di Viviana Daloiso
Resistere alla fine del mondo. Dover restare vivi, mentre la vita di prima esplode e scompare. È quello che è toccato a papà Massimo il 31 luglio 2017, quando sua figlia Alba Chiara, ventidue anni, è stata ammazzata a colpi di pistola dal suo ex fidanzato Mattia a Tenno, in Trentino. Che poi a sua volta, con la stessa pistola, s’è tolto la vita. La coppia perfetta, il ragazzo più bravo della scuola e del paese lui, la ragazza più bella e intelligente lei. Amici dall’asilo, fidanzati dall’adolescenza, considerati come figli dai genitori l’uno dell’altra. Una storia simile a quella di Giulia Cecchettin, solo che nel 2017 – sembra passato un secolo – all’Italia i femminicidi facevano meno effetto. È servito tempo, perché nell’opinione pubblica montasse l’indignazione per la violenza di genere e la logica patriarcale che ha portato alla mobilitazione e alle proteste dello scorso inverno in tutto il Paese. Ed è servito tempo perché nella minuscola Tenno, che ha la popolazione di un condominio d’una grande d’una città, la fine di Alba Chiara fosse chiamata col nome di femminicidio e non di “disgrazia” o “incidente”. Massimo Baroni ripercorre quei mesi ancora visibilmente commosso: «La storia finì sui giornali. Il sindaco si dovette dimettere perché il consiglio comunale non riusciva ad accettare che mettessimo una stele o una targa con su scritto semplicemente che Alba Chiara era stata uccisa in quanto donna. Uccisa da un uomo perché in quanto donna aveva preso una decisione».
È diventato a suo modo femminista, questo padre che divide il suo tempo tra i turni in fabbrica e l’associazione che ha dedicato a sua figlia e che di lei porta il nome, conosciuta e attiva in tutto il Trentino. Perché dopo quella prima resistenza, al lutto e all’oltraggio, Massimo ha deciso che anche Alba Chiara doveva resistere, col suo messaggio, i suoi sogni, il significato della sua vita e della sua morte: «Non sono diventato psicologo ovviamente – spiega ridendo –, né sociologo. Non so spiegare il patriarcato o i rapporti fra uomini e donne, ma sono fermamente convinto che la sua storia vada raccontata insieme a quella di tutte le donne che vengono uccise, a cominciare da quelle a cui tocca questa sorte in Alto Adige». Le conosce per nome, le elenca tutte soffermandosi su Celine, che di anni ne aveva ventuno, ed è stata uccisa a Silandro ad agosto: «Non se ne parla già più, nessuno ricorda la sua storia. Sento di doverla raccontare io, è il motivo per cui la cito durante tutti gli incontri a cui partecipo». Papà Massimo vuole essere la voce delle vittime, ma vuole anche alzare la voce coi carnefici, «perché è soprattutto agli uomini che spero servano gli incontri, i laboratori e le attività che organizziamo. Io ne esco sempre cambiato, tornando a casa metto sotto la lente i miei comportamenti e ne riconosco i limiti, riconosco i limiti del nostro modo di amare, l’incapacità di esprimere il nostro disagio che può trasformarsi in violenza. Ma la violenza non è un destino».
Così donne e uomini si raccontano e si misurano nelle serate e negli eventi organizzati dall’Associazione Alba Chiara, in particolare con l’iniziativa del Festival Eutropia, «che è il nome della città delle connessioni di Calvino ed è il tentativo che vogliamo mettere in campo di intrecciare e ricostruire relazioni sane tra maschile e femminile». A cominciare dal supporto agli sportelli e ai centri antiviolenza del territorio, che negli ultimi anni si sono moltiplicati. Ma la resistenza continua: «Il 2 maggio voteremo per la Commissione provinciale Pari opportunità con tutte le 18 associazioni presenti sul territorio e impegnate in questo campo. Io sarò, purtroppo, l’unico uomo presente». La sfida è che gli uomini cambino, che facciano propria la battaglia per i diritti delle donne. «Come dovrò insegnare a mio nipote». A inizio anno è arrivata la notizia che Aurora, la sorella minore di Alba Chiara, è incinta: «È un maschietto. Lo educheremo ad essere diverso».
(Avvenire, 25 aprile 2024, con il titolo «Papà Massimo e la luce di Alba Chiara: “lotto contro i femminicidi”)
di Marina Terragni
Ospedale californiano. Il ragazzino ha undici anni, maglietta rosa, capelli lunghi. L’annuncio della dottoressa è solenne: non dovrai più aspettare per essere una bambina. Con un’iniezione nel braccio somministra la prima dose di puberty blocker per fermare il suo sviluppo sessuale maschile. Madre raggiante, dolore e terrore sul viso del bambino. La voce fuori campo commenta: «Si apre un nuovo capitolo nella sua vita di ragazza». Feroci le reazioni al video su TikTok e X: «State assistendo a uno dei più grandi scandali della storia della medicina. Migliaia di ragazzini a cui viene venduta la balla di essere nati nel corpo sbagliato», una cosa pari solo alla lobotomia negli USA anni Cinquanta. Un crimine contro un’intera generazione. Per quella madre radiosa qualcuno ipotizza la sindrome di Münchhausen per procura, condizione psichiatrica per la quale qualcuno provoca sintomi a un figlio o li massimizza per attirare l’attenzione su di sé.
La “terapia affermativa” per i bambini con disforia di genere è stata inventata in Olanda a metà anni Novanta e poi esportata in tutto il mondo. Intorno ai 9-11 anni la pubertà viene “bloccata” con triptorelina, farmaco normalmente utilizzato per cancro alla prostata, carcinoma mammario e altre patologie; a 16 si passa agli ormoni cross-sex (testosterone ed estrogeni) e alla chirurgia: ma negli USA la doppia mastectomia è stata praticata anche su bambine di tredici anni.
Il “protocollo olandese” è questo, e per anni qualunque cosa tu avessi da dire eri transfobico e fascista. Almeno finché la bomba non è scoppiata proprio nei paesi pionieri del trattamento, Regno Unito, Grande Nord, la stessa Olanda, una trentina di stati USA, ultimo il New Hampshire, Australia, Nuova Zelanda. In questi giorni la discussione si sta aprendo anche in Canada, roccaforte della terapia affermativa: quel trattamento è sperimentale, non ci sono prove che migliori il benessere dei bambini, gli effetti collaterali sono pesanti e irreversibili. Perfino il “New York Times”, dopo avere perseguitato per anni JK Rowling e giubilato varie firme “resistenti”, dedica una fluviale e compassionevole inchiesta al dramma dei detransitioner, ragazze/i farmacologizzati fin da bambini che si pentono e provano a tornare indietro, temibili contro-testimonial della terapia affermativa.
In Italia la triptorelina si usa per la disforia dei minori dal 2019. Di questi cinque anni non si sa nulla: numero dei pazienti trattati, modalità di trattamento, esiti delle “terapie”. Dalla recente ispezione al Careggi, eccellenza tra la ventina di centri italiani dedicati, trapelano notizie preoccupanti: almeno in alcuni casi il farmaco sarebbe stato somministrato senza la preliminare psicoterapia indicata dalle raccomandazioni. Psicoterapia che non serve, secondo Jiska Ristori, psicologa del centro, visto che ai bambini cisgender «non viene richiesta per definire la propria identità di genere».
Nemmeno gli olandesi la pensano come Ristori. Loro, gli inventori della terapia. È appena passata in parlamento una mozione in cui si richiede una ricerca indipendente sul “protocollo”. Il documentario “The Transgender Protocol” realizzato da Zembla, una specie di Report molto woke, ammette falle strutturali negli studi su cui si è fondato il modello terapeutico. «Siamo completamente all’oscuro» ha affermato Gerard van Breukelen, metodologo della ricerca dell’Università di Maastricht. Un altro studioso che preferisce restare anonimo dice che la ricerca olandese «non costituisce una base solida per eseguire interventi radicali e non reversibili». Hanneke Kouwenberg, esperta in transizione, sostiene che l’unica vera cura per la disforia dei bambini è la “desistenza”, cioè dargli il tempo per fare pace con il proprio sesso biologico. Succede in 8 casi su 10. Lo dice anche la Società Italiana di Pediatria: solo nel 12-27 per cento dei casi la disforia permane nel passaggio all’adolescenza.
«Nessun intervento medico produce un corpo del sesso opposto» conclude Kouwenberg. «Gli interventi chirurgici sono solo estetici, volti a migliorare la disforia, e dovrebbero essere classificati come cure palliative. Ma la narrazione ha fatto passare la terapia affermativa come prevenzione del suicidio senza che ci fossero prove concrete della sua validità».
Rischio-suicidio che, come vedremo, è il punto della questione.
Un altro punto è che la disforia ha cambiato sesso: oggi in 8 casi su 10 si tratta di ragazze quasi sempre con gravi disturbi psichiatrici, popolazione del tutto diversa da quella degli anni ’80 e ’90, maschi adulti MtF, da uomo a donna. Nel 2018 la Tavistock Clinic di Londra ha registrato un aumento del 4400 per cento di richieste da parte di ragazze rispetto al decennio precedente. Anche WPATH, associazione mondiale per la salute transgender, ammette che «la popolazione è cambiata drasticamente», il che cambia drasticamente anche lo statuto della questione trans. Gli studi olandesi si erano concentrati sul classico paziente maschio con disforia fin dalla prima infanzia. Anche i principi di Yogyakarta che dal 2006 informano le politiche trans in tutto il mondo sono stati tagliati su questi soggetti. Oggi invece si tratta quasi sempre di ragazze colpite da quella che la ricercatrice americana Lisa Littman ha definito disforia di genere a insorgenza rapida (ROGD): di punto in bianco, nel momento della pubertà, queste ragazze dicono di essere uomini. L’influenza sociale è fortissima, online o da parte dei pari, contagio social che è stato ammesso perfino dal presidente di Wpath Marci Bowers. Per la cronaca, Bowers è la chirurga trans nota per avere operato in diretta tv Jazz Jennings, supertestimonial dei baby trans e protagonista del reality “I’m Jazz”. Oggi di Jazz non si parla più volentieri, è drammaticamente obesa e afflitta da disturbi psichiatrici.
Regno Unito, altra nazione “pentita”. Psichiatra e psicoanalista, ex-presidente della British Psychoanalytic Society, David Bell è stato decano del servizio per minori disforici alla Tavistock Clinic di Londra e fan sfegatato di Corbyn, mica uno sporco fascio. Nel 2018 lancia l’allarme. Molti medici del servizio erano andati a confidargli le loro angosce: i pazienti erano anche molto piccoli (perfino, si è appreso in seguito, 70 bambini sotto i cinque anni) e venivano indirizzati rapidamente al farmaco. Quasi sempre c’era la compresenza di disturbi psichiatrici. Bell compila un rapporto ma i dirigenti della Tavistock non la prendono bene, gli appioppano un provvedimento disciplinare, lui si dimette. Quei trattamenti, dice, sono una vera e propria terapia di conversione praticata sui minori gay e lesbiche. La pressione dei transattivisti di Stonewall e Mermaids è fortissima e Bell si è detto scioccato dalla riluttanza della sinistra a confrontarsi con questi temi “per mostrarsi liberal”.
Nel 2022 il servizio della Tavistock viene chiuso in seguito a un’inchiesta indipendente affidata dal governo britannico alla presidente dei pediatri Hilary Cass. Hannah Barnes, giornalista BBC, ha seguito attentamente la vicenda e ci ha scritto un libro, “Time to Think: The Inside Story of the Collapse of the Tavistock’s Gender Service for Children”: secondo The Times fra i migliori pubblicati nel 2023, ma trovare un editore era stato un vero inferno, nessuno voleva passare per transfobico.
Le preoccupazioni sulla Tavistock erano note già dal 2016, prima della denuncia di Bell: un rapporto del direttore medico del servizio, David Taylor, avvisava che gli effetti a lungo termine dei blocker «non erano testati né studiati». Ma il servizio non si è mai fermato, tutt’altro: se nel 2009 c’erano state 97 richieste, nel 2020 sono diventate 2.500 con altri 4.600 in lista d’attesa. I medici erano sovraccarichi ma c’era una forte pressione per aumentare gli accessi offrendo valutazioni più brevi e meno approfondite. Secondo David Bell il trust spingeva il servizio anche perché garantiva un quarto delle entrate di tutta la Tavistock.
I piccoli pazienti provenivano da famiglie disfunzionali o avevano problemi di salute mentale. Nel team girava una battuta da brividi: «A questo ritmo di gay non ne rimarranno più». In molti casi le bambine e i bambini preferivano pensarsi come “intrappolati nel corpo sbagliato” piuttosto – “che schifo!” – che come gay e lesbiche, omofobia interiorizzata nutrita da tante famiglie. Come in Iran, dove se sei gay ti appendono ma se ti operi tutto bene. «La grande maggioranza dei giovani in terapia farmacologica irreversibile è attratta dallo stesso sesso» confermano dall’associazione LGB Alliance. «Si tratta di una moderna terapia di conversione per gli omosessuali».
Svezia. Nel 2022 il principale centro per i minori con disforia, il Karolisnka Institute di Stoccolma, chiude dopo l’ammissione di avere danneggiato con i blocker almeno una dozzina di bambini sottoponendoli al rischio di «gravi lesioni» a causa di trattamenti probabilmente errati e senza che le famiglie fossero adeguatamente informate. Caso più clamoroso quello della ragazza “Leo”, trattata dall’età di undici anni. Quattro anni dopo aveva sviluppato osteoporosi, alterazioni vertebrali e soffriva di dolori alla schiena e all’anca come una vecchietta. Leo non avrebbe mai dovuto essere sottoposta a blocco della pubertà. Si sarebbe dovuto tenere conto, dice lo staff medico, dei suoi problemi psichici, dei tentativi di suicidio, del fatto che non era convinta. Oggi in Svezia la prima istanza per i minori con disforia è il trattamento psicologico.
Finlandia. Riittakerttu Kaltiala, primaria di psichiatria dell’adolescenza all’Ospedale di Tampere, nel 2011 viene messa a capo del servizio di identità di genere per i minori. Oggi Kaltiala, probabilmente tra i maggiori esperti al mondo, è in prima linea contro la terapia affermativa. Conferma che le ragazze erano quasi tutte affette da gravi disturbi mentali e che facevano rete per scambiarsi informazioni su come parlare con i medici per ottenere la terapia: «Abbiamo avuto la prima esperienza di contagio sociale». «Ma il miracolo promesso» dice «non si realizzava. Le giovani che stavamo curando non prosperavano. Al contrario, le loro vite deterioravano. Si ritiravano da tutte le attività sociali. Non facevano amicizie. Non andavano più a scuola».
Nel 2020 il Cohere, massima autorità sanitaria finlandese, ha pubblicato le nuove raccomandazioni: «Alla luce delle prove disponibili, la riassegnazione di genere dei minori è una pratica sperimentale» si dice. «La prima linea di trattamento per la disforia di genere è il supporto psicosociale e, se necessario, la psicoterapia» in quanto «la riduzione dei sintomi psichiatrici non può essere raggiunta con gli ormoni». Stop anche agli interventi chirurgici sui minori.
Le testimonianze dei detransitioner sono state decisive. Non si sa quanti siano, tante/i fra loro smettono di prendere i farmaci senza avvisare il medico che li ha prescritti. Secondo un sondaggio pubblicato da “Archives of Sexual Behaviour” la maggioranza tra loro (55 per cento) pensa di non aver ricevuto una valutazione adeguata prima di iniziare la transizione.
In Svezia lo scandalo scoppia proprio in seguito a un’inchiesta shock della tv pubblica, “Trans Train”, storie di ragazze con la barba, la voce maschile, i tratti deformati dal testosterone. Vituperate, censurate, ostracizzate, perseguitate dai transattivisti, le detrans hanno lottato duramente per prendere parola. «Sono stata accusata più volte di essere una persona di destra che crea una falsa narrazione per screditare le persone trans» dice al NYT la detransitioner Grace Powell. «Quello che dovrebbe essere un problema medico e psicologico si è trasformato in un problema politico. Un casino».
Negli USA il problema è politico da anni, a partire dalle bathroom war durante la presidenza Obama. Il presidente aveva sostenuto il diritto degli studenti a scegliere bagni e spogliatoi in base all’identità percepita. Trump aveva cambiato musica, ma uno dei primissimi executive order del suo successore Joe Biden ha riguardato proprio i giovanissimi trans. Biden ha anche nominato la trans Rachel L. Levine sottosegretario alla salute. La maggioranza degli americani di ogni parte politica «vorrebbe superare le guerre culturali sul tema e tornare alla ragionevolezza» sostiene il NYT, ma in campagna elettorale la faccenda resta rovente. È nata anche l’associazione DIAG – Democrats for an Informed Approach to Gender – per dare voce a quei liberal che chiedono alla sinistra di «rompere l’incantesimo gender».
C’è una detrans, Keira Bell, anche dietro allo stop per la Tavistock. «Ero una ragazza infelice che aveva bisogno di aiuto, e mi hanno trattata come una cavia». Alle soglie della pubertà la piccola tomboy cade in depressione, non va più a scuola, diventa una Hikikomori. Scopre di essere attratta dalle ragazze. «Mia madre mi ha chiesto se volessi diventare un ragazzo: non ci avevo mai pensato fino a quel momento». Alla Tavistock le danno i blocker. Keira ha quindici anni e si ritrova in «una specie di menopausa con vampate di calore, sudori notturni e annebbiamento mentale. Ma io volevo sentirmi come un uomo giovane, non come una vecchia signora». Seguono testosterone e doppia mastectomia. «Crescendo mi sono resa conto che la disforia di genere era un sintomo del mio malessere, non la sua causa». Keira fa causa al servizio sanitario nazionale e vince. L’appello mitiga la vittoria, ma Tavistock chiude, la vittoria più grande è questa.
«Non volevo diventare un uomo, avevo solo paura di diventare una donna» dicono invariabilmente le detrans. «Non ero io a essere sbagliata, sbagliato è come il mondo tratta le donne». Una fuga dalla differenza femminile (“la casa in fiamme” l’ha chiamata qualcuna) per poter essere libere. Oggi la questione trans è soprattutto questo, e ha molto a che vedere con la tenace maschilità del mondo.
Ma cosa fareste voi al posto dei genitori di una ragazza disforica se vi sentiste dire «Preferite una figlia morta o un figlio vivo?».
Kaltiala dice che troppo spesso i medici prospettano alle famiglie l’alternativa terrorizzante: farmaci o suicidio. Una madre descrive al NYT l’incontro con lo specialista: «È stato breve ed è iniziato in modo scioccante. Davanti a mio figlio il terapeuta ha detto: “Vuoi un figlio morto o una figlia viva?”». Ma «pediatri, psicologi e altri medici che dissentono dall’ortodossia ritenendo che non sia basata su prove affidabili si sentono frustrati dalle loro organizzazioni professionali». Spesso vengono minacciati dai transattivisti, come racconta Stephanie Winn, terapeuta dell’Oregon messa sotto inchiesta dal suo board. Oggi lavora solo online per non farsi trovare dai suoi persecutori.
Tamara Pietzke, psicoteraputa di Puget Sound, Washington, ha raccontato a The Free Press che i suoi superiori l’hanno invitata a smetterla di discutere e avviare immediatamente la transizione medica di una tredicenne autistica con tendenze suicide e una storia di abusi sessuali. Pietzke si è dimessa.
Eppure, dice Kaltiala «ricerche accurate dimostrano che il suicidio è molto raro. È disonesto e immorale fare pressione in questo modo sui genitori». «Ogni revisione sistematica delle prove fino ad oggi» scrive in una lettera insieme ad altri colleghi «compreso uno studio pubblicato sul Journal of the Endocrine Society, ha offerto prove con una certezza bassa o molto bassa dei benefici per la salute mentale degli interventi ormonali per i minori. La transizione di genere ci è sfuggita di mano. Qualcosa è andato molto storto».
Non esistono studi attendibili a supporto della tesi che la terapia affermativa prevenga il suicidio. Insieme a Kenneth J. Zucker, Stephen B. Levine è il decano degli psichiatri americani esperti di transizione. È stato presidente della 5a edizione degli standard di cura dell’Associazione internazionale per la disforia di genere e ha fatto parte del tavolo sui disturbi dell’identità di genere per il DSM-IV dell’American Psychiatric Association. Levine è netto: «Nessuno studio mostra che l’affermazione dei bambini riduce il suicidio rispetto a un modello di risposta di “attesa vigile” o psicoterapeutico… i dati disponibili ci dicono che il suicidio tra bambini e ragazzi che soffrono di disforia di genere è estremamente raro». E ancora: «la popolazione che si identifica come transgender soffre di un’alta incidenza di comorbilità correlate al suicidio. Ciò dimostra che ha bisogno di un’ampia e attenta assistenza psicologica, che in genere non riceve, e che né la transizione ormonale né quella chirurgica né l’affermazione risolvono i problemi di fondo».
Uno dei bias più frequenti è che nel concetto di suicidalità vengono incluse sia le intenzioni suicidarie sia i tentativi di suicidio. Ma i fatti dicono che la percentuale di adolescenti disforici morti per suicidio è lo 0,03 per cento (“Suicide by clinic-referred transgender adolescents in the United Kingdom”, 2022). Anche l’NHS, il servizio sanitario UK, afferma che «il suicidio è estremamente raro». Uno studio olandese realizzato su un periodo di osservazione molto lungo (1972-2017, “Trends in suicide death risk in transgender people: results from the Amsterdam Cohort of Gender Dysphoria Study)” stima che il tasso di suicidio nei transgender è di 3-4 volte superiore a quello della popolazione generale, ma l’anoressia moltiplica il rischio di 18 volte, la depressione di 20, l’autismo di 8, e come sappiamo queste comorbilità sono frequenti nei minori con disforia.
Un recentissimo studio americano (Williams Institute della UCLA School of Law, “Prevalence of Substance Use and Mental Health Problems among Transgender and Cisgender US Adults”, agosto 2023) dimostra piuttosto – e purtroppo – un incremento di suicidi tra le persone che hanno perfezionato la transizione con la chirurgia: il 42 per cento degli adulti trans ha tentato il suicidio rispetto all’11 per cento degli adulti cis; per l’autolesionismo le rispettive percentuali sono 56 per cento e 12 per cento.
Ma in Italia non si smette di agitare il rischio suicidio e di parlare della triptorelina come “salvavita”. In risposta all’ispezione al Careggi e all’intenzione dei Comitato Nazionale di Bioetica di riaprire la discussione sul farmaco (annunciata al Foglio dal presidente Angelo Vescovi) una dozzina di società scientifiche, la più importante tra le quali la Società Italiana di Endocrinologia (SIE) sostiene che la triptorelina «riduce del 70 per cento la possibilità di suicidio» tra i minori con disforia. II blocco della pubertà continua a essere definito «transitorio e reversibile» mentre la pratica clinica e svariati studi dimostrano il contrario: gli effetti della tritptorelina non sono affatto transitori e reversibili. Secondo una ricerca pubblicata dal “British Medical Journal” a sedici anni, età in cui si passa agli ormoni cross-sex, nelle bambine e nei bambini si osserva una crescita ridotta dell’altezza e della forza ossea. In un articolo pubblicato dalla rivista dell’Endocrine Society si afferma che per la pubertà ritardata con i blocker valgono gli stessi rischi per la salute connessi alla pubertà tardiva fisiologica: osteoporosi, obesità, diabete di tipo 2, problemi cardiovascolari e di salute mentale.
«L’uso di bloccanti della pubertà e la terapia ormonale» è scritto nel documento della commissione d’inchiesta per il Servizio Sanitario e Assistenziale norvegese «sono trattamenti parzialmente o completamente irreversibili». Perfino l’OMS, che ha istituito un tavolo per nuove linee guida sulla salute transgender, è stata costretta a precisare che non si occuperà di minori in quanto «la base di prove per bambini e adolescenti è limitata e variabile per quanto riguarda i risultati a lungo termine».
Eppure l’Osservatorio italiano sulla Medicina di Genere, organo dell’Istituto superiore di Sanità, continua a considerare il trattamento «completamente reversibile». Idem la Società Endocrinologica Italiana. Anche la Società Italiana di Pediatria ha sempre parlato di «dimostrata completa reversibilità dei sospensori puberali». Però stavolta la sigla (SIP) non partecipa all’alzata di scudi in difesa della terapia affermativa: forse anche tra i pediatri italiani cominciano a circolare seri dubbi.
Maura Massimino dirige il reparto di oncologia pediatrica all’Istituto dei Tumori di Milano ed è stata la prima – e per lungo tempo l’unica – pediatra a esporsi contro la somministrazione di triptorelina ai bambini incerti sul genere. Ha pratica con quel farmaco, nel suo reparto capita di doverlo somministrare a piccoli pazienti che sviluppano pubertà precoce in seguito alle terapie per il tumore e gli effetti collaterali le sono ben noti: «Bloccare la pubertà è come mimare la menopausa» dice. «Nel caso dei pazienti oncologici la valutazione costi-benefici può giustificare la somministrazione. Ma in quello di bambini fisicamente sani è come dare insulina a chi non ha il diabete. Tutta questa storia è partita come un’emergenza, in mancanza di un’adeguata riflessione e di linee guida sensate».
Giuseppe Chiumello, padre dell’endocrinologia pediatrica, è in linea con Massimino: «I centri che hanno diagnosticato e seguito questi casi non hanno pubblicato le loro esperienze: vanno obbligatoriamente istituiti un Registro Nazionale, centri regionali autorizzati alla prescrizione, una commissione regionale che discuta di ogni caso dopo presentazione di una relazione clinica».
Non hanno dubbi sul fatto che «qualcosa è andato molto storto» gli psicoanalisti della SPI che un anno fa in una lettera indirizzata a Giorgia Meloni a firma del presidente Sarantis Thanopulos hanno espresso «grande preoccupazione per l’uso di farmaci finalizzato a produrre un arresto dello sviluppo puberale». Discussione aperta anche tra gli psicoterapeuti SITCC, la maggiore società di psicoterapia in Italia, che al tema dedicherà il suo prossimo congresso.
