rapporto tra le differenze.
In tale quadro generale, non possiamo non notare che i nostri libri di testo, pur con tutti i meritevoli aggiornamenti, restano tuttavia dentro la struttura di pensiero di cui dicevamo e, per l’importanza da essi rivestita nell’istruzione, contribuiscono a riprodurla e a ratificarla.
In particolare, benché il nostro discorso valga anche per tutti gli altri ambiti disciplinari, è soprattutto e in primo luogo nella manualistica della Storia che avvertiamo la necessità di modifiche urgenti e sostanziali. La Storia, infatti, concorre forse più di altre discipline a creare la cornice metacognitiva generale di chi studia: facendo vedere gli avvenimenti trascorsi attraverso lenti che focalizzano certi aspetti piuttosto che altri, presentando come fattori di cambiamento alcuni tipi di azione e non altri, essa educa a pensare ben precisi orizzonti di possibilità e ad agire all’interno di questi, e in tal modo si costituisce non solo come analisi del passato ma anche come profezia del futuro.
Ora, la narrazione manualistica della Storia, nonostante ormai opportunamente comprenda aspetti della vita sociale delle varie epoche e abbia ampliato il suo interesse per il mondo non occidentale, continua a essere dominata da un’ottica politico-militare e dal filo rosso delle guerre e del ruolo maschile.
Gli orizzonti geografici e temporali si sono allargati ma il racconto – la trama, il contenuto, ciò che risulta in primo piano come motore del processo storico – è ancora fondato su categorie di pensiero proprie del patriarcato e di una mentalità competitiva e violenta.
Tale racconto resta talmente affollato di forza militare e di genere maschile che non lascia immaginare altre forme di sviluppo della temporalità che non siano violente e/o maschili, e finisce per far credere che la violenza appartenga addirittura alla natura umana e sia normale, ineluttabile, o contenibile solo attraverso istituzioni, nazionali o internazionali, di carattere giuridico.
O, peggio ancora, come viene fuori con chiarezza nella narrazione dominante a proposito dell’attuale aggressione all’Ucraina in cui le istituzioni risultano inefficaci, contenibile solo con il ricorso ad altra violenza – sia pure di difesa.
Noi crediamo che, per cacciare davvero la guerra e il patriarcato fuori dalla storia, sia indispensabile cambiare il paradigma culturale, promuovere un sapere diverso da quello appena presentato e dare spazio al racconto della costruzione della pace con mezzi pacifici, mettere in luce il ruolo delle donne e dei popoli che hanno contribuito alle trasformazioni storiche senza ricorrere alle armi; meglio ancora, dipanare per mezzo di queste categorie il filo della Storia intera.
Ciò sembra al momento un obiettivo lontano: forse semplicemente, dalla ricerca e dall’editoria attuali, esso nemmeno è posto come obiettivo.
Eppure, i singoli studi in questa direzione sono ormai numerosissimi e, anche se per lo più costituiscono lavori sparsi, capita a volte che se ne diano di già coordinati tra loro all’interno di una cornice diacronica in volumi collettanei o in atti di convegno, che potrebbero costituire una buona base per organici e completi manuali in grado di rispondere alle esigenze che stiamo qui rappresentando (basti ricordare soltanto i volumi della Storia delle donne in Occidente, curata da Georges Duby e Michelle Perrot, e quelli della Politica dell’Azione Nonviolenta di Gene Sharp).
Noi Vi chiediamo pertanto di adoperarvi, secondo i vostri specifici ruoli, per l’elaborazione e l’attuazione di organici e strutturati progetti di redazione di manuali, scolastici e universitari, che espressamente valorizzino il ruolo delle dinamiche nonviolente e la parte attiva svolta dalle donne nel corso della storia – manuali che abbiano il coraggio di profetizzare un futuro in netta cesura con quello attualmente all’orizzonte ed esercitino a pensare la pace e a vedere che le concrete possibilità di costruirla attivamente senza fare ricorso alla violenza sono state più numerose di quelle che siamo abituati a credere.
Inoltre, poiché la forma della scrittura, non meno dei contenuti, costituisce veicolo di un preciso modo di pensare, Vi chiediamo che tali manuali presentino un linguaggio adeguato al cambiamento di paradigma auspicato, e superino il lessico del maschile indifferenziato, dell’impersonalità, del preteso oggettivismo per fare un passo culturale decisivo verso un uso delle parole consapevole della loro non neutralità. Confidando che vogliate accogliere il nostro appello, in attesa di vostre concrete risposte, Vi porgiamo i nostri più cordiali saluti.
Comitato Scientifico di “Classici Contro” (Palermo)
Comitato Scientifico di “Classici in strada”
Movimento Nonviolento (Centro di Palermo)
(seguono nomi di 30 docenti della Scuola o dell’Università, in parte aderenti al Movimento Nonviolento)
(https://ilmanifesto.it/lettera-aperta-sui-manuali-scolastici-e-universitari, 5 luglio 2022)
di Vita Cosentino e Antonietta Lelario
Nel panorama delle riviste che si occupano di scuola, è uscito il primo numero on line di Paesaggi Educativi, Nuova Serie, rivista del dialogo fra insegnanti, genitori, alunne ed alunni. https://www.paesaggieducativi.it/la-rivista/#
La rivista, espressione dell’Associazione Paesaggi Educativi attiva dal 1999 (vedi www.paesaggieducativi.it), vuole essere “uno strumento diretto a contribuire, con il lavoro della conoscenza, alla creazione di una civiltà della cura basata soprattutto sulle ‘pratiche diffuse di mutuo soccorso’; queste pratiche sono una condizione essenziale per uscire dalla pandemia in modo positivo in ogni ambito”. L’intento è quello di riprendere il progetto del movimento per l’autoriforma, sollecitando coloro che in questi anni “hanno salvato la scuola dal tracollo con il loro impegno quotidiano” a dare voce a “iniziative miranti a realizzare un processo di cambiamento dal basso”, come si legge nel breve articolo di Bruno Miorali Ricominciamo dal movimento per l’autoriforma!
In questo numero si possono leggere di Vita Cosentino e Antonietta Lelario, insegnanti che hanno partecipato all’autoriforma gentile, gli articoli che ne ricostruiscono la storia e mostrano l’attualità e la necessità di questa politica trasformativa. (Marina Santini)
AUTORIFORMA ANCORA
di Vita Cosentino (Libreria delle donne di Milano)
Autoriforma è il nome di una politica trasformativa che si basa su quello che c’è di buono e che funziona in una determinata situazione, sui desideri e i bisogni profondi che emergono, senza far conto di progetti legislativi o di soldi per il cambiamento. Come tale l’autoriforma è sempre a portata di mano e capace di riattivarsi se ci sono forze soggettive disponibili a mettersi in gioco. Nella scuola l’autoriforma è stata un movimento significativo costituito da donne e da uomini insegnanti, si è diffuso in molte città italiane dagli anni ’90 del secolo scorso, e ha influenzato per parecchi anni il dibattito culturale sul senso di questo luogo centrale e decisivo per la società, come si è ben visto anche durante la pandemia.
Per parlare dell’autoriforma della scuola e capirne in profondità modalità e moventi, è necessaria una lunga premessa che riguarda la scoperta di una nuova concezione della politica maturata nel seno del femminismo italiano.
Lia Cigarini e Luisa Muraro la definiscono “un processo di sottrazione di sé all’ordine del discorso dominante e di conquista dell’indipendenza simbolica”. È un’idea che “pratica una politica di trasformazione del mondo a partire dalla soggettività che si sottrae allo schiacciamento dell’organizzazione sociale” (introduzione agli scritti di Simone Weil, Oppressione e libertà, Orthotes, 2016).
In questa scoperta di quasi cinquanta anni fa, il fulcro sta nella soggettività e la politica coincide con le pratiche. Non c’è una teoria che precede. La teoria viene pensata man mano interrogando le pratiche in atto fatte circolare tramite il racconto ragionato. Una pratica non è un semplice fare, ma un agire in relazione avendo dentro la modificazione di sé, cioè operare una modificazione dei contesti modificando se stessi e non, volontaristicamente, volendo cambiare il mondo.
In questo modo, nel femminismo della differenza sono cominciate pratiche politiche inedite che man mano sono state nominate con le parole: partire da sé, affidamento, autorità, relazione di differenza, per citarne alcune. Tutte fanno perno sulla relazione duale che è stata esplicitamente mutuata dal setting analitico. C’è quindi un debito alle modalità della psicanalisi, ma l’elemento di vera novità sta nel fatto che la relazione duale è immaginata e pensata come una forma della politica, anzi di più, la forma politica di base che non ha bisogno di altro, cioè di partiti o altre organizzazioni, per correre nel mondo. È una forma vuota perché si incarna in quella donna lì, in quell’uomo lì. C’è un’intenzionalità ma tutto dipende dalle soggettività che entrano in relazione.
Questa lunga premessa serve a spiegare come anche l’autoriforma della scuola abbia all’inizio una relazione duale. Infatti ha preso impulso dall’incontro e dalla relazione di fiducia che è nata tra me che scrivo e Guido Armellini, un docente di Bologna, autore di numerosi articoli sulla scuola. Nella politica di relazione un incontro che si sente come significativo è potenziato dalla consapevolezza che si tratta di “politica” e quindi si alimenta di quella speciale passione che ne è la cifra. Una politica inedita, che coincide con la vita stessa.
Io già da qualche anno facevo parte di quel movimento nazionale di donne insegnanti che ha preso il nome di “Pedagogia della differenza”, proprio perché la politica di relazione è entrata potentemente nella scuola alla metà degli anni ’80.
Ricordo che quando cominciai a praticare la relazione di affidamento nella scuola media in cui lavoravo, ho sperimentato un capovolgimento che ha coinvolto emozioni profonde: se prima tra insegnanti serpeggiava invidia e rivalità, dopo si è aperta la possibilità di fidarsi, di contare su un’altra donna per portare nel mondo i propri desideri, non stando più alle logiche precedenti. Per raccontare un episodio significativo, questo capovolgimento di sguardo ci portò quasi subito alla rottura della sezione sindacale, che si riuniva prima di ogni collegio per contestare per principio, punto per punto, le proposte della preside. Quando noi insegnanti femministe dicemmo che non ci stavamo più a quella logica di potere e contropotere perché la preside era una donna come noi e la trovavamo capace e interessata alla scuola, la sezione sindacale si spaccò e cambiarono tutte le dinamiche e le relazioni interne alla scuola.
Negli anni, in queste relazioni privilegiate si è formata una soggettività femminile libera e pensante, che ha prodotto libri, riviste, idee, in breve un punto di vista sulla scuola e sul mondo.
Nell’incontro con Guido Armellini la scintilla è stata la scoperta di avere idee molto vicine sulla valutazione scolastica, pur provenendo da percorsi decisamente differenti. Il primo passo è stato mettere in comune nel convegno “Chi valuta chi e perché” le reti di relazioni in cui eravamo: io quella delle femministe a scuola, riferite alla Pedagogia della differenza e alla rivista Via Dogana, e quella con una rete di maestre milanesi; lui quelle che ruotavano attorno alla rivista di Goffredo Fofi La terra vista dalla luna e una sua rete di amicizie che andavano da studiose come Marianella Sclavi a maestri eccellenti come Franco Lorenzoni e Bardo Seeber.
Insieme, in un tempo in cui a scuola si parlava solo di programmazione, di test, di obiettivi, di prestazioni, abbiamo riaffermato il piacere di insegnare, abbiamo capito come la qualità fosse nelle buone pratiche da sperimentare valorizzando l’imprevisto e rompendo lo schema autoritario della cattedra e del registro. Abbiamo puntato sull’autorità dell’insegnante e non sul suo potere istituzionale, abbiamo visto il comune bisogno di esistenza simbolica, di esserci nella lingua con una parola propria, e quindi la centralità della soggettività anche in chi avevamo davanti: erano studenti e studentesse con un volto e una storia.
Non è possibile in questo articolo parlare a fondo di tutte le pratiche scoperte in quegli anni così intensi, per questo rimando alla lettura dei due libri principali dell’autoriforma: Buone notizie dalla scuola (Pratiche,1998) e Lingua bene comune (Città Aperta, 2006).
L’autoriforma è una pratica politica che, pur rimanendo in contesto, lo oltrepassa inserendosi nel dibattito generale. È una rete di liberi rapporti tra singolarità e tra riviste che non diventa mai un’associazione o un gruppo formalizzato, ma rimane mobile seguendo il desiderio.
Il movimento di autoriforma gentile, ha avuto come caratteristica principale quella di essere un luogo di confronto e di scambio, momento di un ragionare comune che non ha per scopo l’elaborazione di piattaforme di obiettivi. Non c’è una maggioranza e una minoranza, non c’è chi vince e chi perde nella discussione, non si arriva a nessuna sintesi. Nell’idea di autoriforma si privilegia un pensare in presenza da cui ciascuna, ciascuno si potenzia tramite il pensiero dell’altro, dell’altra. Per quanto ne posso dire io con i miei ricordi personali, eravamo intensamente presenti nelle nostre realtà e nel rapporto con studenti e studentesse, e, a partire da ciò che già c’era e funzionava bene, portavamo avanti una “lotta linguistica” scrivendo su giornali e riviste. Contrastavamo in questo modo quelle “riforme”, come per esempio l’introduzione di una cultura aziendale e della meritocrazia, che alla scuola venivano imposte dall’esterno e dall’alto. Abbiamo scritto molto. Scrivere nell’autoriforma è stato un atto politico centrale perché solo facendo circolare le nuove esperienze in classe con le riflessioni che suscitavano, si potevano attivare processi trasformativi contagiosi. L’autoriforma non si presenta come un movimento sociale, è un movimento di soggettività, sarebbe meglio dire: soggettività in movimento.
Ho raccolto tutte le mie esperienze e riflessioni nel libro Scuola: sembra ieri è già domani (Moretti&Vitali 2016), e rimando a quel testo per un approfondimento. Sono convinta – e il titolo lo dice con chiarezza – che queste pratiche di soggettivazione, sperimentate a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, siano anticipatrici di ciò che occorre in questo nostro tempo. In questa mia idea sono confortata dalle analisi di Alain Touraine che da più di un decennio, nelle sue pubblicazioni, considera finita la politica novecentesca e la maniera tradizionale del sociale ad essa legata. Ne parla in modo precipuo in La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore 2008). Il sociologo sostiene che viene avanti un mondo fatto di soggettività, più centrato sulla costruzione di sé e della propria vita. Quanto questa analisi sia stata lucida è confermato dal susseguirsi di movimenti con caratteristiche nuove. Pensiamo per esempio a quanto ha potuto muovere nel mondo una poco più che bambina come Greta Thunberg.
L’ARTE DI DAR PAROLA ALL’ESPERIENZA
di Antonietta Lelario (Circolo culturale La merlettaia di Foggia)
Un docente universitario raccontava recentemente la distanza siderale che lo separa dalla politica dell’Università spesso legata a logiche di potere; eppure, farne parte gli consente di battersi dentro e fuori dall’università per ciò in cui crede. Come muoversi nella molla che lo stringe fra rifiuto e identificazione?
Io ho riconosciuto subito il suo conflitto. Quando sono entrata nella scuola come insegnante la critica al fatto che la scuola serviva alla perpetuazione dell’esistente e che l’ordine imperante fosse ingiusto e oppressivo era molto forte. La presa di distanza sembrava una possibile strada, soprattutto per una donna che quell’ordine non aveva affatto contribuito a costruire. La presa di distanza sembrava utile anche per entrare più in contatto con gli e le studenti: essere amica più che docente. Eppure, di fianco alla tentazione di estraneità si faceva strada un differente sentimento: scoprivo sempre più che quel lavoro era uno spazio di relazione e di contagio, era una possibilità di creazione di altro, e per farlo dovevo accettare di essere docente, assumermene fino in fondo l’autorità. La scuola tutta poteva avere un’altra funzione sociale e io potevo riconoscermi nella scuola a patto di darle il volto che desideravo! Potevo lasciarmi guidare dal potere di trasformazione che era nelle mie mani, come in quelle di tutti e tutte.
Che altro vogliono dire, se no, gli striscioni con l’impronta delle mani di cui si riempiono tante manifestazioni? Che cosa vuol dire quel grande bisogno di dire “Io ci sono” che attraversa il nostro tempo?
È il primo passo dello spazio politico, intendo la politica arendtiana. E anche la politica delle donne che, nei collettivi degli anni ’70, hanno messo al mondo il “Partire da sé”. Aver costruito, grazie alle forti relazioni che già esistevano fra donne, una rete con altri e altre docenti e aver trovato il nome di Autoriforma fu per me, fra la fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90, un’uscita dalla contraddizione, un punto di equilibrio esistenziale per affrontare il secondo passo della politica: quale volto volevamo “insieme” dare alla scuola?
