di Linda Laura Sabbadini


Ha molte forme, può essere fisica, sessuale, psicologica, economica.

È trasversale ai territori, alle classi sociali, alle nazionalità e alle età. È la violenza con cui l’uomo esercita la volontà di possesso e di prevaricazione sulla donna. E non dipende solo dagli uomini che la praticano, ma anche dal contesto economico e sociale che la perpetua motu proprio da lungo tempo, durante il quale il dominio maschile si è articolato e stratificato e la discriminazione femminile non è stata sradicata. Il contesto socio-economico è rappresentato, innanzitutto, dal lavoro. La situazione di metà delle donne del nostro Paese che è senza lavoro (la peggiore in Europa) è grave. Perché significa che metà delle donne non è autonoma, non è indipendente economicamente.

E ciò rappresenta un vulnus, non solo perché è messo in discussione il diritto a un lavoro dignitoso, ma perché le donne, così, sono oggettivamente limitate nelle loro libertà. Provate a mettervi nei panni di queste donne che non lavorano. In molti casi sono obbligate a chiedere denaro al proprio partner, anche per il minimo indispensabile, non possono scegliere autonomamente come spenderlo, sono tenute sotto controllo o comunque devono giustificare, in una perenne condizione di subordinazione e dipendenza. Ciò crea un humus culturale in cui il controllo maschile sulle donne è di fatto legittimato e risulta assolutamente facilitato. E, se protratto nel tempo, cristallizza ruoli asimmetrici che favoriscono lo sviluppo di violenza nella coppia, o perlomeno l’enorme difficoltà delle donne a sottrarvisi.

La vulnerabilità socio-economica non solo espone maggiormente le donne al rischio di violenza domestica, ma ne limita anche la possibilità di allontanarsi e di rompere una storia tossica. È già difficile per una donna che dispone di reddito fare il passo di denunciare il partner violento, oppure di rivolgersi a un centro antiviolenza o a chiunque altro per chiedere aiuto. Solo il 15% delle vittime di femminicidio ha denunciato. La dipendenza economica può trasformarsi in un ostacolo insormontabile alla rottura di una relazione con un partner violento. Come ci si mantiene dopo averlo lasciato? Certo esiste un contributo economico da parte dello Stato ma l’importo è talmente basso che difficilmente può rappresentare una copertura adeguata.

La violenza contro le donne non si combatte solo con provvedimenti specifici sulla violenza. Una volta per tutte in questo Paese bisogna adottare una strategia globale che metta al centro le donne. Lo sviluppo della loro indipendenza economica, l’eliminazione dei gap e delle discriminazioni. Possibile che non si promuovano politiche per abbattere gli ostacoli alla valorizzazione delle risorse femminili, come recita l’articolo 3 della Costituzione? Possibile che si vada alla ricerca di diversivi sugli immigrati, come responsabili di violenze, e non si vedano le gravi emergenze sociali ed economiche che riguardano le donne e che determinano ruoli asimmetrici nel Paese? Abbiamo bisogno di una strategia globale per un lavoro dignitoso e di qualità per le donne, per una formazione non stereotipata, per lo sviluppo di servizi di cura e congedi parentali e di paternità adeguati, per l’abbattimento della cultura del possesso del corpo e dell’anima delle donne.

I piccoli passi e le mezze misure sono pannicelli caldi che mantengono immutata la condizione di diseguaglianza delle cittadine del nostro Paese e creano le condizioni dell’esercizio della violenza. Mai come oggi appare evidente come tale condizione sia non solo anacronistica, ma il principale ostacolo al pieno dispiegamento delle risorse umane e creative che blocca lo sviluppo

economico del Paese. Giochiamo una partita economica globale con le mani legate dietro la schiena, non potendo avvalerci appieno del fondamentale apporto femminile. C’è bisogno di un contrattacco da parte delle donne. Solo la forza e l’unità delle donne, la sorellanza, possono innescare il cambiamento epocale di cui c’è bisogno.


(la Repubblica, 25 novembre 2024)

di Claudia Bruno


Un percorso di letture e tre protagoniste nel cuore della Silicon Valley, a partire dall’ultimo libro di Sarah Rose Etter Qui non c’è niente per te, ricordi? (La Nuova Frontiera)


Affidare un senso compiuto alla parola umanità sta diventando un’impresa difficile. Bisognerebbe forse inoltrare la richiesta a un’intelligenza artificiale, lasciarsi sorprendere dalla fantasiosa sintesi di credenze che la nostra specie ha prodotto nel tempo. Oppure iniziare a discernere le allucinazioni come si faceva setacciando l’oro, separando chi crede nei sogni sbagliati da chi invece non sogna più niente.

Fa così Cassie, protagonista poco più che trentenne del romanzo Qui non c’è niente per te, ricordi? di Sarah Rose Etter (La Nuova Frontiera, traduzione di Lorenzo Medici, pp. 288, euro 18,50) arrivata a San Francisco dalla provincia con un pugno di speranze sul futuro. «La città è piena di credenti – racconta – Vengono dalle università più prestigiose e si gettano a peso morto sulla tecnologia. Hanno occhi che brillano come se fossero fatti di pixel e cuori che battono per il mercato azionario».

Poi ci sono tutti gli altri, partiti dagli anfratti del paese, spinti a Ovest dalle famiglie per andarsi a meritare una ricompensa. Cassie si colloca tra questi, ma si comporta come se appartenesse ai primi. «Per sopravvivere qui devo dividermi tra due entità, una vera e una fittizia», si rivela. È il 2019, gli scienziati hanno appena diffuso la prima foto di un buco nero e Cassie lavora come creativa dell’ufficio marketing di un’azienda «il cui valore è dovuto a un oscuro trattamento dei dati per profilare gli utenti stimolandoli a fare acquisti online». La seguiamo percorrere ogni giorno lo stesso tragitto, arrancare nella calca tra i palazzi di vetro che costeggiano la baia sostenuta dalla polvere bianca che appena sveglia somministra al posto del caffè; abbandonarsi alla corrente di giacche a vento con sopra appuntati i loghi delle startup più in voga, in un orizzonte dove il brand a cui vendi la mente e l’icona del tuo profilo collassano in un nuovo grado di appartenenza. A poco servono le conversazioni telefoniche con un padre dall’altro lato del continente o il calore insufficiente di un amore troppo liquido.

Sarah Rose Etter torna a raccontare il lavoro come un horror. «Ci hanno aperto il corpo a metà, le viscere sparse sul tavolo della sala conferenze»

Contro l’intransigenza dei discorsi da «donne alfa» di una schiera di vegane appassionate di pilates, muscolose ma ingobbite dalle troppe ore trascorse davanti a un pc non c’è femminismo che tenga, il valore di una lavoratrice si misura ancora in base al modo in cui un amministratore delegato la guarda. «Qui non c’è niente per te, ricordi?», dice la voce all’altro capo del filo mandando in crash la memoria a lungo termine – «è difficile distinguere i ricordi corretti da quelli che sono stati corrotti», ci confida Cassie, persino se in fondo all’elenco delle cose da fare c’è un tamburo che rimbomba – «il mio cuore che canta, no, no, no».

Dopo Il libro di X e la sua versione dark del precariato cognitivo, Etter torna a raccontare il lavoro come se fosse un horror – «ci hanno aperto il corpo a metà, le viscere sparse sul tavolo della sala conferenze» – e lo scrive come un trattato di fisica astronomica: quanto più le sue pagine affondano nella realtà, tanto più definitive risuonano. «Immaginate di addentare un frutto apparentemente maturo, e poi ritrovarvi la bocca piena di marciume», dice la ragazza alle prese con un corpo fertile ormai privo di desideri. La sua voce custodisce al centro il buio che Anna Wiener dispensava ne La valle oscura (Adelphi, 2020, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra), ma ne ha fatto evaporare la parte più lucida, il chiarore della materia che si appresta a sparire dal mondo. Accade così quando si viaggia nel tempo, anche solo con un salto piccolo. «Era l’alba dell’era degli unicorni», scriveva Wiener all’inizio di quello che sarebbe diventato il manifesto istantaneo di un sentimento generazionale, «il settore tecnologico si era espanso oltre la sfera di competenza di futuristi e fanatici dell’hardware per assumere stabilmente il nuovo ruolo di impalcatura della vita quotidiana».

Siamo negli anni successivi alla recessione, quelli che hanno visto i millennial fare il primo ingresso nel mercato del lavoro, la cosiddetta share economy stava consolidando un impero sulla compravendita di dati personali. «Un’interfaccia ben progettata era come la magia o la religione: alimentava una collettiva sospensione dell’incredulità» raccontava Wiener che nel 2013, all’età di venticinque anni, aveva lasciato la piccola agenzia letteraria di Manhattan dove lavorava come assistente per trasferirsi nel cuore della uncanny valley e prendere parte alla mega-transizione del settore editoriale. Dalla correzione di bozze all’assistenza clienti il passo era sembrato semplice, era bastato lasciarsi addosso una maglietta stropicciata con su scritto I’m data driven, sbocconcellare «accaventiquattro» culture aziendali insapori come bombe chimiche.

A sgocciolare dai soffitti di quegli uffici informali tacitamente fondati su sbornie, Xanax e patatine era il linguaggio semi-analfabeta che negli anni a seguire ci avrebbe addestrati a un futuro «dove ogni cosa – ridotta alla versione più veloce, semplice e patinata di se stessa – poteva essere ottimizzata, gerarchizzata, monetizzata, e controllata».

La grammatica che avrebbe assurto le emoji a sostituti di un discorso iperesteso di aggressività passiva sarebbe stata la stessa che avrebbe perorato la causa del «più donne ai vertici del tech» senza che ne venissero assunte a sufficienza, vincolando il merito all’automiglioramento, costringendo tutti a guardare continuamente se stessi fingendo di guardarsi l’un l’altro «in un atto di sorveglianza infinita».

Opportunità e pericoli della smaterializzazione di sé al tempo dell’intelligenza artificiale, attraversando l’ultima membrana del mondo reale

Certi giorni, scriveva Wiener che nel frattempo come la Cassie di Etter aveva imparato a destreggiarsi tra almeno due avatar – la lavoratrice eccezionale, la femminista guastafeste – «mentre aiutavo uomini a risolvere problemi che si erano creati da soli mi sentivo io stessa un software, un bot: anziché essere un’intelligenza artificiale, ero un artificio intelligente, un frammento di codice empatico o una voce calda che forniva istruzioni».

La fine del lavoro materiale passa inevitabilmente per la smaterializzazione di sé. I corpi sarebbero diventati piattaforme, interi sistemi di conoscenza si sarebbero sgretolati in frammenti di codice. Tutto, persino la coscienza, si stava trasferendo «nel cloud». A essere saltata era la relazione con la macchina che così bene Ellen Ullman descriveva nel suo Accanto alla macchina (Minimum Fax, 2018, traduzione di Vincenzo Latronico), uscito per la prima volta nel 1997 – lo stesso anno in cui l’informatica Rosalind Picard avrebbe dato alle stampe il suo trattato sui rapporti affettivi tra umani e macchine –, agli albori di quel «bagliore azzurro» che ci avrebbe per sempre modificato la vita. «Ho attraversato una membrana oltre la quale il mondo reale e i suoi fini perdono consistenza», ci avvertiva la software engineer arrivata in California negli anni ’80 per lavorare a un database di malati di Aids.

Le sue pagine oggi odorano del pulviscolo che fuoriesce dalle ventole di raffreddamento, emanano l’alone vintage di un femminismo radicale. «I nostri corpi sono stati abbandonati da un pezzo, costretti alla fame e all’insonnia e alla tortura di passare ore incollati a mouse e tastiera», collocava la sua postazione nel momento esatto in cui «chissà quante pagine di specifiche» sarebbero andate incontro alla traduzione «in una lingua straniera chiamata codice». È un confine che rassomiglia a uno stato alterato di coscienza, dove «il mondo come lo comprendono gli umani e il mondo per come va spiegato a un computer» collidono in una disgiunzione matematica capace di raggiungere gli effetti della metanfetamina.

Poi succede qualcosa, le irregolarità prendono il sopravvento e lo schermo si riempie di domande a cui nessuno sa rispondere. «La mente umana è un casino» ci mette in guardia Ullman, piratessa nell’oceano di un’obsolescenza che dalle cose si trasmette alle persone. «Tutto ciò che vogliamo creare, tutto ciò che il sistema dovrà essere in grado di fare, ha bisogno di essere snaturato nel momento del passaggio alla macchina», scriveva affidando al suo sé personaggio, una quarantenne disinibita nelle relazioni e politicamente sensibile, la matassa di implicazioni collettive e intime che nessuno sarebbe più riuscito a sbrogliare.

«Mi piacerebbe pensare che i computer sono neutrali, uno strumento come tutti gli altri» lasciava scritto in quello che funziona come un testamento ritrovato al nucleo di una matrioska immateriale, «ma il problema è che più tempo passiamo a osservare un’idea ristretta dell’esistenza, più la nostra idea di esistenza si restringe». Eravamo convinti di aver inventato un sistema, quello che non avevamo messo in conto era come quel sistema stava inventando noi. Il fatto che persino la baia dorata, le sue navi dirette nel mar del Giappone, le decappottabili che sfrecciavano veloci sulle autostrade mentre qualcuno decideva di lanciarsi sotto una metro, avrebbero perso un valore reale. Che sarebbe contato solo come quel bagliore azzurro ci avrebbe illuminato ancora.


(il manifesto, 19 novembre 2024)

di Jessica Perra


«Quando la bimba non aveva neanche un mese ho affrontato una trasferta da Bologna a Pavia per un reportage. Per allattare mia figlia facevo tredici chilometri in macchina ogni tre ore. Ripetendo il tragitto tre volte in un giorno». Così Alice Facchini, giornalista freelance, non ha mai interrotto il lavoro dopo essere diventata madre. «Non mi sono mai fermata. Mara [nome di fantasia, ndr], la mia bimba, aveva solo quattro giorni quando ho fatto la prima call». La incontriamo per riflettere sulle difficoltà di conciliare la maternità con la carriera giornalistica. La sua esperienza conferma i dati che emergono in un rapporto condotto nel 2022 dal gruppo di ricerca e sondaggi OnePoll: quella da giornalista è la terza carriera meno adatta alla vita familiare.

Durante la gestazione e la maternità molte donne devono scegliere tra famiglia e lavoro, affrontando il peso delle disuguaglianze di genere e della precarietà e il giornalismo non fa eccezione: le giornaliste vengono pagate meno rispetto ai colleghi, firmano meno articoli e ricoprono meno cariche apicali. Per loro concedersi una pausa o un congedo è vissuto come un privilegio, soprattutto se lavorano al di fuori delle redazioni. «Non fermarsi diventa una necessità – continua Facchini – perché manca un mezzo di sostentamento e quindi alcune freelance sono costrette a continuare a lavorare, anche se non vorrebbero».

Un’esperienza simile è toccata anche a Irene Caselli, quarantadue anni, reporter multimediale ed esperta di prima infanzia e genitorialità. «Non avevo un congedo e se avessi smesso di lavorare avrei smesso di guadagnare. Quando è nato Lorenzo [nome di fantasia, ndr] stavo lavorando all’una di notte perché dovevo consegnare un paio di cose. Sono iniziate le prime contrazioni alle due di notte e sono andata all’ospedale. Il pomeriggio ho partorito e alle nove di sera ho mandato una mail chiedendo un’estensione di una settimana, poi sono tornata a casa e l’ho scritto».

Rimanere produttive non è una scelta. Secondo Alice Facchini «c’è anche una questione di pressione sociale di chi dall’esterno guarda e dice “chissà se sarà ancora attiva, se avrà deciso di ritirarsi alla vita privata”. Quindi la mia decisione era legata anche all’ansia di dimostrare che ero ancora sul pezzo, che potevano ancora chiamarmi».

Serena Bersani, presidente dell’associazione GiULiA Giornaliste che si batte per le pari opportunità e una corretta rappresentazione delle donne nei media, ricorda: «Comunicai di essere incinta soltanto quando la pancia al sesto mese era evidente e non potevo più nasconderla. Non l’ho detto prima perché avevo paura che mi togliessero incarichi». Durante un colloquio di lavoro disse al capo del personale della redazione che suo marito aveva preso l’aspettativa proprio per permetterle di essere assunta. Ma non bastò per liberarsi delle supposizioni sulle sue capacità lavorative in quanto giornalista e madre: «Cominciò a dirmi: “Io già immagino che ogni mezz’ora tu chiamerai a casa per sapere se il bambino sta bene, se ha mangiato”. Mi trattava come se non riuscissi a scindere il lavoro da cosa succede a casa, ma non mi conosceva». Questo pregiudizio, noto come maternal bias, è basato sull’idea che le donne diventino meno produttive e interessate alla carriera dopo aver avuto figli.

Le preoccupazioni di Alice Facchini e Serena Bersani sono giustificate. Secondo il rapporto Plus 2022 dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, dopo aver dato alla luce un figlio quasi una donna su cinque tra i 18 e i 49 anni lascia il lavoro, mentre solo il 43,6% continua a lavorare, con una percentuale ancora più bassa nel Sud e nelle isole (29%). La principale ragione di questa scelta è la difficoltà nel conciliare il lavoro con la cura dei figli. Nonostante un notevole calo nel tempo, persiste uno squilibrio di genere nelle dimissioni post-nascita.

Il timore che la maternità possa incidere sul lavoro non riguarda solo le giornaliste freelance. Come testimonia il recente caso di Lara Ricci, giornalista demansionata da Il Sole 24 Ore da responsabile delle pagine letterarie dell’inserto domenicale a correttrice di bozze, dopo il periodo di maternità obbligatoria. Serena Bersani esprime preoccupazione per il caso: «L’Ordine e il sindacato non sono riusciti a proteggere questa collega e a far valere i suoi diritti. Ricci è dovuta ricorrere al tribunale per riavere il suo posto, questo dimostra che il problema è ancora profondo». Il 22 gennaio 2024 il tribunale del lavoro di Milano ha riconosciuto, per la seconda volta, le decisioni del quotidiano economico come discriminatorie. Per Lara Ricci è stato difficile dimostrare la discriminazione: «È arduo, ad esempio, provare il caso in cui una donna non abbia ottenuto una promozione che meritava a causa del suo genere», racconta. Tuttavia, l’ultima sentenza ha reso più facile la prova delle discriminazioni contro tutte le lavoratrici madri. «La discriminazione si può realizzare non solo in quanto la maternità ne sia la causa – spiega la giornalista, evidenziando l’importanza della sentenza – ma anche solo in quanto sia l’occasione per farlo, approfittando cioè della sua assenza per congedo».