Ma c’è dell’altro: più o meno nello stesso periodo – dal 2010 – in cui si è cominciato a registrare un aumento epidemico dei casi di minori con disforia, negli Stati Uniti, in UK e verosimilmente in molti altri paesi occidentali si è verificata una crescita esponenziale dei disturbi mentali tra gli adolescenti: depressione, ansia, deficit di attenzione, iperattività (ADHD), autolesionismo, tentati suicidi. Secondo recentissimi dati del servizio sanitario britannico il numero di bambini inglesi indirizzati ai servizi di salute mentale di emergenza è aumentato del 50 per cento in tre anni: una «devastante esplosione».
Lo psicologo statunitense Jon Haidt si occupa da anni dell’effetto dei social sulla salute mentale di bambini e adolescenti e ha pubblicato i risultati della sua ricerca in documento intitolato “I disturbi dell’umore negli adolescenti dal 2010: Una revisione collaborativa”. Nelle ragazze -visto che si tratta soprattutto di loro- l’aumento della disforia e dei problemi mentali, condizioni quasi sempre compresenti, potrebbe essere legato a un insostenibile disagio per il proprio corpo in maturazione reso oggi più acuto dai modelli irraggiungibili proposti dai social, corpi iper-sessualizzati e innaturali spesso modificati da chirurgia e filtri. Mark Zuckenberg si è recentemente scusato davanti al Congresso Usa per i danni causati ai bambini dalle sue piattaforme, bullismo, abusi sessuali, sfruttamento e via dicendo: forse dovrebbe scusarsi anche per questo.
Sulla questione della salute mentale della generazione Z e successive sono in uscita negli USA ben tre saggi: Jonathan Haidt, “The Anxious Generation”; Logan Lancing, “The Queering of the American Child – How a New School Religious Cult Poisons the Healthy Minds and Bodies of Normal Kids”; Abigail Shrier, “Bad Therapy – Why the Kids aren’t Growing Up”.
Si tratta di amarli di più, bambine e bambini, che restino liberi di significare la propria unicità e differenza rompendo la gabbia angusta degli stereotipi di genere. Non c’è alcun bisogno di medicalizzarsi a vita. La libertà non si compra da Big Pharma.
(Il Foglio, 19 febbraio 2024)
di Marika Ikonomu
I primi gruppi sono nati negli anni Novanta per mettere in discussione il modello culturale patriarcale. Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin l’interesse verso queste realtà è cresciuto. Dal sud al nord.
Se pensata sulle relazioni, la forma del cono ha un significato molto diverso rispetto al cerchio. La prima è verticale e gerarchica. La seconda è orizzontale e paritaria. È con questa immagine che Domenico Matarozzo spiega nel film del 2023 “Nel cerchio degli uomini” la rappresentazione di maschile imposta e il desiderio di creare uno spazio nuovo, e di abbassare il cono per formare un cerchio. Il film prende il nome dal gruppo di autocoscienza maschile di Torino nato nel 1999 che porta lo stesso nome: Il cerchio degli uomini, appunto.
«Avevamo l’interesse di interrogarci sul maschile e sulla gestione del potere nelle relazioni», spiega a Domani Matarozzo. «Abbiamo provato a disegnare – continua – quali sono le forme di mascolinità tossica che andavano riviste nei rapporti tra uomini, con le donne, con i figli e in famiglia».
Lui fa parte della vecchia guardia, della trentina di persone che alla fine degli anni Novanta ha avviato il cerchio di condivisione. Oggi sono circa una cinquantina gli uomini che gravitano attorno al gruppo di Torino.
Autocoscienza o decostruzione
La pratica politica dell’autocoscienza è stata avviata dai collettivi femministi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, come momento di condivisione delle proprie esperienze personali, di scambio intellettuale ed emotivo, di riflessione politica e presa di coscienza sulle relazioni di potere.
Dagli anni Novanta in Italia anche alcuni gruppi di uomini hanno sentito il bisogno di aprirsi a questa pratica per mettere in dubbio la costruzione sociale assegnata, anche se nominandoli diversamente: «Non abbiamo voluto chiamarli gruppi di autocoscienza per non appropriarci di un termine che è proprio del movimento femminista, ma si tratta di partire dalla propria condizione personale, conoscerne la natura politica e farne un terreno di condivisione con altri», spiega Stefano Ciccone, tra i fondatori della rete Maschile plurale e membro del gruppo di Roma.
Uno spazio in cui non ci si giudica, prosegue Ciccone, ma che non si limita all’autoaiuto o al compiacimento, perché «ci si mette in discussione». Si prova a lavorare su un certo tipo di identità di genere, spiega Mattia Scorzini, ventiquattro anni, anche lui del gruppo di Roma, che non significa aiutarsi «a risolvere i problemi personali».
Ma c’è chi preferisce definirlo «un cerchio di decostruzione», precisa Enrico Francone, trentadue anni, che dal 2018 fa parte del Cerchio degli Uomini di Torino: «Autocoscienza significa essere coscienti ma può non portare a nessun cambiamento, mentre la decostruzione porta a ripensarsi».
L’esigenza che porta le persone a creare questi spazi o ad avvicinarsi a gruppi già esistenti è personale ma in comune c’è la volontà di uscire dallo stereotipo maschile. Ed è questo elemento a dare continuità anche ai gruppi storici: «Riconoscere una parzialità maschile, una costruzione sociale da mettere in discussione, contrastare il vittimismo maschile, non porsi in una posizione volontaristica, come amici delle donne, e riconoscere il fatto che esiste un privilegio maschile», racconta Ciccone, sottolineando che questo privilegio produce una miseria nella vita degli uomini.
Questo significa che per molti uomini dover rientrare in un determinato modello non è accettabile: non poter esprimere emozioni, l’imposizione per cui “gli uomini non piangono”, non partecipare al lavoro di cura nella crescita dei figli e nella gestione della casa, non considerarla una responsabilità condivisa, o ancora, dover performare sul piano lavorativo e manifestare in un certo modo la rabbia.
Il Gruppo nonviolento di autocoscienza Maschile di Milano (Gnam) è nato all’inizio degli anni Novanta «per necessità», racconta Roberto Raimondo, tra i fondatori, perché «le donne avevano fatto il loro percorso, quello del femminismo, e gli uomini no. Noi abbiamo cercato di farlo nel nostro piccolo». Riusciamo a esprimere le nostre emozioni? Come agiamo in momenti di crisi? Come possiamo rapportarci in modo davvero paritario con le donne? Queste le domande da cui è partito Gnam, che è sempre stato un gruppo piccolo senza una figura di leader «e questo è fondamentale», aggiunge Raimondo, «perché contraddice lo stereotipo maschile».
In un periodo in cui il berlusconismo aveva oggettificato la figura della donna, «il maschio era considerato vincente», spiega. Negli incontri settimanali o bisettimanali da una decina di persone, i temi portati all’interno del cerchio fin dall’inizio sono quelli della quotidianità, delle relazioni, di come rapportarsi in modo paritario con le donne, della paternità consapevole, di come esprimere le emozioni. O ancora della rabbia, della performatività, della sessualità e della distribuzione del lavoro di cura tra i generi.
I gruppi che Gnam è riuscito a censire nel libro “Maschilità mascherata” sono 17, la maggior parte centro nord – Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana – un gruppo è a Roma e alcuni al sud, in Puglia e Sicilia. Alcuni hanno creato associazioni e svolgono anche attività di formazione, altri invece sono gruppi informali, nati ad esempio all’interno di realtà sociali. Secondo il libro di Gnam in totale i gruppi sono tra i venti e trenta in tutta Italia.
Le nuove generazioni
La differenza di età all’interno di alcuni gruppi è tanta: a Bologna il gruppo va dai 20 ai 70 anni, a Torino dai 28 agli 80 anni circa, a Roma dai 24 ai 70, a Milano tra i 40 e i 60 anni. «Riusciamo a creare dei ponti e a parlare di TikTok come del servizio di leva», racconta Michele che fa parte del gruppo di Maschile Plurale di Bologna da dieci anni. Sottolinea però l’importanza delle parole, che devono essere comprensibili per tutti, e tutte le esperienze devono essere tradotte nei vissuti: ad esempio si parla di figli anche con chi non ne ha.
Da gruppi di uomini eterosessuali che facevano un lavoro sulla violenza di genere, queste realtà si sono poi allargate, anche con l’ingresso delle nuove generazioni e di una componente Lgbtq, «che ha permesso di cambiare l’approccio anche sul corpo maschile», dice Ciccone.
I giovani hanno poi contribuito a introdurre un linguaggio e riferimenti teorici nuovi, come quello della comunità Lgbtq, dell’intersezionalità – l’interazione tra diverse forme di oppressione, legate al genere, alla razza, alla classe – e del non binarismo, non accettare la rigida separazione dei generi maschile e femminile.
La violenza di genere
Portando avanti progetti culturali nelle scuole e lavori con la cittadinanza, il Cerchio degli Uomini ha incontrato la difficoltà di interrogarsi sul tema della violenza maschile sulle donne, «era importante capire quello che noi producevamo e non solamente stare ad ascoltare quello che le donne subivano», continua Domenico Matarozzo. È fondamentale parlare di femminicidi, ma, secondo l’associazione di Torino, occorre anche «lavorare sulla prevenzione e quindi sulle prevaricazioni quotidiane, sulla violenza psicologica, su quello che sta sotto la punta dell’iceberg».
«Quando accade qualcosa, la frase più giusta da dire è “avrei potuto essere io”», sottolinea Francone del gruppo di Torino, perché «il maltrattante non è così distante da quello che è il mio mondo, non solo perché sono maschio».
Il femminicidio è l’apice di una spirale che è fatta di catcalling – molestie che le donne ricevono per strada, soprattutto verbali – violenza psicologica, economica, stalking, possesso, lesioni o minacce, spesso non semplici da intercettare e insiti nei modelli culturali imposti, basati su dominio e potere. Strutture messe in dubbio dagli uomini che partecipano a questi gruppi: «Per quanto uomini consapevoli, dobbiamo mettere in discussione il nostro ruolo e quello che noi stessi riproduciamo», precisa Michele di Maschile Plurale Bologna.
L’attenzione mediatica
Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin c’è stato un cambio radicale nella narrazione pubblica della violenza di genere, anche per la posizione presa dalla famiglia, che ha trasformato un dolore privato in rabbia collettiva, mettendo in luce la responsabilità di tutti gli uomini e le mancate tutele da parte delle istituzioni.
«Nelle ultime settimane ci hanno contattato diverse persone interessate a entrare nel gruppo», dice Scorzini, riferendosi al territorio di Roma. Un’attenzione che è emersa anche a Bologna e Torino. Nel capoluogo emiliano, dal femminicidio di Cecchettin, «hanno iniziato ad arrivare persone che chiedono “io cosa posso fare?”. Casi in cui ne hanno parlato nella coppia e sono stati invitati dalle compagne ad avvicinarsi ai gruppi di autocoscienza», spiega Michele, che ha notato in generale un forte aumento delle richieste nel 2023.
Oltre alle richieste ai gruppi già esistenti, sono nati diversi piccoli gruppi di autocoscienza informali, legati a realtà sociali. L’attenzione mediatica però non sempre rende la complessità del fenomeno. Per Matarozzo da un lato aiuta a parlarne, portando più uomini a farsi domande e a mettersi in discussione. Ma raccontare il fenomeno concentrandosi esclusivamente sulla punta dell’iceberg «mette l’accento solo su un tipo di violenza, senza colpire la radice del problema: tutti quei messaggi di prevaricazione quotidiani che non si vedono ma che creano un sistema di potere», in quasi tutte le relazioni.
(Domani, 26 gennaio 2024, apparso con il titolo Uomini che marciano per le donne: «Decostruiamo il superuomo»)
di Beppe Pavan
È stata una piacevole sorpresa la richiesta, da parte di Paolo Ferrero, coordinatore del gruppo di Unione Popolare di Pinerolo, di raccontare per la rivista del PRC [Partito della Rifondazione Comunista] la storia e le iniziative per il cambiamento del maschile che anche a Pinerolo si sono andate consolidando. Trascrivo qui il mio racconto, a cui ho dato un titolo di cui quarant’anni fa faticavo a cogliere il senso, e che adesso, invece, sento che mi rappresenta pienamente. Lo faccio per lasciare una traccia del nostro cammino e per dire riconoscimento e riconoscenza agli amici uomini che hanno accolto l’invito e alle donne che ci hanno dato la spinta decisiva.
Credo che quanto vado a raccontare darà conto del titolo che ho scelto.
Cambiare si può, cambiare conviene
Per me tutto è cominciato nel ’75. Ci siamo sposati nel ’71 e il primo febbraio del ’73 ho cominciato a fare l’operatore sindacale a tempo pieno. Con mia moglie partecipavo alle manifestazioni e ai cortei in cui le femministe urlavano i loro slogan. Che noi maschi compagni non commentavamo neppure. Non li capivamo proprio! Io ero impegnatissimo soprattutto con le fabbriche tessili che stavano chiudendo, una dopo l’altra: assemblee, trattative, scioperi, occupazioni… Ero proprio a tempo pieno e vivevo il sindacato come quella “missione” che era sempre stata il senso della mia vita da quando, a dieci anni, avevo scelto di entrare in seminario per farmi prete. Ne ero uscito a ventun anni, nel ’68, per fare l’operaio: anche quella era stata una scelta. Dopo neanche un anno ho dovuto partire per la naja e sei mesi dopo il congedo ci siamo sposati. Perché racconto questi particolari? Perché – ne ho preso consapevolezza più tardi – seminario, fabbrica, esercito, sindacato… erano tutti luoghi rigorosamente maschili, impregnati di cultura patriarcale e misogina, di cui non ero consapevole di dovermi liberare. Ecco perché è importante il ’75: l’anno in cui Carla, mia moglie, mi ha improvvisamente messo di fronte a una scelta; l’ennesima, e anche questa volta toccava a me compierla: cambiare o veder naufragare la nostra relazione. Cambiare voleva dire far convivere il sindacalista a tempo pieno con il marito e il padre cooperativo negli impegni domestici e familiari. Non ho preso in considerazione neppure per un attimo l’ipotesi della separazione da lei, quindi ho cominciato a pensare seriamente al cambiamento della mia quotidianità. E, facendolo, ho cominciato a rendermi conto che non solo dovevo, ma che aveva ragione lei: voleva un compagno di vita, che rendesse possibile anche a lei vivere e realizzare i propri desideri, al di là dell’oblatività e dello spirito di sacrificio a cui i doveri di moglie e madre la costringevano e ai quali era stata educata in famiglia, al catechismo e alla scuola delle suore. E sono andato rafforzandomi in quella convinzione leggendo volantini e giornali scritti da femministe, che lei mi portava a casa. Avevano – hanno – ragione le donne del femminismo a chiedere a noi uomini di cambiare le nostre modalità di stare nelle relazioni: imparando la cura, la condivisione… abbandonando la competizione e tutti i complessi di superiorità. Quando, molto presto, ho trovato il coraggio di dirglielo che aveva ragione lei, che toccava a me cambiare e, soprattutto, ho cominciato ad apportare piccoli cambiamenti concreti negli orari del sindacalista e nella cooperazione del marito e del padre, da quel momento la nostra relazione ha ripreso slancio, slancio che dura tuttora. Ecco perché posso testimoniare che cambiare si può e, soprattutto, conviene: perché poi è tutto più bello.
Rimettere al mondo il mondo
Un altro pensiero si è fatto strada, subito dopo aver capito che il cambiamento che stavo operando in me non rispondeva solo al desiderio di Carla e mio di poter proseguire serenamente il nostro cammino di vita insieme. Quel cambiamento era anche una risposta positiva al desiderio delle donne femministe di avere al proprio fianco uomini capaci di cooperare al progetto di “rimettere al mondo il mondo”, liberandolo dai pesi mortiferi della cultura e delle prassi patriarcali e rendendolo di nuovo abitabile e accogliente per tutti e tutte. Ho cominciato a pensare che non era sufficiente che cambiassi io: per rendere davvero possibile rimettere al mondo il mondo era necessario che l’intero genere maschile operasse quel cambiamento. Le donne, da sole, non ce la potevano fare. Ma perché l’intero genere maschile si metta in cammino per il proprio cambiamento… beh, non esistono formule magiche né riti tanto potenti. Non c’è che una strada: ogni singolo uomo deve decidersi e scegliere di fare proprio quel cammino di cambiamento di sé. Se sono cambiato io può cambiare chiunque. Quando tutti gli uomini avranno fatto quella scelta il mondo si ritroverà rimesso a nuovo. Utopia? Certamente: è un desiderio non ancora realizzato. Ma quando l’ho proposto ad alcuni amici e qualcuno di loro ha accolto l’invito, ho capito che è possibile. Ma non è stato facile. Ci ho messo diciotto anni prima di trovare il coraggio di fare quella proposta. Ci avevo già provato negli anni dell’attività sindacale. Anche nel Sindacato c’erano donne femministe: delegate e operatrici a tempo pieno che mettevano per iscritto e facevano circolare le loro riflessioni. Non solo con volantini in occasione di scadenze particolari… Ricordo un piccolo libro, Il Sindacato di Eva, di cui conservo gelosamente una copia. E ricordo perfettamente un’assemblea precongressuale della CISL di Pinerolo. Nel mio intervento ho accennato alle riflessioni di quelle nostre compagne, alle richieste di cambiamento che ci rivolgevano: ho detto che avremmo dovuto ascoltarle, perché per cambiare il mondo non bastava la rivoluzione dei proletari. Anche l’ultimo sfruttato sottopagato delle nostre boite [fabbrichetta, posto di lavoro], tornato a casa arrabbiato dopo una giornata di merda, si sentiva autorizzato a pretendere, con la violenza se necessario, di essere servito dalla moglie: c’era sempre una donna sottomessa o da sottomettere all’ultimo degli uomini! Ma quell’appello non ebbe in risposta che qualche battuta spiritosa, qualche risatina e un silenzio tombale: nessuno, neanche i miei amici tra i compagni presenti, ha ripreso l’argomento nel dibattito. Quello che pensavano le donne non interessava agli uomini, tranne quando si affrontavano questioni tecnicamente sindacali e venivano inserite nell’elenco dei problemi da affrontare, con i disoccupati, i giovani e i meridionali. Quel silenzio mi ha intimorito: solo dopo diciotto anni ho trovato il coraggio di riparlarne.
Convertirsi è cambiare vita
Siamo nel 1993, aprile. Durante una delle riunioni periodiche della nostra Comunità di Base. Le “Comunità cristiane di base” (CdB) erano nate sull’onda delle speranze e degli input al rinnovamento che il Concilio Vaticano Secondo aveva suscitato all’interno della Chiesa cattolica: comunità di popolo libere dal peso opprimente delle gerarchie che continuavano a dettare legge, soffocando la libertà individuale di ricerca e di espressione. Quella di Pinerolo era nata alla fine del ’73 e con Carla mi ci ero coinvolto da subito. In quella domenica dell’aprile del ’93 qualcuno sollevò il problema del sessismo nelle pubblicità stradali e televisive; un altro richiamò l’attenzione sul maschilismo imperante nella Chiesa cattolica… Era il momento che aspettavo! Sono intervenuto riassumendo quanto andavo pensando dentro di me da quel lontano’75 e ho concluso proponendo agli amici maschi presenti di continuare a parlare tra di noi di quei problemi, per aiutarci a capire e cambiare. Con mia grande gioia alcuni di loro hanno accolto l’invito… ed è nato il “gruppo uomini di Pinerolo”. Non è stato difficile arrivare a capire, insieme, che il cambiamento delle nostre modalità maschili di stare al mondo e nelle relazioni era la risposta più coerente all’invito alla conversione che ci rivolgeva Gesù dalle pagine del Vangelo, che leggevamo e studiavamo con impegno settimanale. Conversione non significa cambiare religione, ma cambiare vita, dedicandoci alla giustizia in tutte le relazioni. Mai da nessuna parte avevo sentito questo richiamo, questa “attualizzazione”, come si diceva, del messaggio evangelico. Come ogni altra, anche la conversione di vita è una pratica sessuata, diversa per le donne e per gli uomini: per le donne significa liberarsi dalla sottomissione agli uomini, per gli uomini liberarsi dalla cultura della superiorità e del dominio sulle donne. Questo è il vero peccato originale dell’umanità, “l’infamia originaria” illustrata da Lea Melandri in un libro. L’invito ci veniva direttamente dalle donne: dal femminismo e dai gruppi di donne che già si erano formati in alcune CdB, a cominciare dalla nostra, e che anche nelle CdB faticavano a trovare ascolto. L’invito da uomo a uomo ha avuto esito positivo perché la comunità era un terreno che si stava fertilizzando grazie alle donne.
Uomini in cammino
Quando abbiamo cominciato a riunirci tra uomini non sapevamo bene di cosa parlare e come farlo. Sessismo e maschilismo erano stati il primo input, ma ben presto ci siamo resi conto che non ci soddisfaceva parlare di questioni astratte, teoriche, da intellettuali che non eravamo; invece ci piacque subito la proposta di provare a parlare dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni. Scoprimmo così, a poco a poco, un mondo fino allora sconosciuto: il nostro intimo. Un operaio di una grande fabbrica raccontò il disagio che provava ogni volta che avrebbe voluto comunicare un proprio problema personale agli amici del Consiglio di Fabbrica e si vedeva respinto dal disinteresse di chi si occupava solo di sindacato e di contrattazione. Non c’era amicizia tra i ribelli al capitalismo… Quando nel gruppo ci dicemmo che ci piaceva parlare finalmente di noi, mi fu facile proporre di adottare le “regole” che avevo imparato a riconoscere utili leggendo resoconti sull’autocoscienza praticata dalle donne femministe: parlare partendo da sé, evitando generalizzazioni e intellettualismi; ascoltare chi parla e racconta di sé; senza giudicare mai qualunque cosa un altro racconti; e mantenendo il segreto sulle cose dette nel gruppo. Ci siamo presto resi conto che tra noi si andava realizzando un clima di intimità che ci permetteva, a poco a poco, di raccontare cose mai dette a nessuno: esperienza assolutamente nuova per uomini educati fin da piccoli a non piangere, a non manifestare le proprie emozioni, le proprie fragilità, a manifestarsi sempre forti, sempre all’altezza di ogni situazione, assertivi, dominanti, superiori… Riconoscerci fragili e “parziali” – ciascuno è “solo un uomo” – ci ha aiutati a ripensare alle nostre relazioni, cominciando da quelle fondamentali con le donne. Stare in cerchio, riconoscendo la pari dignità di chi è in relazione con noi, si è a poco a poco rivelato una pratica di aiuto reciproco a imparare a stare nelle relazioni con rispetto e cura, quindi anche come prevenzione della violenza contro le donne. Uomini in cammino di cambiamento di sé: da trent’anni ogni quindici giorni ci incontriamo con grande desiderio di continuare. Dal 2015 i gruppi sono due, perché c’è sempre qualcuno che decide di provare se è vero che poi si vive meglio… In questi trent’anni sono nati tanti altri gruppi in giro per l’Italia, è nata l’associazione nazionale Maschile Plurale…
Liberi dalla violenza
I pensieri germogliano continuamente, quando non scegli di reprimerli. Presto ho cominciato a riflettere sul fatto che al desiderio di Carla avrei potuto reagire con violenza invece che con ascolto: come fanno molti uomini le cui violenze sono cronaca quotidiana. Cambiare si può, ma cambiare è una scelta. Se vogliamo davvero collaborare con le donne femministe a rimettere al mondo il mondo non basta che cambino gli uomini degli ancora troppo pochi e piccoli “cerchi maschili di autocoscienza”: è necessario che cambino anche quegli uomini che commettono violenze in nome della loro pretesa di dominio e superiorità, che la diffusa cultura patriarcale autorizza. Questo pensiero si è fatto sempre più impellente, finché nel 2015 con Renato Galetto e Magda Ferrero abbiamo condiviso il desiderio di avviare anche a Pinerolo un Centro per uomini che commettono violenze nelle loro relazioni intime, di coppia e familiari, e che vorrebbero cambiare. Abbiamo così cominciato a convocare incontri con associazioni, gruppi, professionisti/e e rappresentanti di istituzioni (ASL, Comuni, CISS…), per condividere le ragioni del progetto e studiarne la fattibilità. Dopo la prima inevitabile scrematura ci siamo ritrovati/e un buon gruppo di uomini e donne decisi/e a proseguire e tra il 2016 e la prima metà del 2017 abbiamo organizzato un corso di formazione, molto articolato e condotto da persone che avevano già maturato esperienza e conoscenza in “Centri per uomini maltrattanti”.
Terminato il corso abbiamo deciso di proseguire, dando vita all’Associazione Liberi dalla Violenza OdV (organizzazione di volontariato). Comune di Pinerolo e ASL TO3 ci hanno messo a disposizione gratuitamente i due locali di Via Bignone 40, che dal mese di ottobre 2017 sono la sede del Centro di ascolto del disagio maschile. Volontariato puro, il nostro: gli unici soldi che entrano sono le quote-tessera di soci e socie, alcune donazioni liberali e i proventi di alcuni bandi a cui abbiamo partecipato. In questi sei anni di attività, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia da Covid-19, abbiamo accolto oltre 70 uomini. Dopo i primi casi di accesso volontario, la legge 69/19, nota come Codice Rosso, obbliga sempre più uomini a bussare ai Centri come il nostro, perché la loro partecipazione a un percorso di riflessione e cambiamento è alternativa al carcere a cui sono stati condannati. È intuitivo che quella motivazione – evitare il carcere – non è garanzia di impegno convinto nel percorso di cambiamento personale, anche perché la legge non prescrive le necessarie verifiche sull’effettivo cambiamento maturato. Ma l’esperienza fatta in questi anni mi fa essere moderatamente ottimista: non tutti, ma alcuni di loro li vedo cambiare, a cominciare dal linguaggio e dai propositi di vita che spontaneamente dichiarano. Il nostro protocollo operativo prevede: prima accoglienza a cura di volontari e volontarie di turno al Centro nelle due fasce orarie settimanali (lunedì 18-20, giovedì 16-18); ciclo di almeno 10-12 colloqui individuali motivazionali con le due psicologhe; training psico-educativo di gruppo della durata di nove mesi: 33/35 incontri settimanali di due ore. Al termine proponiamo loro un percorso di accompagnamento, invitandoli a incontri più o meno bimestrali e telefonate periodiche, per mantenere il contatto e il dialogo.