Non ho cominciato a caso questo testo con un breve racconto preso dall’esperienza. Questo è stata subito la nostra scelta. Non volevamo costruire un’altra teoria che si affiancasse o competesse con le tante che nascevano come funghi sulla base dell’ordine tradizionalmente dato: si parte dalla testa, si fanno quadrare astrattamente tutti i conti e poi si convince il corpo, in questo caso il corpo scolastico. Queste teorie nascevano naturalmente nell’università e da lì dovevano scendere agli altri livelli di scuola anche se tutti sanno che le più esperte di pedagogia sono alcune maestre di scuola materna. Ma a dare lezione non sono mai chiamate loro.
Questo modo di procedere non solo non ci convinceva, non solo era ciò che criticavamo di più, ma era ciò che non teneva più. Era una modalità che viene dall’antica separazione fra teoria e pratica, fra idee e materia, fra cultura e natura, pensate separatamente e, guarda caso, in modo gerarchico con le prime valutate come superiori rispetto alle seconde. Era e rimane una modalità autoritaria e oppressiva nella sostanza, anche quando parla di corpo, di piacere o di felicità. Soprattutto una modalità che non ascolta il reale che grida per essere letto diversamente (S. Weil). E il reale nella scuola gridava fortemente, noi che investivamo tanta passione e studio eravamo profondamente offesi dal continuo disprezzo di cui veniva circondata la scuola. In realtà quel disprezzo serviva a giustificare le riforme istituzionali che inserivano la scuola nel disegno neoliberale e liquidavano l’epoca delle sperimentazioni dal basso in cui si esprimeva il meglio della creatività di quegli anni; basterebbe guardare l’alto livello dell’editoria scolastica di allora per verificare quanto sto affermando. E la perniciosità di questa politica è diventato negli anni sempre più evidente man mano che la teorizzazione della scuola azienda si sovrapponevano ai bisogni profondi della scuola, creando una confusione sempre maggiore.
Noi della rete “dell’autoriforma gentile” volevamo far parlare la nostra esperienza. Buone notizie dalla scuola (Pratiche Editrice, 1998, a cura di Antonietta Lelario, Vita Cosentino, Guido Armellini) è stato il primo libro collettaneo uscito da un nostro convegno nazionale per far vivere un’altra scena simbolica più aderente al reale. Nel libro, come nei nostri incontri, ci siamo sottratti/e al discorso a tutto tondo, abbiamo voluto mantenerci aderenti all’esperienza che ci parla per sprazzi, che colpisce la nostra attenzione perché in quel particolare, in quell’episodio, si rivela qualcosa di più, si fa strada quel senso delle cose di cui abbiamo fame. Una politica dello spiraglio che porta aria, luce, senza abbagliare, senza alcuna pretesa di illuminare tutto, in cui ognuno, ognuna ha continuamente bisogno degli altri per procedere. Lì, nel cammino comune, abbiamo cercato risposta alle contraddizioni, autorizzazione ed esempi sui modi in cui ciascuno/a di noi si rapportava ai saperi, nutrimento per la nostra creatività. In questo cammino si annidava anche un’altra scommessa che fra donne – eravamo la maggior parte e quasi tutte legate in qualche modo al femminismo – e uomini si potesse realizzare una relazione di scambio delle reciproche differenze, evitando tanto la guerra quanto l’antica cancellazione del femminile.
Questa politica riapriva la questione della lingua. Non a caso Lingua, Bene Comune (Città Aperta 2006, a cura di Vita Cosentino con Guido Armellini, Gian Piero Bernard, Paola Bono, Laura Fortini, Antonietta Lelario) è stata la nostra seconda pubblicazione. Anche le formule in cui sintetizzavamo approdi del pensiero, come “Il massimo di autorità col minimo di potere”, mantenevano la forza simbolica dei cartelli nelle manifestazioni, memento da praticare e da verificare; mai pura trasmissione di idee, architetture della ragione.
E non a caso voglio finire questo testo con un altro racconto. Durante il lockdown una insegnante di educazione motoria in un liceo scientifico della mia città, Foggia, non potendo esercitare online il suo insegnamento tradizionale ha cominciato con le sue classi un discorso sulla necessità per il corpo di una sana alimentazione. Da qui il discorso si è allargato a chi e come si produce il cibo che portiamo in tavola fino ai pericoli che oggi lo minacciano. Il lavoro è terminato facendoli incontrare con Libera. Quando io sento di queste esperienze penso che è lì che vive l’autoriforma.
Nell’esperienza di questa collega si condensa quel volto della scuola di cui parlavo, a cui contribuisce ogni insegnante che crede nel suo lavoro: il coinvolgimento non forzato degli e delle studenti, la loro attivazione in percorsi di ricerca, il riannodamento dei saperi con le esigenze del nostro tempo, il collegamento con chi opera sul territorio e diventa a sua volta fonte di conoscenze e, insieme, l’assunzione di autorità dell’insegnante, degli insegnanti che scelgono, selezionano il sapere, deviano dai programmi, li finalizzano in relazione a ciò che vogliono far rivivere in quell’insegnamento e tenendo presenti i bisogni della classe.
So per certo che oggi è aumentata la sofferenza di tanti docenti per un uso della tecnologia che taglia i tempi della relazione e per la proliferazione di atti burocratici in cui la scuola si trincera per essere inattaccabile o per ubbidire a norme esterne; penso per esempio al linguaggio predeterminato e obbligatorio dei progetti europei. Ma so anche che, in mille modi, nell’azione di tanti e tante insegnanti riappare il senso della scuola come comunità che sperimenta e sceglie le forme della convivenza, che mantiene il piacere di interrogarsi sui saperi, sulla loro origine e sulla loro necessaria rilettura: una comunità aperta in cui fra il dentro e il fuori dalla scuola c’è uno scambio libero. Quindi c’è ancora bisogno di “corpi intermedi” (S. Weil) in cui l’esperienza e l’antico desiderio di imparare e insegnare possano trovare spazi di riflessione e circolazione.
Infatti, il ripensamento sulla scuola può andare ulteriormente avanti se anche nelle associazioni che collaborano con lei, o in chiunque se ne occupi, la relazione non si trasforma in un semplice uso reciproco ma diventa occasione per rilanciare quel volto comunitario. Lo ha fatto recentemente Renzo Piano. Hanno detto: «Ecco la sua scuola del futuro: una scuola sostenibile, energeticamente efficiente e antisismica; ma soprattutto innovativa, perché sarà aperta anche la sera e nel week-end, per accogliere iniziative e corsi extra-scolastici rivolti non solo agli studenti ma all’intera comunità. Quello di Sora, in provincia di Frosinone, è un progetto che potrebbe inaugurare un nuovo modello di edifici scolastici innovativi». In realtà, Renzo Piano ha messo in architettura un bisogno che è nell’aria da tempo, immesso nel simbolico dall’esperienza scolastica più vitale. Lui ha avuto l’ardire – lo può fare, vista la sua grandezza e visibilità – di metterlo in pratica.
(www.libreriadelledonne.it, 16 giugno 2022)
di Adalgisa Marrocco
La scrittrice e matematica all’HuffPost: «Concentrarsi sulle relazioni tra le competenze, e non solo sulle competenze»
Raccontare la storia delle scienze, delle loro imprese, delle loro donne e dei loro uomini: da qui si potrebbe partire per far riscoprire l’amore verso lo studio delle discipline scientifiche, di cui spesso si narra la disaffezione da parte degli studenti. Soprattutto in Italia. E riformare la scuola, andando oltre i vecchi retaggi, per mostrare ai ragazzi quanto la matematica, la fisica e la chimica siano “umane” e figlie dei loro tempi. A parlarne all’HuffPost è Chiara Valerio, scrittrice e matematica, autrice di La matematica è politica (Einaudi).
Trova che in Italia lo studio delle discipline scientifiche sia poco incentivato?
L’idea che lo studio, qualsiasi tipo di studio debba essere incentivato, non mi ha mai convinto. Ma capisco la domanda. Diciamo che l’idea che per la matematica – così come per le lingue – sia necessario esserci portati è una idea scoraggiante emotivamente e deresponsabilizzante culturalmente. La comprensione ha una piccola percentuale di illuminazione e una grande percentuale di prassi e intenzione. Credo che sottolineare l’importanza dello studio sia importante, altrimenti in un attimo ci si sente vasi da riempire con poca o molta acqua. Per le ragazze è ancora più difficile, perché le grandi scienziate vengono poco e quasi mai raccontate. Non avrei voluto diventare Batman o Lady Oscar se non me li avessero raccontati, per esempio. Senza arrivare ai supereroi, raccontare che qualcosa è stato fatto a un livello eccellente, da donne e uomini, è una cosa che incentiva chi sta imparando a studiare e pensare di poter giungere a quello stesso livello e anche oltre. Ma capire non è una cosa da X-Men, è una cosa da esseri umani.
Ci sono delle ragioni storiche che determinano questa carenza?
Come ho scritto altrove («ho poche idee, ma in compenso fisse», diceva De André e io mi accodo) si potrebbe far risalire la poca affezione allo studio delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics, ndr), come si chiamano oggi, allo scontro in due parti tra Croce e Gentile, da un lato, e Federigo Enriques, dall’altro. Tra chi, Croce, aveva un’idea della filosofia e chi come Enriques ne aveva un’altra. Sembrerebbe questa una discussione d’accademia ma non lo è perché, cominciata negli anni Dieci del Novecento, si è conclusa alla fine degli anni Venti del Novecento. Quando una guerra mondiale era finita, il fascismo aveva attecchito in Italia e Gentile era diventato ministro dell’Istruzione. In ballo c’era la riforma del sistema scolastico e universitario. Mentre Gentile e Croce tendevano a limitare la portata culturale della matematica e ad accorpare l’insegnamento di matematica e fisica, Enriques sosteneva la centralità delle scienze esatte per lo sviluppo tecnologico e più ampiamente culturale dell’Italia, centro del conflitto politico alla fine della guerra. La riforma della scuola la firma Gentile, non Enriques. Ma questo è l’inizio.
Poi cosa accadde?
Si potrebbe anche parlare della riforma Falcucci, nel 1985, con il Piano Nazionale Informatica – io l’ho fatto, per esempio – nel quale erano previsti, tra le altre cose, lo studio e la pratica dei linguaggi di programmazione. E ancora la riforma Moratti, dove l’informatica era diventata una delle tre famose “I” (insieme a Inglese e Impresa) ed era poi stata ridotta al conseguimento dell’ECDL e, dunque, al pacchetto Office.
Da dove partire per provare a colmare questo vuoto? Anche considerando che, nel frattempo, il Recovery Plan ha stanziato fondi per incentivare lo studio delle discipline STEM nella futura “Scuola 4.0”.
Da una nuova riforma scolastica e da una riforma dei testi scolastici, che si concentrino sulle relazioni tra le competenze, e non solo sulle competenze, sulla risoluzione dei problemi e non si risolvano in un samsara di formule. Una riforma che preveda lo studio della storia della scienza, così come esiste lo studio della storia della filosofia e della storia dell’arte. Una riforma che mostri come la matematica, la fisica e la chimica siano figlie dei loro tempi e non esistano in assoluto, nel vuoto, da sempre e per sempre. Ma siano “umane” come tutto il resto.
Lei è matematica di formazione e lavora nell’industria culturale: ha senso mantenere uno steccato tra materie scientifiche e quelle umanistiche e sociali? Oppure bisogna andare oltre?
Non ho mai creduto o pensato ci fossero steccati. L’intelligenza viene presentata come la capacità di analisi – siamo cartesiani senza coscienza, per abitudine, forse per istinto – ma di questa capacità di analisi ci entusiasmiamo e raccontiamo solo la pars destruens: la capacità di separare (“è una lama” si dice a Roma di una persona molto intelligente), ma nel racconto di questa intelligenza manca la ricomposizione – che pure Cartesio elenca nei suoi passi sul Metodo. Ecco, l’intelligenza unisce, non separa, connette. Io mi fido delle e confido nelle connessioni e relazioni, anche di cose lontane. È anche più divertente, no?
(Huffington Post, 27 aprile 2021)
di Tiziana Plebani
Quando troppa luce si concentra su una donna, come è il caso di Elena Corner, l’effetto sovente che si ottiene è di farla divenire una figura eccezionale rispetto al suo sesso, nella tradizione della galleria delle donne illustri, e quel che è peggio, di usarla per rimuovere altre dalla memoria.
Pertanto un po’ di chiarezza può essere utile e può anche illuminare meglio quale fosse il rapporto delle donne con gli studi superiori. Prima di tutto è bene ricordare che le università al loro esordio non furono ostili alla presenza di donne sapienti, come si dimostrarono invece più avanti. Prova ne sia la vicenda della Scuola di Salerno, centro di codificazione delle pratiche medicali, che vide dal XI secolo un’attiva partecipazione di alcune donne che insegnarono e produssero testi di studio, tanto da far coniare la denominazione collettiva di Mulieres Salernitanae.
Un’esperienza di insegnamento femminile si radicò a Bologna con Bettisia Gozzadini che, conseguita la laurea in giurisprudenza nello Studio bolognese il 3 giugno 1237, ottenne la cattedra di diritto. Una simile carriera, un secolo dopo, è ricordata anche per Novella d’Andrea, figlia di un professore di diritto canonico, che avrebbe, anche secondo il racconto di Christine de Pizan, sostituito il padre nelle lezioni dell’ateneo bolognese, pur divisa dall’uditorio da un pudico velo. La sorella Bettina d’Andrea avrebbe invece insegnato filosofia e legge presso l’Università di Padova.
Alcune umaniste nel XV secolo raggiunsero grande fama e intrapresero vere carriere di intellettuali, tenendo anche orazioni pubbliche, come la veneziana Cassandra Fedele, a cui venne chiesto di pronunciare nel 1487 un discorso in lode delle scienze e delle arti di fronte alle autorità accademiche all’Università di Padova. Le università nel frattempo si erano strutturate come ambienti esclusivamente maschili, a forte impronta ecclesiastica.
Per incontrare un’altra donna impegnata a discutere una tesi e a conseguire un titolo dottorale bisogna arrivare al primo Seicento. Si tratta della spagnola Juliana Morell, nata a Barcellona il 6 febbraio 1594. Figlia illegittima di Juan Antonio, un mercante di stoffe, di una famiglia di ebrei conversi, dimostrò da subito una straordinaria vivacità intellettuale, tanto che il padre la fece seguire da maestri e poi la mise in educazione nel convento di Montsió. Morell, travolto dai debiti e dall’accusa di aver partecipato a un omicidio, si trasferì con la figlia a Lione nel 1600, dove riuscì ad avviare una banca. Comprese tuttavia che il suo riscatto sociale risiedeva proprio nelle grandi doti della figlia che all’età di dodici anni possedeva un’ottima padronanza di lingue classiche e straniere. Così il 16 febbraio del 1606 Juliana difese al cospetto dei dotti una tesi di argomento filosofico ed etico ottenendo «summa cum laude». Trasferitisi ad Avignone, per allontanarsi dall’ambiente protestante, Juliana discusse pubblicamente nel 1608 le sue tesi di diritto canonico davanti a un pubblico di eruditi e aristocratici.
Le carriere intellettuali e le vicende biografiche di Juliana Morell e di Elena Corner hanno molto in comune. Innanzitutto nascono dal bisogno di riscatto e promozione sociale da parte dei loro padri. Elena, nata il 5 giugno del 1646, scontava la condizione umile della madre che escludeva i figli dai ranghi del patriziato. Solo a seguito di un cospicuo versamento di denaro nel 1664 per sostenere le spese della guerra di Candia contro i Turchi, Giovan Battista Corner poté far accettare i figli maschi nel Libro d’oro, ma fu una soddisfazione parziale che lo indusse a servirsi delle straordinarie doti della figlia per riscattare l’onore della famiglia. Seguita da vari eruditi e soprattutto da un professore dell’ateneo patavino, Elena poté discutere il 25 giugno del 1678 una tesi di filosofia, e non di teologia come avrebbe voluto.
Dei veri desideri di queste due donne sappiamo poco ma entrambe hanno lasciato testimonianza di non gradire la pressione genitoriale e di soffrire la grande notorietà che le costringeva di continuo a dare prova della propria sapienza, quasi fossero strane creature. Tutte e due scelsero, contrariando i loro padri, una vita ritirata, come monaca Juliana che nel 1609 entrò nel monastero domenicano di Sainte-Praxède di Avignone, come oblata Elena, che peraltro morì a pochi anni dal conseguimento della tanto acclamata laurea.
La notorietà di Elena, a differenza di Juliana, godette però di un eccezionale riscontro mediatico grazie alla nascita delle gazzette a metà secolo che diedero un’accelerata al sistema delle comunicazioni e che divulgarono celermente in tutta Europa la notizia della prima laureata al mondo.