Espulse, un collettivo di giornaliste che indaga sulle molestie e sugli abusi di potere nel giornalismo italiano sottolinea la scarsa risonanza mediatica della sentenza «che invece potrebbe spingere altre donne – giornaliste, ma anche altre lavoratrici – a fare causa ai datori di lavoro che le hanno discriminate durante la maternità». Il demansionamento, come dimostra la vicenda di Lara Ricci, è uno dei timori più grandi, ma non è l’unico. «Io avevo un contratto a tempo indeterminato – commenta Ricci – mentre non è il caso di molte giovani donne precarie, che rischiano il non rinnovo. Inoltre, le freelance spesso lavorano anche subito dopo il parto per paura di perdere collaborazioni».

Tutti questi pregiudizi, ostacoli e timori fanno parte di un settore in cui la salute mentale è ancora un tabù. «Dopo il secondo figlio, mi sono resa conto di essere in burnout. Avevo bisogno di una pausa», ricorda Irene Caselli, sottolineando come, nonostante l’expertise in questi ambiti, non si fosse accorta di quanto fosse difficile ritornare a lavorare così presto e affrontare le conseguenze del mancato distacco da lavoro.

Maria Grazia Flore, psicoterapeuta ed esperta in psicologia perinatale puntualizza: «In Italia il compito della cura è ancora prevalentemente affidato alle donne. Questo crea una situazione ambivalente in cui, nonostante il supporto apparente alla conciliazione lavoro-famiglia, mancano i presupposti come il congedo di paternità più lungo e servizi di welfare adeguati». «La penalità nel mio caso è stata la mia salute mentale e la mia salute fisica – dice con grande consapevolezza Irene Caselli – perché ho continuato a fare le cose come se fossi da sola ma non ero da sola».

In Italia, il tema delle difficoltà affrontate dalle giornaliste durante la maternità è trascurato, come dimostra la scarsa disponibilità di dati. La prima indagine sulla condizione lavorativa delle giornaliste madri è stata condotta tramite un questionario nel maggio 2022 dalla commissione Pari opportunità dell’Ordine della Campania, ma i risultati non sono ancora stati pubblicati. «C’è bisogno di molta flessibilità nel mondo giornalistico – conclude Caselli, con lo sguardo che si fa più serio – e mentre la flessibilità da un certo punto di vista si combina bene con l’essere madre, da altri punti di vista è complicato».


(Altraeconomia, 15 giugno 2024)

di Roberto Ciccarelli


Lo hanno creato i freelance di Redacta, calcola i compensi dignitosi tra chi fa i libri, e non solo. Una guida per determinare il valore del lavoro è stata definita grazie all’alleanza con i dipendenti. Un prototipo per l’attività sindacale: la fiducia tra le persone insieme alla tecnologia. Il primo maggio dei lavoratori autonomi: quando l’auto-organizzazione crea nuovi strumenti di lotta


I freelance non si organizzano, rifuggono i sindacati, sono imprenditori di se stessi. Redacta, lo snodo dell’associazione dei freelance Acta che si occupa del lavoro nell’editoria libraria, ha sfidato questa solida convinzione culturale e antropologica e ha costruito un prototipo per l’azione politica e sindacale. Ha realizzato un’inchiesta condotta tra 825 partite Iva, ha stilato una guida pratica ai compensi dignitosi mai realizzata finora e ha creato un algoritmo (il «redalgoritmo», algoritmo redazionale o algoritmo «rosso») per calcolarli. In un settore basato sull’individualismo, e dove dilaga l’auto-sfruttamento e il lavoro gratuito, è una novità. L’uso incrociato di questi strumenti ricorda una strategia antica e insieme nuova: per agire bisogna conoscere la propria condizione, la conoscenza è frutto della cooperazione, il sindacato nasce dalla fiducia reciproca.

«Noi ci rivolgiamo alla nostra parte, prima che alla nostra controparte – afferma l’editor freelance Mattia Cavani di Redacta – Quando ci si mette in una stanza, e si comincia a parlare di esperienze, a condividere problemi, a trovare soluzioni, allora tutto il carico ideologico che grava su questo lavoro tende a scomparire e si riesce a trovare percorsi di azione condivisa. Un esempio è stata la vertenza con la casa editrice Il Saggiatore nel 2021. La determinazione e la fiducia tra le persone sono state sorprendenti, pur essendo in una situazione di forte disparità hanno trovato la forza in comune».

«L’aspetto ideologico si avvita con le condizioni materiali di frammentazione e alienazione quando si lavora da casa o nei coworking che sono posti sempre meno accessibili. – aggiunge la editor e ghostwriter Silvia Gola di Redacta – In cinque anni di lavoro abbiamo capito che vedersi dal vivo è un modo per dirsi la verità e riconoscere i problemi comuni. È un modo per non pensare che si è poco capaci, e cattivi lavoratori. Su di me ha funzionato molto e anche gli altri dicono “Ma che bello fare una riunione”».

Un altro strumento è l’inchiesta. Viene da una tradizione illustre, la «con-ricerca» dell’operaismo, è stata adottata da Redacta: «Lavorando con Sergio Bologna, che di Acta è socio, esiste una continuità con queste pratiche – osserva Mattia Cavani – Non ci siamo mossi con l’idea di continuare una tradizione, ci muoviamo in maniera pragmatica. Se uno si pensa da solo, con l’auto-inchiesta capisce che non è così: si lavora insieme anche quando si è separati. Il lavoro tiene collegati tutti e l’inchiesta permette di uscire da sé. Altrimenti ci sono le ricostruzioni di Confindustria che ha altri motivi per fare ricerca».

Tra chi ha risposto al sondaggio il 36,7% vive in Lombardia. Seguono Lazio, Emilia-Romagna e Piemonte. La maggior parte è nata tra il 1984 e il 1995. Ed è alle prese con redditi bassi, scarse o nessuna tutela. E con la disorganizzazione del lavoro: troppe urgenze ed eccesso di concentrazione dell’attività in certi periodi, e in altri no. L’editoria specialistica e quella scolastica registrano redditi medi più alti. Le attività autoriali sono le meno redditizie, seguite da quelle redazionali. Guadagnano di più gli editor e gli uffici-diritti.

Quello editoriale è un lavoro a prevalenza femminile, la stessa Redacta è composta al 90% da donne. La domanda più ricorrente è: «Possiamo parlare della scelta di avere figli?». Il problema è evidente quando si fa una mediana dei compensi orari netti: per le donne sono il 18% inferiori a quelli degli uomini. Il doppio lavoro è dunque una necessità. E doppia è anche la fatica. Si lavora nei fine settimana, e di notte, in nero e in maniera occasionale. Inoltre con redditi bassi non si lascia casa. Chi dichiara di non mantenersi vive spesso con la famiglia di origine. Fra chi si mantiene, una buona parte vive in condivisione con coinquilini. Per chi lavora unicamente in editoria, il reddito netto medio di chi ha figli tra gli intervistati dell’inchiesta è 21.800 euro, 16.100 di chi non li ha. Fa figli chi può permetterselo. In media si fanno tardi e la tendenza è quella di non averne.

La pratica dell’inchiesta ha permesso a Redacta di incontrare altre associazioni che hanno adottato un metodo simile: «“Mi riconosci” lo fa per i beni culturali, ART workers Italia lo fa per gli artisti. Come noi, anche loro hanno fatto una guida ai compensi. – afferma Silvia Gola – Il terziario avanzato sfugge alle statistiche ufficiali: il lavoro è ibrido, le traiettorie professionali sono multiformi. L’inchiesta permette di capire la filiera, fare sindacato è la conseguenza».

Dal sito di ACTA è possibile oggi scaricare la guida ai compensi dignitosi e usare facilmente il «redalgoritmo» per calcolarli. «Sono strumenti di consapevolezza e di lavoro che si completano – osserva Mattia Cavani – non siamo un ordine professionale, non c’è modo per imporre le tariffe, il mercato è una questione delicata, ma sapere che il lavoro può essere pagato in maniera dignitosa è importante». «Possiamo calcolare i compensi con pochi click sul nostro sito, in base al contratto dei grafici editoriali – aggiunge Silvia Gola – Così possiamo fare preventivi attendibili. A Bologna, Milano e Roma ho visto reazioni di grande entusiasmo tra chi ha iniziato a usare la guida e l’algoritmo. Noi siamo convinti che questa non è la notte in cui tutte le vacche sono nere».

Del prototipo REDACTA se ne parlerà al salone del libro di Torino il 9 maggio alle 12.45. Il titolo dell’incontro è un programma: «I libri sono belli ma la vita di più».


(il manifesto, 1° maggio 2024)

di Davide Coppo


Nessun fenomeno sociale, negli ultimi anni, mi sta affascinando tanto quanto il mutamento del lavoro. Guardo con entusiasmo e speranza agli esperimenti di settimane lavorative di quattro giorni, osservo turbato le statistiche che hanno fatto poi parlare di “great resignation”, grandi dimissioni, e mi chiedo a cosa porteranno. Mi interesso a quell’altro fenomeno molto chiacchierato di questi anni, il “quiet quitting” [mantenere il proprio posto di lavoro facendo il minimo indispensabile e senza impegnarsi per avanzare], e per la prima volta nella mia vita sono riuscito a sperimentare qualcosa di simile a un’organizzazione, raccogliendo le opinioni e i desideri di molti colleghi e colleghe su come creare, al termine dell’emergenza sanitaria, un giusto bilanciamento del lavoro tra la casa e l’ufficio. Mentre mi adoperavo in quest’ultimo sforzo così nuovo mi accorgevo che tutti i fenomeni a cui guardavo con curiosità avevano una caratteristica comune: riguardavano la sfera dell’individuo, e mai quella del collettivo.

Negli anni in cui “attivismo” è diventata una parola per definire, nove volte su dieci, dei cialtroni che parlano di banalità arrabbiate davanti a un ringlight su Instagram, è appena uscito un libro che intende ribaltare la prospettiva, rimettere la parola in buona luce, e tornare a parlare di dimensione collettiva quando si parla di lavoro, senza self-help e altri automiglioramenti. Si chiama Lo statuto delle lavoratrici (Bompiani, 2024) e l’ha scritto Irene Soave, scrittrice e giornalista per il Corriere della Sera. Contiene uno spettro veramente ampio di argomenti trattati: vigilanza, felicità, Sud e Nord, salute mentale e fisica, discriminazioni, ascensore sociale, gravidanze. Sarebbe stupido pretendere di farne un riassunto esaustivo in un articolo, e quindi posso dire che quello che unisce meglio tutti i capitoli è, nelle intenzioni della scrittrice o nei miei occhi, la necessità di ritrovare uno spirito di comunità e organizzazione tra lavoratori – o lavoratrici. La mancanza di questo senso di collettività, mi sembra, sta in tutte queste reazioni disordinate all’infelicità lavorativa che abbiamo scoperto durante il Covid, e che ha dato origine ai fenomeni di cui sopra.

Se il problema del lavoro è collettivo, dice Soave, la risposta non può essere individuale. Un esempio recente: la nascita del MeToo è una delle poche e rare risposte collettive a un problema (anche) lavorativo che abbiamo visto negli ultimi anni. Ha coinvolto centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo, ha spaventato chi deteneva e detiene il potere, ha anche dato il panico a centinaia di migliaia di uomini terrorizzati di perdere un privilegio che hanno sempre ritenuto diritto naturale. Soave traccia un filo rosso tra quell’hashtag e il Rapporto Hite, un celebre – appunto – rapporto sulla sessualità femminile pubblicato nel 1976. Era basato su oltre tremila interviste a donne americane, e ne veniva fuori, in breve, che il piacere sessuale non era una cosa che molte donne provavano, e che la figura dell’uomo non era una conditio sine qua non per il raggiungimento dell’orgasmo. Anzi. «Il Rapporto Hite (…) ai lettori maschi diceva: state sbagliando tutto. Alle lettrici diceva una cosa più potente ancora: no, non succede solo a te». Sentirsi comunità. Il 15 ottobre 2017 l’attrice Alyssa Milano scrive su Twitter: «Se sei stata molestata o aggredita sessualmente scrivi “me too” nelle risposte a questo tweet». Nelle prime dodici ore arrivano più di cinquecentomila risposte.

Un momento: ma questo è un libro che parla solo di lavoratrici, quindi? No: con una mossa audace, Soave usa un “femminile sovraesteso”. È quello che da sempre, in molte lingue, si fa con il maschile. Quello per cui scriviamo cose che si chiamano “Statuto dei lavoratori”, per esempio, per intendere tutti gli spettri di genere, o ancora diciamo “i cittadini”, “i consumatori”, “i clienti”, e così via. Risolvendo i problemi che escludono le lavoratrici, si legge, starebbero meglio tutti i lavoratori. Il maschile di solito si sovraestende per abitudine e pigrizia, per poca cura del femminile. Il femminile di Soave si estende per solidarietà e protezione: è una mantella per ripararsi tutti – e tutte – insieme dalla pioggia. E la pioggia sono le sofferenze di noi, lavoratori e lavoratrici in diversi modi insoddisfatti e infelici, aspiranti quiet quitter.

C’è un bel fraintendimento, nel significato profondo di quiet quitting. Che significa? È stato tradotto come “dimissioni silenziose”, una grande presa di consapevolezza – finalmente! leggevamo sui soliti New Yorker e New York Times e Guardian e così via – del fatto che così non va bene. Eppure non vuol dire lasciarlo per davvero, questo lavoro, pur se in silenzio e di nascosto. «No», scrive Soave, «significa che fai solo quello che il tuo contratto ti dice di fare, per le ore in cui devi farlo. Non fai straordinari, non prendi progetti né responsabilità che escano dal tuo orario, non esegui mansioni che non siano indicate sul tuo contratto. Rivoluzionario, no? Be’, no. Intanto fare quello per cui sei pagato e negli orari pattuiti non significa “non lavorare” o “quasi licenziarsi”. Anche farlo malvolentieri significa lo stesso lavorare».

Si è visto che al quiet quitting le aziende rispondono spesso con un “quiet firing”: impedendo alla lavoratrice (sovraestendo pure io) di avanzare, riducendole i compensi o i bonus, rendendole la vita più complicata. Quindi, molte quiet quitter hanno rinunciato, e sono tornare a lavorare come prima, più di prima. Questo succede perché il quiet quitting è un atto solitario, e privo di protezione. «Come tale», scrive ancora Irene Soave, «i suoi ritorni ma anche i suoi costi si scaricano tutti e solo su chi lo mette in pratica. Se a farlo fossero tanti si chiamerebbe, in italiano, stato di agitazione, o sciopero bianco».

La colpa di questa infelicità è talvolta di quelli che il filosofo David Graeber chiamava bullshit jobs. Chi lavora in campo creativo li conosce bene: Graeber parla addirittura di «violenza spirituale» per questi compiti senza regione, che generano un tipo di insoddisfazione e alienazione più profonda perché privi di una apparente logica. Così alienati, appunto, che non riusciamo a immaginare come uscirne. Ancora Soave: «Il nostro quiet quitting non è collettivo, e più che rivendicare è un ritirarsi, se per rivendicazione e collettività non intendiamo la condivisione di stories Instagram con lo slogan I don’t dream of labor […]. E a scioperare da soli, comunque, come si fa?».

C’è molta rassegnazione e nostalgia, e poca rabbia e concretezza, nel modo in cui ci rapportiamo al lavoro. Piagnucoliamo, e pensiamo commossi a quando credevamo di poter guadagnare i soldi dei nostri genitori. O ci commuoviamo ancora di più se ci ricordiamo della fine che hanno fatto i sogni di madri che immaginavano per le figlie una parità ormai prossima, un’indipendenza totale, e invece. Un mio amico dice sempre che il lavoro è normale che faccia schifo, altrimenti non ci pagherebbero per farlo. Soave la mette giù un po’ più epica, e ricorda che è dalla Genesi 3:19 che il lavoro è assegnato all’uomo come punizione divina. Ma se fa così schifo, che dobbiamo fare? Organizzarci un po’ di più, dice in fondo Lo statuto delle lavoratrici. E questa organizzazione passa in primo luogo dal conoscere un po’ meglio i propri diritti, doveri e confini.

C’è poi da dire che questo saggio ha la forza narrativa che libri simili di solito non hanno: è arricchito da una scrittura vivace e brillante, e costellato di storie di amiche ed esempi e pioniere, lavoratrici fortunate e sfortunate e altri casi di donne che lottano e spesso perdono e talvolta vincono, che mi sembra si potrebbero pure leggere come modelli di storie per “bambine ribelli” più ispirazionali e reali di una Chiara Ferragni o una Margaret Thatcher.

Questo Statuto è soprattutto un libro intelligente, quasi rivoluzionario: mi ha ricordato che si possono dire cose radicali senza gridare su Instagram, e che si può farlo con competenza e preparazione. C’è in fondo la storia di un dissidente bielorusso che dice una frase che diventa la scintilla da cui parte tutta questa operazione. Lui dice: «Se non puoi parlare al mondo, parla al Paese. Se non puoi parlare al Paese, parla alla città. Se non ti lasciano, ai quartieri. Se non ti sentono, ai vicini. Se i vicini sono delatori, tieni un diario, e un giorno a cambiare le cose sarà proprio quel diario. Se non cambia niente, scrivilo lo stesso». Soave l’ha scritto. Io penso sia un’ottima idea consigliarlo e regalarlo.


(RivistaStudio, 9 aprile 2024)

di Linda Laura Sabbadini


Non siamo l’unico Paese a bassa fecondità. C’è chi sta peggio di noi, come la Corea del Sud, Taiwan, Singapore, ai più bassi livelli al mondo. Non saranno proclami contro l’individualismo, o appelli, anche pop, alle donne a essere madri a cambiare la situazione. La bassa fecondità non può essere affrontata in modo ideologico. La bassa fecondità è l’effetto di politiche tardive e che non hanno puntato sulla centralità dei bisogni delle donne e sul desiderio dei giovani a una vera qualità della vita. È la conseguenza di uno sviluppo non centrato sulle persone.

Il problema si sta estendendo. Ormai circa i due terzi della popolazione mondiale vivono in Paesi al di sotto di 2,1 figli per donna. Non Africa sub-sahariana e Medio Oriente. Corea del Sud, Taiwan e Singapore sono Paesi con un ritmo di crescita e sviluppo elevati ed in poco tempo hanno conosciuto un tracollo della fecondità, proprio a seguito dello sviluppo. Ciò ha comportato cambiamenti culturali profondi, specie nel livello di istruzione, con una crescita della partecipazione femminile al mondo del lavoro, a cui non ha corrisposto un cambiamento della stessa intensità nei rapporti tra uomo e donna e nella cultura del lavoro, con orari di lavoro massacranti e spesso mal pagati. Con molte donne, altamente istruite, costrette a dover scegliere fra la realizzazione sul lavoro ed il fare figli.

Tanto è che la Corea si trova a guidare la classifica nel mondo per bassa fecondità con 0,78 figli per donna.