Non è un lavoro per volontari
Di una cosa abbiamo preso consapevolezza da quasi subito: che si tratta di un lavoro estremamente impegnativo, che le istituzioni pubbliche non possono continuare a delegare al volontariato. La più banale e intuitiva delle ragioni è che quando un volontario non ce la fa più, o decide di dedicarsi ad altro, nessuno può costringerlo a restare; mentre una psicologa o un assistente sociale dipendente di un’istituzione pubblica viene sostituita/o e il servizio continua nel tempo. Quando alcuni/e hanno lasciato la nostra associazione il problema si è fatto urgente, anche perché non è facile trovare professionisti/e disponibili a lavorare gratuitamente in un servizio così impegnativo. Ma è un servizio indispensabile per migliorare la qualità di vita della comunità, intervenendo sulle cause culturali e individuali di tanta violenza maschile contro donne e minori. Forti di questa consapevolezza, nell’ottobre del 2021 abbiamo avviato un confronto con la Dirigenza dell’ASL TO3. Un primo incontro con la Direttora Generale Franca Dall’Occo ci ha confortato, perché abbiamo registrato la sua condivisione del nostro progetto di coinvolgimento dell’ASL nel servizio svolto da LdV. Nel mese di settembre del ’22 l’ASL ha organizzato un convegno formativo all’Hotel Barrage di Miradolo, dove abbiamo potuto raccontare la nostra esperienza e ribadire le motivazioni del nostro progetto, accompagnate dalla sottolineatura delle nostre fragilità. Proprio in quel periodo ha visto la luce un’Intesa tra Stato e Regioni che fissa i requisiti minimi che dovranno avere, a partire dal 2024, tutti i Centri per Uomini Autori di Violenza (CUAV) operanti sul territorio nazionale. La nostra associazione non può trasformarsi in CUAV perché non ha le risorse per ottemperare ai requisiti minimi richiesti: almeno 12 ore settimanali di apertura, qualifiche professionali adeguate, locali idonei, richiesta di una quota di partecipazione (ticket) agli uomini presi in carico. Mentre sono previsti dall’Intesa CUAV gestiti direttamente da istituzioni pubbliche o in forma mista con il privato sociale. L’ASL TO3 ha deliberato nei mesi scorsi un proprio progetto e stiamo conducendo la trattativa con la referente incaricata per arrivare quanto prima alla nascita di un CUAV a Pinerolo gestito in prima persona dall’ASL, con la collaborazione dell’associazione Liberi dalla Violenza.
Non ho conclusioni da trarre
Sono grato a Paolo Ferrero di avermi chiesto di condividere il racconto di questo cammino di vita. E mi auguro che chi lo leggerà scelga di approfondire e coinvolgersi, perché sono convinto che questo delle relazioni tra uomini e donne sia un terreno formidabilmente politico: da anni sogno che i prossimi presidenti di USA, Cina, Russia – e Italia, Francia, Ucraina… – si formino anche in gruppi di autocoscienza maschile, dove imparino la cooperazione invece della competizione, il rispetto invece della superiorità, la convivialità di tutte le differenze invece dell’imposizione della propria particolarità. Ognuno di noi è “solo un uomo”: solo uno alla pari di ogni altro e solo uomo alla pari di ogni donna. Non ci deve più essere spazio per le piramidi gerarchiche, ma solo per i cerchi tra pari. E sarà la pace. Se ognuno comincia da sé e dalle proprie relazioni.
Beppe Pavan – luglio 2023
P.S. Come vedete dalla data, questo testo l’ho scritto in estate. Un aggiornamento è doveroso: la trattativa con l’ASL per un CUAV misto si è inopinatamente interrotta, non per scelta nostra, e dallo scorso mese di settembre abbiamo dovuto interrompere l’accoglienza di altri uomini. Restiamo in stand-by in attesa di un segnale da parte dell’istituzione.
(Uomini in Cammino n. 3-2023, 3 gennaio 2024)
Anni fa – era il 2006 – alcuni di noi avevano scritto un altro testo, con amici di Maschile plurale. Diceva semplicemente: la violenza contro le donne la facciamo noi uomini, ci riguarda. Siamo noi che dobbiamo farcene carico, impegnarci a cancellarla. La cronaca purtroppo ci ripete quasi ogni giorno che quell’appello resta drammaticamente urgente.
Siamo ancora lontani, ma qualcosa comincia a cambiare: è cresciuta una consapevolezza, non pochi uomini hanno cominciato a pensare e agire con un altro sguardo su sé stessi, sulle altre, sugli altri.
Crediamo che qualcosa di simile valga per la guerra. Di guerra si è cominciato a parlare correntemente durante la pandemia del Covid. Il nemico era il virus! È dilagato un linguaggio militaresco per affrontare un problema che invece richiede cura, conoscenza, vicinanza alla vulnerabilità di tutti.
Ora la guerra c’è davvero, continua vicino a noi e nelle nostre parole e pensieri quotidiani.
Siamo noi maschi a pensarla e a farla da secoli. È una realtà spesso rimossa. Eppure è davanti ai nostri occhi.
Ciò che sta succedendo da un anno in Ucraina dopo l’invasione di Putin – e succedeva già, su scala “minore”, dal 2014 e ancora prima nelle regioni del Donbass – è inaccettabile. Centinaia di migliaia di uomini, soldati, civili, donne, vecchi e bambini muoiono per una contesa territoriale, per le differenze di lingua e di storia, per le mire imperialistiche della Russia, per il prevalere dei nazionalismi, per le “logiche” del dominio del mondo che emergono tra Oriente e Occidente.
Questa guerra così “vicina”, che rischia di diventare nucleare – se ne parla ormai “normalmente” – forse ci fa vedere meglio la tragedia di tante altre guerre aperte da anni, ma lontane dai riflettori dei nostri media. Perché ci sono tante guerre e morti che non vogliamo vedere.
Guerre spesso combattute con l’idea di “costruire nuove democrazie”. Per cause considerate “giuste”. (Le mire egemoniche e imperiali non sono solo di Putin: ricordiamo l’intervento in Iraq basato su menzogne, gli ultimi vent’anni di guerra in Afghanistan, finiti con la vittoria di quei Talebani accusati all’origine del conflitto come complici degli attentati alle Torri di New York). La Storia è piena di esempi che attestano il fallimento della guerra.
In realtà le democrazie sono diminuite nel mondo dopo la fine della “guerra fredda”, e quelle che restano non se la passano bene. In compenso interi paesi sono semidistrutti. Milioni di esseri umani fuggono in cerca di salvezza. Massacri e esodi continuano.
Le guerre sono eventi travolgenti e incontrollabili: spesso tradiscono le stesse aspettative di chi le scatena.
Abbiamo provato a discuterne. Ma in un primo momento lo scambio si è bloccato perché convinzioni diverse si sono manifestate polemicamente anche tra noi. Del resto ci diciamo plurali e siamo molto affezionati a questo nome.
È giusto o no mandare armi agli ucraini attaccati? C’è qualche ragione dalla parte dei Russi? E qualche responsabilità dell’Occidente che ha voluto stravincere dopo il crollo dell’Unione sovietica?
Opinioni contrapposte. Irrigidimenti. Incomprensioni. Ferite. Risposte alzando la voce. Ci siamo accorti che si era imboccata una strada senza uscita: vinceva anche nel nostro linguaggio la logica amico-nemico. Su questioni che appassionano e che è giusto approfondire. Ma quanto sono davvero nelle nostre mani?
Il conflitto avviene nelle più intense relazioni di amore e di amicizia (come tra “popoli fratelli”): è possibile viverlo senza negare l’altro/a. Senza uccidere, aggredire, e senza negare sé stessi. Può essere difficile, a volte difficilissimo, ma è possibile. Il conflitto non va rimosso: ma può non essere distruttivo, mortifero. Riguarda noi dimostrarlo.
Abbiamo provato da capo.
Ripartire da sentimenti e stati d’animo. Prima di arrivare alla geopolitica del mondo, riconoscere la cartografia delle nostre reazioni, sensazioni, pensieri, disagi, desideri. Un po’ come ci era capitato anni prima nella ricerca, che continua e si approfondisce, del rapporto di ognuno con la violenza nelle relazioni tra le persone, con le donne, figlia di una cultura patriarcale che ci attraversa in qualche modo tutti.
Il discorso e lo scambio hanno cambiato toni e contenuti. È emersa una sensazione di angoscia e di impotenza. La difficoltà a farsi un’idea sufficientemente fondata di ciò che accade, tra tanta propaganda e – come in ogni guerra – tante bugie e censure. È stato raccontato il rifiuto di alcuni, fino a quel momento, anche solo di parlarne, proprio per evitare di cadere subito negli equivoci ideologici e nello scontro degli schieramenti.
La guerra ha un enorme potere pervasivo e persuasivo, ottiene facilmente la militarizzazione del linguaggio, dei sentimenti, anche se le battaglie non si combattono qui. Lo vediamo sui media. Ma capita a noi stessi.
Sospettiamo che, nel momento in cui il patriarcato è messo per la prima volta nella storia in discussione dalla rivoluzione delle donne, nel momento in cui entrano in crisi i luoghi sociali e i riferimenti simbolici che hanno dato senso alla vita degli uomini, la guerra assuma anche un significato consolatorio, paradossalmente rassicurante per una parte (quanto grande?) dei maschi. Ciclicamente – è stato detto – la guerra e la violenza politica si sono presentate come opportunità per rifondare un’identità virile in crisi, minacciata dal cambiamento, che cercava un “corpo collettivo” maschile e una “missione” per ritrovarsi.
È tornata l’immagine della guerra come stupro. Ci si è chiesti il perché dell’inefficacia del pacifismo. La guerra resta ancora un “gioco eccitante”. La passione per gli scacchi, per la propria squadra. Per il combattimento. Praticare la nonviolenza è difficile per chi ragiona – più o meno consapevolmente – con una mentalità maschilista? Come mai nei movimenti nonviolenti e pacifisti quasi mai emerge una riflessione sulla matrice maschile della guerra?
Alcuni hanno confessato di aver provato la pulsione a ingaggiare un “duello”: quell’automobilista a momenti investiva la mia bambina, se non mi avesse fermato la mia compagna lo avrei sfidato…
Il primo teorico della guerra moderna, Clausewitz, famoso per aver detto “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, apre il suo trattato con un’altra definizione: “…ci atterremo alla sua forma elementare: il combattimento singolare, il duello. La guerra non è altro che un duello su larga scala”. Che si trattasse di due maschi (e quindi di opposte schiere di maschi) era implicito, scontato, e ancora una volta rimosso.
Perché la guerra contribuisce alla costruzione identitaria: armi giocattolo, film e videogiochi violenti, la “scuola” delle bande giovanili e dei bullismi nelle aule.
Ci sono, tra noi, uomini che si occupano di altri uomini – in percorsi giudiziari o volontari – che hanno agito violenza: imparano a riconoscerla in modo sottile anche nei nostri comportamenti e linguaggi.
Si è discusso del fatto che oggi anche le donne – alcune donne – desiderano entrare nel “gioco” della guerra, e lo fanno. Un amico è stato colpito dalla notizia che in Ucraina c’è anche un battaglione di volontari/e del mondo glbtqia+: persone che si sentono “incluse” in una società diffidente, o apertamente ostile, soltanto ora che rischiano la vita per la “patria” (la terra dei padri).
Sono prove di libertà, o è un’idea di “parità” che accoglie – “include” – in un ordine maschile ancora dominante?
È tornata la memoria, per chi c’era, di quelle immagini degli aerei di linea pilotati da terroristi che centrano le Due Torri di New York, all’inizio del millennio.
Qualcuno ha citato Tiziano Terzani: voleva intitolare un suo articolo su quell’attacco, scandalosamente, “È una buona occasione”. Lo pubblicò il Corriere della Sera diretto da Ferruccio de Bortoli, ma cambiando il titolo.
“Buona occasione” perché? Per conoscere meglio il “nemico” (i terroristi islamici, ma per molti/e l’intero mondo islamico), capirne le motivazioni, per aberranti che siano o ci appaiano, e capire meglio anche noi stessi. Cercare così mediazioni capaci di evitare i massacri.
Proviamo a rileggere alcune parole di Terzani dopo l’11 settembre 2001: “…mi venne da pensare che quell’orrore a cui avevo appena assistito era… una buona occasione. Tutto il mondo aveva visto. Tutto il mondo avrebbe capito. L’uomo avrebbe preso coscienza, si sarebbe svegliato per ripensare tutto: i rapporti fra Stati, fra religioni, i rapporti con la natura, i rapporti stessi fra uomo e uomo. Era una buona occasione per fare un esame di coscienza, accettare le nostre responsabilità di uomini occidentali e magari fare finalmente un salto di qualità nella nostra concezione della vita”. (Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, Il Cammeo, Longanesi, Edizione del Kindle).
Anche Terzani dice “uomo” intendendo tutta l’umanità, variamente sessuata. Comunque, purtroppo, non è stato così. La risposta al terrorismo di matrice islamica è stata ancora una volta la guerra e solo la guerra. Con in più, in nome di una emergenza che non finisce mai, la rottura delle regole dello “stato di diritto” che dovrebbe essere il fondamento delle democrazie.
Cerchiamo di non perdere di nuovo l’“occasione” che viene dall’orrore di questa nuova guerra “nel cuore dell’Europa”. Un “cuore” collocato tra Ovest e Est del continente, dove gli scontri tra nazionalismi, dittature, razzismi sono stati terribili lungo due secoli: dovremmo ascoltarlo più attentamente il battito e il ritmo di questo cuore. Cogliere le radici dei sentimenti negativi che rendono possibile la guerra, al di là dell’uso strumentale della memoria e della storia.
Non cerchiamo l’adesione alle idee che qui sono abbozzate. Proponiamo prima di tutto un incontro e uno scambio, anche – anzi, soprattutto – tra chi la pensa diversamente. Vorremmo occasioni di incontro. Ascoltando chi si “dimette dalla guerra” in Russia, in Ucraina, nel mondo. E chi pensa invece che la resistenza armata sia l’unica risposta possibile contro gli invasori, i nemici.
Con uomini che abbiano voglia di discutere e di riflettere con noi. In uno spazio aperto alle donne. Alle persone di ogni orientamento e identità sessuale, o di genere.
Cominciamo dalla ricerca di un linguaggio che non sacrifichi subito il desiderio di conoscersi e di capirsi alla certezza consolante di appartenere a uno schieramento. La “schiera” è per l’appunto l’“unità dell’esercito, o parte di essa, disposta su una determinata linea” (vocabolario Treccani). Un modo di essere votati al combattimento, e alla morte.
Preferiamo vivere.
Angelo Albero, Tommaso Banfi, Pietro Buscicchio, Mario Castiglioni, Stefano Ciccone, Nino De Giosa, Marco Forlani, Gianluca Giraudo, Mario Gritti, Orazio Leggiero, Alberto Leiss, Olivier Malcor, Nicolò Marchesini, Domenico Matarozzo, Alessio Miceli, Giovanni Niccoli, Beppe Pavan, Ermanno Porro, Filippo Rea, Antonio Romeo, Francesco Seminara, Marco Vanelli, Giancarlo Viganò, Danilo Villa, Claudio Tognonato
(maschileplurale.it, 27 luglio 2023)
di Peter Freeman
Per quattro giorni le donne di Rimini sono state esposte alla cultura dello stupro. Senza difesa e senza altro riparo che starsene chiuse in casa. È accaduto durante il raduno nazionale degli Alpini nel corso del quale 400mila maschi sono calati in città e una parte di loro, secondo la più classica logica del branco, si è sentita libera di esprimere la propria idea della donna e della virilità maschile. Alcool e libagioni hanno fatto il resto, e questo non rappresenta in alcun modo un’attenuante.
Qualche testimonianza:
«Mentre tornavo a casa mi hanno fermato e al mio categorico no al loro invito a ballare mi hanno detto: scopa di più. Mi hanno fischiato, hanno cercato di abbracciarmi e toccarmi ovunque, mi hanno detto che ero una “bella passerotta giovane”. Mi sono sentita male, malissimo, tanto da piangere per tutto il tragitto».
«Sono una barista riminese. Un alpino ha provato a leccarmi sulla bocca mentre prendevo un ordine al tavolo, uno ha mimato un atto sessuale mentre mi giravo per sparecchiare. Un altro mi ha spinto in modo da farmi sedere sulle sue ginocchia. I commenti neanche li conto perché sarebbero troppi».
«Sono stata insultata per tutta la giornata, io rispondevo a tutti perché sono fatta così e mi faccio rispettare. Sino a che uno di loro è stato particolarmente pesante, io inizio a insultarlo, lui mi prende e mi dà uno schiaffo facendomi cadere».
«Ero arrivata al punto che dovevo tenermi la borsa per proteggermi il sedere e mettermi il braccio davanti al seno. Successivamente siamo andate a Marina centro, in una stradina interna siamo state seguite da tre signori sulla sessantina che ci urlavano quanto fosse possente il loro membro… un carabiniere li ha fatti allontanare. Al ritorno, ero da sola, benché al telefono con un amico: mi ha fermata uno di loro per chiedermi come raggiungere la ruota panoramica, si è presentato e quando ho dato la mano per salutare me l’ha presa e attirata contro il suo membro, io l’ho spintonato e mi sono messa a correre verso casa».
«Ci riprendevano col telefonino e commentavano: quanto siete puttane, se potessimo scoparvi».
Testimonianza di una receptionist: «dodici alpini che volevano portarmi in doccia con loro: e non so come sarebbe finita se non fosse intervenuto il mio collega, maschio».
«Per tre giorni mi hanno detto di tutto. Se mi sporgevo per passare i piatti in cucina mi sentivo urlare “che sport fai per avere questo bel culo?”».
«Sono entrata in un bar alle 8 di mattina e tre alpini ubriachi mi hanno accerchiata. Hanno iniziato a tirarmi per la giacca e a toccarmi. Nessuno intorno a me ha detto niente».
«Ero in bicicletta, mi hanno fermata e hanno cercato di farmi entrare in un capannone».
«Si muovevano in branco, si sentivano forti della penna nera in testa e hanno potuto fare quello che volevano senza che nessuno dicesse niente».
«Avevo la mascherina e hanno cominciato a gridarmi di toglierla. Poi sono passati ai commenti fisici: avevo una giacca larga e loro mi hanno toccato la pancia chiedendomi se ero incinta. Mi sono divincolata e ho dovuto farmi spazio con i gomiti per riuscire a liberarmi. Allora mi hanno gridato che sono “frigida”. Mi hanno lasciata in pace solo perché è entrata un’altra ragazza e si sono spostati verso di lei».
Le testimonianze di questo tenore sono più di 150 e sono state raccolte dalle donne di Non Una di Meno che già avevano raccolto denunce in occasione di un altro raduno nazionale degli alpini tenutosi a Trento.
Le reazioni “istituzionali”, come sempre accade in queste circostanze, sono semplicemente desolanti. Per il Ministro della Difesa, Guerini, i comportamenti denunciati «sono gravissimi», ma «sarebbe sbagliato fare generalizzazioni». Manca la frase rituale sulle “poche mele marce” ma prima o poi arriverà.
Il sindaco di Rimini, che non si è accorto proprio di nulla, non lui e nemmeno le forze dell’ordine, parla di “sfida vinta” con riferimento agli incassi.
Salvini, vabbè, lui sta con gli alpini: sono voti, quelli.
Per raschiare il fondo del barile bisogna però andare alla presa di posizione dell’Associazione Nazionale Alpini, il cui presidente, Sebastiano Favero, ha rilasciato le seguenti perle:
«Ho chiesto se ci fossero state denunce. La risposta è stata negativa. È chiaro che se ci sono denunce circoscritte e circostanziate prenderemo provvedimenti, ma al momento non ne risultano. Vogliamo i fatti». E dunque: no stupro, no fatti. Ma soprattutto: «Ci sono centinaia, se non migliaia, di giovani che pur non essendo alpini, approfittano della situazione e a costoro, per mescolarsi alla grande festa, basta infatti comperare un cappello alpino, per quanto non originale, su qualunque bancarella».
I soliti infiltrati. Molti.
Ecco, una domanda a Favero andrebbe posta. Perché mai tutti questi infiltrati, porci, violenti, maleducati, ubriaconi, molestatori seriali, cultori della “bella passerotta” da palpare e inseguire per strada, si sono precipitati proprio a Rimini? Quale ambiente pensavano di trovare lì, a un raduno nazionale degli alpini? Perché lì e non, invece, a un raduno nazionale delle ACLI?
Forse perché in un posto in cui circola un Ape Car con la scritta “Viva la gnocca”, o è esibito uno striscione “Arrivano gli alpini, f**a a nastro”, o dal palco si scandisce lo slogan “Stiamo sempre sulle cime, ma quando scendiamo a valle, attente ragazzine”, l’infiltrato respira un’aria di casa, avverte una certa disponibilità ambientale.
Chi scrive è cresciuto da ragazzo in una zona pedemontana dove aver fatto il servizio militare nel corpo degli alpini era ed è considerato un merito, ed è stato testimone diretto di almeno due raduni nazionali dell’ANA. Dunque non ha nulla contro gli alpini. Ma ricorda bene una delle canzoni che venivano talvolta cantate a quei raduni, e una strofa in particolare: «Quando che ci fu la guerra / contro l’Inghilterra e insieme alla Germania / le vulve fuggivano “zigando” Viva l’Italia e gli alpin». Ecco.
Concludo con una considerazione. Vorrei che fossero gli uomini, soprattutto gli uomini, a imbestialirsi per quello che è accaduto a Rimini. Perché è giunta l’ora di marcare la distanza da questo branco di maschi stronzi. Senza alcuna ambiguità.
Peter Freeman è giornalista (a il manifesto dal 1988 al 1999, poi collaboratore di altre testate e di Rai Cultura e Rai Storia)
(Facebook, 10 maggio 2022)
di Fabrizio Filice
Men on men è il titolo di un’antologia di letteratura gay americana e oggi suona beffardo, paradossale.
Il Patriarca di Mosca, nel manifestare l’appoggio del clero alla guerra contro l’Ucraina, ha voluto dire che è giusto mandare uomini a uccidere altri uomini perché bisogna assolutamente evitare che uomini amino altri uomini.
Uno degli elementi portanti di questa guerra, come delle altre, sta tutto qui: nel potere degli uomini, o meglio, nel potere secondo gli uomini; che è poi l’unica forma di potere che conosciamo dall’inizio dei tempi, risalente probabilmente al Neolitico quando, con i primi insediamenti stabili, gli uomini iniziano a tessere alleanze tra loro per difendersi dalla natura, equivocata – per ignoranza – come una forza ultraterrena, terrifica e spaventosa; tanto che per esorcizzarne la paura l’uomo inizia a imitarla, almeno per come lui la intende, cioè come una forza oppressiva.
Inizia ad essere, l’uomo, oppressivo a sua volta sull’altro uomo e la prima connotazione di questo soggiogamento originario, che fonda la struttura oppressiva della società patriarcale, è probabilmente di carattere sessuale.
Sono le donne le prime vittime di quel soggiogamento, diventano mezzi di scambio e di alleanze tra villaggi diversi, nasce la patrilinearità.
Il seguito lo conosciamo.
La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l’inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo? si chiedeva provocatoriamente Carla Lonzi nel profetico, e inascoltato, Sputiamo su Hegel nel 1970.
La misoginia, l’odio verso le donne e verso l’alternativa che potrebbero rappresentare, l’odio verso il loro corpo capace di creare la vita e l’intolleranza verso ogni forma di sessualità e di genere che devii dal paradigma eterosessuale non sono determinate dal desiderio di preservare la coppia eterosessuale nella sua dimensione ideale, ma nella sua dimensione storica, integralmente sbilanciata a favore dell’uomo, del suo io virile e bellico, e del suo modo oppressivo di gestire il potere.
Uomini sono i leader che decidono le guerre, uomini sono i soldati come i chiamati a resistere: un ordine di mobilitazione generale firmato dal governo resistente di Kiev impedisce infatti a tutti gli uomini adulti di lasciare il Paese, perché devono restare e combattere, da uomini.
Come uomo rivolgo a me stesso, e a tutti gli uomini, una domanda: davvero vogliamo questo? Davvero siamo questo?
Se non è così allora c’è una sola cosa da fare e in fretta. Promuovere in modo forte e consistente una radicale transizione verso il potere femminile, superando le resistenze, le ritrosie, spesso le ilarità, che si affacciano ogniqualvolta si parla di leadership femminile e degli strumenti per ottenerla, come le quote di rappresentanza in tutti i contesti gestionali, pubblici e privati; quote di rappresentanza femminile, non di genere in senso neutro, perché la finta neutralità di un sistema a vocazione tutta maschile è il problema.
Si obietta: che garanzia abbiamo che sarebbe diverso, che sarebbe meglio?
Nessuna. Non si hanno garanzie quando si sostituisce un ordine convenzionale con un ordine nuovo. Ma quando l’ordine convenzionale giunge a un passo dal provocare la fine atomica dell’umanità, quando quell’uomo che ha voluto dare lui, da solo, inizio alla storia è prossimo a decretarne la fine, allora la priorità è smantellarlo, quell’ordine millenario; e affrontare con speranza e motivazione la sfida del nuovo.
(il manifesto, 10 marzo 2022)
di Stefano Sarfati Nahmad

Tra i tanti uomini che soffrono perché sono stati lasciati da una donna, quelli violenti che la uccidono, quelli che la perseguitano sui social network, quelli che banalmente vanno in depressione, ce n’è uno che ha fatto pubblica autocoscienza scrivendo su un muretto in piazza San Babila: «Io insieme a lei ero un uomo!»
Mi piace vedere quella scritta come una poesia dove nel primo verso c’è la vita com’era prima: «Io insieme a lei». Bello, tondo, solido. «Io insieme a lei»: soggettività, rapporto duale, differenza sessuale. Così era la vita prima.
Il muretto scende e cambia inclinazione: «Ero un uomo». Via la differenza sessuale, via il rapporto duale e, come in un effetto domino, via l’uomo.