Tuttavia dobbiamo chiarire un aspetto cruciale: queste due donne non entrarono mai in un’aula universitaria, né frequentarono un corso di studio insieme ad altri studenti: il corpo femminile non era assimilabile né contenibile da questa comunità. L’eccezionalità del conseguimento ottenuto comportava una sottolineatura, e non una riduzione, di tale estraneità nelle manifestazioni pubbliche che vi si associavano, che peraltro tendevano a spogliare di ogni caratteristica femminile le candidate: estranee alla comunità dei dotti, dovevano apparire quasi estranee al loro stesso sesso.
La battaglia delle donne per accedere all’istruzione superiore trovò invece un’ottima alleata nella scienza, a cui molte si applicarono confidando nella revisione culturale che avrebbe reso le università, con le riforme settecentesche, più aperte a nuovi insegnamenti e alle donne. Dopo la laurea di Laura Bassi in fisica (filosofia naturale), nell’aprile 1732 a Bologna e al suo incarico di lettrice stipendiata, dobbiamo arrivare alla rodigina Cristina Roccati per incontrare la prima donna davvero frequentante i corsi dello studio felsineo, dove conseguiva la laurea il 5 maggio del 1751 sempre in filosofia naturale.
Ma il percorso verso l’istruzione superiore per le donne rimase accidentato. Nell’Italia unita solo nel 1875 si permise l’accesso delle donne all’Università, previo il superamento dell’esame di licenza liceale da privatiste, perché solo nel 1883 le ragazze poterono iscriversi alle classi liceali. Ma il titolo ottenuto si scontrava con l’esclusione dalle carriere, abolita solo nel 1919, ad eccezione di quelle giuridiche e militari.
Le donne tuttavia ebbero da sempre altri luoghi e altre modalità di apprendere e coltivare la loro passione per la conoscenza, dalle accademie ai salotti, dagli scambi negli ambienti di lavoro all’autoapprendimento, con letture spesso clandestine e furtive, forse il percorso più comune e più avventuroso.
(ilmanifesto.it, 16 marzo 2021)
di Giorgia Antonelli
«Un giorno non avrai le ragazze, un giorno i ragazzi, e un altro giorno ancora quello che aveva fatto così bene la verifica di matematica è andato e non tornerà più.» (Valeria Parrella, Almarina)
Mauro, lo chiamerò così, ha diciotto anni e lavora in un piccolo supermercato vicino casa mia. Spazza i pavimenti, fa le consegne, si spacca la schiena nel magazzino. È un mio studente e prima della quarantena ci siamo incontrati qualche volta, quando andavo a fare la spesa, e ci fermavamo a chiacchierare. Ha smesso di venire a lezione da un po’, eppure è uno dei più bravi, almeno nelle mie materie. In più è un rapper bravissimo, un giorno gli ho fatto spiegare la musicalità del verso in classe facendogli cantare uno dei suoi pezzi, c’è stata una standing ovation. È sottile, Mauro, introverso e intelligente, ha scritto un testo rap ispirato a Cavalcanti perché come lui vede nell’amore qualcosa di doloroso e insostenibile per la propria sensibilità. Durante l’ultimo compito in classe di italiano che gli ho visto svolgere, un testo argomentativo, ha avuto un crollo e voleva consegnarmi il foglio dopo quaranta minuti, in bianco. Diceva che non ce la faceva, che non era in grado. Mi sono rifiutata di accettarlo, mi sono alzata, gli sono andata vicino e gli ho detto di respirare, che era un attacco di panico, che era capacissimo di svolgerlo, che poteva uscire a prendere una boccata d’aria e poi al suo ritorno mi auguravo che facesse un altro tentativo, che si ripulisse i pensieri e si mettesse a scrivere, o che almeno ci provasse. Quando è tornato dalla pausa si è messo a scrivere e ha scritto fino alla fine delle due ore a disposizione. A quel compito Mauro ha preso otto.
Da quest’anno insegno al serale e Mauro non è l’unico a lavorare tra i miei studenti, lo fanno quasi tutti, ognuno con la sua storia. Quando sono arrivata qui non ero pronta. Avevo insegnato alle medie e in varie scuole superiori ma sempre a ragazzi di massimo diciotto anni, più o meno allenati a studiare, muniti di libri di testo e a cui si potevano assegnare dei compiti a casa per verificarne l’apprendimento. Al serale è tutto diverso: le classi sono miste, dai diciassette anni fino ai cinquanta, ho persino un alunno di settantaquattro anni, tornato sui banchi perché si annoiava e voleva nuovi stimoli. È gente, per buona parte, che ha ripreso a studiare dopo parecchi anni. Lavoriamo con appunti e fotocopie, i libri non possiamo farglieli comprare ed è giusto così, non tutti possono e bonus per loro non ce ne sono, così i materiali li creiamo noi, a casa o in classe, o mettiamo a loro disposizione le copie omaggio che riusciamo a trovare.
C’è un’altissima percentuale di immigrati non integrati, e a differenza di quelli del diurno che sono immigrati di seconda generazione nati qui, questi sono immigrati arrivati adulti in Italia, che frequentano solo le loro comunità d’origine e che per questo quasi non parlano la nostra lingua. Spesso in classe cerco di aiutarli traducendogli le domande o le cose che non capiscono in quel po’ di inglese che condividiamo e mi dispiace perché non posso tradurre loro tutto, andrei troppo lenta e devo cercare di non lasciare indietro gli altri. Li guardo che annuiscono, che copiano quello che scrivo, e mi immagino il loro mondo come una bolla di sforzi sovrumani e silenzio in cui quel che dico non riesce a penetrare. Per la maggior parte sono già diplomati o laureati nel loro paese d’origine ma qui quello che hanno appreso non viene riconosciuto dal punto di vista legale e così ricominciano da zero, faticosamente, dalle medie e poi alle superiori, facendo intanto lavori che nulla hanno a che fare con le loro competenze, in questo forse molto simili a tanti lavoratori italiani.
Per il resto, sono quasi tutte situazioni complesse, persone a cui la svogliatezza in alcuni casi e la vita in molti altri non ha dato la possibilità di diplomarsi, e li vedi barcamenarsi tra orari flessibili e assenze ripetute, permessi di lavoro e tentativi di migliorare la loro posizione lavorativa grazie al diploma.
I primi tempi non sapevo come insegnare a una classe così, tutto quello che avevo fatto negli ultimi dieci anni e che aveva funzionato al diurno sembrava controproducente: non riuscivano a starmi dietro, ero troppo “difficile”, andavo veloce. Mi sono dovuta reinventare presto, dopo una brutta discussione con la mia quinta, a settembre, mi sono seduta con loro e gli ho chiesto di cosa avevano bisogno, gli ho promesso che ci avrei provato. Ho aggiustato il tiro, ho cambiato il mio modo di fare didattica e le cose hanno iniziato a funzionare, o almeno a funzionare meglio. Perché quando insegni è così: quello che sai non conta niente se non lo sai trasmettere, e quello che conta non sei tu o il tuo sapere, quello che conta sono loro e quello che imparano.
Non sono mai stata un’insegnante vocata, non ho mai desiderato insegnare, piuttosto scrivere, avere a che fare coi libri, fotografare, viaggiare, raccontare, studiare ma insegnare, non ci avevo mai pensato. La parola vocazione poi, in ambito didattico, mi ha sempre fatto venire i brividi: forse perché l’ho sentita pronunciare con una voce impastata di eroismo, suffragata dall’idea che non ci sia niente di più bello che plasmare delle menti. Plasmare? È esattamente quel che non vorrei mai fare. Non riesco a vedermi come un demiurgo, gli studenti per me non sono plastilina da modellare a mia immagine, in cui inculcare le mie idee e le mie passioni, sono quel che sono, e quello che non voglio è che diventino degli epigoni, merli indiani che ripetono le mie parole, vorrei invece che avessero il senso critico giusto per tenermi testa, per fare domande, per esporre e difendere le loro idee. Vorrei che emergesse il loro peculiare talento, non il mio.
Non sono un’insegnante vocata dunque, (orrore! Lascia il posto a chi morirebbe, per insegnare!), e quando finisco il mio lavoro – scolastico o domestico che sia – per la scuola, subito me ne dimentico e la mia mente si riempie di mille altre cose altrettanto desiderose di cure e attenzioni. Ho un’unica munizione: mi piace la letteratura, che è la materia che insegno, e mi piace parlarne e questa forse è l’unica cosa che so fare davvero oltre leggere. È la sola arma con cui posso, con un po’ di fortuna, centrare la mela sulla testa dei miei studenti.
Il mondo prima della didattica a distanza era così: pomeriggi a scrivere appunti e mappe alla lavagna, organizzare interrogazioni programmate, accertarmi che capissero, che tutto fosse se non semplice, almeno chiaro, pomeriggi passati a spiegare e perdere le staffe, come può capitare in aula, o a sussurrare incoraggiamenti vicino ai banchi, a cercare di seguirli individualmente il più possibile, a tentare di recuperarli sapendo che in classe non saranno mai tutti ma che invece ne mancheranno sempre parecchi all’appello, o a volte tutti e in quei giorni portarsi sempre un libro dietro è stato fondamentale. Molti mollano lungo la strada, non ce la fanno con gli orari, sono stanchi, non riescono a organizzarsi. Ogni volta che uno di loro abbandona è una sconfitta, un piccolo dolore. Perché se non credo alla vocazione io credo alla scuola pubblica come un potentissimo strumento democratico di emancipazione sociale. Ha i suoi difetti la scuola, ne ha molti e va sicuramente ripensata, ammodernata, dall’organizzazione dei programmi e delle lezioni fino alla didattica e ai criteri docimologici, ma di buono c’è che è aperta a tutti, è obbligatoria e costa pochissimo, è un’opportunità che la vita ti dà anche se tutto il resto fa schifo, non lo controlli, ti sopraffà, è un treno che puoi perdere o prendere, ma di buono c’è che ci salgono tutti. E se lo perdi da ragazzo, quel treno, puoi sempre iscriverti alle scuole serali.
La quarantena ci ha sorpreso con i programmi avviati, le interrogazioni finalmente programmate classe per classe su base volontaria dopo un primo quadrimestre di rinvii per i motivi più disparati, le esercitazioni per gli esami di stato già fissate. È saltato tutto, per quello stesso capriccio della fortuna che per Machiavelli poteva sgretolare i piani anche del Principe che meglio avesse saputo conquistare, organizzare e difendere il proprio principato.
La mia scuola non ha perso tempo e immediatamente si è organizzata per avviare la didattica a distanza, e in pochi giorni siamo partiti. Partiti, almeno in via teorica: dalle nostre clausure domestiche abbiamo organizzato le classi, creato le mail per i singoli studenti con account ufficiali, ma per riuscire a raggiungerli tutti e farli connettere ci abbiamo messo una settimana piena. La didattica a distanza ha questo limite: non avendo la scuola pubblica i mezzi per fornire ipad a tutti, si appoggia come può ai device che si posseggono privatamente: telefoni, computer propri o prestati, tablet familiari per i più fortunati. E poi c’è il problema dei giga: la rete internet a casa non ce l’hanno tutti, molti devono fare affidamento sulle connessioni a tempo del proprio smartphone, non sempre si possono scaricare tutti i materiali – le memorie dei cellulari sono limitate – o leggerli su un display minuscolo senza affaticarsi. Abbiamo rimandato i ragazzi sul sito del Ministero, dove una serie di accordi con le compagnie telefoniche hanno elargito in solidarietà digitale giga gratis e supporto tecnico. Ma non basta. Molti di loro sono rimasti fuori, non possono connettersi anche volendo, come alcuni dei nostri ragazzi immigrati, e immagino come possa essere diventata ancora più silenziosa e ovattata la bolla della loro mente, visto che non possono contattare né noi né i compagni, non possiamo vederci, non sappiamo come comunicare.
Il cambiamento è stato repentino anche per noi docenti, una riconversione della didattica e della scuola su uno strumento che era nato per integrare le lezioni in presenza anche se non era mai stato avviato, e che invece si è trovato a sostituirle. Succede spesso così, in casi di emergenza: si accelera un processo che ci avrebbe messo anni a realizzarsi pienamente, e lo si fa procedendo a tentoni, all’interno di un vuoto normativo e con connessioni che cadono per il troppo traffico, difficoltà a poter valutare e andare avanti con i programmi, riprovando di nuovo, sbagliando e poi ancora provandoci. Vedo ogni giorno i miei colleghi rimboccarsi le maniche e rimettersi a studiare, questa volta come funzionano le piattaforme di e-learning, e ci riescono bene, ci mettono una determinazione e una delicatezza che nulla hanno a che vedere con le maestre analfabete digitali che si limitano a caricare di compiti i ragazzi che vedo rappresentate in quasi tutti gli articoli e i post che leggo: una specie di Frankestein-docente creato per incanalare la rabbia e suscitare consensi, un mostro di categoria offerto in pasto alla pubblica frustrazione.
Come categoria, siamo incasellati in stereotipi da sempre: chi ti vuole insegnare come si insegna, anche se fa tutt’altro nella vita, chi invidia sospirando il tuo lavoro ma ne fa uno molto più remunerativo, chi ti rinfaccia le vacanze scolastiche, chi ti dà del parassita, perché ritiene che il nostro misero stipendio sia troppo alto per le 18 ore settimanali di contratto. Si sa che le ore non sono mai 18, ci sono i rientri e i collegi, c’è la formazione obbligatoria, i p.o.n. (programmi operativi nazionali, ndr) e i corsi a titolo gratuito, i progetti i recuperi e le correzioni dei compiti a casa, la preparazione delle lezioni e del materiale. Ormai li lasciamo parlare, soprattutto adesso che, reclusi in casa, siamo effettivamente dei privilegiati, ma solo perché continuiamo a lavorare e a percepire uno stipendio, un lusso di cui molti italiani in questi giorni non beneficiano.
L’accanimento di questi giorni, però, è ingiusto e fuorviante: abbiamo da anni a che fare con registri elettronici, seguiamo corsi on line, carichiamo domande di mobilità e aggiorniamo curriculum sul sito del Miur solo in formato digitale e persino i concorsi scolastici ormai sono per metà al computer. Tutti usiamo i social, internet e whatsapp, le lim (lavagne interattive multimediali, ndr) e i pc sono il modo in cui anche in tempi normali effettuiamo la didattica, io ho addirittura insegnato in classi totalmente digitali. Non tutti sono tecnologici allo stesso modo, è ovvio, ma questo è vero per qualsiasi professione, il resto si impara.
Stiamo facendo del nostro meglio con quello che abbiamo e sì, ogni mattina ci svegliamo pensando agli studenti che non sappiamo come raggiungere, a chi resterà indietro, a chi non ha i mezzi e gli strumenti per poter partecipare, proviamo a richiamarli di nuovo, a vedere cosa possiamo fare, magari usiamo le chat invece che i pc pur di raggiungerli perché un telefono, almeno quello, più o meno l’hanno tutti.
Le nostre lezioni le registriamo, e le lasciamo disponibili in drive, così che si possano recuperare, e i materiali finalmente – penso ai miei studenti senza libri di testo – sono più facili da reperire e utilizzare.
Ai miei studenti ho detto che questo modo di fare didattica non è male, che mi piace e che continueremo a utilizzare queste piattaforme anche dopo, quando torneremo in classe, perché non posso non pensare a quante opportunità di inclusione ci siano nella didattica a distanza proprio per i soggetti più deboli e fragili, per quelli malati, o disabili o con disturbi dell’apprendimento, per quelli che, per mille motivi, non riescono sempre a venire a scuola. Speriamo che la scuola non dimentichi, quando tutto sarà passato, che sappia farne tesoro.
Continuano a tornarmi in mente le parole di Mariangela Gualtieri in Nove marzo duemilaventi:
“E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.”
Forse dobbiamo iniziare a cercare l’oro tra la sabbia, dobbiamo scavare per far emergere filoni di bellezza, e pazienza per il terreno sotto le unghie e per le volte che luccica ma non è oro, l’oro arriverà. Forse a questo sono chiamati, con i loro limiti di esseri umani in difficoltà, gli insegnanti e gli studenti tutti.
Quando ho iniziato le video lezioni temevo non ci sarebbe stato nessuno dall’altra parte: se non venivano a scuola in tempi di pace, figuriamoci in tempi di quarantena.