Anche Taiwan vive una situazione simile. Con la sua presidente donna ha investito su sviluppo dei servizi per la prima infanzia, congedi, assegni, ma con il risultato del raggiungimento di un più alto tasso di occupazione femminile rispetto alla Corea del Sud (80% delle 20-30enni), pur restando ad un tasso basso di fecondità. Lo squilibrio tra l’affermazione delle donne nella sfera pubblica e l’arretratezza del ruolo delle donne nella sfera privata è il nodo segnalato proprio dal dibattito scientifico nel Paese.

E non è esente da questa dinamica il Giappone che ha un numero di figli per donna pari a 1,24, vicino al nostro, ed ha raggiunto il numero più basso di nascite nel 2022 come noi, dopo 12 anni di continuo calo.

Anche lì la divisione dei ruoli in famiglia è rigida, come l’organizzazione del lavoro, ed i servizi scarsi.

La bassa fecondità riguarda anche la Cina, in tutt’altro contesto, dove lo Stato autoritario pretende di passare a suo piacimento dall’imporre prima un solo figlio per coppia e ora due o più, cercando di programmare le donne come macchine da riproduzione. Ma con scarsissimi risultati.

Le nascite, infatti, diminuiscono da sette anni, e non c’è propaganda ad essere brave madri-modello che tenga, né incentivi a fare figli. Pensate, nel 2016 i nati erano 18 milioni, ora sono 9 milioni 600mila, quasi la metà, in seguito alla drastica diminuzione dei primi matrimoni. E la vecchia politica draconiana del figlio unico ha ristretto il numero di donne oggi in età riproduttiva, molto più basso del passato.

La bassa fecondità è arrivata persino in Iran, che ha conosciuto un crollo veloce, il più rapido di tutti: negli anni ’50, 7 figli per donna. Trent’anni dopo, 6,5. Vent’anni ancora dopo, 1,8 figli per donna. Nel 2022 1,7. Ciò preoccupa non poco il regime iraniano, che lo imputa, non a torto, al forte incremento dell’istruzione femminile, e a una nuova consapevolezza delle donne che attraversa il Paese, non solo nelle zone urbane. E che vede le ragazze determinate a perseguire la propria libertà pure su questo piano.

Il fattore D della volontà delle donne di realizzarsi su tutti i piani, libere di scegliere come vivere, con o senza figli, è un nodo cruciale con cui i governi di tutto il mondo devono fare i conti, se vogliono rialzare la bassa fecondità. Non serve una singola misura.

Servono un cambiamento di modello di sviluppo e politiche stabili nel tempo. Serve un investimento finanziario serio sullo sviluppo dei servizi per la prima infanzia e per l’assistenza di anziani e disabili, tempo pieno a scuola, congedi di paternità paritari, congedi parentali retribuiti adeguatamente, cambiamento dell’organizzazione del lavoro, investimenti permanenti per combattere gli stereotipi di genere.

Serve sostegno economico e dare ai giovani una speranza di vita migliore, dignitosa e libera, senza che qualcuno prescriva quanti figli fare, e come vivere, ma creando le condizioni perché abbiano i figli e la vita che desiderano. Più tardi i governi lo capiranno, più ne pagheranno le conseguenze.


(la Repubblica, lunedì 22 gennaio 2024)

di Luisa Pogliana


Il contesto neoliberista-finanziario

Per anni noi donne abbiamo portato una nuova visione nel management, attente agli essenziali equilibri di potere in campo. Tanto tanto più necessario oggi, di fronte al grave cambiamento nel modo di governare le aziende. È il modello economico del neoliberismo finanziario, cui deriva un potere che agisce con nuove dinamiche.

Nella nostra visione l’azienda è per noi il punto di incontro di interessi diversi: finanziatori, proprietari, chi lavora, e al manager compete trovare un equilibrio tra questi interessi. Ma oggi lo stesso scopo dell’azienda – produrre beni o servizi – passa in secondo piano. Come anche la remunerazione dei lavoratori e gli investimenti, necessari a garantire il futuro. Perché uno dei primi mandati rivolti ai manager è contenere, tagliare il costo del lavoro.

L’azienda è distolta dal suo fine naturale, creare valore, ed è assoggettata a una estrazione di valore. La speculazione finanziaria prevale sull’economia produttiva.

È una tendenza che inizia negli anni 80 del 900, ma si è sviluppata in modo graduale, e solo negli ultimi anni ne abbiamo visto chiaramente gli effetti. Guardiamo per esempio un indicatore nel mercato del lavoro degli USA. La forbice tra produttività e remunerazione si è allargata sempre più: la produttività è cresciuta del 64%, le remunerazioni sono cresciute del 17%.

Il salto evidente del suo dominio è avvenuto con l’ondata del Covid, facendo leva soprattutto sulle nuove forme di organizzazione del lavoro, che hanno isolato ogni lavoratore e lavoratrice con il lavoro da casa totale e obbligatorio. Così si toglie il fondamento della solidarietà, la forza della contrattazione, e si rende chi lavora più controllabile, dominabile. Infatti è ben prima del Covid che le grandi società di consulenza aziendale (McKinsey, Accenture…), mettevano l’isolamento dei singoli lavoratori come obiettivo principale indispensabile per ottenere tutto il resto. Si era valutato che ci sarebbero voluti 30 anni per raggiungerlo. Le politiche per contenere il Covid lo hanno reso possibile in tre anni.

Le pressioni sul management

Oggi la gestione dell’azienda da parte dei manager è sempre più condizionata da vincoli esterni: la pressione della crescente forza di questa pressione è la compliance: obiettivi predefiniti a prescindere dagli andamenti del business aziendale, standard di settore e certificazioni imposti a livello globale, limitano l’autonomia di azione dei manager di ogni livello.

L’altro strumento è la cosiddetta digital transformation. Strumenti tecnologici destinati a ridurre gli ambiti decisionali dei manager, e lo spazio per il lavoro umano con il suo valore.

Facciamo solo qualche esempio. Le piattaforme digitali impongono regole e ritmi molto più stretti della catena di montaggio. La gestione aziendale guidata dai dati (data driven), usa algoritmi ignoti ai manager stessi, e sminuisce il loro ruolo come autori di politiche e di scelte. I dati, inoltre, non sono neutri, ma riflettono i pregiudizi di chi li crea: verso le donne prima di tutto, e le etnie diverse dalla nostra, le età… Così gli algoritmi per selezionare il personale escludono le donne, perché non disponibili a lavorare senza limiti di tempo. Infatti l’Intelligenza Artificiale di oggi è prodotta da un mondo dominato da uomini – spesso misogini – bianchi e di alto livello sociale. Lo stesso avviene nella finanza speculativa.

La riduzione del potere manageriale

Il potere e lo status dei manager nei due ultimi decenni sono diventati via via molto limitati.

Si è affermato un nuovo potere, esercitato da lontano e difficilmente visibile: grandi investitori finanziari, grandi istituti bancari globalizzati, grandi case digitali. I manager di tutti i livelli e di ogni specializzazione ne sono toccati. CEO e Chief Financial Officer sono più esposti al mercato finanziario, che guarda gli andamenti del titolo in borsa molto più dei risultati nel business di riferimento: la loro remunerazione viene decisa da chi detiene le azioni. Anche i manager delle Risorse Umane sono esposti ad aspettative esterne, con il compito di tenere sotto controllo il costo del lavoro. Per gli altri si diffondono accordi diversi, con una flessibilità tutta a vantaggio aziendale: temporary manager, fractional manager, consulenza.

Complessivamente c’è un maggiore distanziamento tra il vertice e gli altri manager, spesso costretti a rinunciare proprio a quelle azioni che danno senso all’essere manager (come occuparsi di chi lavora). La figura del manager è erosa.

È una situazione frustrante, c’è un forte scontento. Ma si tende a non parlarne pubblicamente, per una sorta di pudore, per non sminuire la propria immagine. Si rischia di coprire l’insoddisfazione con atteggiamenti di facciata. Ad esempio, continuiamo a parlare dell’abusato “persone al centro”, ma è più una petizione di principio che una descrizione di ciò che riusciamo a fare. E si parla di “organizzazioni tossiche”, come si trattasse solo dell’agire di manager malintenzionati.

Come fare

Sappiamo che non saremo noi sole a poter contrastare il neoliberismo e le sue conseguenze, ma qualcosa si può fare. Qualcosa, infatti, sta già succedendo.

Negli Stati Uniti, culla del neoliberismo e della finanza, lì dove le politiche del personale si basano sulla relazione uno a uno, i lavoratori e le lavoratrici sono tornati a una risposta collettiva. Nonostante la paura di ritorsioni, c’è stata una crescita dell’adesione ai sindacati in media del 60% . Nei mesi scorsi gli scioperi sono scoppiati dappertutto, tanto che questa stagione è stata etichettata “l’estate calda”. Si intravede un cambiamento anche nell’atteggiamento dei manager: una nuova attenzione a recuperare spazi di azione per sé.

Queste lotte non vengono all’improvviso, sono maturate proprio mentre cresceva l’accanimento e la voracità sempre in aumento di questa economia. E sono state impreviste. Dunque ci fanno pensare che c’è uno spazio politico anche per noi. Importante è smettere di tacere su questa situazione. I margini di autonomia sono più ristretti ma ci sono, vediamo come usarli. Anche iniziative limitate, che incidono comunque sulle organizzazioni: diamo valore alla microprogettazione.

Se la situazione impedisce di esporci, certamente dobbiamo tutelare il nostro lavoro. Possiamo però dare vita a soggetti collettivi per fare fronte comune contro il nostro depotenziamento. Lasciamo da parte i discorsi difensivi, e guardiamo in faccia la realtà: diciamoci che cosa non si riesce a fare, o non ci fa brillare ma impaurire.

Un bell’incoraggiamento viene dal passato. In ogni epoca del capitalismo ci sono situazioni specifiche di ingiustizia nella distribuzione delle ricchezze e del potere. E richiede una risposta adeguata. Ma ogni volta è venuta da una grande donna, e prima di un uomo. La prima è Beatrice Webb, che con l’arrivo della Rivoluzione Industriale, fonda il concetto stesso di management, basato sull’idea di Industral Democracy. Segue la Grande Depressione, alla quale Mary Parker Follet risponde con l’idea di un management “umanistico”: non il “potere su” ma il “potere con”.

E nel nostro periodo emerge Judy Wajicman, la più grande esperta del “capitalismo digitale, nell’intreccio tra management/lavoro/genere/tempo.

Anche al neoliberismo possiamo dare una risposta. E chissà, forse ha raggiunto il suo massimo livello, forse il quadro sta cambiando. Ma noi non aspettiamo.


Luisa Pogliana ha fondato con altre l’associazione Donnesenzaguscio, per “riflettere sull’essere donna e manager” (www.donnesenzaguscio.it). Il video del Seminario Manager sotto pressione. Ma uno spazio per agire e cambiare c’è sempre (Milano, 18 novembre 2023) si trova su YouTube al link https://youtu.be/ML0geT4UR8c


(www.libreriadelledonne.it, 7 dicembre 2023)

di Elsa Fornero


«Siamo libere, e nessuno può toglierci questa libertà, nessuno può pensare che siamo nel loro possesso», ha postato Giorgia Meloni a proposito della tragica morte di Giulia per mano del giovane che pretendeva di amarla. Più poeticamente, Charlotte Brontë, nata nella brughiera dello Yorkshire da un severo pastore protestante e da una mamma morta al sesto parto, fa dire a Jane Eyre: «Non sono caduta in nessuna rete; sono un essere libero, con una volontà indipendente». Giorgia ha acquisito la sua libertà non soltanto con la forza della volontà ma anche impegnandosi in politica, e ricevendone un reddito. Charlotte l’ha conquistata scrivendo libri e racconti, anch’essa ricavandone introiti. Giulia, decisa e consapevole, aveva intrapreso un duro percorso di studio per ottenerla. Ha pagato il prezzo più alto.

Gli esempi sono moltissimi, la conclusione è una sola: la libertà non si conquista senza l’indipendenza economica e questa a sua volta si ottiene con il lavoro. Senza l’indipendenza economica femminile, gli uomini mantengono potere sulle donne, limitandone – poco o tanto, secondo la loro educazione e la loro indole – i gradi di libertà. Che si tratti di padre, marito, compagno, fratello, è ancora troppo spesso un uomo a decidere – o a pretendere di decidere – per una donna, relitto di un passato in cui la forza fisica faceva premio sulle capacità intellettuali e dove il dominio maschile era accettato (o subito) in cambio di protezione, arrivando a giustificare la violenza in caso di “rottura” del “contratto implicito” da parte della donna e perciò di offesa all’onore maschile. Una maschera, in realtà, della paura maschile di essere inadeguati, di non saper gestire una relazione paritaria. Spesso dimentichiamo le battaglie del passato troppo presi dai rigurgiti violenti dell’incultura della superiorità maschile, della (presunta) “inadeguatezza” delle donne a decidere in libertà della loro vita. E ricordiamo allora Angela Bottari, prima firmataria nel 1981 della legge che abrogò il “delitto d’onore” e il “matrimonio riparatore”, da poco scomparsa.

Oggi le donne reclamano il principio costituzionale di uguaglianza, nei rapporti affettivi nella famiglia, nelle istituzioni, nella società. Ma quante donne possono oggi dire di avere quell’indipendenza economica che è il presupposto della loro libertà? Certo, nell’istruzione – che è la premessa per l’occupazione – le donne hanno, pian piano, conquistato il primato (ci sono più laureate che laureati e con voti mediamente più elevati); la parità, però, non è ancora raggiunta nelle discipline più scientifiche, non per inadeguatezza ma per sottili “consigli” a seguire percorsi di studi più “adatti alle donne”, secondo pregiudizi diffusi. Questi percorsi formativi, però, sono più avari di posti di lavoro, soprattutto di quelli ben remunerati. L’occupazione femminile in Italia è in drammatico ritardo rispetto ad altri paesi europei e con forti divisioni interne e, nonostante le norme a presidio della parità salariale, i dati confermano la persistenza del divario salariale di genere, a dimostrare che le norme non bastano se poi non seguono i comportamenti.

Il mondo del lavoro è stracolmo di sottili discriminazioni nei confronti delle donne, magari esercitati dietro una patina di gentilezza come quando, in occasione di una competizione per un incarico lavorativo o una promozione, dopo che la scelta è caduta su un uomo, alla donna sconfitta viene detta la frase “in fondo, tu sei moglie e madre”. Come se l’ambito familiare debba essere il luogo di massima aspirazione femminile, per il quale vale la pena sacrificare l’autonomia di una carriera di lavoro. In moltissime occupazioni, la gestione delle risorse umane o anche semplicemente la stratificazione gerarchica si traducono in differenziazione delle opportunità ed è quasi “normale” che una donna, pur svolgendo sostanzialmente gli stessi compiti di un uomo, magari sotto l’etichetta solo formalmente diversa, sia meno retribuita del collega.

Un’opinione deleteria ancora molto diffusa è che l’occupazione delle donne vada a scapito di quella maschile. Vi sono due obiezioni a questa tesi. La prima è di logica economica: non vi è alcuna ragione per la quale il mondo del lavoro debba funzionare a numero fisso di posti. Piuttosto ci si deve chiedere quale configurazione del mercato del lavoro e dei suoi rapporti con il mondo dell’istruzione e della formazione professionale e quali norme, quali servizi pubblici possano favorire, anziché ostacolare, l’obiettivo della piena occupazione. Non è possibile continuare a considerare le donne in generale (e i giovani) segmenti deboli del nostro mercato del lavoro. La debolezza non è loro, ma della società che nutre tali concezioni e che, paternalisticamente, offre spesso compensazioni a posteriori (vedasi pensione di reversibilità un tempo assai generose) per discriminazioni a priori.

La seconda ragione è empirica: là dove il tasso di occupazione femminile è più alto, è più elevato anche quello degli uomini. Lo dimostrano i dati dei paesi del Nord Europa, caratterizzati da una visione inclusiva e non sostitutiva del lavoro femminile; da noi, la stessa correlazione positiva si ritrova nelle regioni/province (tipicamente nel Nord-Est del paese) nelle quali le politiche attive funzionano meglio.

È possibile, infatti, una visione del mondo del lavoro diversa, dove i giovani, le donne e, anche le persone meno giovani, alle quali pensiamo spesso soltanto in termini di pensionamento anticipato, possano trovare occasioni di lavoro dignitoso, adeguatamente retribuito. Si tratta di cambiare paradigma, di cambiare la nostra visione del mondo del lavoro; di affermare concretamente il principio costituzionale del diritto al lavoro e, attraverso di esso, il valore sociale, oltre che individuale, dell’indipendenza economica delle donne, come base di un’eguaglianza più grande. Non è facile, ma ci si deve provare. L’occasione offerta dal Pnrr, sotto questo profilo, non va mancata, Giorgia.


(La Stampa, 27 novembre 2023)

di Elettra Raffaela Melucci


Federmeccanica, Assistal, Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil promuovono, su proposta della Commissione Nazionale per le Pari Opportunità (organismo paritetico della categoria), il progetto Generiamo cultura, finalizzato al contrasto della violenza di genere e della prevenzione delle molestie nei luoghi di lavoro del settore metalmeccanico. Le aziende, che aderiscono a Generiamo cultura – tra cui Fincantieri, ABB, Aero Avio, Leonardo S.p.A., Engie Italia S.p.A e molte altre sparse nel territorio nazionale – intendono avviare sul tema un percorso di evoluzione culturale indispensabile per abbattere gli stereotipi e proiettare l’immagine della donna verso una dimensione di maggiore libertà, dignità e affermazione di sé. Ne parla in questa intervista per Il diario del lavoro Michela Spera della Fiom-Cgil, promotrice del progetto.


Qual è il contesto di partenza?

Ci abbiamo lavorato molto e questo progetto inaugura un nuovo percorso. All’inizio dal territorio c’era “cautela”, sia tra le strutture sindacali che le strutture territoriali che le aziende. È chiaro che affrontare in azienda un tema con questi contenuti preoccupa chiunque ed è giusto che sia così, perché denota serietà, anche perché nessuno pensa di avere gli strumenti per poter fare una cosa di questo genere su una platea di lavoratori e lavoratrici. Quindi abbiamo riscontrato preoccupazione e un po’ di cautela. Oggi vediamo che in parte alcuni stanno già iniziando ad avviare il programma, mentre altri ancora stanno a vedere come andrà altrove. Questo non per insensibilità, ma perché è difficile gestire una cosa del genere in un settore produttivo come quello metalmeccanico.

Il settore metalmeccanico include un ampio spettro di lavorazioni. Qual è la percentuale di donne impiegate nel settore?

Si aggira intorno al 20%, ma la nostra idea è che su questo argomento della violenza di genere e delle molestie bisogna lavorare in particolare sugli uomini.

Qual è il percorso che vi ha portato alla realizzazione di questo progetto?