Ma l’uomo che non è più un uomo prende lo spray e scrive la sua poesia sul muretto.
C’è dunque vita (e pensiero) nel post-uomo?
(www.libreriadelledonne.it, 3 dicembre 2021)
Le nuove maglie da gioco delle Zebre promuovono il messaggio ideato in collaborazione con l’associazione Maschi Che Si Immischiano
Parma, 28 settembre 2021 – Anche per questa stagione si rinnova il sostegno delle Zebre Rugby a Maschi Che Si Immischiano, l’associazione di Parma nata per coinvolgere gli uomini contro la violenza di genere.
Grande novità di quest’anno sarà la scritta “UOMINI CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE – MEN AGAINST VIOLENCE ON WOMEN” che campeggerà in italiano e in inglese sulle maglie da gioco prodotte dal partner tecnico Macron ed indossate dal XV del Nord Ovest nei due prestigiosi tornei internazionali United Rugby Championship ed EPCR Challenge Cup.
“Il nostro impegno è nel passaparola, a km 0, diffondendo il messaggio che per combattere la violenza bisogna cambiare una cultura che ci portiamo addosso, anche inconsciamente, che si basa su stereotipi, pregiudizi, mancato rispetto della libertà e dei diritti delle donne – recita il comunicato di Maschi Che Si Immischiano –. Siamo orgogliosi che le Zebre Rugby abbiano accettato, subito, di inserire nelle proprie maglie una frase che richiami questo drammatico, spesso tragico, argomento”.
Il rugby diventa così un veicolo importante per trasmettere quei valori a cui, tutti, dobbiamo tendere: giocatori, testimonial in quanto uomini, fratelli, compagni, mariti, padri, ma anche tifosi e tifose.
“Anche alle donne vogliamo ricordare che non sono loro quelle sbagliate, ma gli uomini che in tanti modi le considerano un loro possesso e che uscire dalla violenza si può – conclude il comunicato dell’associazione di Parma –. Questa nuova campagna, ricamata addosso, è una meta importante; speriamo che altre squadre e altri sport possano seguire questo esempio, che vede le Zebre Rugby, unica società ad avere stampata sul cuore dei suoi atleti, parole di speranza”.
Le Zebre Rugby sono felici e orgogliose di fare squadra con Maschi Che Si Immischiano e confidano che anche altre squadre e atleti possano aderire a quest’importante campagna.
di Leonardo Caffo*
Si dice spesso che esistono vari tipi di maternità, raramente che questo è vero anche per le paternità. L’evento a cui ho partecipato al Tempo delle Donne, credo abbia fatto emergere anche questo: la differenza tra padri separati e non separati, celebri e non celebri, presenti e non presenti, pentiti e non pentiti, fragili e meno fragili. C’è un’importante questione culturale in gioco: cosa significa essere padri oggi in Europa, trovando orrido chi ancora usa termini assurdi tipo «il mammo». In Europa, perché è uno dei pochissimi luoghi dove il femminismo e la cultura anti-patriarcale hanno fatto breccia, e oggi perché è anche il primo momento della storia dove gli intellettuali che parlano dell’inferiorità delle donne nelle loro teorie sono una rarità da epurare e non un lungo elenco di padri della storia da glorificare come Aristotele, Wilde, Nietzsche, ecc.
È in questa cornice che un dialogo sulla paternità è reso possibile senza sarcasmo, senza accuse di assenza di virilità, ma anzi come questione urgente: della paternità si deve discutere sempre di più, e il tema del femminismo oggi non è mostrare l’emancipazione delle donne e la loro indipendenza economica (che spererei di dare per scontata) – o concentrarsi sul passato con altre forme detestabili di linguaggio come «la cancel-culture»– ma osservare la paternalizzazione e la dimensione della cura di coloro che per millenni hanno invece beneficiato dei meschini vantaggi del patriarcato, orientare dunque l’etica al futuro. Essere padre è un’esperienza estetica straordinaria e faticosa che per troppo tempo ci siamo persi, delegando con trazione biologica (perché questa dimensione esiste anche se va combattuta!) ogni atmosfera genitoriale reale alla madre e credendo che il ruolo del padre fosse diverso… ma diverso da cosa? Rispetto a quali stereotipi ci stavamo muovendo? Crescere i figli, invece che delegare e basta, è faticoso, ma questa fatica se vissuta intensamente è il miglior viatico rivoluzionario del cambiamento di postura morale nei confronti del mondo: si sconfiggono così tante cose, alla luce del ridimensionamento della genitorialità, che lo spazio malinconico delle donne in casa mentre gli uomini fanno la guerra scompare. Se bisogna tutti occuparsi dei figli facendo centinaia di notti in bianco, a fare la guerra, posso assicurarlo… non ci va più nessuno.
*filosofo e scrittore
(Corriere della Sera, 19 settembre 2021)
di Giulia Siviero
Riproponiamo questo articolo del 2018 perché è esemplare nel modo in cui espone un caso di femminicidio, raccontando la storia della donna uccisa e rendendo giustizia ai suoi desideri e progetti di vita, e perché dà conto delle parole di uomini che dimostrano di aver capito e di aver saputo scegliere.
La redazione del sito
«Secondo lei è stato un femminicidio?». È la prima domanda che mi rivolge Loredana quando arrivo nella piazza del castello di Tenno, un paese in provincia di Trento. Loredana è la mamma di Alba Chiara Baroni, una ragazza di 22 anni uccisa lo scorso 31 luglio a colpi di pistola da quello che era stato il suo fidanzato per sei anni, Mattia Stanga, 24 anni, che poi si è suicidato. Il caso è tornato su Repubblica e poi sulle pagine di altri giornali nazionali qualche settimana fa perché Gianluca Frizzi, che era il sindaco di Tenno, si è dimesso a causa di una complicazione su una stele dedicata ad «Alba Chiara, vittima di femminicidio».
La storia di Alba Chiara ha a che fare con le dinamiche di un piccolo paese di montagna, dove esistono stereotipi e pregiudizi vecchi e radicati, e dove in questa vicenda il dolore – per quello che è successo e per le persone coinvolte – si è tenuto tutto insieme e a tratti si è sovrapposto. Ma ha anche a che fare con le dinamiche più tipiche della violenza contro le donne, di come viene mal raccontata e spesso negata o messa in dubbio, nei discorsi da bar così come in tv e sui principali giornali nazionali: si privilegia il colpevole anziché la vittima, li si mette sullo stesso piano, si giustifica tutto in nome “dell’amore”, si mostra indulgenza verso le ragioni del femminicida tacendo le aggravanti, come la premeditazione: con il rischio di confondere la situazione, infierire sulle vittime e impedire che la parola femminicidio – con tutto il senso simbolico, politico e sociale che porta con sé – venga pronunciata.
A Tenno vivono circa duemila persone, sparse in otto frazioni che salgono lungo la montagna da cui si vede il Garda, dal castello fino al lago: il “lago azzurro” a cui si arriva attraverso una lunga scalinata medioevale e che è frequentato da molti turisti. Alba Chiara Baroni era nata lì, aveva frequentato l’istituto Depero di Rovereto, si era diplomata disegnatrice orafa alla Scuola d’Arti e Mestieri di Vicenza, era stata capitana della squadra di hockey di Riva del Garda e lavorava in un hotel. Aveva 22 anni. Mattia Stanga faceva parte da anni del corpo dei Vigili del fuoco, per cui era maestro degli allievi, e lavorava come dipendente in una cartiera. «Per le donne qua», mi racconta Massimo Baroni, papà di Alba Chiara, «non ci sono molte opportunità, se non quelle di lavorare nel settore alberghiero: eppure Alba Chiara aveva studiato, e faceva la pittrice. Di Mattia si è scritto che era istruttore dei Vigili del fuoco, che era un operaio specializzato, che era stato ad Amatrice e anche dal Papa. Di lui abbiamo letto tutto questo, addirittura che era stato dal veterinario a portare un cagnolino e che quando gli avevano detto che non c’era niente da fare lui era tornato a casa piangendo. Di lei abbiamo letto solo che era una barista».
Massimo Baroni ha 47 anni. Lui e Loredana si sono conosciuti al cinema guardando Dirty Dancing e stanno insieme da una vita. Mi dice che continua ad avere «un flash nella mente», che pensa spesso a un articolo che aveva letto qualche anno fa su un caso di femminicidio: «Sul giornale si diceva che quella donna faceva la barista, che aveva la minigonna e un top: leggendo sembrava che fosse sua la colpa di essere stata ammazzata».
Alba Chiara Baroni e Mattia Stanga stavano insieme da sei anni, si conoscevano fin dalla scuola materna (lui, nella classe dei “grandi”, era stato assegnato proprio a lei per guidarla nella nuova scuola): dovevano andare a vivere insieme, ma da mesi avevano delle difficoltà. Lei lo aveva lasciato, ma aveva anche scelto di non rendere ufficiale e definitiva questa decisione finché alcuni problemi di salute in famiglia che c’erano in quei mesi non si fossero risolti. Il 31 luglio Alba Chiara aveva raggiunto Mattia Stanga dopo il lavoro nella casa in cui lui viveva con i genitori, e che a quell’ora non c’erano. Intorno alle 13.30 i vicini sentirono gli spari: lui, che aveva il porto d’armi sportivo e che due ore prima aveva comprato una nuova pistola, aveva sparato quattro colpi. «Dieci minuti prima ero con loro», dice Baroni. Ed è il momento più difficile del suo racconto: «Avevo raggiunto Alba Chiara per fumare una sigaretta con lei, dopo pranzo, come facevamo spesso. C’era anche Mattia. Abbiamo parlato di tante cose, lui era normale. Sono andato via. E da quel momento non so più niente».
Che Alba Chiara Baroni e Mattia Stanga avessero dei problemi, e che lei lo avesse lasciato, non è una parte della storia che è circolata molto. Nella ricerca che ho fatto prima di arrivare a Tenno, l’ho trovata su un unico giornale locale, e solo di passaggio; in paese non se ne parla. La versione principale è che quello che è accaduto sia stato «una disgrazia»: come una calamità naturale, un disastro senza responsabili.
In qualche modo è l’impressione che ho anche dal prete di quei posti, Franco Pavesi, che sta lì da diciotto anni. Lui vive nella piazza di Varone, il paese che sta ai piedi di Tenno: ci sono il bar dove da metà mattina si beve un bicchiere di bianco, la posta, la banca, il supermercato, l’asilo, la chiesa e una grande casa parrocchiale con la bandiera della pace appesa fuori. Franco Pavesi ha studiato teologia a Vienna ed è stato missionario in Ecuador («dove ho lasciato il cuore»). All’inizio non lo riconosco perché non si veste normalmente da prete. Lui ha celebrato i funerali sia di Alba Chiara che di Mattia. Ci sediamo nel suo appartamento, sorride molto, ma fatica a parlare apertamente: «C’è stato molto clamore, grazie a Dio nessuno è venuto a chiedermi niente, lei è la prima».
Pavesi, il prete, mi dice che la gente di Tenno sa come sono andate le cose e che nessuno le mette in dubbio. Mi racconta che conosce bene le due famiglie, che Alba Chiara e Mattia erano felici, che «qualche volta il parroco è il primo a sapere le cose, qualche volta l’ultimo» e che «comunque stavano per andare a vivere insieme». Non pronuncia mai la parola femminicidio, non dice che si erano lasciati, quando parla dell’assassinio usa frasi generiche come «ha fatto quello che ha fatto» e dice che non bisogna giudicare (durante il funerale di Mattia ha parlato del “libro della vita” citato nell’Apocalisse dicendo che la parte finale del suo libro «Mattia la sfoglierà da solo davanti a Dio»). Mi parla anche dei giovani del posto e del catechismo; quando gli chiedo se sia intervenuto in qualche modo per rendere comprensibile ai bambini quello che è successo e di cui tutti parlavano, mi dice di no. «Sono sincero, non ci abbiamo pensato».
«Se tu prendi un bambino e gli chiedi qual è la differenza tra il funerale di Alba Chiara e quello di Mattia, lui ti risponderà nessuna. Non abbiamo voluto accentuare il dolore, la famiglia di Mattia è innocente, non sarebbe stato umano», dice Massimo Baroni, il padre di Alba Chiara. «Però non c’è stata alcuna differenza». Inizialmente circolava persino l’ipotesi che i funerali venissero celebrati insieme, quello dell’assassino-suicida e quello della vittima, poi si è deciso diversamente e le due cerimonie si sono svolte una il giorno dopo l’altra, in due chiese diverse. Loredana – che considerava «Mattia come un figlio, veniva quotidianamente a mangiare da noi, e la sera prima di quel 31 luglio mi aveva chiamata per sapere quando sarei stata dimessa dall’ospedale dicendomi “Domani organizziamo una grigliata tutti insieme”» – ha chiesto addirittura e nonostante tutto che sulla tomba di lui fosse messo il cappello da Vigile del fuoco, come gesto di commemorazione e di riconoscimento. In chiesa c’erano anche i suoi colleghi in divisa, che hanno portato sulle spalle la sua bara.
In quei primi giorni la confusione era di tutti, conferma l’ex sindaco di Tenno Gianluca Frizzi: e Mattia Stanga e Alba Chiara Baroni, in quanto morti entrambi, sono stati in qualche modo messi sullo stesso identico piano. «Abbiamo fatto saltare i protocolli. Per Alba Chiara non è stato indetto il lutto cittadino e in un primo momento anch’io ho fatto degli errori non facendo immediatamente alcuna distinzione tra i due ragazzi». Ma aggiunge: «Eppure i Vigili del fuoco salvano le vite, non le tolgono».
Né lui né i genitori di Alba Chiara si aspettavano però che quella storia non venisse più rimessa in ordine. Non si aspettavano che il legittimo dolore di tutti diventasse indifferenza per la responsabilità, né che il bisogno di ricordare chi fosse stata l’unica vittima in quella vicenda faticasse così tanto a essere riconosciuto: «Non si tratta di fare una gerarchia del dolore, qua si parla di un’altra cosa, ma in pochi l’hanno capito», dice Frizzi. Lui, direbbe qualcuno, è molto poco istituzionale: capelli rasati, cappellino, tatuaggi e molta schiettezza. Spiega le cose in modo esuberante, usa gli aneddoti delle sue montagne, ricorre spesso al dialetto, mi chiama “madame”, e dice le sue verità in un modo talmente semplice e diretto che non si può far altro che prenderle tutte intere.
Dopo la morte di Alba Chiara in paese è stata organizzata quella che hanno definito la “serata del dolore”. Ci si aspettava molta partecipazione, ma come rappresentanti delle istituzioni c’erano solo il sindaco e tre consiglieri. Loredana mi chiede di scrivere esplicitamente che «non c’era nessuna donna del consiglio comunale» (l’assessora Giancarla Tognoni – che incontro più tardi – mi ha detto che aveva un altro impegno perché quel giorno era anche quello della giornata mondiale delle api; un’altra assessora, Valentina Bellotti – che ho sentito al telefono – mi spiega che aveva già comunicato la sua assenza per precedenti impegni). Alla serata si è arrivati dopo un percorso: cioè dopo che Gianluca Frizzi, insieme ai genitori di Alba Chiara, aveva partecipato a diversi incontri sulla violenza contro le donne. «Ma venivano fatti discorsi che qui non avrebbero capito: come posso chiamare qua Paolo Crepet o Umberto Galimberti? Non solo non abbiamo i codici per capirli, ma loro parlano pure in italiano e non li capiremmo. Qua serviva dell’altro: e allora abbiamo deciso di far parlare le persone che la cicatrice ce l’hanno sull’anima tutti i giorni e che devono convivere con l’assenza».
La posizione di Gianluca Frizzi è chiarissima: «Qua è successa una cosa sconvolgente, e bisogna solo fermarsi. Tutti possono soffrire, ma non tutti sono sullo stesso piano: è questo che le istituzioni dovevano stabilire. E c’è solo una cosa da dire: lei è stata uccisa da lui. La comunità doveva prendere coscienza che certe cose sono inaccettabili, che lui è morto, ma ha fatto una scelta, lei no. Se non vieni da un altro pianeta, qua funziona così: non si decide di nascere, si è affidatari di una cosa che si chiama vita. Lui si è eretto a padrone della vita: finché è padrone della sua va bene, ma ha deciso anche per lei e questo è inaccettabile». E ancora: «Dicevano “poverini tutti”, i genitori di lei, di lui. E io dicevo no, poverina Alba Chiara. Poi continuavano a ripetere che Mattia era un bravo ragazzo, insistevano sul fatto che fosse un bravissimo istruttore dei Vigili del fuoco. E va bene. Ma se il migliore di loro ha fatto quella cosa, sono andato dal comandante e gli ho detto: ma con gli altri, come siamo messi? Insomma, mi spiego? Che cosa avrei dovuto fare? Intestargli la caserma? Scherziamo? Era un bravo ragazzo, sì. Ma fino a quel 31 luglio».
All’inizio, continua Frizzi, «ho negato alla famiglia di Alba Chiara la richiesta di varie manifestazioni, perché era troppo presto, la comunità era ancora fragile, come neve al sole. Ma non volevo che il silenzio del rispetto diventasse il silenzio dell’indifferenza. A marzo ho cominciato a insistere per mettere una stele pubblica, in tempo per il 20 maggio, il giorno del compleanno di Alba Chiara». Di fronte alla decisione da prendere sono iniziate le difficoltà.
La proposta della stele è arrivata prima in giunta, poi in un consiglio comunale informale dove erano emerse delle prudenze e infine, dopo uno stallo che ha spinto Frizzi a dimettersi, di nuovo in giunta. La stele in memoria di Alba Chiara era considerata da alcuni un simbolo divisivo: probabilmente perché ricordava che Alba Chiara era stata uccisa, che non era morta per una disgrazia e che qualcuno prima di uccidersi l’aveva uccisa. «Mi è stato detto che se i simboli sono usati per dividere allora non sono un bel ricordo. Ma non c’è un simbolo al mondo che unisca tutti: seguendo questa logica avrei dovuto togliere la targa dei partigiani che hanno sparato dopo il 25 aprile perché qua ci sono quattro famiglie di fascisti. Nel caso di Alba Chiara sono convinto che una divisione, un solco tra vittima e carnefice, andasse tracciato: fino al centro della terra. Mi è stato anche proposto di mettere una cosa generica, poi mi è stato detto che come sindaco potevo decidere anche da solo di fare la stele o che si poteva autorizzarne una privata. Ma qui non c’è niente di generico, la stele serve sia come ricordo che come monito. Ma soprattutto, non c’è niente di privato. Quel solco lo dovevamo fare noi tutti, collettivamente, come istituzione, perché la questione è sociale. Quello di Alba Chiara è stato un femminicidio e sulla stele c’è scritto in due lingue: in italiano e pure in inglese».
Le assessore che ho incontrato e con cui ho parlato, Giancarla Tognoni e Valentina Bellotti, dicono che in realtà nessuno era contrario alla posa della stele in sé: la richiesta, spiegano, era di aspettare per capire quali fossero le modalità e i tempi più opportuni. Bisognava insomma almeno attendere la chiusura del procedimento penale, ma le indagini erano chiuse dal settembre 2017 e restavano solo i tempi tecnici perché gli atti venissero resi pubblici: la famiglia di Alba Chiara, tra l’altro, li aveva già inviati alla famiglia Stanga. Ma il consiglio comunale, mi hanno detto le assessore, non ne era stato informato.
Al di qua dell’incastro dei tempi, la questione dell’attesa non convince per niente i genitori di Alba Chiara: lo considerano un pretesto e l’hanno messo accanto alla poca solidarietà che sentono di aver ricevuto in paese, oltre ad alcuni discorsi che circolavano sia tra le persone che sui giornali e che lasciavano intendere come la loro figlia fosse in qualche modo colpevole di ciò che era accaduto: “Se non l’avesse lasciato…”, “Chissà che cosa ha fatto per provocare un gesto del genere…”, e così via. Mi dicono che «il giorno dei morti il prete ha nominato Mattia ma non Alba Chiara», e che «non c’è stata alcuna reazione al cimitero. Si stavano dimenticando tutto e nessuno ha alzato la testa». Mi raccontano di essere stati criticati per aver parlato con i giornali e per aver reso pubblico il progetto di creare un progetto contro la violenza sulle donne a nome di Alba Chiara (realizzata poi con il sostegno della fondazione Famiglia Materna di Rovereto e di cui si possono trovare informazioni qui). Mi dicono, anche, di aver dovuto leggere «di tutto».
In un’intervista del 4 agosto del 2017, Ivo Stanga, che a quel tempo era assessore di Tenno con deleghe all’agricoltura e alla caccia e che era anche lo zio di Mattia, negava ci fosse stata premeditazione nel femminicidio, nonostante la pistola comprata due ore prima, e diceva: «Non avevamo avuto alcun sentore di problemi tra i due ragazzi, tra loro non c’erano screzi, erano attaccati uno all’altro praticamente sempre. E si amavano […] Non è stato il vero Mattia a premere il grilletto. È stato qualcosa uscito dal nulla che ha armato la sua mano». La richiesta di attendere è stata poi descritta da qualche giornale locale come «un pensiero comprensibile tra chi non può e non vuole dimenticare in un giorno l’altro protagonista di questa tragedia, Mattia. Per chi l’ha visto crescere pensarlo capace di quel gesto è stato difficile, soprattutto dopo averlo visto per anni fare il volontario e aiutare tanta gente dentro e fuori la valle con la divisa dei Vigili del fuoco».
Loredana e Massimo raccontano di aver ricevuto risposte molto articolate per giustificare l’attesa della posa della stele: «Una persona ci ha spiegato che a Berlino non è stato messo per anni nessun simbolo dell’Olocausto: e questo perché servono anni per metabolizzare. Quindi era troppo presto. Era una questione di tempi». Non so se sia vera, la storia di Berlino, ma ascoltare quelle giustificazioni, lì davanti a loro, mi sembra una cosa senza senso. Quello che pensa e dice Loredana segue infatti altre logiche: non c’entrano né la burocrazia né i passaggi formali. Mi parla della sua famiglia e di come con quella di Mattia si siano sempre frequentati: «Siamo sempre andati da loro. Anche dopo, e per entrare in quella casa c’è voluto tutto il mio coraggio. Ho anche chiesto di poter andare al funerale di Mattia e al funerale sono uscita dal banco e sono andata a dare la mano alla Claudia, la mamma di Mattia. Anche quando ci siamo trovati dagli avvocati, seduti su quelle sedie che girano, era con loro che parlavo, non con gli avvocati». Ma dagli avvocati, dice, «ci siamo sentiti dire di tutto. Hanno negato che fosse femminicidio. Che chissà che cosa aveva fatto lei a lui. Ci siamo sentiti dire molte frasi così».
Secondo Frizzi, il punto vero è che hanno cominciato a prevalere i “ma”: «Sì, lui ha ucciso lei, ma chissà perché, chissà che cosa lei gli aveva fatto. La verità è che qua i nonni sono quelli che picchiavano le loro mogli per legge e che i loro figli sono quelli hanno visto abrogare il delitto d’onore solo nel 1981. C’è il desiderio di voler nascondere, di voler nascondere tutto, è su questo che si è giocata la partita: sul voler dimenticare e non sul voler ricordare, sulla deresponsabilizzazione di tutti e non sul fatto che in questa storia abbiamo perso tutti».
Sui giornali locali è circolato anche il fatto che c’erano già degli attriti all’interno del consiglio comunale, e che non avevano a che fare con la stele. Frizzi dice però che non poteva accettare che «su questioni così delicate si andasse sotto la soglia della dignità. Il 23 maggio mi sono dimesso, sono arrivati i giornali, le televisioni e penso che questo sia servito. La commissione pari opportunità del Trentino mi ha sostenuto: ha espresso solidarietà e apprezzamento civico, ha scritto che non si dovrebbe nemmeno sottolineare che questo riconoscimento non ha nulla a che vedere con i sentimenti di vendetta nei confronti degli assassini. Eppure lo si è dovuto sottolineare. Arrivati a quel punto è diventato più difficile tenere la parte per chi usava la questione dell’attesa come pretesto. Ho forzato la mano, mi sono dimesso, e poi con il sindaco reggente, dopo tutto questo casino, la stele è stata approvata: tutti a favore con una sola astensione, quella di Ivo Stanga, lo zio di Mattia, che dopo il voto si è dimesso».
La stele, comunque, ancora non c’è. Restano dei problemi sul luogo dove posizionarla: «Nel primo posto che avevamo scelto ci è stato detto che tutti i giorni passava il trattore del nonno di lui, il secondo posto che ci piaceva era troppo turistico… insomma non si sa ancora dove sarà messa. Ormai il compleanno di Alba Chiara è passato e non abbiamo più così tanta fretta, ma a oggi non c’è ancora stato l’incontro che ci era stato promesso con le assessore del consiglio comunale. Evidentemente la questione femminicidio non è tra le priorità, si cerca di anestetizzare tutto, di non disturbare nessuno, e ci troviamo noi, con la poca forza che ci resta, nella condizione di dover sollecitare», dice Massimo Baroni.
Aurora Baroni, la sorella di Alba Chiara, è stata ad ascoltare in silenzio per tutto il tempo: ha 19 anni, ed è riuscita a rientrare nella stanza in cui dormiva con la sorella solo poche settimane fa. Massimo e Loredana mi raccontano che a un certo punto è arrivata loro la notizia che sul “muro delle bambole di Milano” – un posto dove vengono ricordate le vittime di femminicidio anche se in un modo non del tutto condivisibile, dato che le donne sono rappresentate, appunto, come bambole – c’era anche la foto di Alba Chiara: «Perché loro hanno potuto usare quella parola e noi è come se avessimo dovuto chiedere il permesso per farlo?». E hanno ragione: quello di Alba Chiara è stato un femminicidio. La parola non indica solamente il sesso della persona che è morta, ma anche il motivo per cui è stata uccisa. Perché si rifiutava di comportarsi secondo le aspettative che gli uomini hanno sulle donne, secondo le aspettative che quel ragazzo aveva su di lei. Alba Chiara e Mattia non sono morti «uno accanto all’altra», nessuna mano divina è arrivata da fuori ad armare un’altra mano innocente. E dire questo, o «dare il giusto nome alle cose, non significa negare il dolore a nessuno», conclude Frizzi. «Qui c’è una sola vittima: Alba Chiara. E chi ha premuto il grilletto è stato lui. Fine della storia».