Partecipano tutti, anzi, molti di loro sono tornati a seguire, tanti di quelli che avevano mollato, li vedi apparire stesi sul letto o sullo sfondo bianco delle camere con i poster attaccati alle pareti o delle cucine illuminate dalla luce elettrica nel pomeriggio, ma in questa versione informale seguono meglio, si zittiscono l’uno con l’altro per ascoltarti, quando gli dici «mi fermo o spiego ancora?» li senti dire «vada prof, vada», consegnano i compiti, non tutti e qualcuno copia, come sempre, ma sono lì, in un modo nuovo in un mondo nuovo, dove è sparita la valutazione e c’è solo l’apprendimento puro, la condivisione di un momento, la vista di facce amiche e familiari e la voglia, forse, di apprezzare quello che si disprezza quando lo si ritiene un dovere, quando lo si dà per scontato. Un luogo dove ci sono meno interrogazioni e più condivisioni, dove ci sono prima di tutto le persone e il segno grigio dell’obbligo sbiadisce tra i pixel.
Non so ancora dire se questo insolito, miracoloso equilibrio si protrarrà fino alla fine della quarantena, ma sono fiduciosa che, se saremo tenaci, se ci aiutiamo, potremo commutarlo in qualcosa di buono per noi e per i nostri studenti, e so anche che non ci arrenderemo e continueremo a cercarli, strenuamente, in rete o di persona, per tentare di riportarli a scuola, per farli salire ancora su questo treno che potrebbe migliorare il loro futuro.
Qualche giorno fa sono tornata al supermercato vicino casa, dovevo fare un po’ di spesa ma in realtà speravo di incontrare Mauro. Ed era lì, che preparava una consegna a domicilio. Quasi non ci riconoscevamo bardati come eravamo dietro guanti di lattice e mascherine. Ci siamo parlati a distanza di sicurezza.
«Torna a scuola», gli ho detto, «prova a connetterti, ti prego».
«Finisco tardi prof, finisco stanco.»
«Non fa niente, tu prova, guarda che le lezioni e i materiali rimangono lì, puoi recuperarli quando vuoi, anche se non puoi fare le videolezioni non importa, basta che le vedi anche in un secondo momento ma dacci un cenno, fatti vedere, non perdere questa opportunità di rimetterti al passo, dai che sei bravo. Non ti vogliamo perdere, non vogliamo che tu ti perda.»
«Va bene prof, ci proverò.»
Non si è ancora connesso, Mauro, controllo ogni giorno e ogni giorno lo aspetto.
È questo il mio lavoro. E se Mauro non torna il mio compito, prima di insegnare, è continuare a cercarlo.
(doppiozero.com, 7 aprile 2020)
di Antonietta Lelario
L’8 marzo mattina a Foggia è stato molto bello. L’auditorium della Biblioteca provinciale si è riempito di bambine e bambini accompagnati da genitori, insegnanti, bibliotecari, come la responsabile della biblioteca ragazzi Milena Tancredi, per leggere le loro lettere al sindaco di Foggia, proponendo nomi di donne per le vie e le piazze della città. Oltre alle proposte sono stati proiettati anche dei video che documentavano il lavoro didattico che ha coinvolto più di 450 alunni di scuola primaria e media. E per il sindaco c’era ad ascoltare e a raccogliere lo stimolo, l’assessora alla Cultura del Comune dottoressa Paola Giuliani.
Nell’atrio della biblioteca una mostra di disegni e piccole istallazioni rendeva visibile la ricerca svolta nelle classi sulla “città a misura di bambino/a e cioè di tutti” con un linguaggio ricco, plurale che sa alternare la parola, il colore, il disegno, il bianco e nero, il collage, il plastico, come sanno fare solo nelle scuole primarie in questo caso le insegnanti della scuola primaria San Giovanni Bosco e degli Istituti Comprensivi De Amicis-Pio XII e Parisi-De Santis.
All’origine del lavoro a scuola c’è stato il desiderio di utilizzare un libro, “Una strada per Rita”, edito da Matildaeditrice, in cui l’autrice, Maria Grazia Anatra, racconta di una bambina appunto che scopre, facendo una ricerca per la scuola, che la sua città ha pochi nomi di donne e, incoraggiata dalla nonna, decide di scrivere una lettera al suo sindaco per porre rimedio a questa ingiustizia. Il libro è impreziosito dai disegni di Viola Gesmundo che sa far rivivere l’irriverenza della bambina e la libertà del suo sguardo. Per questo le immagini spesso escono dai margini, sulla testa della nonna è acciambellato un gatto, le cose usuali vengono capovolte, in primo piano appare il vento che scompiglia capelli e cappelli e il movimento la fa da padrone. La bambina rappresentata anche di spalle appare autrice della ricerca e spettatrice, sempre di corsa, ma anche capace di fermarsi e di sognare. Il pregio del libro è quindi nel suo invitare ad un esercizio di sguardo capace di vedere gli aspetti nascosti della città e a fare di ciò che manca il motore del desiderio. Così è stato per i bambini e le bambine a cui il libro è stato proposto, che subito, in modo naturale, si sono mossi per le strade cercando la verità che il libro raccontava e, verificandola, hanno voluto seguire le orme del personaggio fino in fondo in un gioco che è poi l’eterno gioco fra rappresentazione e vita. In questa capacità di rimanere vicino a ciò che è naturale sta la grandezza delle maestre, in genere di tutte docenti. Mi diceva infatti la maestra Donata Glori: «Non avrei dato seguito al progetto se non avessi sentito, quando ho messo il libro nelle loro mani, che i e le bambine si entusiasmavano e che il percorso rispondeva al loro desiderio, la sentivano come una cosa giusta per sé».
È stato bello che il libro portasse a scoprire quante donne interessanti ci sono nella storia di Foggia e come queste fossero rintracciabili grazie al lavoro di chi ne ha conservato la memoria, come per esempio il circolo la Merlettaia ha fatto con Liliana Rossi. Molte io non le conoscevo e mi sono felicemente incuriosita. Infatti le figure femminili che i bambini e le bambine hanno scelto di approfondire e a cui vorrebbero fossero intitolati luoghi significativi della città sono:
Filomena Cicchetti che organizzò la protesta contro l’aumento del pane
Ester Dolci De Pilato, scrittrice di libri per l’infanzia e per i ragazzi
Dora Gatta, cantante lirica
Maria Marcone, insegnate, scrittrice, impegnata sui temi della cultura e della giustizia
Luisa Panniello, prima e unica regina del grano
Liliana Rossi, musicista, impegnata politicamente e nel sociale
Amelia Rabbaglietti, poetessa dialettale e ricercatrice di tradizioni foggiane
Esterina Zuccarone, montatrice di film
È stato bello che il femminismo acquistasse corpo e senso per tanti e tante bambine nella ri-conoscenza per le donne che ci hanno preceduto.
Quindi grazie, care maestre, per la forza che avete saputo prendervi e avete saputo darci.
L’Attacco, 11 marzo 2018
Intervista. Céline Alvarez, linguista e maestra, autrice del libro «Le leggi naturali del bambino», è in Italia ospite del festival Torino Spiritualità. ««Il mio approccio è aperto, senza metodi prefissati. In futuro, mi concentrerò sul rapporto con la natura e il gioco libero»
Si può essere felici a scuola? Secondo la linguista e maestra Céline Alvarez, divenuta un caso in Francia per il suo approccio educativo che coniuga insieme Montessori e neuroscienze, provare gioia imparando non sarebbe neanche tanto difficile. Sarebbe anzi la norma. Purtroppo, la vita fra i banchi dei più piccoli somiglia molto a uno spreco. Lei, però, nei suoi tre anni di sperimentazione nelle classi materne di Gennevilliers, luogo socialmente problematico, ha sparigliato la noia e sorpreso i genitori. «A casa, i loro bambini guardavano meno la televisione, volevano apprendere, aiutare i loro fratelli e sorelle o i loro cugini, leggere in continuazione», scrive nel suo libro Le leggi naturali del bambino (Mondadori, pp. 352, euro 20). Nonostante i suoi metodi siano stati considerati controversi dal sistema ufficiale e da diversi docenti, Alvarez ha vinto sul campo. Il problema è semmai per quanto tempo, dato che quegli stessi alunni, lasciate le materne per avviarsi verso altri gradi di istruzione, sono dovuti tornare nelle spire della scuola classica, quella che genera tristezza.
Ospite al festival Torino Spiritualità (sabato incontrerà il pubblico, alle 17, presso il Circolo dei lettori), Céline Alvarez è convinta che, siccome ogni bambino è programmato per imparare, ami profondamente farlo.Il suo libro evidenzia gli studi scientifici e quelli della psicologia cognitiva, rintracciando le leggi naturali di apprendimento. Eppure la scuola continua a essere inadeguata con le sue proposte…
L’esistenza di tali leggi è una constatazione scientifica. Alcuni principi universali guidano l’apprendimento e lo sviluppo umano. Da questi, derivano anche le grandi invarianti pedagogiche: l’importanza dell’autonomia, il sonno, la motivazione interiore, il gioco libero, l’impegno attivo, il legame sociale ed empatico tra i bambini di età diverse, etc. Sono invarianti che sono state intuite da educatori come Freinet, Montessori, Seguin, Pestalozzi, Pickler, Tolstoj, e diversi altri. Ma la scuola difficilmente le rispetta, col risultato che, alla fine, tutti soffrono: i bambini e gli insegnanti. Questi ultimi, nonostante la passione per il loro lavoro, non riescono ad aiutare i nostri figli e non raggiungono mai un esito soddisfacente.
Il suo percorso è cominciato con Itard, ha poi continuato con Séguin, per arrivare a Montessori. Come ha utlizzato le loro idee negli anni della sua sperimentazione?
Il mio lavoro si inserisce a tutti gli effetti nella linea concettuale di questi tre studiosi che hanno aperto la strada a un pensiero educativo scientifico e fisiologico. Il loro lavoro è stato un punto di partenza, che ho poi arricchito con i progressi nel campo della psicologia cognitivo comportamentale e, delle neuroscienze cognitive, emotive e sociali. Ho posto grande attenzione alla relazione sociale e allo sviluppo delle competenze esecutive. Ma è solo una partenza: il mio approccio è evolutivo, aperto, non contiene metodi già prefissati. In futuro, continuerò la mia riflessione espandendo parametri che gli studi indicano come fondamentali – per esempio, il rapporto con la natura o il gioco libero. L’esperienza di Gennevilliers è l’inizio di una lunga ricerca: il fine è creare ambienti educativi «fisiologici», adattati al funzionamento e all’esigenza di esseri umani nel pieno del loro sviluppo.Lei sostiene che trattare i bambini con affetto in classe non sia solo un’opzione educativa, ma qualcosa di più. Cosa può dirci al riguardo?
Leggendo molta letteratura scientifica mi sono resa conto che ciò che noi sappiamo grazie ai nostri cuori non è solo reale, ma anche scientificamente valido: per consentire all’essere umano di accrescere il suo potenziale cognitivo, morale, sociale e creativo, l’amore svolge una funzione essenziale. La fiducia. I legami in grado di dare un supporto. Un bambino che avrebbe potuto sfruttare condizioni favorevoli per il suo apprendimento – essere autonomo e attivo in un ambiente ricco e di qualità, circondato da altri bambini di età diversa – che si sente giudicato o isolato non potrà mai pienamente fiorire. Quando siamo stressati o ci si sente respinti, il cortisolo invade il nostro cervello e danneggia le strutture fondamentali, quali la memoria o le competenze cognitive più elevate. Al contrario, la relazione empatica e calda fa sbocciare le connessioni in queste stesse regioni. L’amore è ingrediente imprescindibile, il collante senza cui nulla emerge o prende forma.
Nel suo saggio, attribuisce grande importanza all’accuratezza del linguaggio: un vocabolario misero fa danni. Cosa pensa di internet, social network, tv, allora?
Quel che è negativo in tutte queste attività è l’assenza o la povertà di interazioni umane reali. Abbiamo bisogno di rapporti: la nostra intelligenza e la nostra lingua progrediscono in un ambito sociale.
Ha posto anche l’accento anche sul valore delle fantasticherie, rivalutando il «tempo vuoto» dei bambini…
Sì, quando viviamo le nostre esperienze quotidiane, il cervello umano crea costantemente nuove connessioni. Questi tempi apparentemente «riposanti» sono essenziali per consentirgli di fare in ordine fra tutte le esperienze, creando trame e rimandi. Così, quando crediamo di non fare «nulla», stiamo in realtà lavorando alacremente.
È possibile immaginare un’altra scuola?
Le persone imparano quando sono attive, non passive, se entusiaste e non demotivate. Quando sono circondate da altri individui che mostrano loro come operare e poi sanno fare un passo indietro per lasciarle libere di esplorare. Impara naturalmente chi si sente amato e non giudicato. Quando il mio libro è uscito in Francia, ho sentito dire: «Non c’è nulla di nuovo, sapevamo già tutto intuitivamente». È proprio così. Ma finché queste verità educative non saranno massicciamente applicate tanto da trasformarsi in routine, alcune generazioni di esseri umani si succederanno a vicenda per prendere il microfono e ricordarlo a tutti. La posta in gioco è immensa. Se ci impegniamo collettivamente a non calpestare più le leggi biologiche che condizionano lo sviluppo umano, probabilmente avverrà qualcosa di grandioso: la comparsa di individui con potenzialità cognitive, sociali, emotive e creative pienamente schierate, in grado di costruire con intelligenza, discernimento e altruismo, una nuova società.
(il manifesto, 21/09/2017)
di Cristina Lacava
Meno tecnicismi, più passione. Meno azienda, più racconto di sé. Meno burocrazia, più relazioni. Altro che Buona Scuola! Secondo Vita Cosentino, autrice di Scuola. Sembra ieri, è già domani. L’autoriforma come trasformazione della vita pubblica (Moretti & Vitali editore), la scuola è davvero buona solo se gli insegnanti tornano ad avere fiducia in se stessi, nelle proprie capacità, nell’entusiasmo. Se puntano su se stessi, e non su riforme calate dall’alto (le peggiori: Moratti e Gelmini) e scritte da chi, del lavoro nella scuola, sa poco o nulla. Un messaggio che non vale solo per i docenti ma per tutti.
Ma che cos’è questo movimento di autoriforma? Me lo spiega l’autrice, per 35 anni insegnante alle medie, che nel suo lavoro ha tradotto anche l’esperienza del movimento femminista. Tenendo conto che la categoria è composta prevalentemente da donne (per non parlare delle maestre, addirittura il 98 per cento). “Autoriforma significa partire da sé, dalle buone pratiche nel rapporto con gli alunni, dalle trasformazioni” dice l’autrice. “Faccio un esempio. negli anni Cinquanta, quando ho iniziato a scrivere, la scrittura era racconto di finzione. Quando però mi sono trovata a insegnare, ho cambiato prospettiva: non più finzione ma valorizzazione di sé e delle proprie esperienze. Partire dal proprio vissuto e dalla parola, secondo la lezione del movimento delle donne. Ed è questo il messaggio che ho trasmesso ai miei ragazzi e alle mie ragazze”.
La parola, dunque. Una grande ricchezza. Altro che Lim o test a crocette. “Non sono state tutte rose e fiori” ricorda. “Una volta, un mio alunno problematico durante la lettura in classe dei temi lesse un suo componimento che era un atto d’accusa. Nel giorno del suo compleanno aveva invitato tutti i compagni nella comunità d’accoglienza dove viveva, e non si era presentato nessuno. Fu un momento durissimo. Eppure, poi, quel ragazzo capì che la scrittura poteva aiutarlo non solo a capire qualcosa di sé ma anche a costruire delle relazioni: da allora, infatti, i rapporti con i compagni si sciolsero. E lui si dedicò con sempre maggior passione alla scrittura”.
Secondo Vita Cosentino, gli insegnanti dovrebbero ritrovare in se stessi quelle motivazioni e quell’entusiasmo che in passato hanno dimostrato: “Ricordo quando per la prima volta le scuole si aprirono ai disabili. E poi, quando nella scuola media partì il tempo prolungato: quante idee, quanto entusiasmo nei colleghi e nelle colleghe! La soluzione dei problemi non può essere delegata, riprendiamoci noi il nostro lavoro”.
Quel che serve alla scuola dunque è riprendere la lezione del movimento femminsita: meno regole asfissianti (e mortificanti), e più fiducia nelle relazioni personali. Come le donne sanno fare, e l’hanno sempre dimostrato. Per i governanti, il messaggio è chiaro: “C’è tanta esperienza in chi insegna, soprattutto nelle donne. Eppure questa ricchezza non viene riconosciuta. Anzi, gli insegnanti vengono umiliati. Eppure una riforma dovrebbe favorire, non inceppare il lavoro”.