Nel 2021 abbiamo fatto il contratto dove abbiamo introdotto una serie di norme e tutele per le donne vittime di violenze, una serie di impegni da parte delle aziende a tutela delle lavoratrici vittime di violenza. L’iniziativa di oggi, quindi, nasce su un terreno che è stato in parte già affrontato attraverso l’esperienza per noi più alta, che è il rinnovo del contratto nazionale. C’è la Commissione Nazionale per le pari opportunità – composta da Federmeccanica, Assistal, Fim-Fiom-Uilm e rappresentanti delle associazioni territoriali, delle aziende e delle organizzazioni sindacali – che esiste da molti anni ma viene attivata dopo il contratto del 2016, e con il contratto del 2021 si introducono queste norme. Il contratto assegna alla Commissione il compito di lavorare alla prevenzione di forme di molestie sessuali nei luoghi di lavoro, anche attraverso ricerche sulla diffusione e le caratteristiche del fenomeno. A tal fine si promuovono inoltre iniziative di sensibilizzazione finalizzata allo sviluppo della cultura del rispetto della dignità della donna e su questo sono state fatte molte cose dal 2021 ad oggi. La stessa cosa vale per le commissioni territoriali. In più, il contratto prevede, in un capitolo specifico, delle azioni per la prevenzione di molestie e violenze nei luoghi di lavoro allo scopo di perseguire l’obiettivo di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori nell’ambiente di lavoro quale luogo in cui ogni azione contraria deve essere considerata inaccettabile. Le aziende sono tenute ad adottare la dichiarazione sottoscritta da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil il 25 gennaio 2016 al fine di promuovere comportamenti consoni, favorire relazioni interpersonali improntate al rispetto della correttezza reciproca, e si attiveranno per sensibilizzare i lavoratori e le lavoratrici sul tema e migliorare il livello di consapevolezza con iniziative formative e informative mirate anche sulla base dell’indicazione elaborata dalla Commissione Nazionale per le pari opportunità nell’ambito della propria attività di promozione. Il nostro contratto, quindi, ha tanti elementi di tutela e si rivolge a tutta la platea di lavoratori e lavoratrici. La seconda parte, invece, contiene forme di tutela per le donne vittime di violenza, tra cui l’estensione della banca ore solidale, tre mesi di permessi retribuiti (che si sommano ai tre mesi dell’aspettativa già previsti dall’Inps con la legge del 2005, che riconosce a tutte a tutte le lavoratrici vittime di violenza il diritto di astenersi dal lavoro per motivi connessi al percorso di protezione). Inoltre, le donne vittime di violenza hanno anche diritto alla trasformazione del loro rapporto di lavoro a tempo parziale o comunque a forme di flessibilità oraria nel momento in cui sono in questo percorso di tutela. E poi, dove è possibile, perché le aziende hanno più di una sede, le donne hanno diritto a chiedere il trasferimento in un’altra sede lavorativa.

Generiamo Cultura. In cosa consiste questo progetto?

Come Fim, Fiom e Uilm abbiamo mandato una lettera a tutte le strutture territoriali, sindacali e datoriali di Federmeccanica e Assistal, contenente le indicazioni per l’organizzazione di iniziative formative e informative nelle aziende contro la violenza di genere finalizzata allo sviluppo della cultura, del rispetto della dignità della donna. Le aziende sono chiamate a organizzare sul tema in oggetto nel mese di novembre un evento finalizzato di sensibilizzazione e formativo sul tema, e promuoviamo una campagna nazionale proprio su questo. La durata di ciascuna iniziativa, in orario di lavoro, è di un’ora e mezza-due. La commissione ha messo a disposizione di ogni struttura delle indicazioni e del materiale, ma siamo rispettosi del fatto che le aziende e le RSU decideranno in autonomia con quali modalità e con quali contenuti, anche nel rapporto con le istituzioni locali, con i centri antiviolenza, con gli esperti aziendali. Inoltre, per queste iniziative possono essere usate le ore di formazione obbligatoria. Destinatari sono lavoratori e lavoratrici che devono essere messi in condizione di partecipare e quindi utilizzare sia la presenza che il collegamento, o farlo su più turni. Le aziende della Commissione – che sono Fincantieri, ABB, Aero Avio, Sicme, Alstom e Schneider – da subito si sono dichiarate disponibili all’iniziativa. Sono state quindi le singole aziende a costruire gli eventi, nei contenuti, nelle date e nelle modalità che hanno ritenuto opportuno.

Quali sono gli strumenti di contrasto alla violenza di genere che avete messo a disposizione delle aziende?

In particolare per le piccole e medie aziende, ma non solo, abbiamo messo a disposizione del materiale proprio per aiutarle nell’organizzazione, come i tre video che abbiamo realizzato all’Università La Sapienza di Roma l’anno scorso. In ogni video c’è l’intervento di una figura che offre un contributo che potrà essere utilizzato a seconda del contesto aziendale; quello di Patrizia Romito, professoressa associata presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Trieste, che ragiona sul ruolo fondamentale che i contratti nazionali rivestono nell’affrontare questi temi, come messaggio che si dà all’intera popolazione che lavora, uomini e donne, dando valore a questa sensibilizzazione e questa tutela delle donne maltrattate. C’è poi l’intervento del Direttore Centrale Anticrimine della Polizia di Stato, Francesco Messina, che ha spiegato quali potevano essere le tutele che le donne possono attivare prima di arrivare a una denuncia. Il terzo, infine, è quello di Antonella Veltri, ricercatrice Cnr e Presidente di D.i.RE, la rete nazionale dei centri antiviolenza, che spiega cosa sono i centri antiviolenza e quale la loro esperienza, ragionando anche sul fatto che non è scontato che le donne denuncino e bisogna quindi capire le loro ragioni. Abbiamo realizzato un video sul consenso, con delle frasi iconiche pronunciate dai nostri segretari generali Michele De Palma, Rocco Palombella e Roberto Benaglia, oltre che i componenti e le componenti della commissione, e abbiamo preparato un piccolo glossario, prendendo le definizioni europee dei termini sulla violenza da quella economica a quella di genere. Infine, ci sono i flyer della rete DiRE che illustrano “i nove cuori”, i nove segnali di quando una relazione diventa violenta. Ovviamente abbiamo cercato di coprire i vari i vari aspetti che potevano essere affrontati in ogni singola realtà.

Voi siete quindi la bussola attraverso la quale le aziende possono orientarsi nell’organizzazione di queste giornate.

Le aziende stanno organizzando molte iniziative in connessione anche con i territori – le università, le scuole, i centri antiviolenza, le case rifugio, associazioni del terzo settore, le consigliere di parità – chiamando a intervenire numerosi profili esperti in materia, tra cui anche autorità cittadine. Se si riesce a organizzare eventi strutturati il territorio comincerà a parlarne, trascinando anche altre aziende, e si favorisce in questo modo l’apertura di una discussione. Gli eventi si stanno praticamente moltiplicando.

Nelle indicazioni ai territori per l’organizzazione di queste iniziative si precisa di non limitarsi al solo 25 novembre per parlare del tema. Non sarebbe più efficace un programma che sia più capillare su tutto l’anno?

Noi abbiamo indicato il 25 novembre perché bisogna anche fare i conti con i tempi della normale vita aziendale. Già il fatto di essere partiti con questo impegno sul mese di novembre è stato un segnale importante, poi sicuramente si creeranno altre condizioni per proseguire. Abbiamo detto subito che non è necessario programmare iniziative solo nel mese di novembre, per cui altre verranno messe in campo e se il progetto avrà continuità lo vedremo nei fatti concreti. Quindi nella pratica abbiamo bisogno di capire se siamo efficaci o meno e dai segnali che abbiamo credo lo saremo. Da questo dipende la continuità. Noi abbiamo dato degli strumenti, ma il mondo metalmeccanico è un mondo vivo fatto di rappresentanze sindacali e delle imprese e sono convinta che avrà gambe proprie e si amplierà oltre quello che noi oggi possiamo vedere. Al di là delle spettacolarizzazioni del governo, ad esempio su Caivano, c’è un impegno della società civile sul tema e quindi ci sarà anche una sensibilità del mondo del lavoro che lo fa non solo come denuncia o come solidarietà, ma come azione concreta. Gli strumenti adesso ci sono per poterlo fare. È chiaro che bisogna punire il crimine e punire è quello che fa la politica, quando la violenza è già avvenuta, il problema è prevenirla. Quante martiri ancora dobbiamo avere? Per quel che ci riguarda noi non abbiamo compiti pedagogici come può avere la scuola, sicuramente però dal punto di vista della educazione civica tanto possiamo fare.

Si insiste molto su come le donne debbano difendersi dalle molestie e dalla violenza. Quali sono invece gli strumenti da agire sugli uomini?

La libertà femminile non viene accettata perché c’è il concetto di possesso da parte dell’uomo. Adesso gli uomini violenti sono gli uomini più fragili, quelli che non riescono a fare i conti con la fine del patriarcato e che non riescono ad avere una propria identità che non sia legata al possesso. Abbiamo realizzato un video sul consenso, di cui ho già parlato, in cui sono i nostri segretari generali e metterci la faccia. Abbiamo realizzato anche dei materiali sulle molestie e sono rivolti direttamente agli uomini perché le donne sanno perfettamente cosa sono. Inoltre, abbiamo il glossario su alcune voci che vanno da “atti persecutori”, “informatici”, “generici”, cosa vuol dire “dignità”, quali sono le discriminazioni dirette e indirette; c’è anche la voce sul matrimonio forzato, perché abbiamo tanti lavoratori stranieri; le mutilazioni genitali, la parità di genere, il patriarcato, la segregazione di genere, la segregazione professionale di genere, gli stereotipi. E poi ancora il revenge porn, la violenza domestica contro le donne in senso generico, la violenza economica, la violenza informatica contro donne e bambini. Abbiamo creato anche un prospetto con i numeri di sicurezza a cui rivolgersi, che ogni singola azienda o RSU può completare con i numeri del territorio. Essere a conoscenza di queste informazioni a volte mette nelle condizioni di salvarsi o aiutare un collega o una collega che attraversano momenti di difficoltà. In pratica abbiamo realizzato una rete di informazioni.

La violenza non è solo fisica, ma è anche privazione del diritto. Questo fa parte del vostro programma?

Noi lavoriamo su tutti i tipi di violenza, sulle discriminazioni dirette e sulle discriminazioni indirette. C’è la segregazione di genere e la segregazione professionale di genere. La punta dell’iceberg sono i femminicidi, ma nel sommerso c’è davvero molto.

Qual è stato il contributo della rappresentanza maschile nell’ideazione del programma?

È stato molto importante. Per esempio i nostri segretari generali sono venuti a presentare questa campagna al Tempo delle Donne a settembre, evento organizzato dalle donne del Corriere della Sera, mettendo in gioco sé stessi, così come nei video presentati nel corso dell’iniziativa alla Sapienza. Bisogna cambiare e far vedere che si mettono in gioco anche gli uomini su questo, perché la violenza sulle donne è un problema loro. Noi come donne paghiamo un prezzo altissimo, ma è la società tutta che ci rimette.

Quali le prospettive pratiche? Come si svilupperà il programma?

In questo momento starei a vedere che cosa produce e osservare cosa viene messo in campo. Quando l’anno scorso abbiamo realizzato l’iniziativa alla Sapienza non avevamo in mente questa cosa, ma ragionando su come era andata abbiamo azzardato questo progetto. Dico azzardo perché non c’è nessuno che lo fa. Abbiamo deciso di osare, di andare nei luoghi di lavoro e vedere se ci fosse qualcuno disposto a seguirci. Adesso siamo a un buon inizio, sarà interessante capire gli effetti e in particolare i benefici che si avranno territorialmente, perché comunque si è aperta una discussione. In alcune realtà, ad esempio, non erano ancora stati definiti gli eventi, ma intanto l’Associazione industriale manda il materiale a tutte le proprie associate e questo fa la differenza nella valorizzazione del tema. Certo incrocerà qualche sensibilità e incrocerà qualche donna manager o qualche delegata sindacale o qualche uomo manager, piuttosto che qualche delegato sindacale che ritiene ci siano le condizioni per fare questo progetto. Secondo me questo accadrà sicuramente. La Commissione nell’immediato ha anche altri obiettivi, a partire dall’approfondimento con un gruppo di esperti sulla direttiva europea sulla applicazione del principio di parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Adesso dobbiamo realizzare questo ed è un buon auspicio.


(Il diario del lavoro. Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali, 15 novembre 2023)

di Teresa Numerico


«Costruire categorie e modelli è di per sé un’operazione parziale». Questa affermazione costituisce una lente critica per valutare la conoscenza dell’Occidente. Si trova nel libro di Nastassja Cipriani e Edwige Pezzulli, dal titolo Oltre Marie (le plurali, pp. 160, euro 18). Si tratta di un testo di epistemologia femminista che presenta in modo semplice, ma non semplicistico, il problema dell’accesso alle professioni scientifiche da parte delle donne. Ma c’è di più. Consentire alle donne di ricoprire posizioni apicali nella scienza non è sufficiente di per sé all’obiettivo di ripensare in modo pluralista e situato il senso delle scienze. È questa la vera posta in gioco.

Quando Timnit Gebru fu assunta da Google per dimostrare la volontà di evitare la discriminazione di genere e l’apertura a identità multietniche in maniera intersezionale, sembrò il segno che la multinazionale fosse determinata a esercitare politiche inclusive nel reclutamento. Ma non appena la sua diversità culturale si manifestò, firmando – in qualità di componente del team di etica dell’intelligenza artificiale – un articolo critico sui risultati dei sistemi di produzione testuale artificiali (noti come Large Language Models), le fu intimato di ritirare la firma o dimettersi, cosa che avvenne a fine 2020. Assumere una scienziata di origine eritrea non significava che in azienda fossero preparati ad accogliere il suo posizionamento alternativo.

Gli ostacoli all’inclusione delle donne nella scienza sono molteplici. Alcuni hanno a che fare con pregiudizi individuali e una cultura che continua a immaginare lo scienziato come un genio solitario coniugato al maschile, altri con la tendenza a introiettare meccanismi pregiudiziali inconsci (biases) che intervengono nelle decisioni senza esserne consapevoli. Ma ci sono anche vincoli culturali sociali che invitano le ragazze a orientarsi verso altre attività fin da piccole, oppure, se perseguono carriere scientifiche, le donne sono tormentate dalla sindrome dell’impostore, generata anche dal senso di esclusione e inadeguatezza che provano in luoghi di lavoro coniugati al maschile.

Ci sono le molestie che spingono i colleghi a minimizzarne le capacità con osservazioni legate alla loro fisicità, o i giornalisti a porre questioni personali e intime invece di intervistarle sulle loro ricerche. Anche quando le donne fanno parte dei dipartimenti scientifici sono sovraccaricate di incarichi burocratici e di insegnamento e, nonostante le molte ore lavorative, finiscono per avere meno tempo per la ricerca, che, però, è l’unico metro di valutazione per la carriera. Spesso le scienziate di successo negano di avere dovuto lavorare più degli uomini e prendono posizioni prestazionali, simili ai colleghi.

Persino Margaret Thatcher prese lezione per abbassare il tono della voce, rendendola più grave e autorevole. Senza un modello alternativo di scienziate cui ispirarsi, la strategia migliore è mimetizzarsi.

Ma il nodo centrale del volume sta nell’ultimo capitolo che si apre dopo che le autrici sono uscite allo scoperto partendo da sé: assegniste di ricerca in dipartimenti scientifici con un lungo precariato alle spalle e di fronte a loro. È da quel momento che nel libro si discute delle questioni più calde e controverse. La conoscenza è sempre situata – altro che view from nowhere – è sempre interessata, parziale e mai universale, non è mai neutrale. Non basta far entrare le donne nella scienza, bisogna cambiare la cultura delle scienze: immaginare che lo scienziato e la scienziata siano parte integrante del processo di ricerca, come del resto ci ha insegnato la fisica quantistica all’inizio del ’900. Dobbiamo abbandonare la visione secondo la quale la conoscenza scientifica si conquista ponendosi all’esterno come osservatori impenetrabili.

Gli scienziati e le scienziate portano il proprio punto di vista, il loro posizionamento intersezionale di genere, di classe, di origine, di cultura della lingua materna, delle condizioni di salute, dell’età che vivono. Solo conciliando tutto, dialogando da prospettive molteplici, riconoscendo la parzialità delle diverse soggettività è possibile avere uno sguardo più giusto e più rispettoso sui fenomeni che ci interessa comprendere. È importante indagare le nostre metafore, la cultura che le ha generate, esaminare le domande prescientifiche che muovono le nostre curiosità.

Le epistemologie femministe ci aiutano a immaginare un mondo culturale e politico plurale. Solo così potremo andare oltre lo stereotipo dello scienziato pazzo à la Einstein, usato anche nelle pubblicità, ma anche oltre Marie Curie, verso una dimensione molteplice, diversa, inclusiva, dinamica delle nostre ricerche.


(Il manifesto, 2 novembre 2023)

di Letizia Pezzali


La studiosa dell’università di Harvard ha analizzato duecento anni di storia del mercato del lavoro. Nel 2021 ha pubblicato il libro “Career and Family” sulla penalizzazione della donna nelle aziende, in particolare nei cosiddetti “Greedy works”, i lavori avidi di tempo che richiedono disponibilità e impegno continuo


Non mi commuovo facilmente, ma alcune cose mi emozionano sul serio. Per esempio mi emoziona una persona che analizza più di duecento anni di storia del mercato del lavoro femminile, e lo fa con grande fatica investigativa. Il suo obiettivo è capire le disuguaglianze di genere e le cornici economiche e culturali dentro le quali le disuguaglianze si perpetuano, nonostante i miglioramenti reali e apparenti.

Sto parlando di Claudia Goldin, la professoressa di Harvard che ha ricevuto il Nobel per l’Economia. Un riconoscimento ai suoi studi sui fattori chiave delle differenze di genere nel mondo del lavoro. È la terza donna a ricevere il premio, e la prima a riceverlo da sola.

Sappiamo che ancora oggi, a livello globale, la partecipazione femminile al mercato del lavoro è inferiore rispetto a quella maschile, sappiamo che esistono le differenze salariali e che in molti casi perdura il soffitto di cristallo. Certo, la situazione è migliore nei paesi avanzati, tant’è vero che pigramente si potrebbe concludere che la crescita economica porta alla risoluzione delle suddette differenze (o “gap” che dir si voglia). Eppure abbiamo la sensazione di vivere, da un po’ di tempo, in una nuova situazione di stallo.

Gli studi di Goldin, che sono anzitutto analisi storiche complesse di lunghissimo periodo, ci raccontano che la realtà è meno banale di una correlazione lineare fra crescita e maggiore uguaglianza, e che il futuro, dunque, non è mai una costruzione scontata. Anzi, le relazioni fra sviluppo e chiusura dei gap nel corso della storia non sono per niente lineari, la tempistica delle evoluzioni è lenta, e le rivoluzioni saltuarie. Spesso i cambiamenti più significativi avvengono non tanto in seguito alla mera crescita economica, ma grazie a modificazioni della struttura del mercato del lavoro (agricolo, industriale, dei servizi), a cambiamenti della cultura (barriere, pregiudizi) e dell’accesso all’istruzione. Avvengono anche grazie a fattori meno ovvi, come le innovazioni mediche: la pillola anticoncezionale che ha permesso alle donne di avere il controllo della propria fertilità.