(ilpost.it, 27 giugno 2018)
di Arthur C. Brooks
Mio padre era un uomo generoso e gentile, ma spesso di umore cupo. Era afflitto da problemi grandi e piccoli, dal destino del mondo all’acqua in cantina.
Ricordo di averlo visto sinceramente felice due volte. La prima, quando ha cominciato a svolgere un secondo lavoro come autista di autobus perché il solo stipendio da insegnante non era sufficiente a soddisfare le necessità della nostra famiglia. La seconda qualche anno dopo, quando ha deciso di migliorare la sua carriera, ancora una volta per il bene della nostra famiglia, prendendo un dottorato di ricerca. In entrambi quei periodi era esausto e sopraffatto dal lavoro. Ma sorrideva e rideva più del solito e sembrava non curarsi dei piccoli fastidi e dei grandi dilemmi che normalmente lo deprimevano. Ricordava quei tempi con vera tenerezza.
Mi è sempre sembrato paradossale: era meno felice quando era meno oppresso dal pensiero dei soldi e aveva più tempo libero, ed era più felice quando faceva più sforzi. Questo paradosso però ha una spiegazione e contiene un segreto di felicità per i padri, i padri potenziali e anche per tutti gli altri.
Esigenze economiche e sociali
Molti studi dimostrano che in molte aree del mondo industrializzato gli uomini hanno meno figli e diventano genitori in età più avanzata, ancora più di quanto accada alle donne. Questo è vero soprattutto nel caso di uomini molto istruiti. Indubbiamente queste decisioni sono al tempo stesso il riflesso di un’economia che richiede un’istruzione più elevata e dei costi altissimi per ottenerla, sia per i (potenziali) genitori sia per i loro (potenziali) figli.
Ma probabilmente dipendono anche dal fatto che oggi ritardare il momento in cui si diventa genitori o ci si rinuncia del tutto è una cosa socialmente più accettabile che in passato. Quando ero piccolo mio padre una volta disse con disinvoltura (esprimendo un commento che mi aveva fatto provare un certo nervosismo): «Negli anni sessanta non ho mai pensato che si potesse scegliere di non avere figli». Oggi non c’è niente di particolarmente strano se un uomo (o una qualsiasi persona adulta) compie una scelta di questo tipo.
Non opponete resistenza al lavoro e alle rinunce che la paternità comporta
La paternità, come la maternità, richiede sacrifici evidenti in termini economici e sociali. Dal punto di vista del bilancio della felicità, però, le prove a favore sono molto forti: per l’uomo medio la paternità è al netto di tutto una grandissima fonte di benessere. In una ricerca pubblicata sulla rivista Psychological Science nel 2012, gli studiosi hanno scoperto che i genitori sono più felici, provano più emozioni positive e danno più senso alla vita rispetto a chi non è genitore, cosa particolarmente vera nel caso dei padri.
Un altro gruppo di ricercatori ha scoperto nel 2001 che gli uomini che vivono con i figli piccoli (o che hanno figli grandi) provano una maggiore soddisfazione nella vita e sono meno esposti al rischio di soffrire di depressione rispetto agli uomini senza figli o che vivono separati dai figli piccoli.
Oltre a essere più felici, gli uomini con figli lavorano molto di più degli uomini senza figli, anche se il loro tempo tende a essere limitato dalla vita di famiglia. Secondo la ricerca del 2001, gli uomini che vivono con i figli lavorano in media 6,6 ore in più alla settimana rispetto a quelli senza figli e due ore in più rispetto a quelli che non vivono con i loro figli. E tuttavia l’impatto dei figli sul tempo libero non sembra preoccupare particolarmente la maggior parte dei papà: al contrario, secondo una ricerca del 2016 del Boston College, i padri millennial hanno molte più probabilità di affermare “le mie condizioni di vita sono eccellenti” rispetto a chi non è padre.
Una spiegazione plausibile per questi schemi di dati è che gli uomini felici che lavorano sodo sono anche quelli che hanno maggiori probabilità di diventare padri. Ma credo che una spiegazione altrettanto plausibile sia che il duro lavoro finalizzato al prendersi cura di chi amiamo generi felicità. Una conclusione coerente con le tante prove su quella che gli psicologi definiscono helper’s high (l’euforia di chi aiuta), ossia la sensazione di benessere che sperimentiamo quando ci sacrifichiamo per gli altri. In una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications gli studiosi hanno dimostrato che i partecipanti a un esperimento sul dono si sentivano molto più felici quando si comportavano in modo altruistico. Sacrificarsi per gli altri, soprattutto per quelli che amiamo di più, è come una droga naturale della felicità.
Rinunce e riconoscimento
Questo spiegherebbe il paradosso che ho visto in mio padre. Ovviamente l’euforia di chi aiuta può essere travolta quando le persone si addossano carichi più pesanti di quelli che possono sopportare. Esiste moltissima letteratura sulle difficoltà che i membri di una famiglia devono affrontare quando si occupano di persone care con bisogni particolari o attraversano momenti di ristrettezze economiche. In situazioni normali, però, quando abbandoniamo le nostre zone di comfort in cui ci prendiamo cura di noi stessi e cerchiamo invece di metterci al servizio degli altri possiamo trovare una grande felicità.
Dalla ricerca sulla paternità e il sacrificio emergono tre lezioni sulla felicità. Primo, se volete diventare padri, mettete da parte le esitazioni. Le analisi dei dati dovrebbero aiutare a sfatare la paura comune che la paternità avrà al netto di tutto un impatto negativo sul benessere di un uomo. L’idea che restare senza figli e spensierati sia più soddisfacente è in media sbagliata. Tutti hanno esperienze di paternità diverse e questo dipende da molti fattori, tra cui la qualità della relazione tra genitori. Tuttavia, a parità di condizioni, la paternità è un ottimo investimento in termini di felicità.
Secondo, non opponete resistenza al lavoro e alle rinunce che la paternità comporta. Spesso provo risentimento quando le responsabilità familiari mi trascinano via dalle mie priorità personali che, a differenza di quanto accadeva a mio padre, di solito implicano il desiderio di lavorare di più. Tuttavia il risentimento non è una buona guida alla felicità e la quattordicesima ora trascorsa in ufficio non vale la prima ora a casa. Se, come me, a volte vi irritate per il fatto di dover essere dei genitori, provate con la strategia del “segnale opposto”: quando siete infastiditi all’idea che gli obblighi familiari stiano incidendo sui vostri desideri personali, prendetelo come un segnale del fatto di dovervi concentrare di più, e non di meno, sulla famiglia.
È evidente che alcuni rischiano di esagerare, sacrificandosi oltre ogni limite razionale. Altri padri non si sacrificano affatto per i loro familiari, o li maltrattano. Ma se un padre è un bravo genitore, merita di saperlo, il che ci porta alla terza lezione: l’euforia di chi aiuta è fantastica, ma potete rendere il vostro papà ancora più felice riconoscendo il modo in cui si è messo al servizio della vostra famiglia e ringraziandolo per questo.
Da molti studi emerge con chiarezza che dimostrare il vostro apprezzamento probabilmente contribuirà a migliorare il vostro rapporto e vi renderà più felici. Forse avete il genere di papà che non apprezza questo tipo di riconoscimento – «Che diavolo pensavi che avrei fatto, che vi avrei lasciato morire di fame?». Non importa. I ringraziamenti saranno comunque registrati e vi aiuteranno entrambi.
Tutti questi consigli offrono una guida per la paternità, ma non è detto che la renderanno più semplice.
(The Atlantic, Stati Uniti-Internazionale, 25 giugno 2021; Traduzione di Giusy Muzzopappa)
di Christian Raimo
La coincidenza quasi disgustosa di due dibattiti paralleli di questi giorni – quello sul processo per stupro per Ciro Grillo e i suoi amici a Porto Cervo polarizzato dal video di Beppe Grillo e quello della calendarizzazione della legge Zan – mostrano un vuoto teorico clamoroso: la riflessione sul maschile, e sulla violenza del maschile.
Un articolo del 2005 di Diotima ricordava il solco fondamentale del pensiero della differenza:
«La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare» (Luce Irigaray).
Il femminismo giuridico – lo vogliamo far cominciare almeno con Olympe de Gouges? – non ha prodotto in Italia una minima alfabetizzazione che sia utilizzata nel dibattito pubblico? Chi si prende questa responsabilità? Alla fine di Femminismo giuridico (2019) c’è una bibliografia di almeno cento autrici, qualcuno le ha lette? Le ha insegnate a scuola?
Questa differenza non solo continua a non essere pensata (figuriamoci discussa), ma continua a non esserne capita nemmeno l’impostazione teorica. Nel 2014 Luisa Muraro doveva per l’ennesima volta rispiegare le basi di una prospettiva teorica:
«La differenza non è tra. Essa è in me, mi è interna e immanente, mi impedisce di identificarmi con quella che sono, mi mette in relazione con quella che non sono. Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamata donna, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio».
Oltre la relazione teorica iniziale con Derrida e Lacan (che misinterpretano alle volte in modo clamoroso la novità teorica di questa prospettiva) sulla differenza in senso filosofico, quello che ha prodotto il pensiero della differenza nel contesto femminista sembra non aver toccato quasi per nulla la riflessione sul maschile. Eppure sono passati cinquant’anni.
Eppure la decostruzione di Irigaray di una tradizione del pensiero fallogocentrico sarebbe sembrata a chiunque si occupi di discorso pubblico il primo passo per affrontare il tema di quello che chiamiamo patriarcato.
Il pensiero della differenza ci lascia bibliografie preziose come L’ordine simbolico della madre, e oggi non abbiamo a disposizione – nel guardare il video di Grillo – una riflessione minimamente paragonabile rispetto al maschile e al paterno (da Zoja a Recalcati troviamo delle fenomenologie, al meglio descrizioni storiche, facciamo prima a rivolgerci a Zambrano).
Anche qui, persino nella prima metà del Novecento sembravano esserci stati dei pensatori che ci avevano aiutato a uscire da quello che non sapevamo ancora chiamare patriarcato e che chiamavamo almeno ontologocentrismo: dal Rosenzweig della Stella della redenzione a Levinas di Totalità e infinito o Altrimenti che essere, il riconoscimento dello sguardo dell’altro come principio di soggettivazione:
«Noi chiamiamo Volto il modo con cui si presenta l’Altro a me […] questo modo non consiste nell’assumere, di fronte al mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il Volto dell’Altro distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia nella mia mente».
Il femminismo continua a darci ogni giorno esempi di riflessioni e pratiche rispetto alla costruzione di una soggettivazione situata, e rispetto al maschile non riusciamo minimamente a concepire la fecondità di un pensiero della differenza rispetto a questo tema così cruciale dal punto di vista politico? Come è possibile che Ciro Grillo possa accettare un ordine simbolico del padre che lo definisce “un coglione in mutande” senza prendere parola?
Come è possibile vedere nell’atteggiamento di Grillo solo il familismo amorale e persino la comprensione rispetto al dolore di un padre?
Come è possibile che Simonetta Sciandivasci scambi la presa di parola pubblica di Non una di meno, “Sorella io ti credo”, per una dichiarazione di colpevolezza già comminata? In Non credere di avere diritti (1987, la prima pubblicazione, 2017 la riedizione) si esamina l’importanza della filosofia della differenza legata a una sfera del diritto solo apparentemente universalistica.
Davvero Gipi ha fatto una vignetta così scema, dopo aver scritto uno dei più bei romanzi sul maschile in LMVDM, misconoscendo che non è la parola pronunciata da una donna in sé che va creduta in sé, ma l’importanza della “sorellanza”? Ossia di un confronto di esperienze, pratiche, riflessioni su di sé. Il personale è politico significa esattamente che non può esistere riflessione che non comprenda una relazione e una relazione significativa, e un pensarsi come differenza in questa relazione.
È lo iato tra uno vale uno rispetto a una vale molte.
Cosa ne viene alla riflessione sul maschile? Potrebbe essere molto: il riconoscimento di una non aderenza tra sé e l’idea di sé, tra la propria soggettivazione e il proprio corpo sessuato, una nuova riflessione sulla fratellanza o sullo sguardo del padre, per esempio. Non è chiaramente un campo inesplorato, ma lo è molto soprattutto dal punto di vista sociologico, pochissimo dal punto di vista filosofico. Anzi l’idea stessa di un pensiero della differenza del maschile sembra a molti una forzatura.
Qualcuno potrebbe trovare feconda una riflessione teorica che declina al maschile le parole di Muraro?
«Essa è in me, mi è interna e immanente, mi impedisce di identificarmi con quello che sono, mi mette in relazione con quella che non sono. Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamato uomo, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio».
E questo non vuol dire abolire una dialettica fertile tra differenza e universalismo. Vuol dire finalmente attraversare quella dialettica, a partire però dalla critica delle tradizioni filosofiche che hanno al centro le identità.
Così veniamo, brevemente, alla questione complessissima del ddl Zan. La legge appare, come ribadisce spesso Giorgia Serughetti in maniera chiara un ottimo compromesso al rialzo; o come scrive Ida Dominijanni riconosce pure nel suo pezzo critico:
«Questa legge, si dice, colma un vuoto: nomina e riconosce gay, lesbiche, transessuali come soggetti particolarmente vulnerabili, dunque meritevoli di una tutela specifica, e codifica come specifiche fattispecie di reato la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi discriminatori basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (casistica poi allargata anche al sesso e al genere), aggiungendole alle analoghe fattispecie su base razziale, etnica e religiosa previste dalla legge Mancino. L’intenzione, ovviamente del tutto condivisibile, è antidiscriminatoria ed egualitaria, e punta a realizzare “quella pari dignità che la costituzione riconosce a ciascuna persona”, oltre che ad allineare la legislazione italiana a una risoluzione contro l’omotransfobia del parlamento europeo»
Qual è il rischio di questa legge? Che sia inutile. Non solo per quello che scrive Dominijanni: non è utile pensare di compensare un vuoto politico con un pieno giuridico. Le leggi su stupro e aborto furono compromessi, ma partivano da eccedenze che oggi non si vedono. Oppure sì? C’è sicuramente una sensibilità sociale che sta cambiando molto in fretta – e per fortuna – sulle discriminazioni di genere; dargli una dignità normativa potrebbe essere non solo il minimo riconoscimento, ma anche fertile di un attivismo politico?
Quello che continua a non cambiare è un dibattito pubblico in cui la riflessione sul maschile e la violenza del maschile non si riduca a un’imitazione quasi grottesca della pratica femminista, tipo gli uomini con le mascherine rosse contro la violenza di genere. Meritiamo tutt* di meglio.
La fecondità simbolica della differenza sessuale rimane ancora una promessa.
(minima&moralia.it, 27 aprile 2021)
Introduzione
Scisma non più silenzioso
La lettera che segue avrebbe dovuto essere spedita alla stampa per l’8 marzo di quest’anno. Non lo abbiamo potuto fare per le ragioni a tutte/i note.
Le sottoscrizioni in calce alla lettera, che servivano come presentazione per il lancio della raccolta firme, squadernano una molteplicità di posizioni.
Ciò è un dato rilevante; evidenzia che la “vertenza” che sollevavamo non è confinabile al mondo cattolico. Essa pone una questione trasversale. Le rappresentazioni del femminile elaborate e dispensate dalla chiesa cattolica, infatti, hanno effetti performativi non solo su cattolici/che, ma si estendono a latitudini ben più ampie. La fenomenologia con cui la Chiesa cattolica romana si relaziona alle donne è determinante sul piano dell’economia dei beni simbolici, un’economia trasversale e diffusa, incardinata in un impianto patriarcale e in una ideologia androcentrica. Le altre istituzioni/comunità religiose ne sono comunque (in misura varia) tutte affette.
Nel lasso di tempo trascorso abbiamo avuto modo di confrontarci con molte donne anche in origine non firmatarie. Lo scambio rinnovato di idee è stato molto fecondo, ha rafforzato la condivisione del testo della lettera e la decisione di diffonderla, consentendoci anche di sciogliere alcuni nodi che vogliamo qui esplicitare.
1. Essa è un monito, non un lamento vittimistico. In quel documento è scritto che non ci sarà pace senza una profonda conversione del clero riguardo all’iniquità con cui esso ha agito nei confronti delle donne. Con ciò la lettera istituiva l’evidenza di un fatto che nella nostra libertà affermiamo. Se la chiesa non affronta teologicamente e operativamente e con coerenza questo nodo, non taceremo il
perseverare nell’insincerità e nella mancanza di credibilità. Se la chiesa cattolica teme uno scisma al suo interno -per le manovre squallide ordite dal conservatorismo- dovrebbe pure interrogarsi dell’eventualità di uno scisma da parte delle donne. Finora, in Italia, ha avuto i caratteri di un movimento silenzioso, benché in crescita. Non siamo per ora fautrici di strappi, ma della nostra sete di giustizia importa a qualcuno?
2. La elencazione di frasi ingiuriose che ci sono state riservate (sezione minima di un “patrimonio” sconfinato) designa un passato che pesa e che non passa; la cui memoria non va cancellata né ignorata voltando pagina. Crediamo che solo a partire dalla assunzione responsabile di queste affermazioni i rappresentanti del potere clericale maschile possano prendere coscienza di questa triste “archeologia” che li ha plasmati. Se le frasi non sono più citate, non per questo i sintomi da esse provocate sono scomparsi – come sa qualsiasi persona che conosca i rudimenti di psicanalisi. Per depotenziarle, dovrebbero essere assunte ed elaborate. Solo ripercorrendo l’origine e il cammino del mysterium iniquitatis si potrà addivenire a una autentica prassi redenta, visibile nei suoi effetti, a comportamenti che nell’autentico sentire e agire diano prova di non temere le donne e di comprendere il valore e la potenza spirituale di quello “stare di fronte” reciproco, espresso in Genesi 2,18.
La lettera non è una monade irrelata. Per noi è una “testata d’angolo” (Sal.118,) e nello stesso tempo un granello di senapa (Mc. 4,31), da cui vorremmo nascesse un interrogarsi, un confrontarsi, un relazionarsi..un divenire che non possiamo prevedere. Tra le prossime tappe pensiamo a un convegno, cui si potrà partecipare e insieme edificare, nella condivisione della sete di giustizia e nella gioia della Ruah!
La pace nel mondo non può fare a meno delle scuse alle donne
da parte delle gerarchie ecclesiastiche
Lettera aperta
Non sono donne atee, anticlericali o agnostiche, coloro che hanno promosso e sottoscritto questo testo; bensì donne credenti, donne che hanno orientato la loro coscienza verso una spiritualità semplice e al tempo stesso aperta al soffio della Ruah, donne assetate di verità e giustizia, in ricerca di orizzonti di fede sempre più profondi e dilatati, donne che credono e praticano – nell’umiltà, ma anche nel coraggio della testimonianza – la sororità e la fratellanza umana di cui Gesù è stato testimone lungimirante.
È alla questione della presenza delle donne nella Chiesa che vogliamo riferirci: non è affatto una richiesta di spartizione di potere, di cooptazione all’interno del sistema clericale attuale, ma è, invece, la questione dell’assunzione nei fatti della centralità delle relazioni, cui rinvia l’enunciato fondativo: “Maschio e femmina li creò”.
Le relazioni tra donne e uomini dentro la Chiesa sono da molto tempo malate, perché intrise di stereotipi ingessanti a proposito delle donne: visioni svilenti, che ne deformano l’immagine negandole integrità. Da tali premesse il disvalore del femminile è logica conseguenza. E non ci si risponda che la Chiesa venera Maria, la quale sarebbe superiore a tutti gli apostoli, e quindi con essa venera tutte le donne; perché è la persona incarnata che va rispettata, le donne in carne e ossa, non la loro trasfigurazione immaginaria. Di quanto “l’esaltazione ideale della donna sia servita a coprire la sua insignificanza storica” abbiamo fatto – ahimé – una millenaria esperienza.
Il Vangelo aveva parlato un’altra lingua: quella del discepolato di uguali, per dirla con la famosa espressione della teologa Schüssler-Fiorenza; il messaggio evangelico è testimonianza di libertà per donne e uomini. Nella chiesa cattolica sono state istituite – e ne siamo sostenitrici – le Giornate Mondiali della Pace. Si auspica la pace, ma si riconosce contemporaneamente la contraddizione di un mondo che predica la pace invocandola però sulla base di relazioni false, intrise di sfiducia/diffidenza reciproca. Ma c’è una contraddizione ancora più originaria. Come mai non si coglie che la prima radice di una relazione di sottomissione, il primo nucleo fondante dei rapporti
di dominio risiede nelle relazioni donna/uomo?
Non ci sarà pace senza questa consapevolezza e senza una profonda conversione.
Sono maturi i tempi, dunque, per un ritorno al messaggio evangelico e perché la Chiesa faccia ammenda dei suoi errori storici. Prendiamo atto dei primi passi compiuti:
Nel 1992 Giovanni Paolo II ha riabilitato Galileo Galilei riconoscendo che «fu un errore condannare Galileo…. [che] ebbe molto a soffrire – non possiamo nasconderlo – da parte di uomini e organismi della Chiesa».
Nella “giornata del perdono” del giubileo del 2000 il papa ha chiesto perdono per gli sbagli commessi con i tribunali dell’Inquisizione; in quella occasione ha citato le donne, ma è stato solo un irrilevante cenno: «preghiamo per le donne troppo spesso umiliate ed emarginate».
Nel 2018 papa Francesco ha chiesto scusa per il comportamento della Chiesa nei confronti delle vittime dei preti pedofili: «Alcune vittime si sono alla fine addirittura tolte la vita. Queste morti pesano sul mio cuore come sulla coscienza dell’intera Chiesa».
Tutte queste prese di posizione sono passi encomiabili. Tanto più l’ultimo, che non si è limitato ad essere un generico atto di contrizione, ma è diventato operativo nel riconoscimento del diritto delle vittime e dei tribunali statali, per riportare la giustizia condannando i colpevoli e risarcendo le vittime.
Proprio in quanto donne di fede crediamo sia venuto il tempo, ora, perché la gerarchia della Chiesa cattolica chieda scusa alle donne, dei secoli passati e del tempo presente. Essa non ha mai smentito né ha preso le distanze da affermazioni ingiuriose di Padri della Chiesa, Apologeti cristiani o Santi, frasi che si attestano su questo tenore:
«Quanto a me, penso che le relazioni sessuali vadano radicalmente evitate. Penso che nulla avvilisca lo spirito dell’uomo quanto le carezze di una donna e i rapporti corporali che fanno parte del matrimonio» (Agostino, Soliloquia I, 10,17).
«Non sai, donna, che anche tu sei Eva? In questo mondo è ancora operante la condanna di Dio contro il tuo sesso; è necessario che duri anche la condizione di accusata […]Tu sei la porta del diavolo! Sei stata tu a circuire colui che il Demonio non era riuscito a raggirare! Tu hai distrutto l’immagine di Dio, l’uomo! A causa di ciò che hai fatto, il Figlio di Dio è dovuto morire!» (Tertulliano, De Cultu Feminarum, I,1-2).
«La moglie sarà salvata se genera dei figli che rimarranno vergini, se quel che lei stessa ha perduto lo recupera nei suoi discendenti e se la caduta e la corruzione della radice è compensata dal fiore e dal frutto» (Girolamo, Adversus Jovinianum 1,27; P.L.XXIII,260).
«L’uomo è nato dalla donna! Non c’è nulla di più abietto» (San Bernardo, Sermo in Feria IV° Hebdamodae Sanctae, 6, SBO V, 60).
«Rispetto alla natura particolare, la femmina è un essere difettoso e manchevole. […] Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un seme prefetto simile a sé di sesso maschile. Il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da disposizione della materia» (San Tommaso, Summa Theologica I,92, I, ad I).
Non possiamo non menzionare ciò che esponenti ufficiali delle Chiese hanno scritto, detto e compiuto contro le cosiddette streghe. Un florilegio di retorica misogina è il Malleus Maleficarum (nel 1484 il Papa Innocenzo VIII emanò la bolla Summis Desiderantes Affectibus con cui dava mandato a due inquisitori tedeschi di redigere un Corpus di sentenze per combattere la stregoneria). Dell’opera riportiamo questo brano, perché non deve essere lasciato in ombra:
«Ma poiché nei tempi moderni questa perfidia si trova in modo più frequente nelle donne che negli uomini, possiamo aggiungere che, siccome le donne sono difettose di tutte le forze tanto dell’anima quanto del corpo, non c’è da meravigliarsi se operano molte stregonerie contro gli uomini … infatti esse sembrano appartenere a una specie diversa da quella degli uomini…; la ragione naturale è che essa è più carnale dell’uomo, come risulta da molte sporcizie carnali. Si può notare che c’è come un difetto nella formazione della prima donna, perché essa è stata fatta con una costola curva, cioè una costola del petto ritorta come se fosse contraria all’uomo. Da questo difetto deriva anche il fatto che, in quanto animale imperfetto, la donna inganna
sempre… già nella prima donna è evidente che per natura ha minor fede: infatti al serpente che le chiedeva perché non mangiassero da tutti gli alberi del paradiso, già con la sua risposta si rivelava in dubbio e senza fede nelle parole di Dio. E tutto questo è già nella etimologia. Infatti femmina viene da “fede” e “meno”, perché ha sempre meno fede e la serba di meno.
…Sebbene infatti sia stato il diavolo a indurre Eva a peccare, fu Eva a sedurre Adamo, e siccome il peccato di Eva non ci avrebbe portato alla morte dell’anima e del corpo se non fosse seguita la colpa di Adamo, indotto da Eva e non dal diavolo, perciò la donna è più amara della morte».
Questi
non sono che frammenti di un sistema simbolico e di una economia
teologica kyriarcale molto più vasta e pervasiva, un impianto tanto
potente e agente nel profondo per cui farne una decifrazione
richiederebbe un intero volume – e forse non basterebbe.