(Blog Io donna, 7 giugno 2016)
di Antonella De Gregorio
Si chiama Sofia Corradi, ha 82 anni e lunedì nel monastero di Yuste a Caceres, in Estremadura (Spagna), riceverà il prestigioso premio Carlo V, riconoscimento assegnato negli anni a personaggi che hanno contribuito alla costruzione europea, da Helmut Kohl a José Barroso, Jacques Delors, Simone Veil. Sofia Corradi ha inventato l’Europa della conoscenza. Il premio per lei sta già tutto in quel soprannome che milioni di ragazzi e professori le han dato: «Mamma Erasmus». È a lei, infatti, alla sua tenacia, alla sua lungimiranza, che si deve la nascita del programma di mobilità tra atenei universitari denominato con l’acronimo di «European Action for the Mobility of University Students», che poi nel tempo è stato facile associare alla figura del filosofo olandese che tra Quattrocento e Cinquecento percorse il Vecchio Continente per conoscere e comprendere le diverse culture che lo popolavano. È questa donna, che fino al 2004 ha insegnato Educazione degli adulti alla facoltà di Scienze della Formazione dell’università di Roma Tre, che ha reso possibile per 4 milioni di studenti, di quattromila atenei, un’esperienza all’estero durante gli anni di studio. Insieme al riconoscimento solenne, Sofia Corradi riceverà anche un premio in denaro di 90mila euro: la metà rimarranno a lei, il resto verrà distribuito tra 12 dottorandi, sotto forma di borse di dottorato da assegnarsi a seguito di concorso europeo.
Com’è nato il programma
Dopo aver compiuto studi e ricerche negli Stati Uniti, all’Aja, alla London School of Economics, all’Unesco, Sofia Corradi si è scontrata contro l’ottusità di una burocrazia che le negava il riconoscimento degli studi (prestigiosissimi) svolti all’estero. Un rifiuto che ha innescato una battaglia durata vent’anni, per convincere i rettori delle università europee ad inserire programmi di scambio universitario nei loro piani di studi. «L’architettura di base mi era chiara fin dall’inizio – dice Corradi -: con il consenso della facoltà di provenienza e in base ad accordi tra le due università coinvolte, lo studente poteva andare a studiare all’estero. Al suo ritorno in Italia, le università si impegnavano a riconoscere gli studi fatti all’estero».
L’inizio
«Un modo per dare a chiunque lo desiderasse la possibilità di fare quello che solo una famiglia ricca poteva permettersi», dice Corradi. «Un programma rivoluzionario, che quando lo illustravo suscitava due tipi di reazioni: da una parte a chi mi diceva che era un’idea balzana, di lasciar perdere, che le nostre università erano sufficientemente buone e non c’era bisogno che i nostri giovani andassero all’estero per correre dietro alle ragazze di altri Paesi. Dall’altra chi, dopo avermi ascoltato solo per venti secondi, subito capiva, si entusiasmava». Un’idea che solo nel 1987 arrivò a realizzarsi. Dopo un’interminabile sequela di riunioni, discussioni, incontri, barriere burocratiche. L’approvazione definitiva, con la ratifica del Consiglio dei ministri nel giugno 1987. In quello stesso anno, 3000 studenti hanno potuto migliorare la loro formazione in un’altra università europea.
(Corriere della sera, 7/5/2016
di Doriana Goracci
Hanan al-Hroub è diventata insegnante quando capì che doveva fare qualcosa per far superare ai suoi figli il trauma del loro papà, suo marito, ucciso sotto i loro occhi, in Palestina. L’astrofisico britannico Stephen Hawkings ha annunciato tramite un messaggio video, anche il suo nome tra i dieci finalisti scelti dalla Varkey Foundation, per il Global Teacher Prize 2016.
Hanan al-Hroub non solo è bella: lei, palestinese originaria del campo profughi di Deisha (Betlemme), è stata scelta, riferisce l’Ansa, come “miglior insegnante del mondo“, tra 8.000 insegnanti, per il suo particolare metodo “focalizzato sulla non violenza, l’insegnamento attraverso il gioco e il metodo di relazione con gli studenti con problemi di comportamento originati dalle violenze a cui sono soggetti a causa dell’occupazione israeliana”.
In un video ripreso dall’agenzia Maan l’insegnante, parlando del trauma subito dai suoi figli quando videro il padre colpito dal fuoco dell’esercito mentre tornavano da scuola. Non sentendosi aiutata da nessuno, tantomeno dagli insegnanti, la giovane palestinese ha deciso di inventare nuovi metodi di apprendimento attraverso il gioco, coinvolgendo anche i figli dei vicini.“Lo shock subito condizionò pesantemente il comportamento, la personalità e i voti dei miei figli. Poco dopo aver iniziato queste attività ho riscontrato netti miglioramenti nei miei figli: cresceva la sicurezza in loro stessi e miglioravano anche i voti a scuola. Per questo decisi di cambiare il mio indirizzo di laurea e diventare un’insegnante“.
Le violenze cui sono soggetti i bambini palestinesi, secondo al-Hroub, non sono solo fisiche, “molti bambini subiscono violenze psicologiche non apparenti, sono inseriti in un ambiente aggressivo, ricevendo input negativi anche dalle immagini che riportano i media: per questo mi sono focalizzata sull’approccio non violento per la risoluzione dei conflitti personali“.Il Ministro dell’Educazione dell’Autorità nazionale palestinese Sabri Saidam, ha affermato che il trionfo di Hanan è “un successo per la Palestina e gli insegnanti palestinesi”, riporta l’Ansa.
“We just want peace; we want our children to enjoy their childhoods in peace.”
Imparare giocando e senza violenza è il suo motto, malgrado tutto quello che ha subito e subisce come ogni palestinese: Tifo per lei!
di Redazione Il Libraio
Barbara Riccardi insegna nella periferia di Roma, ed è l’unica maestra italiana candidata all’edizione 2016 del Global Teacher Prize, il “Nobel” per gli insegnanti… – La sua storia e i suoi sogni (“Con il milione di dollari in palio aprirei uno spazio polivalente, aperto anche al pomeriggio, per lo sport e i corsi di recupero per i bambini stranieri…”)
Barbara Riccardi, insegnante dell’Istituto comprensivo Frignani di Spinaceto, nella periferia di Roma, è l’unica maestra italiana candidata all’edizione 2016 del Global Teacher Prize, il “Nobel” per gli insegnanti.
Il riconoscimento, nato per volere del filantropo miliardario Sunny Varkey attraverso la fondazione omonima, è alla sua seconda edizione (lo scorso anno è stato vinto dalla maestra americana Nancie Atwell) e viene assegnato a un insegnante speciale, la cui esperienza è degna di essere valorizzata e può funzionare da esempio per chi svolge questa professione. La candidatura può venire da altri insegnanti, dagli alunni o dalla comunità.
Come raccontato dal Corriere.it, Barbara si è dichiarata molto sorpresa di questa nomina inaspettata ed è quasi incredula. La maestra romana è stata nominata “per la sua capacità nel creare legami tra studenti di diverse culture e Paesi, attraverso programmi di scambio e progetti di inclusione“: dai contatti con le scuole francesi diventati poi gemellaggi, all’organizzazione di campi estivi per i bambini senza mezzi, progetto per cui è stata insignita anche di una medaglia al merito dal Presidente della Repubblica, la creatività di Barbara non si ferma mai. Tra i suoi progetti, la rivista online “La scuola possibile”, in cui riporta, insieme ai colleghi, le esperienze in classe; il Progetto Leonardo, firmato insieme al rettore della Sorbona di Parigi, che vedrà collaborare gli studenti delle due scuole per realizzare due mostre, una a Parigi e una a Roma, su Leonardo Da Vinci; il TG Scuola, in cui i ragazzi fanno i giornalisti e realizzano video interviste; l’orto scolastico dove, insieme ai nonni, i bambini coltivano verdure a chilometro zero da rivendere per finanziare la scuola; per finire con un progetto di partnership con una scuola del Kenya, affidato a due studenti di origini africane, per la realizzazione di un libro di ricette, racconti e musica.
Un vulcano di idee e una maestra instancabile, quando le hanno chiesto cosa farebbe con un milione di dollari, ha risposto: “Aprirei uno spazio polivalente, aperto anche al pomeriggio, per lo sport e i corsi di recupero per i bambini stranieri“. Inoltre sistemerebbe gli infissi e l’impianto di riscaldamento, metterebbe una LIM e il registro elettronico in ogni classe e coinvolgerebbe più ragazzi nei suoi scambi culturali.
La premiazione avverrà a Dubai a marzo 2016: inutile dire che noi facciamo il tifo per Barbara.
(www.illibraio.it, 10 dicembre 2015)
di Tullio De Mauro
Il disegno di legge Giannini e altri, “Riforma del sistema nazionale di istruzione”, e i documenti governativi che lo hanno preceduto e lo accompagnano sono stati colpiti da molte critiche puntuali, tante da rendere difficile il compito di riassumerle. Lo hanno fatto su Internazionale due recenti messe a punto di Christian Raimo il 5 maggio e Mauro Piras il 7 maggio e mi rimetto a queste.
Tutti i critici, direi, si sono concentrati nel contrastare, smentire, sforzarsi di correggere singoli punti del disegno di legge fino a chiederne con ragione il ritiro, senza fermarsi a segnalare quel che nei testi non c’è. Però, come imparano gli studenti di prima annualità di buoni corsi di linguistica generale o filosofia del linguaggio o semiotica e comunicazione, un testo ci parla di un argomento non solo con quel che ci dice in esplicito, ma anche con quel che ne tace.
Sta nel potere delle nostre parole rendere significativi anche i silenzi. A me pare che nei testi di ispirazione renziana ci siano tre silenzi da segnalare, tre peccati di omissione. Sono silenzi che colorano malamente tutto ciò che si dice. Se non verranno corretti, devono metterci in allarme fin d’ora per le future politiche scolastiche governative e, ciò che più conta, per le sorti della nostra scuola.
Il primo silenzio è il mancato riconoscimento per ciò che la nostra scuola ha fatto e fa. Se non abbiamo voglia o capacità di guardare in faccia la realtà del nostro paese, non capiamo che cosa dobbiamo alla scuola sia pure in assai diversi gradi a seconda dei suoi diversi livelli. Dobbiamo moltissimo ai livelli di base, alle scuole dell’infanzia ed elementari, assai meno, purtroppo, alle scuole medie superiori.
Ma anche questa differenziazione manca nella prospettiva renziana. La scuola, come fanno i giornalisti meno informati, è considerata come un blocco unitario, indifferenziato. Non se ne capiscono così i meriti e, anche, alcuni limiti.
All’inizio del cammino nell’età della repubblica la scuola e con lei l’intera società italiana si sono trovate schiacciate dall’eredità dello stato monarchico e fascista. Quasi due terzi degli ultraquattordicenni, il 60 per cento, erano privi di licenza elementare, un terzo dei quali analfabeti confessi (per l’Istat si era ed è analfabeti se tali ci si dichiara). Nelle classi giovani in età scolastica, per ragazzine e ragazzini, il titolo di licenza elementare (non il diploma, non la laurea) era riservato a un’élite, un terzo. Pochi, nel ceto intellettuale e politico, si rendevano ben conto di ciò: Umberto Zanotti Bianco, Guido Calogero, Anna Lorenzetto, Giuseppe Di Vittorio, Piero Calamandrei.
Soltanto dopo quasi dieci anni, alla pattuglia sparuta si aggiunse un giovane parroco rompiscatole del suburbio fiorentino, rimasto più noto per merito, dobbiamo dirlo, del Sant’Uffizio o simili. Il giovanotto aveva capito che era impossibile portare le parole del Vangelo a chi era immerso nell’analfabetismo e, in più, gli appariva già sedotto dalle prime ondate del consumismo, di cui nessuno, Pier Paolo Pasolini a parte, si rendeva conto. Cominciò a trafficare con le statistiche per capire quale era l’estensione del fenomeno. E scrisse un libro, Esperienze pastorali, che dispiacque alla sua chiesa, che isolò l’autore e lo relegò in una sperduta parrocchia di montagna, a Barbiana, sopra Vicchio, nel Mugello, nella convinzione che lontano dalla città avrebbe fatto meno danni. “Ecco il giudicio uman come spesso erra”, direbbe Ludovico Ariosto. Il ritardatario aggregato alla pattuglia, il rompiscatole mandato al confino si chiamava Lorenzo Milani.
Dinanzi alla realtà di dominante mancata scolarità la reazione fu lenta. Anche gli odiatori del populismo devono ammetterlo. La reazione cominciò dagli strati popolari, dalle campagne più povere del latifondo. Le famiglie capirono, sentirono, che dovevano mandare figlie e figli a scuola, sola alternativa al dispatrio.
Le statistiche ancora raccontano con i loro numeri, per chi si dà la briga di andarle a consultare, questa storia. Ragazze e ragazzi tra tardi anni quaranta e metà cinquanta affollarono le elementari e cominciarono a conquistare in grande maggioranza la licenza elementare prima preclusa invece alla grande maggioranza dei genitori, a non parlare dei nonni.
Mentre il parlamento discuteva del creare o no una scuola postelementare che onorasse il precetto costituzionale degli “almeno otto anni” di scuola “obbligatoria e gratuita” (articolo 34, comma 2), ragazze e ragazzi la scuola postelementare cominciarono a farsela da sé affollando i diversi canali che lo stato offriva e cercando di rimanerci. Varata nel 1962 la scuola media inferiore unificata, gli otto anni di scuola cominciarono a diventare realtà per percentuali crescenti, ma ancora lontane dal 100 per cento.
Il fatto è che una gran parte degli insegnanti resisteva e continuò a resistere. Erano convinti che il loro compito fosse censire, fermare e mandar fuori dai piedi i somari, gli svogliati, i testoni. Non erano stati attrezzati a capire che il loro compito era esattamente il contrario: fare in modo che i somari imparassero a non ragliare, gli svogliati ad avere voglia di studiare, i testoni a usare la testa per capire e orientarsi nella società. Facile a dirsi, non a farsi. Nel corso degli anni, gli e le insegnanti non solo delle elementari, ma anche delle medie inferiori hanno imparato a farlo. Le scuole elementari hanno raggiunto un doppio risultato: portano al loro termine il 100 per cento dei loro alunni e questi, nei confronti internazionali, si collocano tra quelli con i più alti livelli di competenza.
Interessante: il massimo di inclusività va a braccetto con la qualità più elevata dei risultati. Così è nel resto del mondo, così è stato ed è per la nostra scuola elementare. Comunque, in complesso, l’intera scuola di base è riuscita a portare alla licenza media dell’obbligo quasi il 100 per cento dei figli di famiglie in maggioranza analfabete o semianalfabete ancora quarant’anni fa e oggi in maggioranza dealfabetizzate. E perfino quello che è l’anello debole, la scuola media superiore, porta al diploma l’80 per cento di ragazzi e ragazze. E in questa scuola le nostre straordinarie ragazze nei test comparativi internazionali raggiungono punteggi superiori alla media delle loro compagne europee.
Questa è la scuola cui, senza conoscerla, voi volete mettere mano. Il vostro silenzio su ciò che la scuola ha saputo e sa fare fa temere che il vostro metter mano sia un manomettere. Questa scuola è la sola istituzione che ha aiutato la società italiana a evadere dalla prigione dell’analfabetismo primario, totale, e a conquistare almeno l’alfabetizzazione strumentale per il 95 per cento e quella pienamente funzionale (vedremo poi) per il 30 per cento. Mai erano stati raggiunti livelli così alti in tre mezzi secoli di storia patria.
“Se per strada incontro un mio collega lo saluto. Ma se incontro un insegnante mi fermo, mi cavo di capo il cappello e mi inchino”: così amava dire Guido Calogero nei lontani anni cinquanta e ne hanno conservato memoria quelli che lo hanno conosciuto e hanno condiviso con lui il confino come Carlo Azeglio Ciampi. E sapeva benissimo quante cose non funzionavano nella nostra scuola, come ha ricordato giorni fa Claudio Giunta.
Ma, interrompendo a tratti i suoi preziosi lavori specialistici di filosofo e di storico del pensiero antico e andando in giro per le scuole a conoscerne e capirne i problemi, aveva imparato quanto è duro, quanto è degno di riconoscenza e stima il lavoro di chi insegna. Voi cappelli non ne portate più, ma fermarvi e inchinarvi potreste e dovreste.
C’è un secondo silenzio. Guardiamo con freddezza e distacco alle cose. Nel fare quel che ha fatto e fa, la scuola ha fatto e, tra tagli e insulti, continua a fare il dover suo, occorre dire. È un dovere costituzionale, le scuole non possono sottrarsi. L’insegnamento è libero, dice la Costituzione (articolo 33, primo comma), ma la scuola no, non è libera o lo è solo entro i paletti che la Costituzione ha fissato.
Diffidenti o preveggenti i costituenti stabilirono una serie di vincoli.
- La scuola deve essere “aperta a tutti” (articolo 34 comma primo: la frase è di sei parole, brevissima, e starebbe bene sull’ingresso di tutte le scuole): Gianni e Deborah non ci piacciono, ma non possiamo cacciarli via.