Le analisi storiche sono complesse, non solo perché lo sono sempre, in qualsiasi campo, ma anche perché nel caso specifico mancano molti dati sul lavoro femminile. Le donne, non ci sorprende, spesso non esistono nelle rilevazioni storiche, o esistono meno, sono un essere di secondaria importanza. Qui Goldin qui si è dovuta trasformare in una detective e in una fine analista in grado di ricostruire i dati in maniera indiretta e attendibile. L’obiettivo, lo ha detto lei stessa, è stato quello di capire il problema e chiamarlo con il suo nome.

Un concetto esemplificativo è quello di disuguaglianza di coppia, che nella coppia eterosessuale si traduce poi in disuguaglianza di genere. Un uomo e una donna scelgono la carriera, il lavoro, ma scelgono anche quanto tempo ciascuno di loro dedicherà alla famiglia, ai bambini, alla cura. Ancora oggi, un soggetto (di solito la donna) sceglierà un lavoro più flessibile, che permette di essere disponibile per la famiglia nei casi di emergenza, ma che permette anche meno possibilità di avanzamento. La flessibilità ha un prezzo.

Alla base di tutto c’è il problema del tempo: il problema più esigente. Le ore sono ventiquattro per tutti, e spesso le donne si trovano a scegliere professioni con orari adatti alla famiglia. Esistono, lo sappiamo, i lavori “avidi di tempo”, quelli che richiedono la nostra disponibilità assoluta, e in cambio ci promettono il successo o una sua approssimazione.

C’è poi la questione dell’orologio biologico, che si scontra con l’orologio della crescita professionale. Oggi un percorso professionale giunge a relativo compimento ben dopo i trent’anni, quando la fertilità femminile a sua volta inizia a ridursi. Goldin stessa dice che quand’era ragazza la carriera giungeva a compimento un po’ prima, e questo spiega come una donna nata negli anni Quaranta, come lei, abbia vissuto in un’epoca forse migliore da questo specifico punto di vista.

Se la flessibilità costa in termini di minor stipendio e possibilità, la cura dei figli (asili, babysitter) costa, sia in senso proprio, sia come costo opportunità (rinunciare al lavoro). Su questi due fattori la società potrebbe intervenire per velocizzare la chiusura dei gap. C’è poi un terzo fattore, ed è la condivisione del problema: in una coppia, entrambi possono condividere gli aspetti legati alla famiglia, e rinunciare a qualcosa, perché tengono allo sviluppo dell’altro come individuo.

C’è ancora molto da fare, in senso pratico e culturale. Ma il premio a Goldin è un’ottima notizia.


(Domani, 9 ottobre 2023)

di Elisa Teneggi


Francesca Coin, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Einaudi, € 17,50, 288 pp.

Ci sono due tipi di persone: chi ammette di aver desiderato, almeno una volta nella vita, mandare tutto alle vacche e firmare quella lettera di dimissioni da un posto di lavoro usurante, e chi mente. Per convincersene non serve nemmeno sperticarsi in ricerche da segugi negli angoli bui dell’internet. Basta aguzzare vista e udito, e captare i segnali che qualcuno, nello stesso ufficio – od open space, tugurio al neon, o genericamente luogo, non cambia – in cui lavoriamo ne ha avuto abbastanza. Sospiri, occhiaie, sguardi circospetti, risate incontrollate possono essere tutti segnali rivelatori. Ancor più se siamo noi, e non i colleghi, a emetterli. Ci dicono che molto è cambiato negli ultimi anni, sul versante del lavoro. Che poi, sia chiaro: non è che timbrare il cartellino sia salto di gioia, e questo è stato vero da che il lavoro moderno è esistito. C’è qualcosa, però, ultimamente, che non ci torna più indietro. Un guadagno che va oltre il salario offerto. Che parla di sicurezza, gratificazione, possibilità di avvantaggiarsi nella società. Di fiducia reciproca tra chi assume e chi lavora. E che ci fa dire, perentoriamente: Basta.

Ne avrete letto sulla stampa, sia estera che straniera. Molti hanno parlato di Great Resignation, importato in Italia come Grandi Dimissioni. Altri hanno puntato i riflettori su una crisi del mercato del lavoro, imprigionato in molti posti di lavoro disponibili, e nessuno che se li voglia accaparrare. O, variamente, è stata descritta una certa disaffezione verso il concetto stesso di lavoro. È tutto vero. Ma, allo stesso tempo, tutto inesatto (e se lo ammette pure Paul Krugman sul New York Times, che qualche calcolo si è lasciato prendere dall’impulso del momento…).

Ma, una cosa alla volta. Per allargare la fotografia del presente, conviene sempre cominciare dal passato. Nel nostro caso, non serve nemmeno scavare molto all’indietro. I sintomi del bailàn che ha investito il lavoro contemporaneo si trovano infatti appena cinque, sei anni indietro (come sempre, nel mondo anglosassone). Tra il 2018 e il 2019 si rintracciano svariati articoli d’opinione, corredati di dati autorevoli e supportati da pubblicazioni editoriali, che suonano, più o meno, tutti così: ci dicono che il lavoro dev’essere la nostra passione, ed è un problema (un paio di esempi dal New York Times e dall’Atlantic). È la hustle culture, che si potrebbe tradurre come “cultura del fare”, sempre e di più. Persi i grandi punti di riferimento (come la fede religiosa, o politica), ci ritroviamo senza identità. Così, ne cerchiamo una nuova nell’ultima cosa che, crediamo, possa darci valore, e peso, e un ruolo: il lavoro. Bartleby, in fondo, era uno scrivano. Lo dice bene il titolo del racconto lungo di Melville.

Sembrano mondi lontani, distopici, puntata di Black Mirror [serie televisiva sulle sfide poste dall’introduzione di nuove tecnologie, Ndr]. A pensarci bene, però, è tutto il contrario. Basterebbe farsi un giro per i locali di un’azienda di consulenza, o un’agenzia di comunicazione, per osservare dipartenze alle otto, nove di sera dopo essere entrati non oltre le dieci del mattino. Conversazioni che non hanno percorsi per deviare dagli argomenti di lavoro. Calendari già settati sul countdown “ferie”. Reperibilità anche durante i suddetti periodi di stacco. Appaiati, però, a un orgoglio genuino per la posizione che si ricopre nell’azienda, il cui bene è da anteporre, sempre, al proprio.

Oltre la hustle culture tipica delle professioni intellettuali c’è altra vita, però. Anche questa risucchiata dal mondo del lavoro. Questa volta, con evidenze documentate anche entro i confini italiani. È il caso di molti impiegati nella sanità pubblica nazionale, costretti a turni sfiancanti durante l’emergenza pandemica e oltre, per recuperare i ritardi accumulati in periodo di lockdown. O dei dipendenti della grande distribuzione, assunti con contratti spesso part-time per meno di mille euro e costretti a moli enormi di straordinari non pagati, pena il licenziamento. Ma vicende simili si trovano anche nella ristorazione, il cui lato sfiancante è stato reso ben evidente, ancora una volta, dal ricalcolo forzato della crisi pandemica.

Un problema dunque generalizzato, di radici profonde, esacerbato dalle condizioni di emergenza del 2020. Una bomba a orologeria, figlia di almeno un paio di decenni di cattivo lavoro e pessime pratiche di lavoro generalizzate. Per alcuni, il Covid è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per altri, un’occasione per riconnettersi ai valori e ai desideri che avevano messo in un angolo per inseguire il mito di un lavoro che sapesse soddisfare, totalizzare, e regalare un senso di appartenenza.

Anche a fronte di questa evidenza, è facile pensare che tutto questo non ci riguardi. Che, no, noi sì che siamo perfettamente capaci di mantenere un work-life balance [equilibrio tra vita e lavoro, Ndr] da manuale. Noi sì che non finiremo mai in quella spirale che, di nuovo gli americani, chiamano workaholism (“dipendenza dal lavoro”), e che detta che chi più guadagna più lavora, contrariamente a quanto avveniva uno, due secoli fa, dove i ricchi se ne stavano in panciolle e delegavano, delegavano, delegavano.

Certo, anche noi non vediamo l’ora di andarcene in vacanza. Certo, anche noi abbiamo scelto il nostro lavoro per passione. D’altronde, è vero quello che dicono: ama il tuo lavoro, e non lavorerai nemmeno un giorno della tua vita. Se siete di questi ranghi, fermatevi. Mettete in pausa qualunque cosa stiate facendo. E aprite Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprendersi la vita, di Francesca Coin, pubblicato quest’anno da Einaudi. Fatelo anche solo se volete saperne di più sull’argomento. No, in realtà, fatelo e basta. Perché il lavoro di Coin (no giochi di parole), è molto più che un riassunto maneggevole di come siamo arrivati qui, e da che cosa ci siamo fatti fregare nel percorso. Vi spiegherà perché, anche se Oltreoceano ci battono sempre sul tempo, le Grandi Dimissioni non sono una specifica del mercato del lavoro statunitense, o britannico, o una conseguenza di raffinati calcoli economici da premio Nobel. Ma che colpiscono e hanno colpito dovunque si fosse instaurato un capitalismo perverso, più simile allo schiavismo. Capace di levare dall’equazione la sua stessa premessa di partenza: guadagna tanto, spendi di più, e sarai felice.

Un viaggio lungo, con un punto di partenza chiaro: «Il lavoro salariato», come scrive l’autrice rifacendosi al Capitale di Marx, «non è una condizione naturale. È una relazione sociale che dipende dall’accesso alle condizioni materiali di riproduzione. […] È per questo che, secondo alcuni commentatori, la disponibilità di lavoro salariato dipende dalla minaccia della fame». E poi cita il politologo George Kent: «Porre fine alla fame a livello globale sarebbe un disastro. Se non ci fosse la fame nel mondo, chi arerebbe i campi? Chi raccoglierebbe le verdure? Chi lavorerebbe negli impianti di trasformazione? Chi pulirebbe i nostri bagni? Dovremmo produrre cibo e pulire i servizi igienici. Non c’è da stupirsi che le persone con un reddito alto non si affrettino a risolvere il problema. Per molti la fame non è un problema: è una risorsa». Il che equivale a dire che, con le parole del politico inglese Edward Gibbon Wakefield, sempre citato da Coin: «Dove la terra è molto a buon mercato e tutti gli uomini sono liberi, dove ognuno che lo desideri può facilmente ottenere un pezzo di terra per sé, il lavoro è carissimo».

È in queste poche righe che si riassume il fumo da prestigiatore che circonda il lavoro moderno, cioè capitalista: un rapporto di schiavitù volontaria sulla base di un accordo monetario, con una scala gerarchica ben definita, che mira a mantenere la maggior parte della popolazione in una relazione di subordinazione per abbassare i costi del lavoro stesso e mantenerlo, nei fatti, possibile. Un po’ il ragionamento che, in chiave femminista, conduceva Donna Haraway nel suo Manifesto Cyborg (Feltrinelli, 2018), poi ripreso da Helen Hester in Xenofemminismo (Nero, 2018): far credere a qualcuno che “tutto quello che può fare è questo”, per esempio immettere numeri in un file Excel, conduce alla di costui subordinazione. Siamo dipendenti dal lavoro, ma anche da chi, negli effetti, quel lavoro ci concede.

Perché la strategia funzioni, deve essere bene, e costantemente, oscurata. A tal fine ci sono due strade principali, e collimanti: la creazione di una mitologia del lavoro, attraverso l’employee engagement, o «il processo capace di “imbrigliare l’identità delle persone nel proprio ruolo produttivo, con la speranza che questa si appaghi attraverso il lavoro”»; ne risultano devozione, sacrificio, e un transfer pericoloso sull’azienda dei valori di fedeltà e abnegazione tipicamente legati alla famiglia e alle relazioni affettive. E l’elezione a eroe degli individui lavoranti che aderiscono perfettamente a questo programma di “uomo nuovo”. Ve lo ricorderete: la celebrazione di fuochi fatui come la “meravigliosa storia della bidella che pur di lavorare fa A/R in Frecciarossa tra Napoli e Milano, tutti i giorni”, ha fatto scalpore, nelle news e tra i meme, per un po’. O lo straordinario caso del rider che «fa circa cento chilometri al giorno in bicicletta, con un borsone sulle spalle e consegna pizze e pranzi e spesa. Guadagna duemila euro netti al mese e, certi mesi, anche quattromila. Uno stipendio da manager. Ed è felice». Entrambi i casi, guarda un po’, prontamente smentiti.

La domanda centrale al volume di Coin, insomma, è ben posta: come e quando il lavoro è diventato l’attività centrale della nostra vita? Come e quando la domanda più comune, e importante, da fare a un bambino è diventata che cosa vuoi fare da grande? Come e quando i sogni sono diventati del singolo, non della comunità, e dunque molto più abbindolabili dalla retorica del lavoro come chiave per aprire tutte le porte? E, più nello specifico: da quand’è che il lavoratore deve dimostrare devozione totale verso il datore di lavoro, mentre il datore di lavoro è libero di trattarlo come più gli torna comodo?

La risposta arriverà, dopo una meticolosa presa in esame delle peculiarità produttive della contemporaneità e, come da titolo, un’immersione ragionata nel fenomeno ampio, variegato, passato sotto il nome di Grandi Dimissioni, sia in Italia che all’estero. Dopo aver ascoltato, e raccolto, le testimonianze di molti lavoratori che hanno detto basta e che si sono trovati a dover scegliere tra la propria salute o la salute dell’azienda malata per cui si stavano sacrificando.

La risposta arriverà. E verrà fuori che, come spesso accade, le parole sono strumenti di comodo per ridurre la realtà ai suoi minimi termini. O che, detto altrimenti, “Grandi Dimissioni” è un sintagma conveniente, ma fa pensare a tutte le cose sbagliate. Non è vero, per esempio, che il reddito di cittadinanza ha a che fare con l’addio di molti lavoratori. Non è vero che il concetto di lavoro sia passato di moda, nonostante quanto paventato dalle sfere di cristallo dell’Intelligenza Artificiale e dai Doomsday prepper [preparati al giorno del giudizio o a una catastrofe, Ndr]. Non è vero che non è mai successo prima – in effetti, il primo uso della frase “nessuno vuole lavorare più” risale non al 2021, ma al 1860. Non è vero che chi lascia, lascia per dire adiós, vivendo cioè di rendita sulle spalle di qualcuno o dello Stato. Vien fuori, anzi, che la Great Resignation si potrebbe inquadrare meglio come Great Reshuffling [grande riorganizzazione o rimpasto, Ndr], cose che vengono spostate da una parte e dell’altra (per esempio, dal lavoro dipendente al lavoro indipendente, o dall’Italia all’estero).

Vien fuori, soprattutto, che Le grandi dimissioni di Francesca Coin è un testo prezioso, ben centrato, che si va ad aggiungere a importanti omologhi internazionali come Bullshit Jobs di David Graeber, in cui il titolo dice un po’ tutto. E che quanto si legge non è solamente un saggio composto con cura, contezza e maestria. Ma anche un piccolo decalogo di sovversione per tempi fiacchi e conformisti. Raro trovarne, come sapete.


(La Balena Bianca, www.balenabianca.com, 22 settembre 2023)

di Marta Dal Corso,


Diventare madre oggi è una scelta personale e sociale. Come le trasformazioni sociali stanno cambiando il concetto di maternità e quale ruolo giocano le donne oggi nel definire nuovi modelli di sviluppo? Ne abbiamo parlato con Riccarda Zezza e Anna Fiscale.


Il report “Italia Generativa” definisce l’Italia un Paese surplace: come un ciclista fermo sul posto, impegnato a mantenere un equilibrio ma incapace di darsi uno slancio nei confronti del futuro. Il tasso di natalità incide in un quadro politico che riflette una generale staticità. D’altronde le trasformazioni della struttura demografica rispecchiano anche i mutamenti culturali della società odierna: nonostante le giovani donne siano oggi più istruite, il tasso di inclusione lavorativa, il livello degli stipendi e le possibilità di carriera restano inferiori, mentre il 71% del carico familiare è ancora responsabilità delle donne. Diventare madre è oggi sia una scelta personale che sociale!

Nella festa che celebra la figura della madre, ci chiediamo cosa sta cambiando, cosa possiamo imparare dalla maternità e come questa possa diventare motore di crescita per uno sviluppo personale, culturale, economico e sociale. Ne abbiamo parlato insieme a Riccarda Zezza, CEO e Founder di Lifeed – l’azienda che dal 2015 sta cambiando il mondo del lavoro trasformando le esperienze di vita in competenze funzionali alla crescita di persone e imprese; e ad Anna Fiscale, ideatrice e Presidente dell’Impresa Sociale di moda etica Quid.

– Riccarda, cosa significa oggi diventare madre?

Credo che oggi questa domanda sia più importante della risposta perché ad essere sinceri non ce la facciamo mai. Oggi ci chiediamo: Perché non nascono più figli? Qual è il tasso di occupazione femminile? Ci soffermiamo a parlare di maternità surrogata senza nemmeno definire cos’è la maternità! Ci facciamo quindi domande su quei temi che provocano problematiche politiche mentre le madri, per loro natura, sono portate a fornire soluzioni immediate. Ecco perché non interessa chiederselo! Invece penso che iniziare a farci questa domanda ci porterà a nuove opportunità perché ci obbliga a riconoscere la complessità dei fenomeni umani. L’effetto? Usciremo da risposte parziali e stereotipate!

– Credi che ci sia una narrazione che ha cullato la nostra idea di maternità?

Nel genere umano sono insiti due istinti: quello della caccia (che oggi si è tradotto nel gioco a somma zero dove o si vince o si perde) e quello della cura. La maternità è un modello primordiale e istintivo. Il cervello produce ormoni che premiano il comportamento di cura. Di fatto la maternità è diventata un modello di potere, solo che nella storia è stato limitato all’ambito familiare.

Ma cosa accade quando questo modello viene portato nel mondo sociale? Possiamo prenderci cura del mondo con il lavoro! Possiamo trasferire quegli elementi istintivi che caratterizzano la maternità per favorire lo sviluppo dell’Altro. Per farlo dobbiamo agire sulla Cultura, fare spazio a nuove narrazioni ed essere disponibili a ripartire da pagine bianche, da nuovi tavoli collaborativi.

–Quale valore emerge dalla maternità?

La maternità sviluppa nella donna una leadership femminile molto forte. Le ricerche ci dicono che quando si pensa ad un leader si immagina una persona che guidi con l’esempio, che sappia far crescere, che ascolti e comprenda. Una persona con visione capace di creare progetti che gli sopravvivono. Non sono forse qualità che le madri esercitano quotidianamente nella dimensione privata?