Sui
pronunciamenti di questo tipo non occorrerebbe dare segni di
conversione? Non è forse attraverso questo gesto che si
dischiuderebbero le condizioni di possibilità di una convivenza
basata sul riconoscimento reciproco di pari dignità? «Ce lo hanno
insegnato Nelson Mandela e Desmond Tutu con i processi sulla verità,
la giustizia e la riconciliazione in Sud Africa: è l’ammissione
della violenza compiuta da parte di chi l’ha esercitata che lascia
libere le vittime e permette loro di
parlare e ricominciare a vivere.» (Letizia Tomassone, Violenza e giustizia di genere nelle chiese protestanti, in Paola Cavallari, a cura di, Non solo reato anche peccato. Religioni e violenza contro le donne, Effatà, 2019).
Nel quadro di tale economia teologica kyriarcale, sintetizziamo brevemente alcune violazioni gravi di cui il clero maschile si è macchiato (con la complicità a volte di donne consacrate) nei confronti del sesso femminile:
Ha escluso per secoli la donna dal riconoscimento di essere Immagine di Dio, poiché l’imago Dei era attributo esclusivamente riservato all’uomo.
Ha strutturato attraverso i secoli una visione culturale della donna che ha gravemente nuociuto alle relazioni tra uomini e donne, legittimando con il carisma del sacro (è un disegno divino, si è detto per secoli) i rapporti di dominio e sottomissione che caratterizzano le culture patriarcali.
Ha spesso usato e sfruttato il lavoro delle donne consacrate come lavoro schiavo, senza riconoscimento economico e sociale.
Ha esercitato (non sappiamo quanto, perché tutto è coperto dal segreto) abusi spirituali, di coscienza e sessuali.
Ha contribuito, con la demonizzazione del corpo femminile e la costruzione dell’immagine della “donna tentatrice”, a legittimare la visione per cui sono le donne le responsabili degli atteggiamenti molesti/abusanti dei maschi.
Ha voluto controllare nei dettagli la sessualità e il corpo femminile, ignorando la sfera del desiderio sessuale femminile e mai mettendo in discussione le forme autoreferenziali e non interattive della sessualità maschile.
Non ha preso distanza radicale nei confronti del consumo della pornografia e della prostituzione, attraverso una messa in discussione profonda della sessualità maschile.
Non ha ancora intrapreso una seria riforma della liturgia, del linguaggio pastorale e catechetico, che riconosca la soggettività delle donne.
Non ha fatto ammenda di traduzioni dei Testi Sacri intrise di pregiudizio patriarcale.
Perpetua una visione squilibrata del rapporto uomo/donna attraverso l’esclusione delle donne
non solo dai ministeri, ma anche da tutte le sedi decisionali all’interno della Chiesa.
Riconoscere tali frasi ingiuriose sarebbe un primo passo, soprattutto se non fosse una semplice dichiarazione di principio, ma si accompagnasse ad atti concreti e ad un inizio di collaborazione con le donne impegnate a porre un argine, attraverso la generazione di una nuova visione culturale, al drammatico fenomeno delle violenze contro le donne e ai femminicidi.
Questa lettera con le firme di chi la sottoscrive sarà inviata al Presidente della Conferenza episcopale. Ed in seguito alla stampa e ai siti.
Le donne che, pur non essendo credenti, ritengono tuttavia che il simbolico religioso sia stato e sia determinante nella costruzione delle relazioni inique tra i sessi sono caldamente invitate ad unirsi a noi. Ringraziamo tutte.
Per comunicazioni e adesioni potete scrivere a cavallaripaola1@gmail.com
Prime
firmatarie:
Paola Cavallari – Osservatorio interreligioso sulle
violenze contro le donne – O.I.V.D.
Carla Galetto – gruppi
donne Comunità di Base- CdB
Doranna Lupi – gruppi donne
Comunità di Base- CdB
Paola Morini – Osservatorio
interreligioso sulle violenze contro le donne – O.I.V.D.
Nota: Della Lettera aperta, inviata al presidente della CEI Cardinal Gualtiero Bassetti, ha dato notizia “il manifesto”, 31 maggio 2020, con un articolo di Luca Kocci, https://ilmanifesto.it/e-ora-che-la-chiesa-cattolica-chieda-scusa-alle-donne/ (Ndr)
(www.libreriadelledonne.it, 1° giugno 2020)
di Lucetta Scaraffia
Care amiche e cari amici,
giriamo l’intervento intitolato “Meditazione del venerdì”, pubblicato sull’ultimo numero di Una città, in cui Lucetta Scaraffia affronta il problema della crisi che attanaglia la chiesa cattolica in seguito allo scandalo della pedofilia, coperto per decenni dalle gerarchie ecclesiastiche di ogni livello. Lucetta Scaraffia ha fondato e diretto, dal 2012 al 2019, il mensile “Donne Chiesa Mondo” allegato all’Osservatore romano, la prima testimonianza di voce femminile libera in quel mondo. Nel 2019, dopo avere denunciato gli abusi sessuali sulle religiose da parte dei sacerdoti, Lucetta è stata costretta alle dimissioni insieme a tutta la redazione.
La redazione di Una città
I lettori dei vangeli sono ormai consapevoli di un fatto innegabile, ma paradossalmente rimasto per secoli ignorato: durante la Passione sono state le donne, le discepole insieme con la madre Maria, a non abbandonare Gesù, a resistere davanti allo spettacolo straziante della sua sofferenza e alla paura di venire coinvolte nella condanna. A parte l’eccezione di Giovanni. Questo legame fra le donne e la Passione è rimasto vivo nei secoli: le stigmate, segnale concreto di condivisione dell’immensa sofferenza di Gesù, sono un fenomeno quasi esclusivamente femminile. Nei secoli pare avere coinvolto solo due uomini, Francesco d’Assisi – ma su questo gli storici non sono concordi – e padre Pio. Come se le donne, più forti e lucide nel comprendere e condividere la sofferenza degli altri, fossero in grado di condividere anche quella del Figlio di Dio. Ma non si è trattato solo di una esperienza vissuta, si è risvegliata in loro anche la capacità intellettuale di coglierne la portata ontologica. Mentre la Chiesa, attraverso il lavoro teologico e giuridico dei suoi più alti esponenti, si è dedicata ad analizzare il male morale – quello che attiene alla libera scelta e alla responsabilità di ciascuno – una numerosa pattuglia di mistiche ha osato affrontare il male ontologico, quello che esiste anche se non viene attivato dall’azione umana, quello che non si può attribuire ad uno o più esseri umani. È stato solo un uomo, il mistico san Juan de la Cruz, ad attraversare questa notte oscura del male, dell’assenza di Dio. Invece questo incontro con il male inteso come notte oscura, come vuoto senza Dio, l’hanno vissuto molte mistiche come Teresa di Lisieux o, secoli prima, Hadewijch di Anversa e Margherita Porete.
Si tratta di un tema emerso con forza particolare nel Ventesimo secolo, periodo storico in cui abbiamo creato e realizzato l’inferno, un inferno così terribile da sembrare quasi senza autore, senza nome, tanto che l’abbiamo battezzato con un termine neutro, shoà. Un inferno che è emerso come impensabile, come mysterium iniquitatis. Ed è proprio in questi anni terribili, dal 1941 al 1946, che alcune donne mistiche, non tutte battezzate, hanno avuto la forza di guardarlo e di attraversarlo, ognuna in modo diverso ma tutte con la forza di chi vuole cercare e trovare Dio anche in questo buco nero, in questa notte oscura. La forza di chi non vuole vedere in questo male la morte di Dio. Per alcune di loro – Simone Weil, Etty Hillesum, Marie Noël, Edith Stein, Adrienne von Speyr, Chiara Lubich – questa capacità insieme intellettuale e visionaria è nata dall’esperienza dei riti pasquali, dalla meditazione sulla Passione. Si tratta di una condivisione della Passione che si estende dal venerdì santo al sabato santo, alla discesa agli inferi. La mistica che racconta con la maggiore consapevolezza questa esperienza, cioè che la vive come un vero e proprio accompagnamento a Gesù nella discesa agli inferi, è Adrienne von Speyr, che così lo descrive “È il mistero senza fondo del sabato santo, perché il Figlio non può cercare il Padre nell’amore, lo cerca dove non c’è. L’inferno è impensabile, Mysterium iniquitatis.”
In questi giorni di paura e di isolamento di fronte ad un male senza nome – nonostante i molti tentativi di trovare un “colpevole” del contagio – possiamo comprendere con maggiore facilità questo concetto. Oggi, se vogliamo raffigurarci un sabato santo, un segnale dell’esistenza del mysterium iniquitatis, dobbiamo pensare allo scandalo degli abusi nella chiesa. Uno scandalo che la sta corrodendo all’interno, con l’effetto di renderla impermeabile alla voce dello Spirito. Come spiega lucidamente Hanna Arendt, la menzogna consiste nella deliberata volontà di trattare verità di fatto come se fossero opinioni, e come tali trascurabili o modificabili a proprio piacimento, al fine di accreditare una teoria che con quei dati cozza. La menzogna, scrive sempre Arendt, è il grande tentativo di far tornare i conti in una realtà in cui i conti non tornano mai. In questo caso ciò che viene violato non è tanto il precetto morale, quanto il tessuto ontologico della realtà, generando effetti perversi. I provvedimenti presi sugli abusi dalla Chiesa finora non sono assolutamente sufficienti a contrastarlo, anche perché spesso non diventano prassi concreta. Il vero scandalo non sono tanto gli abusi in se stessi – come sappiamo questo tipo di abusi abominevoli si verifica anche nelle famiglie, nelle scuole, nelle società sportive… ovunque un adulto (in prevalenza di sesso maschile) può approfittare di una posizione di potere nei confronti di un essere più debole di lui – ma le modalità in cui sono stati, e purtroppo sono tuttora, coperti, manipolati, insabbiati. Questo mettere in pratica in mille modi l’ingiustizia, l’alleanza contro il debole, con l’evidente appoggio dell’istituzione stessa, ha costituito per i fedeli una scoperta terribile e sconcertante, e ha contribuito a distruggere l’immagine della Chiesa anche davanti al mondo, anche davanti a chi, pur non confessandosi cristiano, la rispettava. Si tratta di un male dilagante, ma del quale non si capiscono bene i responsabili: sono i vescovi, i regolamenti, la congregazione della fede, o un clima generale di rilassamento morale? Si tratta di un male grave che si allarga a macchia d’olio, che produce altro male attraverso la fondata certezza di godere dell’impunità, un male che proprio per la sua vastità e la sua indeterminatezza è difficile da sradicare. Non basta cercare di far risalire il piatto della bilancia mettendo in evidenza tutto il bene che fa la Chiesa: fare del bene è la sua stessa ragione di esistere, la normalità, non può essere considerato un merito. Il cristianesimo è costruito sulla memoria e l’esempio della vittima per eccellenza, Gesù: non può mettere a tacere la voce delle vittime, pena la caduta in una totale perdita di credibilità. Quello che può essere compreso, e finanche alla fine perdonato, se si tratta dell’errore di un singolo, non lo può più essere per un’istituzione speciale come la Chiesa. La fragilità umana, la debolezza, la caduta che possono essere perdonate di fronte ad un vero pentimento, non hanno nulla a che vedere con il comportamento tollerato per lungo periodo – anzi, ad essere sinceri suggerito se non imposto – da una istituzione. Ormai è evidente che gli abusi sui minori sono stati in larga misura coperti dall’istituzione Chiesa anche quando denunciati, con operazioni di depistaggio, corruzione, e spesso anche vere e proprie minacce. E che ancora adesso, per esempio, se pure papa Francesco ha abolito il segreto pontificio sugli atti relativi a queste denunce, la Congregazione della dottrina della fede non concede l’accesso alla documentazione, neppure agli avvocati di parte. Anche un documento che avrebbe dovuto chiarire una volta per tutte, almeno per l’Italia, il cambiamento del comportamento che le gerarchie ecclesiastiche dovrebbero tenere di fronte alle denunce di abuso elaborato dalla Cei, le “Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili”, è ancora vago e poco convincente. Per prima cosa, come dice la stessa introduzione al documento, queste linee non hanno valore giuridico vincolante: per averlo avrebbero dovuto ottenere il voto favorevole di due terzi dell’assemblea dei vescovi, ed evidentemente se questa votazione non c’è stata è perché c’erano seri motivi per prevedere che non l’avrebbero ottenuto. Più che un testo fondato su proposte normative nei confronti delle denunce, è un testo che parla di prevenzione, ascolto e accoglienza, riconciliazione. Il ricorso alla giustizia civile – se pure non ostacolato – viene invocato apertamente solo in una circostanza specifica, quella delle false accuse di abuso contro un prete. La parola donne non è pronunciata; si parla solo di minori – e giocoforza, lì la denuncia scatta d’ufficio – e di persone vulnerabili, cioè “in stato di infermità”. Una parte non piccola del documento è dedicata all’accompagnamento degli abusatori, per i quali l’attenzione è più alta che nei confronti delle vittime. Puntate qua e là sono rivolte contro i mezzi di comunicazione “talvolta usati in maniera strumentale contro la chiesa”, senza ricordare che è proprio grazie ai mezzi di comunicazione che sono finalmente emersi scandali occultati dalle gerarchie ecclesiastiche, come ha ricordato lo stesso papa Francesco. È evidente che siamo ancora lontani dalla pratica di una vera giustizia nei confronti delle vittime, e che soprattutto tutte le iniziative avviate dalla Chiesa per fare chiarezza non prendono mai in considerazione i vescovi, come se abusi e affossamenti fossero solo responsabilità dei semplici sacerdoti. Vorrei ricordare che proprio su quest’ultimo punto una vittima, Marie Collins, ha dato le dimissioni dalla commissione sugli abusi voluta da Francesco e presieduta dal cardinale O’Malley… La situazione è ancora più confusa e inquietante quando si tratta di donne abusate, per lo più religiose. Il numero di questi abusi è molto alto, non si tratta di qualche “mela marcia”, ma di un sistema strutturale in alcune parti del mondo, e non solo nei continenti in cui la condizione della donna è disastrosa come l’Africa e l’Asia. I sacerdoti sanno di avere l’impunità praticamente assicurata: le denunce che arrivano nei vari organismi vaticani non vengono neppure aperte, ma classificate sotto la dizione di “relazioni romantiche” e lasciate lì a coprirsi di polvere. Raramente le suore hanno la forza e il coraggio e anche i soldi per trovarsi un avvocato e denunciare l’abusatore presso la giustizia civile: qui comunque inizia un altro calvario, perché non sono dei minori, quindi devono provare l’accusa in un ambiente che parte già dal pregiudizio nei loro confronti. Tutti sembrano considerarle infrazioni contro il voto di castità piuttosto che un abuso sessuale e di potere, pronti a guardare con indulgenza i violenti colpevoli solo, agli occhi di molti, di non avere resistito alla condizione di vita asessuata che avevano scelto.
La questione degli abusi sessuali sulle donne – soprattutto religiose – è molto diversa da quella sui minori, molto più difficile da definire, più scivolosa perché si presta con facilità ad essere classificata come relazione consenziente, come semplice trasgressione al voto di castità. Proprio per questo, e poi perché l’istituzione da lungo tempo è abituata a tacitare con facilità le donne che si ribellano, le reazioni alle denunce sono così clamorosamente spietate, vera prova di forza di un potere sicuro di non venire mai smascherato. Le vittime sono sempre scelte fra le donne più deboli, numerose anche fra le religiose, e i religiosi sono loro confessori, loro superiori gerarchici, perfino loro psicologi. Nelle parole delle religiose, quando raccontano la vicenda di cui sono state vittime, il termine ricorrente è paura: sentono la forza del potere di una istituzione che è pronta a schiacciarle, e di un uomo che di solito risulta stimatissimo e apprezzatissimo nel suo ambiente, che purtroppo è anche il loro. Un uomo che per di più si propone come brillante intellettuale in un deserto culturale quale è quello della chiesa di oggi. Un esempio clamoroso e molto recente è quello di Jean Vanier. Il resoconto di una religiosa vittima che ho conosciuto è straziante: sporge denuncia canonica, ma per decidere se dare seguito all’inchiesta è sottoposta a un interrogatorio stringente da parte di tre vescovi. Una povera suora che forse non aveva mai visto tre vescovi in una volta deve raccontare fatti privati e vergognosi davanti a loro: nella Chiesa la regola, ormai praticata nei tribunali di tutto il mondo civile, per cui una donna violentata deve essere interrogata da una donna, non esiste. La reazione dei tre vescovi al racconto della suora è, a dir poco, stupefacente: “Cosa vuole, lui era innamorato… per quello si è comportato così, bisogna perdonare la sua debolezza”. Vorrei sottolineare che qui la debolezza protetta è quella dell’abusatore. Pensando forse che la suora, paga del fatto di essere riconosciuta degna di innamoramento da parte del potente religioso, avrebbe desistito. La povera donna, invece, ha capito di essere stata giocata, ma è ripiombata in una condizione di disperazione, convinta che per lei non ci sia alcuna possibilità di ottenere giustizia. Di fatto le religiose vittime sono costrette a tornare nel silenzio, avvolte dalla paura e dal dolore. Il loro tentativo di liberare la parola, di denunciare pubblicamente l’abuso a cui sono state sottoposte, finisce quasi sempre nel nulla e questo non fa che confermarle nella loro sensazione di impotenza, nel senso primario per cui le loro parole possono essere sconfessate dai potenti, che non vogliono che vengano ascoltate. La loro è una storia di abuso di potere da parte di un uomo che, per professione, ha saputo capire che erano vittime predestinate: la loro sete di amore era tale da non guardare alla qualità di ciò che veniva offerto. Mi ha colpita soprattutto la frase di una delle vittime: “Mi ha mandato una mail con gli auguri di compleanno. Non avevo mai ricevuto auguri di compleanno”. Le vittime non hanno confidenza con concetti come “predatore sessuale” o “perverso narcisista”; il seduttore maneggia le parole con una maestrìa che a loro manca completamente. Non si possono difendere. Proprio per questo, nel loro caso come in moltissimi casi in cui sono coinvolti sacerdoti o religiosi, l’abuso sessuale si presenta in modo insidioso, senza che se ne abbia chiara coscienza. È chiaramente il caso di abuso di una persona vulnerabile, e proprio per questo sono esperienze per cui la nozione di consenso va rivista, riesaminata. Se la vittima viene fatta sentire una prescelta, come può capire che è stata abusata anche se ha dato il consenso? Poi i danni saranno spaventosi, vite intere e vocazioni saranno rovinate, ma certo nessun uomo consacrato pagherà il prezzo di questo massacro umano. Davanti a questa penosa situazione, la risposta del tribunale canonico e di quello civile purtroppo in molti casi è simile: negare la vulnerabilità della vittima per rendere attendibile il consenso. Una posizione indegna soprattutto della Chiesa, che non fa che difendere – a parole – gli emarginati, i più fragili, “gli scarti”. Ma nelle donne abusate questa vulnerabilità non trova riconoscimento: le donne ritornano le tentatrici, lo strumento di Satana, capaci di far perdere la testa anche a rispettabili religiosi, che per questo vanno perdonati. La parola delle donne, lo sappiamo, non viene mai ascoltata dalle gerarchie ecclesiastiche, né quando discutono del futuro della Chiesa né quando avviano un piccolo processo per esaminare i candidati all’episcopato, e questa assenza oggi risulta veramente grave e inspiegabile, anche perché non è assolutamente giustificabile con le norme del diritto canonico. Certo, ci sono le tradizioni e le inveterate abitudini di potere, ma viene anche un sospetto: se si desse finalmente valore e autorità alla parola delle donne, nel contesto dell’apostolato ad esempio, come si potrebbe negare ogni attendibilità e valore alle religiose che denunciano gli abusi? Narrare queste storie, meditare su queste tragiche realtà, ha un senso. Siamo di fronte a trasgressioni morali di singoli individui, che però sono diventate un sistema occultato e quindi nutrito dall’impunità e dal silenzio, siamo di fronte a un male che esiste di per sé, che avvelena la chiesa dall’interno. Dobbiamo rendercene conto, dobbiamo ripercorrerlo, perché questa è l’unica via per uscirne. Come scrive il filosofo Roberto Esposito, per rovesciare il male, da lui identificato nell’ideologia nazista, per rigettarlo nell’inferno da cui è uscito “bisogna riattraversare consapevolmente quelle tenebre, rispondere, naturalmente in maniera opposta, a quanto allora fu fatto, alle domande che da esse si levano”.
Simone Weil insegna ad affrontare il male osservandolo con attenzione, Arendt scrive che è il pensiero che ci dà un metodo per stare in rapporto con il male, senza assumerlo e senza identificarsi in esso. E riassume il male con una frase fortissima: è l’incapacità di pensare dal punto di vista di un altro. Nel caso esaminato, incapacità di pensare dal punto di vista delle vittime, peccato capitale per un cristiano. La parola delle donne non viene ascoltata neppure quando progetta e realizza il bene. Perché accanto a queste storie di oppressione ci sono anche tante storie di libertà creatrice che vedono protagoniste le religiose, quelle che si muovono in uno spazio separato da quello del clero e quindi sono libere di inventare e vivere nuovi progetti di evangelizzazione. Ve ne racconto uno, uno solo, che è un grande successo di cui pare quasi che la Chiesa istituzionale non si renda conto. Dieci anni fa è nata l’associazione Thalita Kum, una organizzazione internazionale creata per contrastare la tratta degli esseri umani, in particolare donne, e che ha dato prova di grande efficacia. Oggi la rete raggruppa oltre duemila donne consacrate ed è presente in 77 paesi dei cinque continenti. Nel giugno 2019 Talitha Kum – rappresentata da suor Gabriella Bottani, comboniana italiana coordinatrice mondiale della rete – ha ricevuto uno dei più importanti riconoscimenti internazionali, il premio Trafficking in Persons Report Hero (“eroe contro la tratta delle persone”), consegnatole dal segretario di stato americano Mike Pompeo. La notizia di questo prestigioso riconoscimento è stata data durante la conferenza stampa della Uisg (Unione internazionale delle Superiori generali, ndr) dedicata a Talitha Kum: nessuno dei numerosi personaggi che si occupano di comunicazione in Vaticano ha mai pensato che fosse una notizia da diffondere nel mondo, che fosse utile a migliorare l’immagine della Chiesa. Per loro le donne non fanno parte della Chiesa, quello che conta è solo la gerarchia maschile. Le suore, in contatto fra loro nelle diverse parti del mondo, hanno cominciato a portare soccorso alle vittime e ad ascoltarle: grazie alle informazioni raccolte e messe in circolazione, sono riuscite a ricostruire i fili e le modalità di azione che sovraintendono a questo mercato di esseri umani con una chiarezza e una lucidità che manca a chi – alti prelati e nunzi – si limita a intrattenere contatti con le sfere del potere, in genere corrotte. Anche la tratta è un esempio di male totale, della quale non è possibile rintracciare tutti i veri responsabili, le vere cause, le complicità. È un esempio del mysterium iniquitatis di cui in qualche modo facciamo parte tutti: non solo il circa un milione di italiani che è cliente delle prostitute, ma anche di chi come noi le vede per le strade e passa oltre, di chi sopporta di mangiare pomodori raccolti da schiavi. Di chi, in sostanza, chiude gli occhi per non essere turbato nella sua vita quotidiana. Le religiose invece tengono occhi e orecchie aperti, raccolgono mille notizie e le trasformano in piani di salvezza. Soprattutto tengono il cuore aperto davanti alla sofferenza, se ne fanno carico. Lavorando sul territorio, hanno elaborato modalità di intervento efficaci che si basano sul coinvolgimento dei poteri locali, che possono controllare da vicino. Il loro progetto si è rivelato molto più realistico e più capace d’incidere sulla realtà di quelli avviati dagli organismi vaticani che si occupano istituzionalmente di questo dramma, anche se provvisti di finanziamenti e di una numerosa burocrazia. Ma neppure questo innegabile successo ha dato finora luogo a un ascolto di questa esperienza da parte delle gerarchie ecclesiastiche, per imparare uno stile di intervento che si è rivelato indubbiamente efficace. In occasione della prima assemblea generale di Talitha Kum, nel settembre del 2019, l’associazione ha deciso di premiare dieci religiose, provenienti da vari continenti, che hanno contribuito fin dall’origine al successo dell’iniziativa. Le premiate – Patricia Ebylulem, nigeriana; Agnes Kaulaye Trispa, tailandese; Jyoti Pinto, indiana; Eugenia Bonetti, italiana; María Isabel Chávez Figueroa, peruviana; Nicole Rivard, canadese; Ann Scholz, statunitense; Jamise Neary, dell’Oceania; Bernardette Sangma, indiana, alla memoria; Estrella Castaloner, filippina, alla memoria – vedono ancora una volta riconosciuti i loro meriti solo all’interno del mondo femminile. L’istituzione ecclesiastica guarda da un’altra parte, è assente davanti all’importanza e all’urgenza del loro riconoscimento. Le suore lavorano bene, ma come al solito in un mondo separato, come se non facessero parte veramente dell’istituzione. Questa mancanza di vera collaborazione costituisce una perdita grave per l’istituzione ecclesiastica, perché si trova così relegata nel suo mondo autoreferenziale di potere e di burocrazia, di carriere e di privilegi, in un meccanismo senza sbocchi e che di fatto finisce nell’indifferenza di fronte a una realtà così tragica. Come vedete, le donne oggi stanno al cuore della chiesa, come vittime e come salvatrici di una istituzione in crisi profonda: solo loro, ribellandosi all’ingiustizia, possono ripulire la Chiesa dal male interno che la travaglia, solo loro hanno la freschezza creativa di chi sa indicare nuovi cammini.
(Una città, numero 265, aprile 2020)
di Francesca Rigotti
Questo non è un auspicio, una visione o una profezia. È un avvertimento. Della serie che a pensar male si fa peccato, ma ci s’azzecca. Il sospetto è il seguente: che in quel futuro che va nella direzione della riproduzione artificiale in cui il corpo della donna non sarà più essenziale ma potrà essere sostituito da un contenitore, si annidi un desiderio maschile inconfessato. Quale? Quello di realizzare il sogno segreto… dell’uomo incinto, del maschio che riesce a riprodursi da solo, arrivando finalmente a dissociarsi dalla dipendenza dal corpo femminile, da usare a quel punto non anche per la creazione, ma esclusivamente per la ricreazione.