- La scuola deve essere anzitutto e comunque luogo di un’istruzione “obbligatoria e gratuita” “impartita per almeno otto anni” (articolo 34 comma secondo).
- Di conseguenza nemmeno la repubblica può cantare sempre libera degg’io: severa, la Costituzione le dice che deve istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (articolo 33, comma secondo).
In altre parole istruirsi è sì un diritto soggettivo di cittadini e cittadine, ma “rendere effettivo questo diritto” non è una faccenda privata, è un dovere della e per la repubblica, che, vincendo i pianti dei ministri del tesoro, deve trovare i mezzi per consentirne l’esercizio (articolo 34, comma quarto).
Non bisogna essere esimi costituzionalisti per capire perché tanta attenzione per la scuola. La Costituzione è scritta con grande chiarezza (per questo ha perfino vinto un premio Strega). Proprio perché “aperta a tutti” e perché “obbligatoria per almeno otto anni” la scuola è l’unico luogo istituzionale in cui per forza devono ritrovarsi, almeno nei loro anni giovani, “tutti i cittadini (…) senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3, comma primo). È qui, nella scuola, che la repubblica può adempiere al suo “compito” (questa parola fu pensata, scelta e confermata con cura dai costituenti): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli (…) che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione (…) all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (articolo 3, comma secondo).
La scuola della repubblica è il luogo privilegiato per vincere le limitazioni della libertà e dell’eguaglianza, rimescolare le carte della stratificazione sociale, trasformare le diversità in ricchezza culturale comune, favorire lo sviluppo delle persone, costruire le premesse per l’effettiva partecipazione attiva alla vita del paese. Voi che mandate i figli all’American talent school non sapete che cosa gli fate perdere (o lo sapete ma non v’importa niente): la progressiva costruzione di una società di persone libere.
La scuola dunque, come vide Piero Calamandrei e tornarono poi a spiegare i ragazzi di Barbiana, non è un pezzo qualunque dello stato, ma è un “organo costituzionale”. È entro questi limiti che la repubblica “detta le norme generali sull’istruzione” (articolo 33, comma secondo). Buone norme per la scuola devono richiamarsi sempre alla sua natura di delicato, essenziale organo costituzionale. La “Buona scuola” ne tace. È il secondo, preoccupante silenzio. È un’omissione voluta? Oppure è una sciatteria, una dimenticanza non voluta “con l’aggravante della buona fede”, come diceva don Milani?
Terzo silenzio, infine. Almeno dagli anni ottanta, alcuni sospettavano che gli analfabeti in Italia non fossero solo quelli che si autocertificavano tali ai censimenti dell’Istat. Furono tentate stime. Poiché si accertava che il 20 per cento delle ragazze e dei ragazzi uscivano dalla scuola media con più o meno gravi difficoltà di accesso a testi scritti, si ipotizzò che questa percentuale potesse proiettarsi sulla popolazione adulta. L’ipotesi era ottimistica.
Oggi, dopo tre indagini osservative internazionali (fondate su osservazioni, non su autovalutazioni) sappiamo che in tutti i paesi ricchi e consumistici una parte consistente di popolazione, dopo avere raggiunto in età scolastica livelli anche eccellenti di competenza nella comprensione della lettura, nella scrittura, nel calcolo, nel ragionamento scientifico, in età adulta tende a dealfabetizzarsi. Quasi due anni fa Internazionale ha pubblicato l’essenziale di questi dati. In paesi con scuole eccellenti, come Giappone, Finlandia, Olanda la percentuale di persone adulte al di sotto dei livelli minimi necessari a capire un testo e a usare basilari concetti matematici e scientifici tocca quasi il 40 per cento. Tocca il 50 per cento in Corea del Sud, altro paese di buona scuola, buona davvero, supera la metà nel Regno Unito e Germania, arriva a toccare e superare il 60 per cento in Francia e Stati Uniti, raggiunge infine il 70 per cento in Spagna e Italia.
Fattore determinante non è evidentemente da sola la qualità della scuola, ma sono gli stili di vita che allontanano chi è uscito da scuola dalla voglia di tenersi informato, di ragionare, di partecipare in modo attivo alla vita sociale. E così le competenze acquisite a scuola si indeboliscono, si avvizziscono, perfino muoiono, Per l’Italia va osservato che, se si tengono presenti anche i dati sulla capacità diproblem solving (uso delle conoscenze per risolvere problemi non routinari nelle singole discipline), la percentuale delle persone sotto i livelli minimi di competenza sale all’80 per cento.
Questa massa cospicua di neoanalfabeti interessa due volte la scuola ordinaria. Interessa una prima volta perché in qualche misura la scuola, specie quella media superiore, è complice della dealfabetizzazione adulta, nel senso che non riesce a fare abbastanza per garantire che i livelli buoni cui porta ragazze e ragazzi si fissino e durino nel tempo dell’età adulta e anziana. Cosa relativamente di poco peso di fronte al danno che la scuola riceve da questa massa.
Sappiamo bene da studi di ogni sorta e paese che il livello culturale delle famiglie incide in modo determinante sull’andamento degli apprendimenti scolastici dei ragazzi. Otto su dieci dei ragazzi e delle ragazze che la scuola si trova di fronte vengono da famiglie in cui non entrano libri e giornali e non si praticano collegamenti a banda larga con internet e Google.
Da decenni, in altri paesi, si sono sviluppati antidoti specifici: un’ampia offerta di corsi per l’istruzione degli adulti. In Italia siamo astralmente lontani da ciò. Una commissione nominata nel 2013 dai ministri Carrozza e Giovannini (istruzione e lavoro nel governo Letta) produsse nel febbraio 2014 un rapporto analitico su quel che scuole e imprese potevano e dovevano fare per contenere e ridurre la massa dei dealfabetizzati. Gli estensori dei testi renziani devono averlo considerato materiale da rottamare e fare stare sereno.
Male assai: proposte serie sulla scuola non possono mettere da parte quello che la scuola può e deve fare per l’istruzione degli adulti. Oltre tutto i renziani amano molto gli anglismi e l’espressione tecnica in uso per la cosa è lifelong learning, imparare per tutta la vita. Ma loro non l’hanno usata, e non per purismo: lasconoscono come si dice in Sicilia. Secondo norme già vigenti e secondo le analisi della commissione di cui s’è accennato sono le scuole il luogo deputato a far da centro a un sistema di lifelong learning e anche di continuum training, formazione continua. Esse possono e devono diventare “fabbriche della cultura”. Su tutto ciò silenzio tombale di Renzi e di quelli che omericamente si possono dire “quelli a lui d’intorno”.
Matteo Renzi pareva partito con buone intenzioni. La prima era ottima: aveva fatto capire che di scuola , del complesso della scuola, si sarebbe occupato in prima persona, quale capo del governo. Sembrava che avesse capito che così in effetti richiede la intricata complessità economica, amministrativa, culturale e politica della realtà scolastica di un grande paese sviluppato. Così, di conseguenza, nei maggiori paesi del mondo le grandi svolte delle politiche scolastiche ed educative sono gestite direttamente dai capi di governo o di stato.
Così invece non è stato nella tradizione italiana, dove, a parte casi isolati come quello di Giovanni Giolitti e lampi di interesse di Romano Prodi ai tempi del Prodi uno, si è creduto che le politiche scolastiche potessero esser lasciate ai ministri dell’istruzione. Questi però non hanno competenze e poteri rispetto a troppe facce del problema, a cominciare dai riassetti del bilancio dello stato necessari se davvero si vuole intervenire sul complesso della realtà educativa. Sono riassetti che comportano decisioni che può e deve prendere solo chi guida l’intera compagine governativa, non un singolo ministro, a meno che non abbia una delega in bianco come (ma solo per due anni) fece Mussolini con Giovanni Gentile.
Matteo Renzi pareva deciso a innovare prendendo in mano lui stesso il gran groviglio educativo e l’intento era e resta in sé positivo. Il risultato per ora è molto insoddisfacente.
Una seconda buona intenzione manifestata all’inizio è stata insistere sulla natura solo parziale degli interventi che annunziava: non chiamatela riforma, ebbe a dire il presidente, sono solo singoli provvedimenti più immediatamente necessari, la riforma la faremo, ma verrà dopo. Invece e però da un certo punto in poi la buona intenzione è svanita e in comunicazioni governative, nei mezzi di informazione e infine nel testo consegnato al parlamento si è parlato di riforma, parola pesante che, a usarla correttamente, implica l’esistenza di un ripensamento adeguato e di una revisione radicale e complessiva di uno stato di cose.
Le buone intenzioni del capo del governo, svaporando, hanno infine portato il 27 marzo al disegno di legge presentato al parlamento dai tre ministri di settore, Giannini, Madia e Padoan. Le omissioni di cui si è detto qui sono pesanti. Se non saranno corrette prefigurano un tempo di dura lotta perché la nostra scuola continui a essere, secondo costituzione, la scuola della nostra repubblica.
(Internazionale, maggio 2015)
di Franco Lorenzoni
“Riforma sì, ma non così”, si è gridato il 5 maggio, e ha fatto bene ritrovarsi in piazze piene di insegnanti e studenti che difendevano la scuola pubblica, che è il bene più prezioso che abbiamo, se non altro perché è il luogo in cui maggiormente si lavora – pur con impegno e risultati disomogenei – a integrare i figli degli immigrati e tentare di costruire una società capace di contrastare il crescere delle discriminazioni.
Ma ritrovata una certa capacità di mobilitazione, le domande che ci dobbiamo porre noi insegnanti devono essere nette e spietate, perché troppe cose non vanno nella nostra scuola. Domande che è giusto lanciare con forza al governo, perché paghiamo tutti più di vent’anni di gestione dissennata della pubblica istruzione che, oltre a sottrarre più di otto miliardi alle scuole elementari (durante la gestione Tremonti-Gelmini), sono arrivati ad abolire la parola pubblica fin nel nome del ministero che dovrebbe governarla.
Altrettante e più scomode domande, tuttavia, credo che ciascuno di noi abbia il dovere di porle a se stesso perché, se la scuola ha così tante mancanze, una parte consistente di responsabilità l’abbiamo anche noi insegnanti, singolarmente e come categoria.
Se osserviamo la geografia della scuola troviamo una grande maggioranza di bambine e bambini che frequentano nidi, scuole dell’infanzia ed elementari e sono felici. Ma, già negli ultimi anni della scuola primaria e pienamente nella scuola media, cominciamo ad avvertire i segni di quella catastrofe che porterà un’enorme quantità di studenti a sentire la scuola come un luogo estraneo, a volte nemico, dove in troppi non si ritrovano e non trovano, nella fatica dello studio, un terreno propizio dove conoscersi e scoprire qualcosa di se stessi.
Se nella scuola non riusciamo a vivere momenti di rispecchiamento culturale in cui io, ragazza o ragazzo, mi riconosco in un racconto, un mito, una musica, una pittura o un nodo concettuale – filosofico, scientifico o matematico – che mi porti a confrontarmi con l’infinito e i misteri del cosmo, che senso ha lo sforzo che mi si chiede?
Ciascuno di noi, se deve affrontare un grande impegno, ha bisogno di vedere oltre per trovare il senso di quello sforzo. E chi è il garante, nella scuola, di questo oltre spesso lontano e poco visibile, costituito da cultura, arte e scienza e dalla loro storia, se non l’adulto, l’insegnante?
In un tempo in cui le tecnologie apparentemente facilitano tutto e il mercato ci plasma rendendoci a forza consumatori compulsivi, educare allo sforzo è compito prioritario, perché senza sforzo e approfondimento e durata non ci si può opporre alla semplificazione, che svuota e indebolisce ogni critica e avvilisce il pensiero.
Se in Italia due milioni e mezzo di ragazzi che non lavorano smettono di studiare, non sarà anche per gli insegnanti che hanno incontrato dentro la scuola? Se il tasso di dispersione scolastica è tra i più alti e le percentuali di iscrizioni all’università sono tra le più basse d’Europa non avremo anche noi docenti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, le nostre responsabilità?
Costruire una comunità docente
Conosco insegnanti che nei luoghi più difficili e degradati danno il massimo di sé ottenendo risultati sorprendenti, perché rispondono positivamente a ciò che più chiedono i ragazzi: incontrare adulti coerenti che credono in ciò che fanno, si mettono in gioco e, nel mettersi in gioco con energia e passione, coinvolgono e rendono i ragazzi protagonisti, costruendo quel difficile processo capace di rendere la classe un contesto realmente corale dove si genera pensiero, ci si ascolta e tutti si impara a imparare gli uni dagli altri. È facile affermare che la diversità è ricchezza, ma questa affermazione rischia di essere retorica, se non affrontiamo quel percorso a ostacoli che prova, giorno dopo giorno, ad attenuare le discriminazioni che l’economia e la cattiva politica continuamente amplificano nella società.
In fondo lo scopo della scuola pubblica è essenzialmente questo: rendere un po’ meno ingiusto il mondo, offrendo maggiori opportunità a chi ne ha di meno. Ma per costruire questo luogo protetto e privilegiato, capace di criticare la società e il nostro tempo nel suo operare concreto, c’è bisogno di lavorare alla costruzione di una comunità docente, o almeno a frammenti significativi e vitali di una possibile comunità docente, che assuma collettivamente l’enorme sfida che abbiamo di fronte, che è quella di una scuola davvero aperta a tutti, capace di non espellere né discriminare nessuno.
Quello di noi insegnanti è un lavoro difficilissimo, perché comporta un continuo intreccio tra l’amore per la conoscenza e un’attenzione e un interesse sincero verso le ragazze e i ragazzi che abbiamo di fronte. So bene che chiedere trasporto emotivo può sembrare eccessivo ed è cosa che non può essere scritta in nessun contratto, ma chiunque ragioni con coscienza sul mestiere dell’educare, sa bene che senza un rapporto vivo con la cultura, accompagnato da una forte presenza, intenzione e persuasione, non si ottiene nulla.
Sa che per affrontare e sostenere i ragazzi con maggiori difficoltà – che aumentano sempre più – è necessario costruire relazioni vitali di collaborazione e cooperazione tra i docenti. Sa anche che bisogna costruire relazioni con il territorio, perché ci sono problemi che la scuola non può affrontare da sola.
Ora, se la scuola si ritrova sempre più in affanno con il crescere dell’età degli studenti, dovremmo ragionare su quanto questo dipenda, in buona misura, dal fatto che nei nidi e nelle scuole dell’infanzia le educatrici fanno tutto insieme, nella scuola primaria si continua a collaborare, magari a fatica, ma poi nella scuola superiore di primo e secondo grado quasi sempre ciascun insegnante va per conto suo e non sono neppure previste ore di confronto e programmazione comune tra docenti.
E allora, se si vuole davvero riformare il sistema di istruzione, bisogna trovare modi e tempi e strumenti e aperture mentali capaci di trasformare le scuole in centri di ricerca permanenti, perché la didattica va ripensata ogni volta e ravvivata ed è sempre più necessario inoltrarci in territori inesplorati, perché ancora oggi il 70 per cento del tempo è impiegato in lezioni frontali e interrogazioni, cioè quanto di meno adatto al coinvolgimento dei giovani e alla costruzione delle conoscenze.
Ricchissima tradizione pedagogica
Per far questo dobbiamo ricercare e avere il tempo di progettare insieme e, dunque, dovremmo osare immaginare modifiche anche al tempo di lavoro, naturalmente accompagnate da significativi avanzamenti salariali, perché uno dei problemi della scuola riguarda i salari, che sono tra i più bassi del continente.
Ma perché avvenga questa trasformazione, dobbiamo tutti assumerci responsabilità e non delegare niente a nessuno. Anni fa un gruppo di insegnanti legate alla Libreria delle donne di Milano e al pensiero della differenza diedero vita, insieme ad altri, a un piccolo movimento autogestito a cui, scherzosamente, diedero il nome di autoriforma gentile.
Lo ricordo perché è di autoriforma che dobbiamo cominciare a parlare, se vogliamo contrastare i veleni autoritari contenuti in alcuni passaggi del disegno di legge attualmente in discussione alla camera.
In Italia c’è una ricchissima tradizione pedagogica e le più significative innovazioni didattiche, promosse da singoli o da movimenti di insegnanti, sono sempre nate dal basso, a volte sostenute da comuni bene amministrati. Qualche volta leggi lungimiranti hanno assecondato ciò che di vitale era nato a livello locale, come quando fu istituito il tempo pieno all’inizio degli anni settanta o si aprirono le scuole ai ragazzi portatori di disabilità nel 1977.
Oggi tutto è diverso, eppure la scuola, oltre al necessario e obbligatorio superamento della condizione di precarietà di troppi docenti e al ripristino di condizioni minime di abitabilità e sicurezza degli edifici – su cui il governo aveva promesso molto e finora ha mantenuto poco – ha assoluto bisogno di spazi e tempi per ripensare se stessa.