In Lifeed abbiamo lavorato con oltre 40mila persone e abbiamo rilevato che in media le persone hanno almeno cinque ruoli sociali. Solo il 30% delle energie sono spese nel contesto lavorativo, il 70% delle proprie risorse, di carattere creativo e relazionale, vengono espresse dove ci si sente coinvolti a livello espressivo, liberi di esprimere il proprio talento.

Il tema è importante per le organizzazioni perché è evidente che la persona, nel lavoro, non è considerata nella sua interezza e non utilizza a pieno tutte le proprie capacità: se questo è un limite per tutti, per le donne lo è ancor di più.

– Le trasformazioni sociali degli ultimi decenni verso quale idea di maternità ci stanno portando?

Quando parlo con le ragazze mi rendo conto che hanno paura della maternità. Vedono qualcosa di oscuro, solitario, problematico, che mette a rischio la loro indipendenza sociale ed economica perché oggi la maternità viene raccontata con due assunti: o è ultra-cool (e quindi sei una mamma super) o è limitante (e sei una mamma affaticata). Non ci sono viene di mezzo.

Invece quando sono diventata madre io mi sono accorta improvvisamente che tutto l’amore che avevo cercato era entrato nella mia vita. La maternità libera la possibilità di amare prima ancora di essere amato e questo non ce lo racconta nessuno. Il tema quindi è vedere la maternità come un pezzo di noi che dialoga con le nostre anime, prende spazio ma non può essere nostro antagonista. Siamo un complesso di desiderio, leggerezza e amore. Dobbiamo scrollarci di dosso quell’idea sacrificale che per anni ha portato le donne a dimenticarsi di loro stesse nella relazione con il figlio. Dobbiamo anche scrollarci di dosso quella patina di perfezionismo che fa credere che tutto sia idilliaco. Dobbiamo dare alle donne nuovi specchi con cui guardarsi perché la questione riguarda la crescita della donna che si abbina, ma non si estingue, alla relazione materna.

Esistono quindi scelte individuali che generano un impatto sociale, leadership femminili che emergono e che ci portano verso nuovi modelli culturali. Ma come gestire tutto questo?

– Anna, sempre più le donne sono spaventate dall’idea che la maternità possa essere un freno al proprio sviluppo. Tu, come hai vissuto le tue scelte?

Donna, moglie, madre: mi sono sempre vista così, in scala, e sono consapevole che non potrei essere me stessa se dovessi scegliere di essere solo una di queste parti. Non mi sentirei compiuta fino in fondo! Sono una donna appassionata e dedita al mio lavoro, in fin dei conti sono madre anche del mio progetto, ma per me era fondamentale accompagnare al mio sviluppo lavorativo anche uno sviluppo familiare, con le sfide che questo comporta!

La prima maternità l’ho vissuta quando Quid era a metà della sua strada. Io ancora non delegavo, non sapevo ancora farlo. Le riunioni le facevamo nel salotto di casa dopo tre settimane dal parto. In quel periodo non ero ancora abbastanza attrezzata ma mi è servito per capire come ridefinire il mio ruolo professionale, bilanciare la maternità e il lavoro, come dare vita ad un’organizzazione familiare equilibrata e paritaria con mio marito. È stato un percorso di consapevolezza.

– Da un lato donna e dall’altro madre. Esiste un modo per non scindersi in più identità?

Sapersi ascoltare e saper leggere i segnali che il nostro corpo ci dà. Facendolo riusciamo a fidarci della vita perché se si aspetta il momento perfetto per fare le cose, non ci sarà mai! Invece possiamo diventare consapevoli che le cose andranno anche diversamente da come le immaginavamo. Io, ad esempio, non pensavo che essere madre sarebbe stato così bello. Ma è anche faticoso e totalizzante! Ho scoperto che sapermi adattare alle situazioni mi permette di trovare soluzioni che mi aiutano a stare bene e farmi crescere.

– Incontri tutti i giorni donne e madri provenienti anche da culture diverse dalla nostra: quali abitudini ti colpiscono?

Mi colpisce molto il concetto di maternità diffusa che hanno le donne africane in cui è il villaggio che educa i bambini. La comunità diventa quindi educante. È un aspetto che mi fa ragionare sull’importanza di creare anche nei nostri contesti una rete relazionale tra donne, ma non solo, che diventi fonte di supporto e sviluppo per tutti.

– Quali soluzioni si potrebbero adottare per consentire alle donne scelte più includenti?

Spesso la maternità viene percepita dalle aziende come un periodo destabilizzante. Credo che gli incentivi economici possano essere un supporto però non bastano. Seguo il lavoro di Gigi De Palo sul Forum della Natalità e penso che siano necessarie scelte politiche lungimiranti. Ma anche nei luoghi di lavoro si può fare qualcosa! In Quid, ad esempio, abbiamo scelto di lavorare in produzione con orari positivi per le donne, dalle 8 alle 15.30 per permettere loro di avere un tempo oltre al lavoro. Rispetto agli uffici e alle aree commerciali le dinamiche cambiano ma un lavoro che offre flessibilità e che consente di lavorare per obiettivi può favorire il lavoro femminile e diventare un incentivo ambizioso!


(Fondazione CattolicaVerona, 12 maggio 2023)

di Sheila Jeffreys, a cura di Mara Accettura


In un recente seminario organizzato da Women’s Declaration International nell’ambito della serie di incontri Radical Feminist Perspectives, Sheila Jeffreys – ex-docente di scienze politiche all’Università di Melbourne e tra le fondatrici della rete globale WDI – ha tenuto una relazione sul tema Rad Fem Economic Theory (l’intero incontro è visibile qui).


Jeffrey è partita da un suo testo del 2010, a ridosso della crisi finanziaria globale. Si intitolava “Chi ha cucinato la cena a Adam Smith”, il cui pensiero ometteva completamente il lavoro non retribuito delle donne. L’homo economicus razionale, al centro del pensiero economico tradizionale, abita un mondo maschile di lavoro retribuito in cui le donne non entrano. Il lavoro delle donne è per la maggior parte non pagato e non riconosciuto, non viene quindi misurato nei sistemi tradizionali di accounting tipo il PIL.

Come si affronta questo tema dal punto di vista del femminismo radicale e di quello marxista?

L’analisi di Jeffreys si è incentrata sul diagramma dell’“iceberg” di Maria Mies, femminista marxista ed ecofemminista: l’economia tradizionale non tiene conto di ciò che sta sotto la linea, che è la stragrande maggioranza di ciò che crea l’economia globale: lavoratori a domicilio, settore informale, lavoro non retribuito delle donne, lavoro minorile, lavoro domestici in generale e colonie interne (all’interno della famiglia) ed esterne (create dalla globalizzazione). «La stragrande maggioranza del lavoro delle donne non rientra nell’economia visibile. Sotto la linea c’è anche la natura, bene libero. Il costo della pesca che distrugge l’oceano e gli ecosistemi non si vede, ed è un esempio della distruzione nella creazione dell’economia capitalista. Quello che si vede è sopra la linea, la vendita del pesce».

Negli anni ’80 è diventato chiaro che il lavoro di cura delle donne sovvenzionava non solo lo stipendio dell’uomo ma anche l’accumulazione del capitale. Il lavoro delle donne era oscurato con la costruzione della donna come madre, moglie, casalinga.

Le femministe marxiste e quelle radicali o materialiste affrontano la questione del lavoro non retribuito delle donne in modi molto diversi. Christine Delphy e Diana Leonard, entrambe materialiste, spiegano che le teoriche femministe socialiste o marxiste vedono il lavoro svolto dalle donne per il capitalismo e non per gli uomini. Fra le due cose c’è una differenza sostanziale. Per il femminismo radicale invece il lavoro non retribuito è al servizio diretto degli uomini. Secondo loro sono i capifamiglia maschi a possedere il lavoro delle donne. Non è necessario avere mezzi di produzione. A parte il lavoro domestico ci sono moltissimi altri tipi di funzioni non retribuite che ruotano attorno alle occupazioni dei mariti – fino al lavoro necessario per garantire il loro benessere emotivo, psicofisico e sessuale – che vanno perdute nelle analisi perché varie e intime. Dai compiti di segretariato, di hostess, di fundraising, fino all’organizzazione di occasioni sociali e al fornire sostegno morale come psicoterapeute informali. Per arrivare fino al sesso che le donne non vogliono fare, e che forse dovrebbe essere inteso come forma di lavoro non retribuito, dato che queste attività fuori casa hanno valore monetario.

Diana Russell scrisse: «Perché le donne vanno dagli psicoterapeuti e gli uomini dalle prostitute?» Le donne fanno della casa una casa, sorridono, scusano, incoraggiano, simpatizzano, prestano attenzione, il che dà agli uomini un senso di appartenenza.

L’economia tradizionale quindi ha un problema. «Non dice la verità perché l’uomo economico razionale, alla base del pensiero economico tradizionale maschile, non è alla base di ciò che sta accadendo. Il lavoro non retribuito delle donne non è razionale. Adam Smith disse: “Non è dalla benevolenza del macellaio o del fornaio che ci aspettiamo la cena ma dal loro interesse”. Certo non è nell’interesse delle donne fare tutto questo lavoro retribuito, dice Marilyn Waring. “Se Adam Smith è stato nutrito quotidianamente dalla signora Smith certo lui non l’ha menzionato. Certamente non fu ripagata dall’interesse che aveva nel nutrirlo».

Maria Mies ha parlato del concetto di casalinghizzazione (housewifeization). Con la globalizzazione neoliberista degli ultimi anni del ’900 molti lavori sono stati casalinghizzati. Uomini e donne hanno dovuto fare più di un lavoro, lavori part time, pagati male, senza protezione, camuffati da imprenditoria e self-employment. Che cosa sta succedendo con l’homeworking creato dalla pandemia che ha fatto in modo che molte donne oggi lavorino a casa? Ha questo lavoro uno status superiore?

Jeffreys ha poi parlato del gendering della crisi globale finanziaria, che dimostra che l’homo oeconomicus non è per nulla razionale. Non viene mai detto che il capitalismo finanziario è specificamente maschile. Non ci sono molte donne ai posti top della finanza anche se progressi sono stati fatti, l’FMI ha una donna executive. «Il punto è che gli uomini sono ritenuti responsabili della crisi globale finanziaria e credo che rappresentino non tanto la mascolinità quotidiana ma un’ipermascolinità resa potente dal sessismo aggressivo». Non c’è molta analisi su questo, anche se Linda McDowell ha scritto sulla cultura che impregna il linguaggio della borsa valori: “Alzarsi la gonna” per rivelare la propria posizione. “Averlo duro” per mercato in rialzo. “Palle fuori” per transazione di successo. “Stuprare le carte” per gonfiare le spese. Come possono le donne lavorare in un ambiente del genere? Secondo lei quella cultura in parte può spiegare la crisi. Le donne non possono essere pari nella sfera della finanza perché gli scambi avvengono in arene mascolinizzate tipo golf club, lapdancing club, football club. Gli executives frequentano gli strip club e secondo Jeffreys quando ci sono donne con loro non sanno dove guardare mentre le ragazze mostrano vagina e ano agli uomini. Eppure non rifiutano di andarci perché fa parte del networking, quindi della loro chance di eguaglianza.

Quindi strip club e prostituzione sono una grossa parte di questa cultura della finanza e del business. Ma la finanza non usa solo la prostituzione per affermare l’ipermascolinità. C’è anche l’aspetto del rischio, che è critico per il modo in cui la mascolinità costruisce l’ideologia e le pratiche delle corporation, delle banche, dell’industria della finanza. È un aspetto poco discusso dalla teoria femminista. Il modo in cui il capitalismo è fondamentalmente costruito attraverso la mascolinità nel suo funzionamento è raramente menzionato. Le tre componenti dell’aggressività, della competizione e del risk-taking sono sottolineate in studi maschili come elementi chiave nella costruzione del capitalismo in relazione alla crisi finanziaria globale e l’assunzione di rischio è la componente più implicata. Ci sono studi che spiegano come nasce l’attitudine al rischio nei ragazzi e valutano risultati dannosi come assunzione di droghe, incidenti, pratiche sessuali pericolose. Questi studi analizzano anche il ruolo dello sport agonistico e di avventura tipo bungee jumping e rafting. Molte aziende stimolano il personale a fare networking attraverso questi sport. La mentalità che creano è fondamentale per l’assunzione dei rischi e il modo in cui il capitalismo è stato impostato. Altre ricerche attribuiscono al testosterone la propensione al rischio. Ma una ricerca ha dimostrato che il testosterone non si alza prima di concludere un affare bensì dopo.

Il roid rage (rabbia da steroidi) suggerisce che l’uomo economico razionale non è al comando dell’economia politica internazionale. Ma è anche un tentativo di descrivere in termini di biologia qualcosa che può essere spiegata politicamente e socialmente. Si dice per esempio che le donne non sono molto brave in finanza perché hanno avversione per il rischio a causa della mancanza di testosterone. Ma donne e ragazze non sono addestrate all’assunzione dei rischi e non vengono elogiate per questo. Mascolinità e femminilità sono costruite socialmente e politicamente per adattarsi a posizioni diverse nella gerarchia del dominio maschile. «L’avversione al rischio è molto positiva. All’epoca della crisi finanziaria le donne sono state chiamate a risolvere i problemi perché la loro avversione al rischio è utile all’interno di una economia basata sul correre grandi rischi che possono persino causare la morte».

Anche l’industria del sesso contribuisce all’ipermascolinità dell’industria finanziaria. Negli Usa gli uomini che dovrebbero regolare l’industria finanziaria utilizzano molto questa industria. Esistono dati che riguardano l’uso di pornografia da parte di dirigenti della SEC. Jeffreys ne ha scritto anche in La vagina industriale” e Limperialismo del pene”anche se all’epoca le sue osservazioni non vennero prese in considerazione. A lei interessava il modo in cui il rischio degli uomini si trasformava in onere per le donne. Le donne non erano responsabili del rischio finanziario eppure dovevano subirlo, vedi nell’economia della cura e dell’assistenza. I tagli ai servizi pubblici sono stati compensati dal lavoro delle donne.

Le donne sono un esercito di riserva di manodopera e possono essere messe alla porta quando i governi falliscono. Gli uomini hanno anche sfogato lo stress della perdita del posto di lavoro e mancanza di soldi sulle donne sotto forma di violenza. Nel 2009 diverse ricerche sottolineavano aumento di violenza domestica. Maria Mies dice che «è necessario un cambiamento radicale dell’economia politica internazionale, mentre i liberal dicono che dobbiamo solo farci entrare più donne: se ci fossero più donne, allora gli uomini si comporterebbero meglio, sarebbe meno rischioso e così via. Ma ovviamente i problemi rimangono». Mies dice che il lavoro non retribuito deve essere rispettato e si chiede come sarebbe un’economia in cui la natura sia importante, in cui le donne, i bambini, le persone siano importanti. Un’economia che non si basi sulla colonizzazione e sullo sfruttamento degli altri.

Ciò richiederebbe, ovviamente, la rivalutazione del lavoro non retribuito delle donne, in modo che, in un paradigma alternativo, le attività e i valori degli attori attualmente colonizzati ed emarginati vengano messi al centro perché sono fondamentali per garantire che la vita possa continuare nella sua rigenerazione e pienezza. Finché il lavoro non retribuito, dice l’autrice, non sarà riconosciuto, le politiche economiche nazionali e internazionali potranno continuare a adattarsi strutturalmente e a reagire alle crisi con l’aspettativa che i comportamenti antisociali degli uomini debbano essere rispettati e che le donne siano gli ammortizzatori del sistema.


(FeministPost, 30 maggio 2023)

di Vincenzo Mattei


Patrizia cammina sicura nel corridoio del laboratorio Gomitoli della cooperativa sociale Dedalus di Napoli, un fare spigliato, disinvolto ma deciso, il corpo si muove a suo agio come se avesse sempre sfilato. La rottura del timpano per le botte subite dal marito violento sembra solo un ricordo. «Oggi sono una donna libera, non ho più paura. A maggio del 2021 decisi di andare via di casa con i miei figli per tornare dai miei genitori e lo stesso giorno denunciai il mio ex marito per violenza e per minaccia. Da lì è iniziato un processo per ritornare a vivere, oggi se mi giro indietro mi domando da dove sia venuta fuori tutta questa forza. Decisi di intraprendere un percorso con una psicoterapeuta, per farmi aiutare dopo tante umiliazioni. La violenza psicologica riesce a uccidere le persone, chi la subisce dentro è spenta anche se da fuori sembra uguale. Quindi mi rivolsi al centro antiviolenza di Archibugi dove mi consigliarono di andare alla Dedalus», afferma Patrizia (nome di fantasia).

Il pubblico fatto di pachistani, algerini, marocchini, italiani, russi, egiziani… applaude le modelle-madri. Ognuna ha cucito la propria borsa con materiale da riciclo e il proprio abito. Mentre le protagoniste sfilano si sente un audio in cui raccontano la propria storia condensata in una frase significativa della propria vita. «Le cose si imparano anche con la dolcezza. Questa è la mia eredità e cerco di fare lo stesso», è la frase che ha scelto Patrizia. «Dalla mattina alla sera sorrido. Finita la giornata, di sera piango tanto. Oggi dico la mia: basta, ho finito di piangere, io sono forte. Basta!», è la voce dell’egiziana Asma Ghoraby.

«Patrizia ha subito per vent’anni, poi durante il Covid ci sono stati degli eccessi di violenza dovuti alla forzata permanenza in casa, all’ospedale ha capito che non poteva più andare avanti, che era troppo, così si è rivolta al nostro centro», parla Tania, la responsabile del settore antiviolenza di Dedalus.

«Prima eravamo al Centro Direzionale, troppo limitrofi, da sei anni ci siamo trasferiti al Lanificio a Porta Capuana, in un quartiere ad alta densità di migranti, questo posto è simbolico. La cooperativa è venuta qua con l’intento di attivare una rigenerazione urbana di un territorio spesso abbandonato dalle diverse amministrazioni. Quest’area multiculturale ha le scuole con il più altro tasso di bambini che vengono da fuori Italia. Sono soprattutto adolescenti stranieri che hanno bisogno di un sostegno per fare i compiti, perché i genitori spesso sono di seconda generazione o sono venuti qua da piccoli, quindi non parlano italiano e non possono seguirli e aiutarli a casa», spiega Carmen Vicinanza, responsabile della comunicazione di Dedalus e fondatrice del blog femminista «Una donna al giorno».

Dedalus ha diverse attività per gli adolescenti del quartiere e non solo per stranieri. Si spazia dai corsi di fotografia, di pittura, di arti visive, di teatro, hanno una webradio e fanno book crossing per la città in cui i ragazzi leggono testi per strada o nelle piazze napoletane. Il contrasto alla povertà educativa è chiaramente uno dei progetti della cooperativa che fornisce una serie di strumenti e attività per poter garantire la convivenza, l’integrazione e cercare di far uscire delle capacità nascoste.