È una storia vecchia, ma sempre nuova. Quel corpo di donna che possiede il terribile potere di riprodurre la specie ha subìto quasi sempre e dappertutto due destini opposti e uguali: o l’essere dannato e denigrato in quanto capace soltanto della produzione di esseri mortali, o il venire santificato e benedetto perché in grado di generare dei. Se avete letto Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood o avete visto la prima serie (e se non l’avete fatto fatelo subito, è un ordine!) avrete capito di che cosa sto parlando. Delle donne protette e venerate e insieme segregate e umiliate affinché assolvano la funzione della procreazione (con anche un po’ di ricreazione). Oggi però siamo finalmente in grado di affermare che le donne sono (sempre state) in grado di esercitare sia la funzione fisicamente procreativa, sia quella mentalmente creativa, ovviamente se glielo lasciano fare, se permettono che siano istruite e libere e possono usare tutta la loro intelligenza, come scriveva Gramsci. Quell’intelligenza di cui sembra ci sia assoluto bisogno in questo mondo impazzito.
Gli uomini per il momento no, non posso essere creativi e procreativi. Possono essere creativi con l’ingegno, nessuno glielo nega, ma non possono essere procreativi col corpo (a parte all’inizio della storia, giusto lì, per piantare il semino). Che questo crei dei problemi? Una certa invidia? Beh, qualcosa ci deve essere sotto se nel corso della storia filosofi e biologi e teologi si sono dati da fare per negare il peso dell’elemento femminile: Aristotele, per esempio, sosteneva che l’utero fosse giusto un ricettacolo, un mero contenitore che non dava alcun contributo, alcun carattere ereditario diremmo oggi. Una specie di fornetto per cuocere il pane, come testimoniano alcuni termini che sembrano innocenti ma non lo sono, tipo la placenta, analogo di palacinka, frittatina in sloveno, e che in tedesco si chiama Mutterkuchen, la torta della mamma («Giro girotondo, il bimbo è cotto in forno…»). Ma se la donna non esercita alcun ruolo attivo nella discendenza, com’è allora che alcuni bambini somigliano alla mamma o alla nonna? Semplice: a causa dell’antichissima teoria dell’impressione, bene illustrata nella canzone napoletana Tammuriata nera. Le donne sono impressionabili, è noto, e allora la femmina napoletana che partorisce Ciro, la creatura nira nira, lo fa perché, vedendo un soldato di pelle scura, rimane sott’abbotta impressiunata, recita la canzone.
Altri elementi che ci fanno sospettare dell’invidia del parto sono i miti, per esempio quelli nei quali il padre degli dei, Zeus, si dà da fare tutto da solo, partorendo Atena dalla testa o Dioniso dalla coscia, con l’aiuto di due levatrici d’eccezione: nel primo caso Efesto con la scure bipenne (!), Hermes nel secondo, con un coltellino.
Oggi immaginiamo per il nostro futuro esseri non più umani, ma transumani. Non un po’ uomini e un po’ bestia, come le sirene e i centauri. No: esseri un po’ uomini e un po’ macchina, i cyborg. Le cose andranno meglio in quel caso? Se lo augura la pensatrice che per prima ha elaborato il tema del cyborg, corpo misto essere umano-macchina biotronica: Donna Haraway. Introducendo nel 1985 nel dibattito femminista la figura ibrida del cyborg, Haraway metteva in discussione sia la distinzione fra uomo e donna, sia quella fra essere umano e macchina, profilando un superamento della stessa condizione umana. Haraway immagina che il diventare cyborg libererà le donne dalla posizione di dee, adorate ma anche lasciate lì, a far niente. Diventando cyborg ci si sottrarrebbe al perpetuarsi, attraverso la maternità, delle strutture socio-economiche attuali e questo dovrebbe sostenere il processo di liberazione. Non male come prospettiva.
E se invece il diventare cyborg andasse in un’altra direzione, permettendo ai maschi di liberarsi infine della dipendenza femminile in questioni di riproduzione e diventare come Zeus, tutti dei? Così noi donne non saremo più dee, come si augurava Haraway; saranno i maschi ad essere felicemente dei, e a noi toccherà adorarli, private come saremo anche della maternità. Speriamo che un tale destino non ci tocchi davvero.
(Sette-Corriere della sera, 27 settembre 2019)
di Doranna Lupi
Né sesso né lavoro è il titolo dell’incontro del 15 marzo scorso a Pinerolo, realizzato nell’ambito di IO L’OTTO SEMPRE, esito di un tavolo organizzato dall’Assessora alle Pari Opportunità Francesca Costarelli con le associazioni che sul territorio si occupano di contrastare la violenza degli uomini sulle donne: E.M.M.A. Centri Antiviolenza Svolta Donna, Anlib, il Gruppo uomini di Pinerolo, Liberi dalla Violenza – Centro di ascolto disagio maschile.
Sono state invitate per l’occasione l’avvocata Grazia Villa e la storica Luciana Tavernini che, con la sociologa Daniela Danna e la costituzionalista Silvia Niccolai, hanno scritto il libro Né sesso, né lavoro. Politiche sulla prostituzione (VandA.ePublishing, 2019). Questo libro è nato dall’incontro Sulla prostituzione al Circolo della rosa presso la Libreria delle donne di Milano del 10 marzo 2018 e dall’impegno femminista di Angela Di Luciano, una delle editrici di VandA.ePublishing.
Alcune femministe hanno ripreso a ragionare sulla prostituzione per il timore di cattive leggi, nate da idee improvvisate, anche perché in Italia ci troviamo di fronte a diversi tentativi di stravolgere o soppiantare la legge Merlin, che prende il nome della senatrice socialista che ascoltò e dialogò con oltre 2000 donne prostituite nelle case chiuse. Ne è testimonianza la selezione di lettere tra quelle a lei inviate dalle ragazze delle case chiuse e ora ripubblicate. Lina Merlin, coinvolta fin da giovane nella lotta antifascista, condannata al confino, militante della Resistenza, eletta all’Assemblea Costituente (sua la dicitura “senza distinzione di sesso” nell’art.3 della Costituzione sul principio di uguaglianza), impiegò dieci anni per far varare questa legge, che non è piaciuta sin dall’inizio persino a uomini del suo stesso partito. Lei sosteneva che fosse inopportuno chiedere agli uomini le loro impressioni sulle case di tolleranza, per ovvi motivi. Silvia Niccolai argomenta come a interpretare la legge siano stati gli uomini e non lo abbiano fatto con serenità. «La legge Merlin non ha incontrato sostegno interiore negli interpreti, ma scetticismo e malsopportazione e questo ha contato parecchio nel disfarne il senso e il valore» (p. 80). Esaminando la legge e la giurisprudenza, Niccolai ha constatato come molte interpretazioni non ne hanno rispettato il vero significato, quello cioè di configurare la prostituzione come un’attività in sé lecita, ma al tempo stesso di punire tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino.
L’argomento trattato è di grande attualità. Il 6 di marzo 2019 una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato non fondati i dubbi sulla costituzionalità della legge Merlin. Otto associazioni femministe e la Presidenza del Consiglio dei Ministri si sono costituite nel procedimento dinanzi alla Consulta, opponendosi alla questione di legittimità costituzionale di alcuni articoli della legge sollevata nei mesi precedenti dagli avvocati di due imputati nel processo d’appello a Bari sulle escort portate, tra il 2008 e il 2009, dall’imprenditore Gianpaolo Tarantini nelle residenze private dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Prostituirsi è lecito, ma non lo è aiutare le persone a vendere il proprio corpo o trarre guadagni o altre utilità dalla prostituzione altrui. Resta quindi in Italia il reato di sfruttamento della prostituzione messo in discussione da chi pensa che una donna può decidere liberamente di prostituirsi e che sia una forma di autodeterminazione.
Come ben illustrato dall’accurato lavoro di Grazia Villa, nelle ultime due legislature sono state depositate 22 proposte e disegni di legge riguardanti il tema della prostituzione che, messi a confronto, rivelano un’inaspettata convergenza di opinioni sulla definizione del fenomeno prostitutivo tra esponenti di gruppi di politici diversi, per storie e genealogie spesso contrapposte, convergenza che conduce a una uniformità di giudizi e spesso di scelte (p. 127).
Le principali tra queste opinioni, condivise anche tra posizioni politiche che sembrano proporre concezioni differenti dei rapporti tra i sessi, sono: l’ineluttabilità della prostituzione, la critica alla legge Merlin per la mancata risoluzione del fenomeno o addirittura per il suo aggravamento, la collocazione dell’industria prostitutiva nelle logiche del mercato e ancor meglio del mercato globale, la distinzione tra tratta e prostituzione liberamente scelta da chi la esercita.
La prostituzione è un lavoro come un altro?
Si tratta di visioni che rispecchiano una parte delle politiche sulla prostituzione a livello internazionale, analizzate con precisione da Daniela Danna nel primo capitolo. Ciò che le accomuna è che si parla di prostituzione come lavoro e questo è molto distante dalla legge Merlin. Come sottolineato in diversi punti del libro, ci si è arrivati nel corso del tempo, anche attraverso l’uso di un linguaggio fuorviante con conseguenti slittamenti di significato. Per esempio, definendo la prostituzione sex work come fosse una qualunque professione, i prostitutori diventano clienti che effettuano transazioni economiche, i tenutari di bordelli imprenditori, gli sfruttatori datori di lavoro e le donne che mettono i loro corpi a disposizione libere professioniste. Ma la prostituzione può essere considerata un mestiere come un altro? La vagina può essere un luogo di lavoro e di produttività economica? «Il sito South Melbourne Community Health consiglia alle escort di non utilizzare anestetico locale perché la mancanza di sensibilità impedisce che le lesioni siano notate immediatamente» (p. 30).
Non si degrada così il senso di tutto il lavoro? Luciana Tavernini rende bene l’idea di come in questo modo passi sul corpo delle donne un tentativo di «separare chi lavora da ciò che deve dare per il salario», rendendo accettabile la vendita totale di sé e nascondendo i rapporti sociali sottesi. Riprende Julia O’Connell Davidson che ricorda un episodio, citato da Marx nel Capitale, in cui si racconta come mister Peel avesse portato in Australia, oltre a mezzi di sussistenza e di produzione, anche trecento uomini, donne e bambini della classe operaia, che se ne andarono appena videro come fosse possibile trovare altrove mezzi per vivere meglio, lasciandolo senza neppure un servo. Marx conclude che per trasformare le sue cose in capitale mister Peel avrebbe avuto bisogno di esportare i rapporti sociali che costringevano gli uomini e le donne che aveva portato con sé a vendersi di loro spontanea volontà (p.196).
I rapporti sociali che mettono la donna nella condizione di vendersi “spontaneamente” sono segnati dall’asimmetria tra i sessi. L’uso dei corpi femminili attraverso il denaro è un’istituzione fondante del patriarcato.
Dunque si tratta di un tema importante per la libertà e la dignità delle donne e per le relazioni tra i sessi e, essendo il nostro un tempo in cui si comincia a credere alle parole delle donne, sono stati tradotti, come atto politico, dalle amiche di Resistenza Femminista, dei testi straordinari e dirompenti. Uno è Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione di Rachel Moran (Round Robin, 2017) dove l’autrice narra, partendo dalla propria esperienza, l’orrore vissuto nella prostituzione analizzandone il senso (una mia recensione è nel numero 1/2018 di Viottoli); l’altro è Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione di Julie Bindel (VandA.ePublishing, 2019) che raccoglie 250 interviste fatte a sopravvissute alla prostituzione, attivisti per i diritti delle sex worker, papponi, compratori di sesso e proprietari di bordelli in 40 paesi, città e stati del mondo. Fino a oggi mancava un punto di vista italiano che scaturisse dalla nostra storia, dall’approccio alla prostituzione segnato dalla legge Merlin, dal nostro femminismo e che «declinasse in italiano l’indignazione nei confronti degli uomini che si permettono di comprare il sesso delle donne» (p. 14). Abbiamo dunque una trilogia per comprendere meglio il fenomeno prostitutivo al di là di slogan e stereotipi e avere così un quadro più completo su un tema complesso, che riguarda tutte e tutti.
Sicuramente ciò verso cui ci spingono a riflettere queste autrici è cominciare a pensare alla possibilità di abolire la prostituzione. Gli uomini la devono finire di violare i corpi di donne e bambine a loro piacimento e con il benestare degli altri uomini, secondo una concezione maschile degradata del desiderio e della sessualità: l’uso – o meglio abuso – del corpo femminile reso disponibile per denaro è una manifestazione della protervia maschilista con cui gli uomini si considerano superiori alle donne (ancora poche sono le eccezioni), e un’istituzione fondante della struttura sociale denunciata dalle donne come patriarcato (p. 16).
La battaglia delle narrazioni
Siamo ben consapevoli che la posta in gioco è molto alta: sono in ballo due narrazioni della realtà che, in questo tempo di fine patriarcato, si mostrano confliggendo. Entrambe le narrazioni fanno parte di un senso comune che le ha generate: quello più antico che sostiene, a favore degli uomini, l’ineluttabilità della prostituzione vista come un fenomeno vecchio come il mondo che sempre è esistito e sempre esisterà, un fatto naturale che risponde a un bisogno irrefrenabile della sessualità maschile e che in tempi moderni va regolamentato; quello più recente delle donne che hanno messo in discussione l’ordine simbolico patriarcale e, partendo dalla loro esperienza condivisa, dai loro rapporti di sorellanza, valutano in prima persona ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per loro stesse e per le altre.
Grazie a un sentire femminile condiviso e a un bisogno contagioso di verità e giustizia per se stesse e per tutte le appartenenti al proprio sesso, sin dagli inizi del Novecento si è prodotto uno spostamento simbolico, attraverso la presa di parola delle donne. Luciana Tavernini riporta testimonianze di donne uscite dalla prostituzione grazie ad altre, narrazioni riprese e valorizzate dal femminismo degli anni Ottanta. Oggi possiamo sentire cosa dicono le sopravvissute, le giuriste, le femministe.
La prostituzione è uno scambio: lui ha i soldi, lei ha il corpo. La storia di sesso e potere del nostro ex premier Berlusconi ce lo ha mostrato. Ida Dominijanni lo ha spiegato bene nel suo libro Il Trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, (Ediesse, 2014). Quando le donne hanno parlato pubblicamente, come nel caso di Sofia Ventura, Veronica Lario e Patrizia D’Addario, sono caduti personaggi importanti della politica.
Quindi per quanto riguarda la prostituzione «la battaglia delle narrazioni» (Lia Cigarini in Sottosopra – Cambio di Civiltà, 2018) è in pieno svolgimento. Dove ha vinto la narrazione maschile neoliberista si regolamenta la prostituzione come ad esempio in Danimarca, Paesi Bassi e Germania. Un episodio significativo delle possibili conseguenze è stata la necessità del pronunciamento di un tribunale in Germania perché le donne disoccupate non fossero obbligate ad accettare di lavorare nei bordelli per non perdere l’assegno di disoccupazione.
Vedendo che questa modalità scricchiola e non funziona ad aprile 2019 sono state consegnate al parlamento olandese 42.000 firme per chiedere l’introduzione del modello nordico che rende illegale avere rapporti sessuali a pagamento.
Dove ha vinto la narrazione femminile (femminista) si sa, perché lo dicono le sopravvissute alla prostituzione e perché ogni donna lo sa nel profondo di se stessa, che la prostituzione per le donne è un inferno, è violenza, umiliazione, è stupro a pagamento. Allora il modello di riferimento è quello cosiddetto nordico in vigore in Svezia dal 1999 e successivamente in Norvegia, Islanda, in Irlanda e Irlanda del Nord e, dall’aprile 2016, anche in Francia. Questo modello punisce l’acquisto di sesso multando colui che pretende di acquistarlo, decriminalizza le persone prostituite, prevede la creazione di programmi di uscita su scala nazionale, politiche di protezione e sostegno per le vittime di prostituzione, sfruttamento sessuale e tratta, programmi rieducativi per i clienti (prostitutori). La Corte costituzionale francese, con una sentenza del 1° febbraio 2019, ha stabilito che la penalizzazione dell’acquisto di prestazioni sessuali, prevista dalla legge n. 444 del 13 aprile 2016 in tema di lotta contro il sistema prostituzionale, è costituzionalmente ineccepibile.
CAP (Coalition Abolition Prostitution) international ha contribuito alla mobilitazione di una vasta rete di soggetti in sostegno della legge. Sei ministri della precedente legislatura per i diritti delle donne, 30 medici rinomati, una coalizione di uomini che si opponeva all’acquisto di sesso hanno scritto lettere aperte e rilasciato dichiarazioni sulla stampa chiedendo al Consiglio Costituzionale di mantenere la criminalizzazione dell’acquisto di sesso.
In Svezia, infatti, il numero di persone prostituite è diminuito sensibilmente. Secondo la polizia svedese, il provvedimento ha esercitato un notevole effetto deterrente sulla tratta. La legge ha anche modificato l’opinione pubblica.
Nel suo testo Grazia Villa, avvocata di Como, racconta come Oike, una donna sopravvissuta alla tratta, fosse tornata allo sportello per migranti a raccontare di aver trovato casa e un «vero lavoro» perché «altro non è mai lavoro, mai, mai, mai!» Aveva con sé dolcetti per ringraziare e una sciarpa rossa per Grazia, l’avvocata che l’aveva seguita nel suo percorso legale. «In quel semplice gesto di gratitudine, però, c’era il riscatto e l’autodeterminazione di una donna, la forza della nostra alleanza: un sogno avverato, una rivoluzione possibile» (p. 175).
Affrontare questo tema doloroso e scomodo ci dà l’opportunità di mettere in discussione e di riflettere sui rapporti tra uomini e donne e sui mutamenti necessari per un cambio di civiltà.
(Viottoli n. 1/2019)
Orthotes Editrice, 29 aprile 2018
di Riccardo Fanciullacci
Il caso Weinstein è un fatto di cronaca giudiziaria, ma è stato anche l’inizio di un evento di ben più ampie dimensioni. Di questo evento è importante analizzare il significato perché solo così si può capire come ci riguardi tutti e come a tutti, cioè sia agli uomini, sia alle donne, chieda di trovare risposte che siano alla sua altezza. Qui vorrei riflettere sulle reazioni maschili perché mi paiono più spesso incerte e dunque a rischio di essere inadeguate, ma prima devo riprendere brevemente l’analisi di questo evento che ho sviluppato di più altrove.
Sul piano della cronaca i fatti sono noti. Harvey Weinstein, noto produttore cinematografico statunitense, è stato accusato di molestie da molte donne, tra cui alcune attrici famosissime come Salma Hayek o Angelina Jolie: usando il suo potere e la sua influenza, le avrebbe ricattate per ottenere favori sessuali o il silenzio sui suoi abusi. Queste accuse hanno motivato un procedimento legale contro il produttore hollywoodiano, ma hanno anche avuto ulteriori effetti. Innanzitutto, l’evidenza mediatica del caso Weinstein ha incoraggiato altre donne, non solo in America, ma anche in Europa, a prendere la parola e a denunciare altri uomini colpevoli degli stessi crimini. Ma il fenomeno si è ulteriormente amplificato con la nascita del movimento #MeToo che ha invitato le donne a raccontare le loro esperienze di molestie e ricatti sessuali subiti, così da far intravedere le dimensioni reali del fenomeno e non lasciare che sia ridotto a un grappolo di episodi isolati ascrivibili alla depravazione di questo o quell’uomo.
L’evento che ha avuto luogo attraverso questa sequenza di fatti è nientemeno che la dissoluzione di uno dei fondamenti del dispositivo del ricatto sessuale. Per cogliere questo punto occorre innanzitutto saper riconoscere nei vari ricatti sessuali non dei semplici comportamenti individuali devianti, bensì una forma più generale di azione messa diversamente all’opera nelle circostanze particolari. Questa forma definiva una possibilità pratica disponibile per qualunque uomo che si trovasse in una posizione di potere rispetto a una donna e consisteva nel poterle chiedere prestazioni sessuali, sotto la minaccia di un qualche uso di quel potere contro di lei e avendo una ragionevole certezza del fatto che tutta la contrattazione, qualunque fosse il suo esito, sarebbe restata una questione privata o che comunque sarebbe stata gestita in maniera riservata e con la complicità dell’ordine sociale. Quando dico che questa possibilità pratica era aperta per qualunque uomo, non intendo ovviamente dire che era esplicitamente considerata legittima. Quella del ricatto sessuale era una condotta regolata, le cui regole, però, potevano funzionare solo restando fuori scena. Grosso modo, come il nonnismo nelle caserme secondo Slavoj Žižek: formalmente vietato sulla scena, sarebbe di fatto parte integrante della vita militare in quanto luogo di inscrizione nei nuovi arrivati dello spirito di corpo e del senso della gerarchia. Così, la pratica del ricatto sessuale era tacitamente intesa come parte della gavetta ecc.
Non indagheremo in questo contesto quale fosse il ruolo o, per dir così, la “funzione” della pratica del ricatto sessuale, ad esempio, nel complesso di un rapporto di lavoro. Sottolineiamo invece che questa stessa indagine diventa possibile solo riconoscendo in quella pratica una parte integrante, sebbene oscena, cioè fuori scena, della totalità di quel rapporto. Impostando l’analisi in questo modo, inoltre, diventa più semplice capire perché per una donna fosse difficile sottrarsi al ricatto, non solo rifiutando la prestazione, ma soprattutto denunciando l’intero gioco senza venire immediatamente screditata. Inoltre, diventa chiaro in che senso il ricatto sessuale, e ora anche l’evento che lo manda in crisi, non riguardino solo gli uomini che quel ricatto hanno praticato e le donne che lo hanno effettivamente subito, ma riguardino tutti. Come condotta possibile era aperta per tutti gli uomini e dunque minacciava qualunque donna: chi non lo ha praticato avrebbe potuto farlo e poteva immaginare di farlo, ottenendo, a seconda, una soddisfazione o un senso di colpa immaginari. Realizzata o meno nella realtà da un certo uomo, quella possibilità faceva parte del sistema delle sue possibilità pratiche, cioè delle possibilità pratiche socialmente rappresentate e riconoscibili entro cui lui faceva la sua scelta – sebbene quella possibilità fosse rappresentata e riconosciuta come una mossa possibile solo fuori scena. Per questa ragione, il suo attuale venir meno o cominciare a venir meno è un evento che ci riguarda tutti: viene meno una possibilità che poteva coinvolgere chiunque e dunque è necessaria una ristrutturazione generale del sistema delle mosse possibili nelle interazioni tra i sessi.
Ma che cos’è che ha mandato in crisi quella possibilità? Evidentemente, la presa di parola delle donne: il complesso delle denunce e la massa critica che sono venute a costituire con gli effetti immediatamente avuti (dimissioni dai posti di prestigio di molti degli uomini accusati di molestie sessuali), nonché la raccolta delle testimonianze all’insegna del “me too” o del “balance ton porc” o del “quella volta che”: tutto questo ha sottratto alla pratica del ricatto sessuale la quasi certezza di poter essere condotta fuori scena e dunque l’ha resa più rischiosa facendole perdere di attrattiva.
Di fronte a questo evento, dovuto in gran parte al coraggio di molte donne, non tutte le altre hanno reagito in uno stesso modo e qualcuna ha persino voluto porsi in difesa di quei tentativi maschili di seduzione, che sarebbero certamente maldestri, ma non trattabili come dei ricatti sessuali. Come già accennato, comunque, io qui vorrei occuparmi delle reazioni maschili e in particolare riflettere sull’indicazione che al disorientamento maschile ha offerto Frances McDormand nel discorso che ha tenuto quando le hanno consegnato l’oscar 2018 come migliore attrice protagonista.
In questo discorso che, giustamente, è stato immediatamente elogiato e ripreso dai media, l’attrice ha messo in guardia gli uomini da una reazione troppo facile e per questo nient’affatto sufficiente. L’indignazione per lo scandalo Weinstein e per il malcostume dei ricatti sessuali deve tradursi in un’attenzione al lavoro e all’intelligenza femminili che non duri giusto il tempo della serata degli Oscar per poi svanire in un rispetto tanto formale quanto generico: invitateci nel vostro ufficio tra un paio di giorni o venite nel nostro, ha detto, e vi racconteremo i nostri progetti e le nostre idee. Si rivolgeva innanzitutto agli uomini dell’industria cinematografica, ma la prospettiva loro offerta ha una validità più generale: riguarda un altro possibile uso di quell’energia che ora è convogliata in un atteggiamento astrattamente solidale e che invece potrebbe alimentare un ascolto vero e un concreto sostegno della creatività e dell’intrapresa femminili.
Lo spostamento e il reinvestimento dell’energia sollecitati dalla McDormand delineano una ipotetica risposta maschile di altissimo profilo. Questa risposta, però, può diventare duratura e dunque realmente efficace e generativa di un nuovo stile nel rapporto tra i sessi, solo a una condizione. Tutto dipende dallo spirito con cui la si mette in opera. Si pensi, ad esempio, al caso in cui quel reinvestimento di energie sia interpretato come un risarcimento: “la colpa per aver assoggettato le donne al ricatto sessuale, o anche solo alla sua incombente possibilità, va pagata ed è meglio farlo nel modo suggerito dalla McDormand piuttosto che con semplici dichiarazioni di solidarietà”. Se è con questo spirito, se cioè è all’interno di questa cornice, che gli uomini si propongono di sostenere l’intelligenza e l’invenzione femminili, allora è difficile che si vada lontano. Lo spirito non consiste dunque nella condizione psicologica o nelle emozioni che si possono provare quando si realizza quello spostamento di energia, bensì nelle coordinate simboliche entro cui lo si realizza e che definiscono la qualità di quell’energia.