Non è dall’alto che dovrebbe calare la sacrosanta obbligatorietà della formazione in servizio di noi docenti, perché dovrebbe essere parte integrante del nostro mestiere il continuo ricercare e confrontarci e crescere insieme.
I modi della formazione in servizio di noi docenti tuttavia, se vogliamo renderli efficaci, dovrebbero giovarsi delle tante esperienze e competenze di chi da anni tiene in piedi un’istituzione piena di crepe con il suo impegno quotidiano, fondato su qualità umane e professionali acquisite in anni di lavoro sul campo.
Nei prossimi quindici anni arriveranno nella scuola moltissimi nuovi insegnanti perché abbiamo il corpo docente tra i più anziani d’Europa. Con il ricambio di quasi il 50 per cento dei docenti sarebbe un vero delitto ricominciare tutto da capo e non giovarci delle esperienze più significative, spesso vissute nell’ombra, che molte scuole hanno al loro interno. Un buon dirigente scolastico e, soprattutto, un buon gruppo di insegnanti – eletto dal collegio dei docenti per prendersi cura della capacità di inclusione della scuola e dell’innovazione didattica– dovrebbe come prima cosa fare una sorta di caccia al tesoro, scovando le esperienze più vive e vitali.
Non si tratta di mettere gli uni contro gli altri, come sciaguratamente aveva proposto il documento iniziale della Buona scuola, che pretendeva che il 66 per cento degli insegnanti migliori fossero pagati un po’ di più, rubando parte dello stipendio al 33 per cento degli esclusi, a cui sarebbero stati sottratti gli scatti di anzianità.
L’idea perversa di introdurre nomination da grande fratello nella scuola fa il paio con la metafora renziana del preside-allenatore, che sceglie e acquista i migliori insegnanti sul mercato e magari trova nelle industrie locali sponsorizzazioni per la sua scuola.
Semplificazioni e forzature renziane
Nei cortei del 5 maggio il ruolo del dirigente scolastico è diventato il nodo simbolico di uno scontro sui modi di intendere l’innovazione. Il problema è che di fronte alle semplificazioni e forzature renziane sento che è ancora troppo debole la voce di chi nel concreto ha idee e pratiche didattiche alternative e il sindacato – va detto – in questi anni è stato assai di rado luogo di elaborazione culturale riguardo alla scuola.
Sono piuttosto le associazioni professionali che devono fare sentire con più forza le loro voci. Conosco dirigenti e presidi capaci, che in territori assai difficili sanno mobilitare le migliori energie presenti nella scuola perché ascoltano, danno spazio a chi sperimenta, mettono in circolo buone pratiche e contribuiscono alla trasformazione della didattica, oggi assolutamente necessaria. Tutto ciò succede soprattutto negli Istituti comprensivi (che uniscono scuole dell’infanzia, elementari e medie), ma avviene molto lentamente perché questi processi richiedono anni. Quando riescono a orientare trasformazioni che incidono è perché non operano da soli.
Il problema è che dirigenti impegnati in questo senso sono una minoranza e loro per primi diffidano dell’enfasi che si vuol porre sul loro ruolo, stravolgendolo. Lo sciopero del 5 maggio ha aperto nuove possibilità per contrastare, anche a livello parlamentare, i danni che la sedicente Buona scuola rischia di arrecare alla democrazia e alla libertà di insegnamento nella scuola.
Ma va anche detto, per onestà, che la democrazia degli organi collegiali è in crisi da anni e la libertà di insegnamento non ha finora garantito una scuola capace di mettere il dialogo e l’ascolto di ragazze e ragazzi al primo posto.
Sarebbe bello poter rispondere alla ministra Giannini – che ha denunciato lo sciopero come politico, con l’intento di denigrarlo – che politica, alta politica, la fanno tutti coloro che si occupano fattivamente di educazione e la si fa in quelle scuole che provano a rendere vivo e attuale l’articolo 3 della nostra costituzione, che invita con forza a rimuovere gli ostacoli che, “limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Sviluppo che passa anche e soprattutto per un accesso alla conoscenza garantito a tutti. Davvero a tutti.
di Mariella Pasinati
Ancora una volta non è una scuola per bambine, ragazze e donne la buona scuola del documento governativo. Rigorosamente maschile è, infatti, tutto il suo impianto: dalla lingua utilizzata, all’assenza di qualsiasi idea di formazione che preveda l’esistenza di due soggetti, alla logica di un modello fondato sulla competizione e differenziazione in senso gerarchico fra docenti e fra scuole.
Sulla lingua utilizzata:
Nonostante il tono innovativo -facile, concreto, coinvolgente-, tutto il documento è scritto nel maschile-falso neutro che cancella e nega la presenza del femminile, confermando la posizione dissimmetrica che donne e uomini occupano nella lingua e nella cultura. Eppure, da decenni si discute intorno alla “sessuazione della lingua” cioè al dare visibilità ed esistenza “linguistica” al femminile, non già per una questione di “parità”, ma per la consapevolezza che la soggettività non solo si esprime ma si forma nel linguaggio, passaggio fondamentale perché nella lingua, nella cultura, nella scuola le bambine, le ragazze e le donne possano essere previste e non solo incluse.
Sull’assenza di una misura femminile:
In una scuola fatta ed abitata soprattutto da donne e nonostante decenni di ottime pratiche didattiche che con difficoltà ma con tenacia sono state agite nella scuola per segnare il processo dell’educare di una misura femminile, la cultura e l’esperienza delle donne continuano ad essere ignorate dalla buona scuola.
“Dimenticanza” tanto più grave in un clima di crescente violenza maschile sulle donne per combattere la quale occorrerebbe un serio lavoro educativo a partire dal riconoscimento che alla radice delle azioni violente che le donne subiscono c’è la violenza simbolica che ha sancito l’essere seconda della donna rispetto all’uomo, la sua espulsione storica dalla polis e dalla cultura. Promuovere una cultura non più centrata su un unico soggetto è la condizione per dare inizio ad una nuova civiltà delle relazioni, improntata al rispetto della differenza: una buona scuola dovrebbe registrare innanzitutto questo cambiamento del simbolico.
Sull’assenza di un impianto pedagogico e sulla continuità con i modelli di scuola del recente passato:
Nonostante la citazione, peraltro “senza conseguenze”, di don Milani e Maria Montessori, è del tutto inesistente nel documento qualsiasi riflessione pedagogica. Anche in questa assenza, la buona scuola sembra piuttosto portare a compimento il discorso ufficiale, da anni perseguito nel nostro paese, che ha puntato a sovvertire il senso dell’educare in nome di principi del tutto estranei al contesto formativo (produzione, competitività, autonomia, aziendalizzazione dell’istruzione).
Un discorso in cui la dimensione dell’insegnare è più una tecnica che una pratica, lontana dall’idea di un agire educativo fondato sulla relazione viva (fra docenti e fra docenti e studenti) che invece è caratteristica specifica del processo dell’educare, così come il desiderio di insegnare/imparare è elemento-base del processo di conoscenza.
Un discorso che ha, invece, nella questione del “merito” ed in quella del “governo” delle scuole due punti cruciali e che finisce col ridefinire un modello di scuola fondato sulla competizione, sul decisionismo e sulla gerarchizzazione, a partire dalla diversificazione della stessa organizzazione del lavoro dell’insegnante.
Su “merito” e “governance”:
La buona scuola prevede un ulteriore accentramento delle decisioni nella figura del/la dirigente scolastico/a (compresa la possibilità di scegliere direttamente “le migliori professionalità per potenziare la propria scuola” sulla base di “portfolio e curriculum” personali dei/lle docenti e della consultazione del futuro Registro nazionale dei docenti) con il conseguente indebolimento/svuotamento degli organi collegiali, “rivisitati” e resi “aperti, agili ed efficaci” -cioè depotenziati-. A questo si accompagna l’intenzione di costruire figure intermedie -dal docente “mentor” al “nucleo di valutazione”- che si pongono in una scala gerarchica fra presidi e docenti, diversificando un’organizzazione del lavoro che nella scuola è ”ugualitaria” non certo come istanza ideologica predefinita, ma in quanto caratteristica strutturale dell’organizzazione, dal momento che la funzione docente è, comunque, una sola.
A tutto ciò contribuirà il nuovo meccanismo di progressione economica (inteso, in maniera non corretta, come progressione di carriera) tramite gli scatti di competenza che interesseranno il 66% del corpo docente di ogni scuola sulla base del maggior numero di crediti conseguiti da ciascun/a docente, portando a compimento una configurazione del sistema scolastico niente affatto nuova nelle intenzioni e caratterizzata da competizione e differenziazione fra docenti. Una situazione che potrebbe portare anche a situazioni paradossali: mettendosi dal punto di vista delle famiglie, chi accetterebbe volentieri che il proprio figlio o figlia sia seguito dal 34% di docenti senza scatti di competenza, quindi per definizione “incompetenti”che necessariamente ogni scuola avrà?
L’impianto appare discutibile da più punti di vista e soprattutto sul piano del significato e delle implicazioni che il nuovo-vecchio sistema comporterebbe; infatti:
- per esperienza sappiamo che nella scuola le competenze diverse si traducono in ricchezza se sono vitali le relazioni fra chi vi opera: è la collaborazione e la relazione fra docenti a produrre risultati positivi; estendere la cultura della competitività tra insegnanti significherebbe indebolire la scuola poiché la competizione e l’esclusione porterebbero quanto meno demotivazione in chi non ha ottenuto il riconoscimento economico e non verrebbero certamente potenziate la circolazione dei saperi e la pratica positiva dello scambio;
- la differenziazione stipendiale così determinata non si tradurrebbe in un vantaggio per la scuola nel suo insieme, anzi darebbe legittimità all’idea che impegno ed efficacia dell’azione didattica possano essere opzionali, dal momento che chi dovesse risultare “non meritevole” continuerà comunque ad operare come ha sempre fatto;
- far coincidere l’idea di maggiore professionalità con maggiore compenso in denaro vorrebbe dire fare del denaro l’unica misura del valore dell’insegnare.
- Anche sul piano logico-pratico sono, inoltre, presenti elementi di criticità:
- le tre tipologie di crediti su cui si baserà il sistema di scatti di competenza (crediti didattici legati “alla qualità dell’insegnamento in classe e alla capacità di migliorare il livello di apprendimento degli studenti”, crediti formativi, conseguiti attraverso la formazione in servizio obbligatoria, crediti professionali, sostanzialmente per il coordinamento delle classi e i progetti) attengono ad aspetti diversi del lavoro che le/i docenti svolgono. Sono, pertanto, disomogenei ai fini della loro valutazione; i crediti formativi e quelli professionali possono essere “quantificati” -i primi in rapporto al numero di corsi di aggiornamento frequentati, i secondi in base alla quantità di lavoro svolto nella scuola oltre l’insegnamento curricolare-, quelli didattici –i soli che riguardano direttamente la dimensione dell’insegnare– non sono invece né facilmente valutabili né, tanto meno, misurabili, come sa bene chi effettivamente lavora nella scuola.
- Nel documento non si parla delle modalità di valutazione e quantificazione dei crediti didattici per i quali, però, non ci si potrà basare né sui risultati e i voti conseguiti dalle/gli studenti -in quanto non sono un indicatore omogeneo, data l’indubbia e ineliminabile non oggettività delle valutazioni (con buona pace delle griglie comuni)- né su rilevazioni del tipo INVALSI, in quanto si tratta di misurazioni meramente quantitative in base alle quali, ad esempio, docenti che lavorano in maniera eccellente in classi e contesti difficili e/o in scuole a rischio risulterebbero, alla luce dei risultati “quantitativi” dei/lle loro studenti, nettamente deficitari. Perché non continuare allora semplicemente a pagare differentemente le diverse funzioni che nella scuola si svolgono? Nel caso del riconoscimento economico di quelli che sono definiti i crediti professionali, ad esempio, cioè attività che prevedono un impegno aggiuntivo rispetto alla didattica curricolare, si potrebbe continuare a pagare in più il maggiore tempo impiegato; il modo obiettivo c’è già, in base al numero di ore, magari però dopo avere ridefinito adeguatamente le tabelle (attualmente ridicole) utilizzate per pagare le attività aggiuntive. Occorrerebbe in sostanza valorizzare la centralità finora solo proclamata del mestiere di insegnare di cui invece è costantemente in discussione proprio la competenza simbolica sempre più minacciata dagli specialismi astratti, dalle modificazioni che non tengono conto e che si sovrappongono a ciò che è vivo e vitale nella scuola, dalla logica che tende a svilire il senso dell’insegnamento, puntando di contro alla presunta valorizzazione dell’insegnante come chi detiene saperi disciplinari e tecniche di trasmissione.
- Ma se è la scuola -e la sua qualità- che sta a cuore anche al governo, come a noi che vi operiamo, allora per aumentare l’efficacia dell’azione didattica si dovrebbe investire sulle/sugli insegnanti. In un processo che tenda alla valorizzazione e qualificazione della professionalità di tutte/i docenti, questa potrebbe essere validamente sostenuta con strumenti come la riduzione d’orario per chi vuol fare ricerca/approfondimento, l’anno sabbatico, le esperienze di didattica all’estero, questi sì con rigorosi riscontri di produzione e risultati, forme varie di agevolazioni per l’acquisto di materiali utili alla crescita culturale e professionale. E si potrebbe intervenire anche sul numero massimo di studenti per classe, sulla possibilità di adottare modalità di interventi didattici effettivamente individualizzati per le/gli studenti in difficoltà o in ritardo di preparazione, sul potenziamento del sostegno.
- Perché allora costruire un impianto che non può funzionare dal momento che mette insieme attività non valutabili omogeneamente? Con il rischio, fra l’altro, che una misurazione più orientata al quantitativo porti a “valorizzare” economicamente chi semplicemente lavora di più e non meglio. E’ quanto potrebbe infatti accadere se, per accumulare più crediti professionali, le/i docenti ricorressero sempre più, al di fuori dell’orario curricolare, ad attività di progetto la cui efficacia -questa sì- occorrerebbe seriamente valutare dal punto di vista della qualità della didattica e dell’apprendimento (oppure con il ritorno del connubio sciagurato fra “aggiornamento” e progressione di carriera, in una visione perversamente strumentale del crescere nel lavoro).
E’ certamente il momento di una discussione seria sul senso ed il significato della funzione docente (e quindi su che cosa la qualifica) nella scuola che cambia; è auspicabile che la buona scuola sia l’occasione perché una discussione vera possa realmente aprirsi con chi concretamente nella scuola opera e con chi ha a cuore una nuova civiltà delle relazioni, improntata al rispetto autentico della differenza.
Mariella Pasinati
Biblioteca delle donne UDIPALERMO
di Giuseppe Caliceti
Oggi vi racconto la mia piccola storia: mi chiamo Lamiaa, ho 11 anni, sono nata a Reggio Emilia e faccio la prima media. A scuola va tutto bene, stavo benissimo, vivevo felice e serena fino a due anni fa circa, quando un giorno ricevo un 10 in grammatica: ero cosi felice perché non succedeva tutti i giorni, ma il commento della maestra mi lasciò un po’ perplessa. Le sue parole mi fecero riflettere sulla mia identità. Lei mi disse: «Lamiaa sei stata bravissima, hai superato gli italiani!», «Che cosa?», dicevo fra me e me. «Ma io sono italiana!».
Quando tornai a casa, mia mamma notò la mia rabbia: era arrivato il momento della discussione di un argomento che non avevo mai aperto prima d’ora con i miei genitori. Mia mamma in quel giorno mi disse: «Ma non c’è niente di male se ti chiamano straniera». Perché secondo lei non è affatto un insulto. Ma il problema non era questione di insulto, era da verificare se io sono straniera o meno. Io replicai: «Mamma, ma io non mi sento straniera, sono nata e cresciuta in Italia, io non nego le mie origini, ma casa mia è in Italia e mi sento italiana. Il Marocco lo adoro, sì, però lo sento più come il paese dei miei genitori che mio, non so se mi capisci.… Non lo so, io non ci ho mai pensato prima e davo per scontato che io sono italiana!». E la discussione finì, almeno in quel giorno, con un silenzio che diceva tanto.
Passa un anno, e vado alle medie, emozionata e un po’ spaventata dalle novità. Siccome mia mamma durante l’estate mi aveva insegnato un po’ di francese con la pronuncia giusta, la mia insegnante fin dalla prima lezione aveva notato questo e mi disse: «Brava, hai una bella pronuncia, da dove vieni?». E io pensai in quel momento: «Ancora? Ma cosa vuol dire da dove vengo? Da Reggio Emilia, no?». Ah, forse voleva dire da dove vengono i miei genitori? Allora ho detto: «Cara prof, i miei genitori vengono dal Marocco, e io sono nata a Reggio Emilia».