«Alla sfilata c’erano molte mamme con l’hijab che prima di frequentare il nostro laboratorio di sartoria non socializzavano. La sorella di una delle modelle mi ha raccontato che vive a Napoli da ventun anni e che non usciva mai di casa perché non sapeva cosa fare, non aveva idea di come e dove poter apprendere l’italiano, conosceva solo le nozioni minime per fare la spesa. Due volte a settimana teniamo il corso di educazione ai sentimenti insieme alle mamme che si chiama “Un tè con le ragazze”, così sorseggiando il tè, ci si racconta in una sorta di autocoscienza collettiva per sentirsi meno sole e socializzare. Inoltre, molte di quelle donne che stanno giù in sartoria le abbiamo intercettate durante le lezioni d’italiano dei figli. Così anche loro hanno iniziato a studiare la lingua e poi hanno trovato delle affinità con i nostri laboratori, tanto da parteciparvi. Si parte dai ragazzi, si arriva alle mamme e da lì a tutto il contesto familiare», afferma Carmen.

Attraverso questa dinamica sono uscite delle problematiche rilevanti spesso sottovalutate o non considerate a livello mediatico come i matrimoni combinati e forzati in Italia. «Almeno in Campania, la nostra è stata la prima ricerca. Parlando con delle allieve che facevano parte del nostro centro interculturale, sono fuoriusciti due casi di ragazze promesse in sposa che poi sono sparite, rimpatriate in Pakistan per decisione della famiglia», analizza Carmen. Agire all’interno delle mura domestiche è un percorso tortuoso e complicato, le mura di casa sono insormontabili a meno che non ci sia qualcuno da dentro che apra la porta. «Ci si sposa per commissione perché avere una figlia da maritare diventa un potere contrattuale potentissimo per chi deve prendere il permesso di soggiorno dall’estero».

Infatti esiste un divario immenso per ciò che si vive nel Lanificio, con gli amici e la famiglia. «È uno shock culturale per molti ragazzi e ragazze, perché spesso a casa hanno la mamma che praticamente non esce, magari molto religiosa, e il padre che decide cosa deve fare la figlia, cosa dire, come vestirsi, mentre alla Dedalus incontrano coetanei di diverse nazionalità con cui nascono anche storie d’amore. Quindi proviamo a intervenire cercando di comunicare con le famiglie per ammorbidire alcune posizioni, c’è un progetto in particolare che si chiama “Grazia sotto pressione” in cui prendiamo in carico l’intero nucleo familiare e non la singola persona», conclude Carmen.

Asma Ghoraby è de Il Cairo, è arrivata in Italia nel 2018 per far curare sua figlia di quattro anni al Santobono di Napoli. «Non sapevo fare nulla, mentre ora so cucire i giacchetti e le borse, ho imparato molte cose. All’inizio non avevo nessun amico o amica, poi ho conosciuto delle persone alla sartoria con le quali ci incontriamo anche fuori e ora sono contenta di avere delle amiche con le quali parlare, i primi anni ero proprio triste perché ero sola. La mia storia è abbastanza complicata, perché ho perso mia figlia da qualche mese ma già prima che accadesse avevo deciso di uscire, di non rimanere nel guscio, per imparare qualcosa e magari iniziare a lavorare», Asma prende una pausa, i suoi occhi per un momento sono in un altro luogo. «Ho un’altra figlia, di sedici anni. È importante continuare a vivere, quando mia figlia di otto anni è morta ero a pezzi perché avevo dato tutto per lei. Poi un’amica quando mi ha visto così depressa mi ha detto di venire alla Dedalus. Ti insegnano a cucire, puoi incontrare persone, imparare l’italiano…», un accenno di sorriso per un attimo sembra scacciare le ombre del passato «… per me è stato importantissimo», conclude Asma.

La sartoria di Dedalus è anche un coinvolgimento emotivo e sociale trasversale che agisce in diversi ambiti ed età. «Nel mese di novembre del 2021 iniziai il corso di sartoria, alla vista delle macchine mi brillarono gli occhi, si risvegliò la passione che era stata repressa. Infatti sono cresciuta in un’azienda di borse di pellami di proprietà di mio padre, ero e sono macchinista di pelli. Tutti ovviamente hanno notato la mia dimestichezza e manualità, e giorno dopo giorno sono rinata sempre di più. Poi mi è stata offerta una borsa-lavoro, e mi sono ritrovata a insegnare a cucire a ragazzi e ragazze che venivano al corso», afferma Patrizia commossa.

«Mi chiesero di sostituire l’insegnante Antonella nei giorni in cui lei non poteva, così mi sono ritrovata in un mondo meraviglioso. Ero lì per insegnare qualcosa alle ragazze che mi hanno praticamente resa consapevole del fatto che si può rinascere. Quando veniva Asma per raccontarmi la sua vita mi infondeva fiducia perché si fidava di me, raccontandomi la sua storia aiutava la mia autostima. Mi è successo tante volte con le donne della sartoria, è fantastico perché ti rendi conto come il cucire è l’ultima cosa: lì c’è sorellanza, siamo tutte uguali, c’è affetto, c’è il rispetto, c’è tutto e poi c’è la sartoria!», continua Patrizia.

Mariola, polacca sposata con un tunisino e a Napoli da più di vent’anni è la responsabile di Ciak si cuce, il laboratorio sartoriale in cui le protagoniste sono proprio le madri. «Abbiamo iniziato con l’atelier un anno prima del lockdown, ma solo da due anni è diventato corso di formazione che rilascia un attestato di frequenza spendibile», precisa Mariola. Al momento è in fase di avvio una collaborazione tra Dedalus e l’Università Federico II di Napoli al fine di realizzare borsette a tracolla per gli smartphone. «Molte donne sono arrivate tramite passaparola, qualcuna è venuta direttamente a chiedere delle informazioni, altre tramite i figli che frequentano i nostri lavoratori. Qualcuno è arrivato perché è beneficiario dei nostri progetti, come le donne che sono nelle strutture di antiviolenza o i giovani che si trovano nelle nostre case per minori stranieri non accompagnati», puntualizza Mariola.

Patrizia è una di queste persone, durante la sfilata del 7 marzo organizzata da Dedalus anche i suoi tre figli erano presenti e applaudivano insieme a tutto il pubblico. «Ci occupiamo tantissimo della ricostruzione del rapporto madre-bambino perché una donna che subisce maltrattamenti per anni è nei fatti lesa nella sua capacità genitoriale, non perché non sia una buona madre, ma perché le violenze abbattono l’autostima. Il maltrattante che picchia fisicamente la propria compagna la denigra anche moralmente, molte di queste umiliazioni avvengono davanti ai figli, quindi la donna viene sminuita ai loro occhi. Quando vengono nelle strutture di accoglienza uno dei lavori importanti delle operatrici è quello di ricostruire il rapporto tra madre e figlio, anche quel rapporto di autorevolezza che giustamente un genitore deve avere. Se un bambino piccolo che ha bisogno di cure vede che il suo principale datore di cura, la madre, è svilita, umiliata, costantemente in pericolo, tra virgolette perde fiducia nella sua capacità di proteggerlo, di conseguenza il suo datore di cura smette di essere un adulto di riferimento», Tania prende una pausa, è visibilmente coinvolta dai vari meccanismi di violenza che si instaurano dentro casa.

«Nel centro di accoglienza lavoriamo molto su questo aspetto, Save the Children lo diceva già qualche anno fa che in Italia ci sono 400.000 bambini vittime di violenza assistita. I bambini che vivono all’interno di case dove si consumano i maltrattamenti non c’è bisogno che li vedano, la violenza il bambino la percepisce sulla pelle, perché la madre dopo che è stata picchiata dal compagno e sminuita psicologicamente di certo non gli sorride. Il grande errore che delle volte viene commesso dalle istituzioni è che non capiscono che il maltrattamento non si consuma davanti ai figli, ciò induce le autorità a sottostimare la situazione», conclude Tania.

«Il problema sorge quando lui pensa effettivamente che tu sia diventata la sua preda, quando sa di averti preso, in particolare quando tiene in pugno i tuoi figli. Perché la violenza psicologica è quella più elevata? Perché incomincia proprio da lì, e noi spesso abbiamo difficoltà a vederla perché si inizia con piccole rinunce, in realtà è proprio questo l’inganno», è Giovanna (nome di fantasia) dell’associazione Maddalena di Fuorigrotta, vittima di violenza domestica, che parla davanti a un pubblico prevalentemente femminile al teatro Trianon Viviani di Napoli dove Dedalus e diverse associazioni tengono una conferenza con il titolo «Oltre l’8 marzo» presieduta da Marisa Laurito.

«Inizialmente quest’uomo sembra perfetto: ti comprende, ti sta a fianco, estremamente empatico, fino a che non capisce che è il momento giusto per creare un precedente, un piccolo litigio di cui voi sarete ignare responsabili. L’intento è di far sorgere in voi il senso di colpa. Allora la restrizione inizia dal divieto al caffè con le amiche o dal: “Come mai sei così truccata? Dove devi andare? E con chi?”, mentre noi cerchiamo di rincorrere quello che c’era all’inizio, ma non lo troveremo più, perché quello era l’inganno per poterci soggiogare. La responsabilità non è nostra e il prenderne consapevolezza è difficile, perché ci hanno insegnato che dobbiamo salvare la famiglia a tutti i costi. Infatti, uno degli slogan che abbiamo nei volantini del centro antiviolenza di Fuorigrotta è “Io non tolgo il padre ai figli, tolgo un uomo violento”». Giovanna racconta di come si è resa conto di essere vittima di violenza tramite suo figlio di due anni e mezzo che aveva iniziato a balbettare, a soffrire di enuresi notturna, a non voler frequentare altri bambini. «Il neuropsichiatra della Asl non mi credeva, pensava che esagerassi ma gli raccontai il cambiamento che aveva avuto mio figlio: era un bambino solare, dinamico, estremamente socievole, che in una settimana si era tolto il pannolino, mentre in quel momento avevo un bambino che si svegliava la notte, o meglio rimaneva con questi occhi ghiacciati aperti. Alla fine, decise di tenerlo in osservazione con una psicologa per quattro sedute consecutive, e così è emerso che il problema di mio figlio… era il mio. I figli delle vittime di violenza sono tra virgolette dei disabili non riconosciuti, sono individui che hanno sofferto estremamente», Giovanna prende una pausa di fronte a una platea silente ed empatica.

Giovanna analizza poi il comportamento dei maltrattanti. «I padri che fanno? Una vittimizzazione di secondo livello, forse si prendono gioco dei figli, a tratti strumentalizzandoli. Sono riuscita ad averne l’affidamento esclusivo mentre lui li può vedere soltanto in presenza di altre persone, eppure sapete che cosa ha fatto? Una volta mi permisi di chiedergli di accompagnare insieme a suo padre i bimbi dal barbiere perché avessero un riferimento maschile visto che di solito li portavo io. E cosa fece? Li legò alla sedia rasandogli i capelli a zero con la macchinetta mantenendoli con forza. I bambini quando tornarono da me, il giorno dopo era l’inizio della scuola, non volevano uscire di casa. E questo non lo riesci a spiegare, neanche quando vai in tribunale, la prima cosa che ti dicono, è se sei adeguata, se sei così… se sei capace», conclude disarmata Giovanna.

Tania di Dedalus punta il dito contro certi atteggiamenti dei mass media. «Il grande errore che viene commesso dai media, che forse deriva dal fatto che siano anche loro vittime del patriarcato, è utilizzare a volte dei termini quando si parla di maltrattamenti in ambito domestico che invisibilizzano le vittime. Penso ai casi di femminicidio: “Donna uccisa da un uomo vittima di un raptus”, raptus di cosa? “Il gigante buono che non accettava di essere rifiutato”, no, è un uomo che ha ucciso una donna, un assassino, punto. Oppure: “Il primo colpo di pistola l’ha sparato lei quando ha deciso di lasciarlo”. Questi titoli che acchiappano lettore rendono invisibile la vittima e giustificano lo stupratore, il violentatore, l’assassino! Bisogna cambiare il linguaggio di comunicazione, altrimenti passa un messaggio sbagliato».

«Il tema della violenza in ambito domestico è strettamente connesso al tema delle discriminazioni di genere, e al tema della violenza economica. Partiamo dal presupposto che in Italia il 50% delle donne è disoccupata, il 50% degli/lle italiani/e ritiene che in famiglia il principale soggetto che deve portare risorse economiche è l’uomo, mentre la donna prendersi cura della casa. Questa visione stereotipata dei generi fa parte della struttura della società e in parte comporta che le donne che subiscono maltrattamenti trovino molta più difficoltà nel diventare autonome. Perché le donne non si affrancano da un maltrattamento? Perché spesso non sanno poi come occuparsi economicamente dei bambini. Quindi, l’essere disoccupata o impegnata in un lavoro solo part-time non aiuta, la discriminazione all’interno del lavoro e nella società è strettamente connessa con la violenza», conclude Tania. I centri antiviolenza prendono in carico la vittima per affrontare il percorso di affrancamento sostenendola a livello economico e legale, spesso fornendo un appartamento dove vivere.

«Mi ruppe il timpano e oggi questa lesione fisica è permanente, avverto ancora dolori quando sento un po’ di vento… ma rispetto alle umiliazioni, al chiudersi in casa, a negarti l’amicizia, la famiglia e tutto il resto la menomazione fisica è proprio una passeggiata. Il dolore fisico non è nulla rispetto a quello psicologico, oggi ne sono totalmente fuori. Per me la sfilata del 7 marzo alla Dedalus è stata una rivincita personale, l’ho pubblicata sui miei social come la mia vittoria», sorride fiera Patrizia. «Ho voluto che venisse fuori l’eleganza, la femminilità, l’essere anche provocante, tutte qualità che avevo represso. L’allegria, la spensieratezza, la forza, però decido io, perché purtroppo ancora si sente in giro “Eh, ma quello ti ha guardato, gli hai dato troppa confidenza”, “Perché tu ti sei messa un pantalone così…”, non è giusto. Volevo che queste qualità venissero fuori alla sfilata, tutte me lo hanno confermato e sono felice. Inoltre posso dire che mi sono molto divertita, perché in fondo doveva essere un gioco: facciamo le borse, le gonne, la sfilata e mi sono ritrovata su Rai Tre, una serata meravigliosa, un sogno praticamente».

Patrizia ora sta facendo un tirocinio presso una ditta di tessuti nel napoletano, la sua amica Asma sta studiando per ottenere la borsa-lavoro e sostituirla alla sartoria, a breve Patrizia potrebbe essere assunta in maniera definitiva, un’altra rivincita che si è presa. «Auguro a tutte di venirne fuori, ma incontrare le persone giuste può salvarti, perché la vita non la perde solo chi viene ammazzato, nel vero senso della parola… io non ero solo morta, ero sepolta viva».


(Alias – il manifesto, 13 maggio 2023)

di Vincenzo Mattei


Natascia pesa diligentemente i chicchi di caffè verde nei secchi di plastica alimentari, con il misurino definisce il grammo, la tostatrice è già accesa da un’ora per ottenere il risultato migliore. Versa tutto con cura dentro gli ingranaggi che daranno l’aroma inconfondibile al caffè. Sebbene la macchina sia completamente automatizzata e scandisca tutto al secondo, di tanto in tanto Natascia segue il progredire della tostatura attraverso un piccolo oblò di vetro dal quale si vedono i chicchi cambiare colore e assumere il tipico marrone scuro della bevanda nazionale.

Natascia è di Ponticelli, ha quarantaquattro anni, non aveva mai fatto questo lavoro, per vent’anni ha spacciato cocaina e droghe minori sul territorio napoletano. Sono otto anni che è reclusa nel carcere femminile di Pozzuoli. Il tempo passa, l’aroma del caffè tostato si diffonde nell’ambiente, intanto prepara i contenitori per raccogliere i chicchi tostati e i silos dove verranno stipati.

«La maggior parte delle carcerate di Pozzuoli viene quasi tutta dalla periferia, ma se sono di Ponticelli (un rione di Napoli), dicono “Andiamo a Napoli”, la stessa cosa se vengono da Scampia. Molte che vivono nel quartiere Sanità, qui vicino, non hanno mai attraversato la strada, non sono mai state a piazza Dante che è qua dietro. Così ti accorgi che non escono dai propri quartieri, sembra impossibile ma è la realtà. Vivi là per tutta la tua vita senza mai uscire come se fosse un piccolo villaggio, con le sue regole, le sue leggi e il destino che ti riserva. In molte pensano nel proprio immaginario che l’attività criminale sia l’unica cosa che si può fare, che non c’è alternativa!», afferma Imma Carpiello che ha fondato la cooperativa delle Lazzarelle nel 2010 con lo scopo di cercare il recupero delle detenute attraverso il lavoro.

Quale mezzo migliore se non il caffè? «Lo abbiamo scelto perché è un prodotto tradizionale, a cui ci si affeziona, è tipico napoletano, ed è un prodotto che dà identità», afferma Paola Pizzo, socia delle Lazzarelle dal 2016. La Cooperativa ha adibito a torrefazione un’ala all’interno della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli di comune accordo con le autorità costituite e di cui Paola è responsabile. «È un’impresa tutta al femminile in un settore tipicamente maschile. Abbiamo immaginato qualcosa che fosse realmente qualificante per le donne che lavorano con noi, per andare incontro a un bisogno, non solo di un reddito, ma soprattutto qualcosa che desse delle vere skill e competenze da spendere eventualmente una volta finita la pena», continua Paola.

«Noi diamo uno stipendio normale alle carcerate, con tanto di contributi, questo permette di non pesare sull’economia familiare. Ci sono delle spese, come gli assorbenti e altre necessità, che sono a carico dei loro parenti. Così facendo s’innesca un meccanismo inverso in cui sono le detenute stesse ad aiutare la propria famiglia che spesso versa in condizioni indigenti. Inoltre hanno la possibilità di pagare il debito che hanno con lo stato, sì, perché stare in prigione è come pagare un canone che poi risulta un debito da pagare in piccole rate una volta uscite di galera. Invece le nostre Lazzarelle riescono a mettersi qualcosa da parte, non molto, qualche migliaio di euro, ma comunque una somma discreta per chi deve reinserirsi nella società. Può essere investita nell’affitto di un appartamento e provare a iniziare in maniera indipendente un lavoro invece di ritornare a casa da un marito-padrone dal quale si dipende economicamente», precisa Imma.

Le Lazzarelle sono una piccola realtà e non possono di certo competere con la produzione industriale ma hanno una discreta distribuzione del proprio caffè a livello nazionale. «Abbiamo fatto tanto in questi dodici anni, con le fiere ci siamo fatti conoscere, anche a Napoli eravamo ignorate prima di aprire il bistrot qui alla Galleria Principe Umberto perché ovviamente, stando chiuse in carcere non era facile accorgersi di noi. Facemmo una fiera a Milano e fortunatamente siamo esplosi in Lombardia e in tutto il nord Italia, poi abbiamo i GAS [gruppi di acquisto solidale, Ndr], che per noi sono molto importanti», afferma Imma.