È il momento di riconoscere che l’energia fornita dal senso di colpa può animare giusto una reazione temporanea e comunque non può nutrire un autentico interesse verso l’altro e dunque uno scambio significativo. Per raggiungere un simile scambio, occorre uno spirito ben diverso. Quando si agisce per senso di colpa, non si presta attenzione che a sé. Al contrario, le pratiche generative, quelle che danno luogo a nuove situazioni di vita e a più alte forme di relazione, non sono mosse dal bisogno di espiare una colpa, ma dal desiderio di raggiungere un bene di cui si comprende che solo l’altro ce lo può far sperimentare. Concretamente, vuol dire riconoscere che partecipare ai progetti delle donne è l’unico modo di fruire di quel di più di bene che solo grazie a questi progetti potrebbe divenire disponibile per tutti – dove questo di più di bene si mostra sotto forma di idee nuove, prospettive inaspettate, approcci differenti ecc.
Si potrebbe credere che io stia sviluppando l’indicazione della McDormand in maniera strumentale, come se stessi proponendo agli altri uomini di appoggiare i progetti femminili allo scopo di impadronirci dei loro frutti. In effetti, non sarebbe la prima volta in cui la cultura maschile articolerebbe in questo modo la cura e l’attenzione verso le donne! Qui però sto andando in tutt’altra direzione. Partecipare ai progetti delle donne significa riconoscere la libertà e l’intelligenza femminili e questo è esattamente l’opposto di un atteggiamento strumentale. Ciò che sto aggiungendo è che riconoscere la libertà e l’intelligenza delle donne è un guadagno per tutti. Tale riconoscimento non ha quindi bisogno di essere nutrito da un ideale di negazione di sé (“per il suo bene, a dispetto del mio!”), di cui si può spesso sospettare che in realtà mascheri ben più misere motivazioni (l’espiazione del senso di colpa, la ristrutturazione della propria immagine pubblica ecc.).
Il timore che io stessi offrendo una giustificazione strumentale dell’invito a dar credito alle proposte e dunque alle parole delle donne non è l’unico che può suscitare delle perplessità in chi mi sta leggendo. Qualcuno potrebbe essersi insospettito per il modo in cui ho fatto riferimento alle donne e voler precisare che, certamente, bisogna ascoltare ed eventualmente sostenere, se sono buone, le idee delle donne, ma come quelle di chiunque: “le idee buone, quando arrivano, arrivano agli individui, l’importante è non privare alcuni di loro della possibilità di essere ascoltati solo in quanto sono donne”. Questo discorso è talmente familiare, talmente dominante, da indurci al consenso prima ancora di aver riflettuto. Tuttavia, conviene riflettere. Si può allora vedere quanto poco sia ovvio saper incontrare l’altro prescindendo dalle sue svariate sfere di appartenenza (dal sesso all’età, dalla cultura di provenienza alla condizione sociale, dalla religione alle idee politiche). È così poco ovvio che viene anzi il dubbio che non sia neppure l’ideale. In effetti, non è l’unica opzione cercare di prescindere da tutte le determinazioni dell’altro, rischiando di raggiungere un altro che non è più niente e, soprattutto, rischiando di trovarsi poi a far valere, più o meno involontariamente, ora questa ora quella sua determinazione, come ad esempio accade, quando, terminata la seria dichiarazione sul valore dell’individuo come tale, ci si trova a far battute sulle presunte irrazionalità o fissazioni delle donne. Queste battute servono a scaricare la tensione prodotta da quel neutralismo astratto, ma non è vero che sono innocue, hanno anzi effetti sulle condotte degli uomini, tra cui quelle in cui dovrebbe realizzarsi l’ascolto della parola femminile. E questo è proprio il nodo su cui punta il dito la McDormand.
Per incontrare l’altro nella sua individualità è possibile seguire un’altra strada: non prescindere dalle sue determinazioni, ma confrontarsi con esse e con gli orizzonti di significato e le dimensioni pratiche che possono dischiudere. Nel discorso di Frances McDormand alla notte degli oscar del 4 marzo, ho trovato proprio un invito a incamminarsi in questa direzione, un invito che ho interpretato nel modo seguente. Se noi uomini vogliamo che il nuovo atteggiamento che cerchiamo non duri una sera, allora non dobbiamo orientarci sulla generica solidarietà verso le donne, ma prendere sul serio le loro parole e renderci capaci di sostenere e far fiorire le loro idee, anche e soprattutto quando non confermano quelle che abbiamo già. E non siamo invitati a farlo per risarcirle o per espiare le nostre colpe, reali o immaginarie. Dobbiamo farlo riconoscendo la povertà dell’atteggiamento precedente e dunque tutto il positivo di cui ci privava, cioè quelle dimensioni del bene che si aprono per tutti non appena la libertà e l’intelligenza delle donne possono esprimersi e creare.
Non intendo questo discorso come un invito a prender sul serio una donna in quanto è una donna. Un simile intendimento produce facilmente un’attenzione generica, da quote rosa, ma può anche avere un esito peggiore: invitare a prender sul serio una donna solo e fintanto che corrisponde alla nostra immagine di quel che una donna è. D’altronde, non intendo quel discorso neppure come l’invito a prender sul serio una donna nonostante sia una donna, cioè a prescindere dal suo essere una donna. Certamente l’ascolto è reale solo se non incontra l’altro come un esemplare del genere femminile, ma è dedicato alla donna singolare che si ha innanzi, cioè solo se raggiunge l’individualità della sua parola, delle sue idee, delle sue storie, dei suoi progetti. Tuttavia, nell’ascoltare questa parola singolare non si può cancellare il fatto che essa stessa rinvia al suo essere la parola di una donna. Contro la violenta rimozione di questo fatto, si erge ad esempio il pensiero della differenza sessuale che mostra come, per un’idea offerta a tutti e dunque potenzialmente universale, non sia affatto necessario provenire da un soggetto immaginato come neutro (l’individuo, la persona, il soggetto razionale ecc.).
Sarebbe davvero un errore ricondurre l’invito della McDormand al discorso generico e neutro sull’importanza dell’ascoltare ed eventualmente del sostenere le idee di qualunque individuo. Questa è solo una falsa scorciatoia per raggiungere il suo effettivo valore universale, una scorciatoia con cui si ottiene unicamente di illanguidirlo. Per cogliere la sua verità, non bisogna cancellare dal discorso il riferimento ai sessi. Ma a questo punto si impone a noi uomini una domanda che non può più essere rimandata: come dobbiamo tener fermo quel riferimento senza tornare a modelli di relazione sessuata come quelli che, anche solo sul piano immaginario, ammettevano il ricatto sessuale quale loro possibile sviluppo osceno?
Anche nelle battute sessiste traluce la difficoltà maschile a relazionarsi alle donne in maniera neutrale – che poi, di fatto, è solo una maniera modellata sulle relazioni tra gli uomini. Dobbiamo prendere sul serio questa difficoltà, di cui solo la psicoanalisi freudiana ci dice quanto in profondità è radicata e dunque come condizioni qualunque incontro tra i sessi e non solo quello sessuale, e dobbiamo attraversarla. Se è vero che il riferimento ai sessi non si può saltare, è altrettanto vero che, per non saltarlo, noi uomini dobbiamo affrontare tutte le paure, i desideri, i fantasmi, i blocchi che ci suscita anche il solo pensare all’incontro con le donne. Più precisamente, il problema è che le maniere attraverso cui crediamo di saper neutralizzare tutti gli stereotipi, le abitudini mentali e gli schemi emotivi che sono innescati dal riconoscere che l’altro è una donna e che, in quanto tali, ostacolano il nostro incontro con la singolarità della sua parola, non sono affatto dispositivi capaci di far fronte al groviglio di difficoltà e questioni irrisolte che si associano per noi all’incontro con l’altro sesso. Conviene farsi coraggio e prendere la via lunga che affronta questo groviglio o almeno non si nasconde la sua esistenza.
Nel discorso della McDormand credo che si trovi un’indicazione importante per gli uomini che, come me, desiderano star di fronte alle donne in un modo che sia all’altezza della loro libertà e intelligenza. Ci invita a prenderne sul serio i progetti, anche se in noi può esserci molto che fa ostacolo, che siano fantasie, attrazioni o repulsioni incontrollate, modelli mentali, disposizioni pratiche o emotive e forse qualcosa che si radica ancor più in profondità. Per questo, potremo davvero capire che cosa significhi per un uomo collaborare ai progetti di una donna, solo se non eviteremo di scavare e confrontarci con i nostri fantasmi, positivi e negativi. D’altronde, non è uno scavo alla cieca. Come suggerisce Frances McDormand, disponiamo già di una guida: è il desiderio di partecipare a quei progetti e dunque di fruire dei beni e delle possibilità che essi offrono a tutti noi.
(Orthotes Editrice, 29 aprile 2018)
di Catherine Aubin
«Che il Signore ti benedica al tuo arrivo e al tuo ritorno». Uomini e donne, donne e uomini in una stessa Chiesa e in una stessa comunità: è questa la realtà quotidiana della comunità monastica di Bose. Qui, monaci e monache insieme pregano, lavorano e praticano l’ospitalità. Qual è dunque l’origine di questa comunità? Com’è nata? Quali sono le ricchezze e anche le difficoltà di questo “vivere insieme”? Due fratelli e due sorelle hanno risposto alle nostre domande e ci hanno aperto le porte di questa esperienza profetica. Per primo parla Enzo Bianchi, fondatore della comunità.
«In origine non c’era un vero progetto di vita uomini-donne; io ero venuto qui solo per avviare un progetto di vita monastica, ma non pensavo assolutamente a un’organizzazione uomini-donne. La seconda persona che si è presentata dopo un fratello è stata però una donna, molto convinta di questa scelta di vita, e quindi mi sono dovuto porre il problema. Sono andato a trovare a Torino il cardinale Pellegrino, che in quel momento si occupava dell’avvio della nostra comunità, e lui mi ha detto: “Tu non l’hai cercata, se il Signore te l’ha inviata, allora bisogna accoglierla”. L’abbiamo accolta e perché non si ritrovasse tutta sola con tre fratelli, sono andato a Grandchamp in Svizzera nella comunità protestante per chiedere se potevano mandare da noi una delle loro sorelle. Ed è stato un vero miracolo perché sono arrivato la sera e sorella Minke mi ha detto che avrebbero pregato e ci avrebbero pensato. L’indomani hanno mandato suor Christiane che è stata con noi un anno, “prestata” in un certo senso dalle sorelle affinché ci fosse fin dall’inizio un nucleo di uomini e di donne e non solo una donna isolata. Da quel momento in poi la comunità si è dovuta pensare come comunità formata da donne e da uomini».
«Ho capito subito — prosegue Bianchi — una verità: che per vivere uomini e donne insieme era importante che la differenza fosse affermata. Doveva pertanto esistere una distinzione, al fine di evitare la divisione tra il ramo delle donne e il ramo degli uomini. Perciò ho voluto che fin dall’inizio ci fosse una responsabile delle sorelle, per non esserne io il diretto responsabile, e così è stato. Le due comunità hanno potuto credere e crescere insieme perché c’è una sola regola, una sola liturgia, dei pasti per la maggior parte consumati insieme (all’inizio mangiavamo sempre tutti insieme) e dunque uno stile di vita uguale per tutti. Abbiamo cominciato a vivere tutto ciò gradualmente e abbiamo visto che poteva funzionare. Molto presto abbiamo percepito e accolto le grazie del “vivere insieme” fratelli e sorelle. Una prima grazia è stata che i fratelli erano chiamati a comportarsi non più come “orsi”, ma a essere più delicati, il che non vuol dire più femminili, ma più premurosi, e soprattutto erano chiamati a vivere la dimensione del “prendersi cura del fratello”, ovvero a non vivere più come dei solitari che si ritrovano insieme. Quanto alle sorelle, abbiamo constatato che avevano acquisito una “disciplina”, una forma di padronanza della parola diversa da quella delle comunità classiche di religiose: vale a dire che parlavano meno ed erano meno tentate di chiacchierare o bisbigliare tra loro. Queste due cose ci hanno fatto vedere che ci stavamo aiutando a vicenda. Poco a poco ci siamo però resi conto che era necessario di tanto in tanto che i fratelli e le sorelle consumassero i pasti separatamente, ma solo di tanto in tanto, affinché le sorelle avessero uno spazio e un pasto in cui potevano stare e parlare tra loro nella propria lingua femminile e lo stesso valeva per noi fratelli (senza farne però una consuetudine, perché di norma i pasti si consumano insieme, i fratelli da una parte del refettorio e le sorelle dall’altra). Tutto ciò ci è servito molto perché ha cambiato il linguaggio usato al momento del pasto; per esempio le sorelle hanno un linguaggio molto più “ecclesiale”, mentre noi fratelli tendiamo a parlare di cose che riguardano maggiormente la vita concreta, sia monastica sia ecclesiale. Dunque il refettorio, luogo di scambio, è pure un luogo di formazione, anche se si può parlare solo durante un pasto, perché l’altro va consumato in silenzio».
«Per quel che riguarda l’affettività — aggiunge Bianchi — abbiamo constatato con il dovuto discernimento e da persone mature, che i fratelli e le sorelle non s’innamorano (come tutti pensano); non è questo il problema, in quarant’anni non è mai successo. Il vero problema è la ferita esistente tra uomini e donne. In effetti abbiamo due psicologie diverse. Per esempio, durante i capitoli, quando dobbiamo prendere delle decisioni, ci accorgiamo di avere due psicologie differenti con riflessi molto diversi. Bisogna allora armonizzarle, senza cancellarle o negarle. È un lavoro che si fa giorno dopo giorno; a volte è difficile, a causa di questa ferita tra uomo e donna che tutta l’umanità conosce e che anche noi portiamo e viviamo, e che deve essere costantemente riconciliata e superata, non attraverso una forma di compromesso, ma per un bene più grande. Su questo punto non abbiamo avuto grossi problemi. L’importante è che, quando una persona viene qui per una vocazione monacale, sappia vivere con gli uomini se è una donna e sappia vivere con le donne se è un uomo. Il discernimento si esercita sul fatto che se un uomo sminuisce una donna e non tiene conto della sua presenza, vuol dire che Bose non è il posto giusto per lui».
«Un altro punto importante è che, per quanto riguarda lo studio, tutti ricevano la stessa formazione e tutti abbiano gli stessi mezzi e strumenti, senza fare differenze. Ma ci devono essere una maestra delle novizie e un maestro dei novizi, perché nell’accompagnamento personale solo una donna può accompagnare un’altra donna e solo un uomo può accompagnare un altro uomo. C’è poi un altro punto che tocca un aspetto della castità: una donna obbedisce più facilmente a un uomo che un uomo a una donna, e ciò non è la castità, è contro la castità. Ebbene, le donne avrebbero potuto essere tentate di obbedire a me o di entrare in concorrenza con me, ed è per questo che non ho mai voluto essere il direttore spirituale delle sorelle. Il mio ruolo è di assicurare l’unità dei due rami, ma non ho nulla a che vedere direttamente con le sorelle, per evitare proiezioni e gelosie. Le donne devono obbedire a una donna e gli uomini a un uomo: è una questione di castità. Negli anni Sessanta, in due fondazioni nuove ci sono stati molti problemi affettivi, anzi addirittura sessuali attorno ai fondatori. A tal fine i capitoli devono essere organizzati in modo molto fermo ed equilibrato per evitare che i responsabili agiscano solo tra loro o al contrario in modo solitario e isolato. Tutte le decisioni devono essere prese insieme, e non dai superiori. Da noi i capitoli si tengono una volta al mese, e una volta all’anno si svolge un capitolo di quattro giorni durante i quali si prendono le decisioni. Tutti possono parlare e tutti hanno diritto di voto. Noi siamo inoltre una comunità ecumenica e in questa ottica dare la parola alle donne fa crescere e aiuta l’ecumenismo. L’ecumenismo aiuta anche a essere più fratelli e sorelle: è il dialogo nella diversità. Noi non chiediamo agli ortodossi di diventare cattolici né il contrario; le differenze sono necessarie e fanno la comunione. Perché, se le differenze fossero negate, sarebbe una comunione mortificante».
Qual è oggi il suo desiderio più grande? «Sarebbe di vedere la Chiesa imparare di più sul tema dell’autorità dalla vita monastica», risponde Bianchi. «Vorrei un’autorità esercitata maggiormente secondo la forma monastica, ossia un’autorità che ascolti, che faccia maturare le situazioni, che sia più sinodale e nella quale le donne svolgano una parte attiva. Altrimenti la Chiesa la vivrà in una condizione non solo di povertà ma anche e soprattutto di miseria».
Suor Maria dell’Orto, che fa parte della comunità da oltre quarant’anni, è stata la responsabile delle sorelle fino al 2009. Ci racconta come sono stati gli inizi e le sfide quotidiane della comunità. «La comunità è nata non come il frutto di un’ideologia, ma di una realtà (l’arrivo di una sorella e di un fratello protestante) e da un interrogativo che Enzo Bianchi si è posto: “Il Vangelo contiene forse una parola che impedirebbe alla prima sorella di vivere questa esperienza monastica? No!”. C’è dunque stata un’obbedienza alla realtà della vita e il Vangelo è stato il criterio per decidere. È stata una prima grazia, straordinaria, che ci ha protetto e animato fino ad ora, anche se non è stato facile, ma la vita di per sé non è facile. Abbiamo quindi cercato di vivere secondo i grandi criteri della vita monastica tradizionale; l’ispirazione monastica l’abbiamo presa dalle sue origini (Antonio, Pacomio, Basilio, Benedetto e così via) e abbiamo cercato gli insegnamenti che potevano esser più utili per noi in questo contesto di modernità».
«La vita monastica tra fratelli e sorelle — prosegue Maria — non era organizzata ai primordi del cristianesimo, perché in tal senso la vita di Gesù ha avuto poco peso. Per esempio, per ispirarsi al Vangelo, si è fatto spesso riferimento alle lettere apostoliche, che contengono già molte “bassezze”. Al contrario, se si fosse fatto riferimento al Vangelo si sarebbero potuti constatare i tanti rapporti di Gesù con le donne e il suo chiamare discepoli sia gli uomini sia le donne. Per esempio in Luca, 11, 27 quando una donna gli dice: “beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!”, Gesù risponde “beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!”. Questo invito a vivere il Vangelo vale dunque sia per gli uomini sia per le donne. Vivere ogni giorno una vita monastica uomini e donne insieme con membri di altre Chiese, quando si conosce il peso delle loro sofferenze, e le prove sostenute dalle donne in una cultura dominante maschile, è un’immensa felicità. Anche se a volte è difficile, ma la vita è difficile: la vita dei coniugi, dei sacerdoti, delle persone sole. Poiché vivere veramente è accettare la differenza, la differenza tra uomini e donne ma pure tra donne e tra uomini, e anche con gli ospiti; tutto ciò è un esercizio di libertà. Impari a non usare gli altri, a non credere che sia qualcosa di acquisito una volta per tutte, cerchi di ascoltare. È quindi la difficoltà di vivere quotidianamente nella libertà, nel servizio reciproco poiché in fondo il Vangelo è questo. Cerchi di essere te stesso, per il bene di tutti. Scopri che vedi meglio grazie agli altri. Gesù ci ha insegnato l’amore nella libertà e ci ha trasmesso parole autentiche per la vita umana. Per esempio non vivere per se stessi è l’unico modo per non angosciarsi in questo mondo e non avere paura del prossimo giorno e notte (a Bose, quasi nessuna porta viene chiusa a chiave). Non è eroismo, è la cosa più intelligente al mondo».
«Imparare a vivere l’alterità, a non vivere ideologicamente, a non colpevolizzarsi gli uni gli altri, a liberarsi dei pregiudizi, imparare a vivere l’oggi di Dio nell’incontro con l’altro: è questa la nostra opportunità. Il fratello e la sorella sono un’opportunità per liberarci dal nostro passato o dai nostri determinismi, per constatare che il peso del nostro passato non ci impedisce di vivere. Il difficile è liberarsi da tutte le nostre ideologie, poiché non siamo né vittime né carnefici nei nostri rapporti con gli altri. Nella vita monastica c’è una grande povertà perché tutte le nostre sofferenze psicologiche, le nostre fragilità, sono “sotto la luce del sole”, tutti le vedono. Dunque, impari che non sei al mondo per nascondere le tue debolezze o per essere avvalorato o approvato, o per obbligare gli altri a dirti “sì, sì”. Poco a poco impari a riconoscere agli altri la libertà di essere qui e che noi viviamo grazie al fatto che i fratelli e le sorelle sono qui. È dunque un imparare a vivere l’affettività nella libertà. In fondo Gesù ci ha insegnato a non aver paura della nostra piccolezza, il che vuol dire che amare la vita degli altri è l’unica salvezza per tutte le nostre fragilità. Quando siamo coinvolti nella loro vita, quando siamo per così dire sedotti da quello che sono e che fanno, quando li guardiamo con interesse, allora la paura per noi stessi scema e ci sentiamo immediatamente liberi»
A volte si pente della sua scelta? «Ho sempre saputo che al di fuori di qui non avrei mai potuto vivere realmente, non perché qui è meglio di qualsiasi altro posto fuori, no, ma perché questo luogo mi ha permesso di vivere e di prendermi cura senza angoscia della povera che sono».
Suor Antonella è attualmente la responsabile delle sorelle; è monaca da oltre vent’anni. Ci spiega come si organizza il lavoro tra fratelli e sorelle. «Quando una persona arriva nella comunità, si comincia discernendo i bisogni della comunità e le capacità di quella persona; dopo questo discernimento viene inserita in un laboratorio dove lavorerà. Ci sono laboratori gestiti solo da fratelli e altri solo da sorelle, e altri ancora diretti da entrambi, come per esempio il lavoro nel giardino o anche la foresteria. Cerchiamo di vivere questa disponibilità ai bisogni e di non decidere in modo assoluto chi si occupa dell’una o dell’altra cosa. C’è indubbiamente una ricchezza in questo modo di vivere il lavoro insieme grazie agli scambi; una diversità anche nel modo di affrontare la stessa problematica o nel modo di organizzare, e quando si lavora in gruppo è possibile trovare molti elementi che possono essere utili all’attività o rendere il lavoro più semplice».
Quando si viene accolti da voi, fratelli e sorelle, si percepisce e s’intuisce una grande armonia fra voi: come la spiegate? «Non glielo saprei dire», risponde suor Antonella. «Noi viviamo la vita quotidiana in modo molto semplice. Ognuno di noi deve essere anche custode di una forma di solitudine per se stesso, per poter crescere interiormente come persona. Ciò permette una crescita che a sua volta consente di confrontarsi con gli altri senza la paura di perdere qualcosa in questo incontro. E l’armonia e la fluidità tra noi provengono da un quotidiano vissuto molto semplicemente senza stare sulla difensiva, ma mostrandosi così come si è, con quella comprensione di sapersi insieme nella differenza».
Come agisce questo ascolto quotidiano insieme della stessa Parola di Dio durante i tempi forti liturgici? «Nel corso della Lectio divina, la comunità si riunisce per riflettere a partire dalla luce della Parola di Dio sulla sua vita. Inoltre, ogni settimana abbiamo una Lectio divina tutti insieme e di fatto questa condivisione della Parola è un grande aiuto per il cammino della comunità: consolida la vita comune. Così ognuno di noi è chiamato a rimettersi in discussione in un moto di conversione al fine di tornare in sintonia con il corpo comunitario».
Quali sono state le sue gioie in questi vent’anni? «Le mie gioie — risponde ancora suor Antonella — sono soprattutto nella vita comunitaria, ossia nel vivere una vita fraterna semplice, sana e profondamente misericordiosa. Ho sentito molto la misericordia dei miei fratelli e delle mie sorelle e ciò mi ha aiutato tanto a rinnovare continuamente il mio modo d’essere e il mio comportamento verso di loro, grazie alla loro correzione fraterna molto misericordiosa. È un modo di ricominciare insieme ed è la mia gioia più grande che assaporo sempre. Quanto alle difficoltà, queste riguardano il cambiamento personale, che è sempre difficile [ride], e anche le relazioni personali, quando non riusciamo ad ascoltarci, a comprenderci, perché non è il momento giusto o perché ci vuole tanta pazienza. Una delle cose più difficili è la comunicazione: vuol dire imparare continuamente ad ascoltarsi senza credere che sia un fatto acquisito una volta per tutte. Tutto ciò esige da noi una crescita umana profonda, che non cerca di imitare l’altro ma che ci chiede di essere felici di quel che siamo, pur sapendo che uomini e donne si esprimono in un linguaggio completamente diverso. Questa vita comunitaria è comunque un vero dono di Dio (non è un progetto umano) sul quale dobbiamo costantemente vigilare e che esige molta memoria, attenzione e gratitudine».
Fratel Goffredo, assistente di Bianchi, è nella comunità da ventidue anni. Gli chiediamo di condividere con noi le sue riflessioni sulla vita comune tra fratelli e sorelle. «Fin dall’inizio sono stato attirato dal carisma del priore Enzo Bianchi e dalla vita comune che si viveva qui, uomini e donne insieme, e anche dalla vita comune ecumenica. Questa ricchezza uomo-donna va imparata, colta e assimilata. Così si diviene più umani. La vita normale è fatta di uomini e di donne; dunque un vero percorso di umanizzazione si fa quando ci sono uomini e donne insieme per un cammino di diversità e di alterità. La diversità non deve far paura perché è un aiuto e una ricchezza. Non si tratta di fare una lista delle differenze tra uomini e donne; al contrario, dobbiamo vivere come donne o come uomini. Sono in effetti due modi di essere al mondo che esistono fin dalle origini; si tratta quindi di vivere una differenza essenziale e naturale. Difficile da vivere in questa vita comune è il mettere insieme due modi diversi di affrontare la realtà. Ma è anche e soprattutto una sfida, perché per arrivare a una visione globale e unificata, si deve partire da due punti di vista diversi per poi riuscire a vedere insieme la realtà. Gli uomini hanno un proprio modo di vedere la realtà e le donne un altro, ma è normale, essendo la realtà tanto maschile quanto femminile. Vederla insieme è difficile ma è una vera ricchezza, perché insieme la si vede meglio. Oggi sarebbe per me molto difficile vivere in una comunità di soli uomini».
«Il nostro cammino di vita comune — conclude fratel Goffredo — è inedito: uomini e donne celibi che vivono insieme senza essere sposati. Si tratta dunque per noi di trovare un accordo di ordine diverso, ma che sia radicato nella vita monastica e nel Vangelo».