Adesso, per favore, chiariamo la faccenda: non chiamatemi mai straniera o immigrata, a voi la scelta, potete chiamarmi italo-araba, oppure italo-marocchina, ma non sono affatto straniera; i miei genitori tanti anni fa hanno scelto di immigrare e sono venuti in Italia. Ma io non ho mai immigrato, sono nata in Italia, per cui mi sento italiana, non so con quale percentuale, però lo sono, perché lo sento dentro e lo credo. Sento come se il Marocco fosse mio papà e l’Italia mia mamma e nessuno potrebbe mai togliermi dal cuore uno dei due.
Questa non è solo la mia storia, ma è la storia di tutti i bambini e i ragazzi, figli di immigrati, che sono nati in Italia e, purtroppo, riscontrano oltre a questi stessi miei problemi anche altri problemi… Da qua vorrei lanciare un messaggio: concedete la cittadinanza italiana a tutti i nativi, risparmiateci tutti i problemi inutili che non finiscono mai e smettetela di farci vivere situazioni che ci fanno sentire quelli che non siamo. Lasciateci studiare e costruire il nostro futuro con serenità, e ricordatevi che italiani ci sentiamo dentro per davvero».
di Claudio Dionesalvi
Da 13 anni sono onorato di lavorare in uno dei quartieri a più alta incidenza ‘ndranghetista della Calabria. Tutte le mattine percorro, a spese mie, 140 chilometri per andare e tornare dalla sede di servizio. Insegno Lettere in una scuola media statale di un rione che presenta i livelli di dispersione scolastica tra i più alti in Europa. Insieme ad altri colleghi e colleghe, ogni giorno andiamo a prendere i ragazzi a casa, li seguiamo nella vita, dedichiamo tanto tempo ad ascoltare e condividere i drammi delle famiglie da cui provengono. Da sempre contrastiamo a voce alta la subcultura mafiosa.
So che in tutta Italia migliaia di altri insegnanti svolgono la medesima nostra opera, spesso senza beccare un centesimo dai fondi destinati ai progetti che a volte servono solo a lottizzare, dividere e mortificare i volenterosi. Nel quartiere in cui insegno, i genitori dei nostri alunni ci manifestano rispetto e stima. Non importa che si tratti di persone benestanti o mafiosi conclamati. Con occhi sinceri, tutti ci dicono: «grazie prof.». Forse perché sul pianeta Terra, pochissimi padri e madri augurano ai propri figli di diventare carne da macello quando saranno adulti. E tutti vogliono bene a chi vuole il bene dei loro figli.
Il mio borghesissimo e perbenista vicino di casa, nella città in cui vivo, quando purtroppo ci incrociamo nelle scale condominiali, mi dice spesso: «beati voi insegnanti che siete una casta, lavorate solo 18 ore a settimana, fate tutte quelle vacanze e date pure lezioni private senza pagare le tasse». Mi sono sempre chiesto se il mio vicino di casa voti per il Pd o per Forza Nuova. Un paio di volte gli ho risposto a muso duro: «ma tu ci sei mai stato in una scuola negli ultimi vent’anni?» E lui, sempre più spocchioso: «ti arrabbi? Non è che per caso hai la coda di paglia?»
Adesso che il signor Matteo Renzi ha deciso di raddoppiarci l’orario, il mio vicino di casa ha perso un argomento. I miei alunni, invece, rischiano di perdere punti di riferimento. Tutte le volte che si rivolgeranno a me per affrontare uno degli infiniti problemi, sia a loro che ai rispettivi genitori sarò costretto a rispondere: «scusate, ma devo correre a ri<CW-17>nchiudermi dietro la cattedra o a sostituire i colleghi assenti». Perché a fare due conti, c’è da mettersi le mani nei capelli: 36 ore di servizio settimanali più 10 di viaggio più 1 di ricevimento più 2 di organi collegiali più un numero imprecisato di ore per correggere compiti, riempire i registri e frequentare i corsi di aggiornamento. Tutto questo per 1500 euro al mese, con una famiglia a carico, senza altre entrate.
A parte il fatto che un essere umano, soprattutto quando svolge lavori delicati, cerebrali e rivolti ai minori, dovrebbe pure ricordarsi di vivere, cioè fare l’amore, distrarsi e “ricrearsi”, in realtà adesso sorge un altro problema: dove troverò il tempo di studiare? Perché forse questo in pochi lo sanno, ma un vero docente, prima di insegnare, deve soprattutto studiare.
Non ho mai nutrito stima per i miei colleghi che svolgono la doppia attività. Perché mi sono sempre chiesto dove trovino il tempo per studiare e preparare la lezione del giorno dopo.
In ogni caso, resteranno delusi gli insegnanti che hanno votato Matteo Renzi. Loro si aspettavano proposte di miglioramento della qualità didattica. Invece questo governo sinora ha elargito tanti soldi alle imprese di costruzione per l’edilizia scolastica e adesso si appresta a tagliare ancora i fondi per la scuola pubblica, raddoppiando l’orario di insegnamento. Rendendo la vita impossibile a migliaia di docenti che ancora operano in modo umano, finirà di disumanizzare la pubblica istruzione che è l’unico settore in cui gli erogatori di un servizio ricevono i propri utenti tutti insieme, simultaneamente, all’interno di un’aula.
Resterà deluso chi si aspettava un tetto massimo di 15 alunni in ogni classe, un possibile limite di età fissato a 60 anni per i docenti in servizio, criteri di continuità triennale degli insegnanti su una singola classe, assorbimento dei professori precari, nuovi sistemi di formazione e assunzione del personale.
Resteranno delusi tutti, tranne quelli che masticano odio sociale e serbano rancori postadolescenziali verso la classe docente. Violentato dai miti fallimentari della produttività neoliberista, il sistema scolastico peggiorerà ulteriormente. Le conseguenze più gravi ricadranno sui ragazzi che assorbiranno il malcontento e le frustrazioni di una classe docente sempre più frettolosa e robotica. Ma almeno adesso so con certezza per chi vota il mio vicino di casa.
*L’autore è insegnante di ruolo nella Scuola media
da il Manifesto
di Ursula Eichenberger
Una bimba di nove anni ha chiesto alla direttrice : «Rosie, mi presti le tue chiavi?». Con le sue amiche voleva andare a scuola anche nel fine settimana. Accade a Villa Monte, scuola privata che si ispira a Maria Montessori e Rebeca Wild nel Canton Svitto. “SE mi è permesso di fare solo il mio dovere, ma non posso mai farlo quando voglio, non mi va di farlo nemmeno quando devo. Se invece mi è permesso di farlo quando voglio, lo faccio volentieri anche quando devo. Perché per fare il proprio dovere bisogna poter aver voglia di farlo”. Citazione di anonimo accanto al telefono a Villa Monte, la scuola privata autorizzata e vigilata dal Canton Svitto, fondata nel 1983 dalla pedagogista Rosmarie Scheu e basata sul principio “ciascuno sa da sé”.
“Già le quattro? Che palle!” I due bambini sono seduti sul pavimento in un angolo della stanza, ciascuno con una clessidra poggiata sul palmo della mano. Guardano quanto tempo impiega la sabbia a cadere. Le clessidre sono di dimensioni diverse e i bimbi vogliono capire se la sabbia scorre più velocemente nell’una o nell’altra. Ma lo scuolabus ha già suonato due volte il clacson, il treno parte tra dieci minuti. E, per somma sventura, è anche venerdì. La settimana prima una bimba di nove anni ha chiesto alla direttrice : “Rosie, mi presti le tue chiavi?”. Con le sue amiche voleva andare a scuola anche nel fine settimana.
“Villa Monte è una scuola privata autorizzata che si ispira alla filosofia di Maria Montessori e Rebeca Wild, sotto il controllo del Canton Svitto. Il successo della scuola dimostra come sia possibile ottenere un valido titolo di studio anche con metodi non tradizionali”, si legge nel verbale di valutazione del Dipartimento per la formazione del Cantone.
Poco dopo le 8 si inizia. Dagli scuolabus gli alunni grandi e piccini scendono di corsa e sciamano verso l’edificio. Una volta arrivati, via le scarpe, su gli stivali. Bisogna strappare le erbacce, mettere a dimora le nuove piantine. “Questa è la mia palma”, spiega un bimbo al compagno più piccolo. Nella stanza delle bambole si prepara il tè. In un altro ambiente si lavora alacremente alle macchine da cucire. “La filosofia della scuola è una filosofia di vita: Imparare assieme e l’uno dall’altro. Imparare quando se ne ha voglia. Aver tempo per conoscere se stessi, gli altri e l’ambiente esterno. Senza stress. La perizia e il successo nella vita professionale testimoniano la validità della didattica di Villa Monte”, spiega ancora il Dipartimento cantonale. La scuola sorge isolata su una collina affacciata sulla Linthebene. Confina da un lato con il bosco, dall’altro ci sono il frutteto, il giardino
e l’orto dei bambini, il campo da calcio, il pergolato, una vecchia nave di legno per giocare ai pirati. Ogni stanza è un paradiso, attrezzata con angoli destinati al gioco e all’apprendimento, ogni oggetto è studiato a fini pedagogici. Inutile cercare banchi e lavagne, qui non si fa lezione frontale. Un gruppo di bambini per piano, seguiti da almeno un insegnante, pedagogista o tirocinante. Al piano terra i più piccini, a partire dai tre anni, al primo gli alunni della scuola primaria, all’ultimo quelli della secondaria. Nella casa accanto abitano i direttori, una coppia, che si dedica con grande impegno alla scuola. Gli adulti sono presenti solo per rispondere alle domande, riordinare, aiutare e intervenire quando i bambini non riescono a fare da soli. Quasi inesistenti gli elogi,
rari i rimproveri, nessuna punizione. Niente compiti, niente esami, niente voti.
Le regole sono solo tre: trattarsi con rispetto, essere ordinati, restare nello spazio stabilito attorno all’edificio. “Moltissimo” ribadisce il Cantone “viene scoperto ed elaborato attraverso le azioni, anche nell’ambito della matematica e della lingua, ed è quello che colpisce di più. Le competenze personali, sociali e specifiche sono poste sullo stesso piano”. Vige un ordine non organizzato, è tutto un via vai, un riempire gli zaini, improvvisare picnic. Niente urla, niente zuffe, si sta insieme in armonia. “Noi diamo fiducia ai nostri ragazzi”, spiega la fondatrice e direttrice della scuola, Rosemarie Scheu, 62 anni. “Siamo convinti che tutti troveranno la loro strada”. Gli alunni non vengono mai persi di vista, gli adulti sanno sempre dove sono e cosa fanno. “Tutti gli alunni, il corpo insegnante e i genitori dichiarano che in questa scuola la violenza non esiste. Forse dipende dal fatto che gli alunni non sono oggetto di alcuna costrizione e possono programmare e gestire liberamente la loro giornata scolastica”.
La gioia di imparare e la curiosità fanno si che al termine del periodo scolastico tutti sanno leggere, scrivere e far di conto. Imparano nella maniera a loro più congeniale. Ma soprattutto sanno cosa significano autonomia, felicità e gioia. Su una parete sono appese le foto degli ex alunni e le didascalie indicano la loro attuale attività: programmatore, musicista hip-hop, segretaria, ingegnere, estetista a Barcellona, falegname, istruttore di golf, tecnico d’impresa, ballerina ad Amsterdam, informatico, insegnante di tecnologie di stampa, fiorista, studentessa di psicologia, commessa in una libreria.
(La Repubblica, 31.03.14)
di Antonietta Lelario, Laura Colombo e Sara Gandini
C’è la mamma col gonnellone (questa è Sara) e quella con il tailleurino, c’è quello in giacca e cravatta e il sessantottino col codino. C’è la mamma sudamericana che fortunatamente quest’anno non lavora di sabato e può organizzare il laboratorio per cuocere i biscotti, e il papà professore, che si arrabbia perché la locandina per il mercatino di Natale non ha una grafica accattivante. C’è la mamma con il figlio dislessico, che non si accontenta che diano dei compiti più facili ma pretende che a scuola ci sia una biblioteca con libri adatti. E poi la “commissione disabilità”, creata dai genitori ma che pretende interlocutori attenti anche tra i professori. È stato pure inventato l’Aperilibro: aperitivo e libro per un’offerta. I soldi andranno spesi per comprare le lavagne multimediali (ogni classe ne ha una), i pc, lezioni extra per fare i compiti per chi ne ha bisogno.
I genitori ci sono a scuola e sono molto vivaci. Vogliono esserci e portare idee e progetti.
Sono cambiate molte cose negli ultimi trenta, quarant’anni. Ieri le insegnanti cercavano in tutti i modi di coinvolgere i genitori. Oggi madri e padri chiedono di partecipare e spesso è l’istituzione che si ritira, bloccata da regolamenti, programmi, tempistiche. Questo cambiamento già in atto si è visto bene nel laboratorio Pedagogia della differenza di Paestum 2013, il convegno femminista Libera: ergo sum. Nel laboratorio, pensato da donne e uomini, circolava intelligenza e passione. Mamme, ricercatrici, insegnanti e chi lavora nella formazione ci siamo messe e messi in gioco, noi con la nostra libertà, con le differenti soggettività e parzialità.
Da una voce maschile – Alessio – è arrivato l’invito a far proprie le pratiche del femminismo e “scardinare l’istituzione dentro di sé”. Agiamo fuori dalle strettoie delle regole, dei voti e dei tempi imposti dei programmi, dice un professore. “Se io non ci credo, posso darmi l’autorità di insegnare tenendo presenti le domande di senso che sono alla base dei saperi, senza inseguire tassonomie, posso non farmi ingabbiare dalle rigidità burocratiche.” Un bell’esempio maschile di tenere insieme lotta al potere e assunzione di autorità, imparando dal sapere delle maestre, sapientemente narrato nel dvd L’amore che non scordo. E così, forse proprio perché l’esperienza politica che è stata fatta a scuola e all’università è forte, nel laboratorio Pedagogia della differenza di Paestum 2013 abbiamo potuto superare quella fastidiosa impressione di cominciare sempre daccapo.
Qual è il campo di battaglia? Lo disegna una mamma, insoddisfatta del comportamento della maestra di sua figlia, che si chiede se non sia possibile “obbligare le maestre ad agire tenendo presente la differenza”, e altre che mostrano l’esigenza di andare oltre gli stereotipi. Cercare soluzioni imposte dall’alto? Non è questa la strada.
L’unica strada è scommettere sulla soggettività e sulle relazioni: una pratica che ci mette in gioco profondamente e produce cambiamenti radicali. E così interviene una mamma – Laura – che invita a “non essere schematici perfino nella lotta agli stereotipi, perché i bambini e le bambine attraversano tante fasi di crescita e di ricerca per capire chi vogliono essere e questo loro percorso va seguito con cautela e attenzione senza preconcetti su principesse e cavalieri”. Non si tratta quindi di negare gli stereotipi, ma di affrontare i nodi della crescita in modo meno semplicistico, interrogandosi sul filo che corre tra lo stereotipo e la ricerca che bambine e bambini hanno la necessità di fare, in quanto esseri sessuati che si muovono in un mondo profondamente mutato dalla libertà femminile. La trasformazione è così grande che, se da una parte una bambina di cinque anni ha già consapevolezza del valore della propria differenza, dall’altra un insegnante sottolinea che “oggi sono i ragazzi ad aver più bisogno della differenza maschile, sono loro ad aver bisogno di sapere chi sono”.
I temi si rincorrono, il tempo è poco e sono tante le cose da dire in ogni intervento, ma l’attenzione all’uso (sessuato) della lingua emerge continuamente. Molte mostrano una rabbia crescente verso un uso della lingua che rende visibile una strategia di potere. Perché si usa tranquillamente “segretaria”, “cameriera”, “infermiera” ma non “ingegnera”, “notaia”, “primaria”? Il riconoscimento sociale dei ruoli influenza il nostro linguaggio, tentando di riassorbire la domanda femminile di cambiamento. Per questo non basta “ribadire che l’uso sessuato della lingua è una questione di correttezza”, ha insistito Marirì, perché è fondamentale l’assunzione della propria autorità che plasma la società in cui viviamo. Infatti a Paestum circola la consapevolezza che il linguaggio si modifica con noi, perché grazie al linguaggio passa il simbolico, cioè il senso che diamo al nostro muoverci nel mondo.
L’abbandono della lente catastrofista, nonostante le difficoltà oggettive che la scuola italiana attraversa, ci ha consentito di uscire dalla logica del lamento. Le politiche degli ultimi anni sono riuscite a smorzare l’entusiasmo di molti insegnanti, ma Pia ci ha ricordato che se, come è evidente, tutti continuano a parlarne è perché a scuola si gioca una partita importante per la società intera.