Dal 2020 le Lazzarelle hanno aperto il loro bistrot a pochi passi dal Mann [Museo Archeologico Nazionale Napoli, Ndr], in pieno centro storico, Imma ne descrive l’idea: «Quando abbiamo proposto il progetto ce lo eravamo immaginate già con un punto esterno come sua normale evoluzione, per proseguire il lavoro che facevamo dentro avevamo bisogno di un punto fuori. È stata una coincidenza fortuita trovare questo posto perché ci permette di non essere un progetto periferico e di portare le detenute al centro della città in un posto unico come la Galleria Principe. Circa sei anni fa il Comune di Napoli fece un bando per affidare questi locali e presentammo un progetto, lo vincemmo e avviammo i lavori di ristrutturazione per i quali abbiamo acceso parzialmente un mutuo usufruendo anche dei finanziamenti di due fondazioni. Stare qui e essere all’interno della rete del Mann e avere quindi come interlocutore il museo archeologico, il suo direttore Giulierini che viene a prendere il caffè dove ci sono le detenute, è diventato un processo osmotico».

«Lavorare con le Lazzarelle mi ha aiutato tantissimo perché ero una persona molto depressa, tendevo sempre a stare a letto con psicofarmaci, invece stando qua mi sento di nuovo viva. Grazie a Paola e ai ragazzi del servizio civile e alla mia amica Nunzia ora sto molto meglio, davvero un grandissimo cambiamento, anche perché con le altre persone ero chiusa, adesso no», Natascia lavora alla torrefazione dal 1° febbraio del 2022, riesce a mandare ai suoi due figli ventenni circa 300 euro al mese, un piccolo contributo in una realtà non sempre facile nelle periferie delle grandi città. «I miei familiari mi hanno visto cambiata, mi hanno detto che sono la Natascia di una volta, proprio perché ero caduta in una brutta depressione per i troppi anni di carcere».

Infatti il carcere, visto come sola detenzione, diventa un mezzo punitivo che spesso porta le detenute, una volta terminata la pena, a ritornare sugli stessi passi, a meno che non si agisca sia all’interno della struttura detentiva sia nel territorio. «Le mura chiuse possono portare all’annullamento della persona. Sono originaria di Aversa, ho vissuto in una città in cui il manicomio giudiziario e quello civile erano limitrofi, si passava sotto quelle mura senza rendersi conto di quello che c’era all’interno. E si continua ancora a fare così, quando si cammina a Poggioreale, non ci si pone il problema di chi è all’interno, per questo faccio gli incontri nelle scuole, gli studenti pensano che dentro le prigioni ci siano tutti Totò Riina e invece la maggior parte è la povera gente. Poi insisto sulla stessa cosa da anni: ci vogliono politiche di welfare differenti per evitare la dispersione scolastica, perché molte delle donne che noi incrociamo hanno la quinta elementare e molte intorno ai quarant’anni sono già nonne. Quindi significa che ti trovi di fronte a dei meccanismi che si rigenerano. Se non si vanno a intaccare queste problematiche, se non se ne parla, non se ne uscirà mai», conclude Imma.

Uno dei problemi del Meridione è appunto la mancanza di servizi che possano evitare l’abbandono scolastico, ma non solo. Nel Sud, molto di più che in altre zone d’Italia, le donne sono relegate a un ruolo prettamente domestico, quando diventano madri il loro percorso è scritto, devono rimanere a casa e accudire i figli. In Campania sono poche le scuole pubbliche che hanno la possibilità di tenere i bambini a tempo pieno, il che impedisce alle madri di trovare un lavoro anche part-time che possa renderle indipendenti. «Spesso il marito o il figlio maschio costituiscono l’unica fonte di sostentamento della coppia/famiglia perché le detenute non hanno mai lavorato. Quando i mariti, compagni o figli vengono arrestati, l’unico modo per portare avanti la famiglia è prendere il loro posto. Lo fanno perché hanno bisogno di soldi e non hanno altra opportunità lavorativa», descrive le dinamiche Imma.

«Avevo il marito ergastolano con due figli da mantenere e mandare a scuola, un appartamento, l’avvocato… sono tante le spese, poi quando non c’è il marito che fai? Non c’era alternativa, almeno per me». Natascia ripercorre la sua vita, e continua: «Chiaramente non si può avere una prospettiva per sapere già quello che si farà una volta fuori dal carcere, perché sarà molto difficile prima recuperare la propria libertà, nel senso che esco dopo tanti anni, me metto paura pure de pija’ o purman (il bus). Prima devo riacquistare fiducia in me stessa stando fuori, non commettere più errori, lo devo fare per i miei figli che non devono assolutamente fare la nostra vita! Sono sicura che non mi succederà mai più, e se troverò un lavoro in una torrefazione sarò felice».

Natascia poi ricorda con piacere un evento con le Lazzarelle che l’ha segnata positivamente, con una vena di orgoglio e soddisfazione: «La prima volta che siamo andate con Paola a fare il mercatino, per me era una novità uscire con l’azienda anche solo per lavorare davanti a un supermercato e confrontarsi con altre persone, parlarci, cioè, io lavoro, dopo tanti anni io lavoro, sto uscendo con la mia titolare e vado a fare un mercato, per me era una cosa nuova e bella che non pensavo di poter fare».

Le detenute non hanno l’educazione o la forma mentis volta all’emancipazione imprenditoriale, quindi il lavoro delle Lazzarelle all’interno del carcere di Pozzuoli rappresenta un’alternativa, una diversa prospettiva della vita. «In Campania si riscontra un contesto socioeconomico complicato. In generale noi donne abbiamo difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro e siamo doppiamente svantaggiate, per cui per una donna che ha scontato la pena non avere delle qualifiche è una tragedia. Abbiamo studiato i bisogni del contesto carcerario femminile e abbiamo immaginato le Lazzarelle come un’impresa femminile che fa caffè, dove il caffè non è lo scopo, ma è il mezzo, loro devono diventare in grado di fare qualsiasi cosa, o tornare a essere in grado di farla. Normalmente la detenzione reprime quelle che sono le loro capacità, quindi si lavora insieme per ricordarsi di quello che si sapeva e si può fare, ma soprattutto ciò che si può imparare a fare per il futuro nella speranza di non tornare più qui dentro ed essere grado di riprendersi la propria vita», precisa Paola.

«C’era questa realtà molto bella all’interno del carcere che dava la possibilità alle donne che sono recluse di poter imparare un lavoro ma anche acquisire delle competenze. Le Lazzarelle danno una speranza di poter ricostruire il proprio futuro nonostante ciò che è successo e gli errori commessi, avere una seconda possibilità, inserirsi nel mondo del lavoro, ti assumono con contratto regolare per un sostegno economico, quando uscirò da questo posto avrò accumulato una piccola somma che mi permetterà di ricominciare la mia vita», ad affermarlo è Anna, che attualmente lavora al bistrot nella Galleria Umberto grazie all’articolo 21, cioè in semilibertà in un contesto lavorativo esterno, dopo aver lavorato nella torrefazione nella casa circondariale.

«Il bistrot per me è stata l’opportunità per tornare in qualche modo a essere libera, sebbene la sera debba rientrare in istituto. Ho imparato nuove cose perché all’interno della torrefazione ci si dedica alla produzione, quindi si scopre come si tosta il caffè e tutta la catena produttiva/industriale, mentre al bistrot ho acquisito un’altra competenza come il contatto con il pubblico, lavorare al bar, servire i tavoli, fare i catering. Con le Lazzarelle ho scoperto il lavoro manuale e di possedere delle abilità che non credevo di avere. All’inizio, devo ammettere, mi sono sentita un po’ in difficoltà e in imbarazzo. Arrivati a una certa età si pensa che non sia possibile fare determinate cose, invece non è così, si scoprono altre capacità, altre situazioni… riscopri te stessa in un percorso di crescita», continua Anna.

Anna non solo lavora al bistrot, ma conta di laurearsi per luglio del 2023 in Economia e Commercio, ha ripreso ad andare a casa dai genitori e a frequentare di nuovo i suoi amici. «Quando entri in un contesto come quello carcerario, pensi che i tuoi amici abbiano cambiato idea su di te, esiste un pregiudizio che porta a farsi una serie di domande. Invece, quando sono tornata a casa, loro sono stati contenti di rivedermi e mi vengono a trovare anche qui al bistrot, questo è stato un ulteriore punto di forza che mi ha fatto capire che sì, è vero, è successo quello che è successo, evidentemente non era poi tutto sbagliato, c’è stata solo una fase molto deleteria nella mia vita e sono anche quello che mi è accaduto, ma c’è anche un tutto prima e un tutto dopo», precisa Anna.

A differenza di molte altre detenute Anna era diplomata in ragioneria e lavorava in amministrazione presso una succursale Fiat di Napoli. Anna non vuole scendere nei particolari, ma «…Uno lotta, si riprende, vuole riprendersi la propria vita, però c’è sempre quella parte che ci divide. Ho fatto sicuramente pace con me stessa, ma non so se l’ho fatta con il mio reato. Penso di avere piena responsabilità del mio crimine, però mi sento in colpa. Ho sempre pensato e continuerò a pensarlo che non sono una persona ignorante, avevo tutti gli strumenti per chiedere aiuto, perché mi sarebbe bastato chiederlo a qualcuno e dire che ero in una situazione psicologica che non riuscivo ad affrontare, ma non l’ho chiesto. Quindi mi assumo appieno la responsabilità del mio errore e ciò mi fa sentire meglio piuttosto che giustificarmi».

Anna esce alle 7.00 del mattino e deve rientrare in carcere alle 10.00 di sera, e su questo punto è non poco contrariata perché aveva ottenuto la semilibertà in periodo di emergenza covid, quindi invece di rientrare in prigione poteva dormire a casa dei suoi genitori e lo ha fatto da fine estate 2022 fino al 7 gennaio 2023. «Già da due anni che con l’articolo 21 faccio lavoro esterno, poi mi è stata data la semilibertà che ho rispettato per cinque mesi senza dare noie con nessuna infrazione o segnalazione. Ora questo passo indietro non ha un senso, è una pugnalata, ci sono dei premi, il premio dovrebbe essere proprio questo di darci una possibilità di rimanere a casa. Il giudice dovrebbe valutare il percorso formativo di reinserimento che la persona sta facendo e potrebbe premiarla confermando la libertà vigilata», afferma sconsolata Anna. È cosciente che esiste un limite edittale della pena che il giudice è tenuto a tenere in considerazione, ma in un contesto di sovraffollamento delle carceri, come è il caso italiano, forse potrebbero essere applicate le norme in maniera più contestuale.

Non aiuta di certo la cosiddetta legge anti-rave approvata dall’attuale governo che «… Ha comportato una serie di restrizioni per le persone con reati ostativi», afferma Paola Pizzo, «Sostanzialmente nessuna di loro due, Natascia e Nunzia, è andata più in permesso premio, quindi hanno perso dei benefici di legge a causa di questo nuovo decreto. Così a Natale non sono andate a casa e stare con i figli come gli altri anni, per una detenuta è la cosa peggiore che possa accadere. Abbiamo avuto dei momenti complicatissimi che sul lavoro si gestiscono ma dal lato emotivo non ci siamo ancora riprese. E poi non abbiamo capito se questa cosa inficia la possibilità di una misura alternativa come la semilibertà o un lavoro esterno come il caso di Anna, stiamo ancora capendo».

Le Lazzarelle hanno presentato il progetto al dipartimento di politiche sociali e giovanili campano per ospitare il servizio civile (SC) che è in auge da circa un anno. «I ragazzi si sono trovati in questo momento di tempesta natalizia, abbiamo sofferto tutti insieme, abbiamo pianto, un pianto collettivo… Sono stati molto bravi a cogliere la sensibilità, a stare vicino a Nunzia e Natascia. Si sono interessati alla legge stessa per cercare di capire e di aiutarle, perché alla fine le vedono per quello che sono, delle donne, che hanno sbagliato sì, ma sono esseri umani. Quindi il SC può aiutare i giovani a comprendere il carcere e quanto possa essere duro, la limitazione della propria libertà è la cosa più orribile che possa capitare, e può creare un po’ di dissuasione nel commettere reati», continua Paola.

Maria Cristina ha ventisette anni e fa il servizio civile alla torrefazione delle Lazzarelle, racconta la sua esperienza: «Non avevo mai messo piede in un centro detentivo, quindi mi ero interrogata a lungo su come potevo reagire dopo l’ingresso in un carcere. Ero cosciente che non avrei saputo dei reati commessi dalle detenute e mi ero posta il problema di come sarebbe stato lavorare con loro nel momento stesso in cui avrei saputo di più delle loro vite. Devo ammettere che poi si è risolto nella maniera più naturale possibile. Bisogna capire come effettivamente funziona il sistema penitenziario italiano con tutte le sue asperità e durezze, ma anche con i piccoli spiragli di speranza. Si capisce come si svolge la vita in una prigione, come loro trascorrono le giornate, il senso del tempo e dello spazio, perché nel carcere è diverso e quindi anche il lavoro assume delle sfumature diverse da quello che ha fuori».

Nunzia, trentaquattro anni e due figli di diciassette e sedici anni, collabora con le Lazzarelle da circa cinque mesi ed è in carcere per lo stesso reato di Natascia. Spiega meglio l’importanza del SC: «Ritorniamo parzialmente al mondo di prima: non abbiamo possibilità di contatto con persone all’esterno, invece stando con loro abbiamo notizie da fuori, se ci dimentichiamo di qualcosa, qualche dinamica, loro ce lo ricordano, sembra una sciocchezza ma è molto importante. Sono ragazzi ed è bello stare con i giovani», conclude Nunzia, poi descrive l’ambiente da cui proviene: «Lo spaccio era un mondo facile, facile per un guadagno economico, facile non fare niente dalla mattina alla sera… Poi magari ci siamo trovati in una situazione più grande di noi ma abbiamo capito che quello è un mondo che oggi non ci appartiene. L’ho capito proprio con le Lazzarelle, perché abbiamo la possibilità di fare per la prima volta un lavoro vero, entriamo in un mondo che noi neanche conosciamo, ci fanno capire che il lavoro è dignitoso e che dobbiamo andare avanti».

«Le Lazzarelle mi hanno anche appoggiato quando mi sono iscritta all’università, Imma mi dà la possibilità di collegarmi per le lezioni qui al bistrot. Sono contente nel seguirti, stai facendo un percorso di crescita e loro ti accompagnano, ti danno tutte le armi e tutti gli strumenti per poter affrontare la tua vita in modo diverso», conclude Anna.

Dal 2010 più di ottanta detenute hanno fatto il percorso lavorativo con le Lazzarelle, e quasi il 90% dei casi non è rientrato in prigione ed è riuscito a reinserirsi nella società. Una goccia nel mare, «Le detenute che vengono a lavorare con noi certo hanno un cambiamento, anche all’interno del carcere, però 3-6 detenute su 180 è un numero irrisorio anche se importante. Posso dire solo una cosa: a livello personale ognuna di loro mi lascia un pezzo, o si porta via un pezzo di me», conclude Imma. Il lavoro intenso delle Lazzarelle è stato riconosciuto a livello nazionale tanto da ricevere l’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana dal Capo dello Stato Mattarella il 23 febbraio 2023 (https://caffelazzarelle.jimdofree.com/).


(Alias – Il manifesto, 25 marzo 2023)

di Viviana Mazza


Si è dimessa Susan Wojcicki, dopo 25 anni a Google e nove come amministratrice delegata di YouTube. È l’ennesima recente uscita di scena di una donna ai vertici, che contribuisce ad allargare il gender gap della Silicon Valley.

Fu nel garage di Wojcicki che Larry Page e Sergey Brin idearono il loro motore di ricerca. Ha aiutato a concepire e sviluppare il mercato della pubblicità, ora dominante, di Google. Sotto la sua guida i ricavi di YouTube hanno raggiunto i 29 miliardi di dollari e gli utenti sono arrivati a 2 miliardi e mezzo. Il suo nome era stato ventilato come possibile futura ad di Google: ora è improbabile. A 54 anni, ha annunciato che lascerà il posto per motivi personali, parlando di «un nuovo capitolo», con al centro la famiglia (ha cinque figli), la sua salute e progetti che la appassionano. Una sua ex dipendente scrive su LinkedIn che, appena tornata dalla maternità tra solitudine e sensi di colpa, le chiese consiglio e la risposta di Wojcicki la aiutò: «Non devi essere grande in tutto, solo brava quanto basta»»

La notizia ha provocato sui social un’ondata di commenti, sia di elogio per una pioniera che di preoccupazione da parte delle donne che lavorano nel settore. Wojcicki è l’ennesima donna a lasciare i vertici di Big Tech negli ultimi tempi. L’anno scorso a 52 anni Sheryl Sandberg si è dimessa da capo delle operazioni di Meta, dichiarando: «Quando ho iniziato questo lavoro speravo di restarci per cinque anni. Quattordici anni dopo, è tempo di scrivere un nuovo capitolo». Meg Whitman, 61 anni, se n’è andata da Hewlett-Packard nel 2018, dopo sette anni come ad, per assumere la guida di Quibi, piattaforma di streaming presto fallita; ora è ambasciatrice Usa in Kenya. Nel 2020 Ginni Rometty, 62 anni, ha lasciato Ibm dopo quattro decenni nell’azienda e una guida di 8 anni caratterizzata da ricavi in calo e un crollo del prezzo delle azioni. Nel 2012 c’erano grandi speranze che la 37enne Marissa Mayer potesse risollevare le sorti di Yahoo come ad, ma non ci riuscì e si dimise nel 2017 con l’acquisto di Verizon e rivelazioni su falle nella sicurezza tenute nascoste.

Ogni donna e ogni azienda ha la sua storia, ma una cosa che accomuna quelle sopracitate sono le critiche feroci per la loro performance, a volte sentite come attacchi personali, e il fatto che i successori sono uomini. Secondo Bloomberg News, nove anni come ad a Silicon Valley non sono pochi. Ma le donne ai vertici oggi stanno cambiando lavoro in numeri record, dice uno studio di McKinsey e di Lean In, l’organizzazione no-profit fondata da Sheryl Sandberg. «Il problema non è che le donne lasciano, è che ce ne sono troppo poche – dichiara Sandberg – Nessuno scrive articoli sugli uomini che lasciano i posti di rilievo, eppure succede in continuazione. Ma siccome ci sono così poche donne leader è più straordinario quando accade a noi. Dobbiamo rendere lo straordinario ordinario».

Molte donne hanno lasciato il lavoro a causa della pandemia. Nell’ondata di licenziamenti degli ultimi mesi dei giganti della tecnologia, le donne sono particolarmente colpite perché spesso di più recente assunzione e in ruoli sentiti come meno prioritari. Rischiano così di diventare ancor più minoranza, ed essere minoranza è un ulteriore peso che porti sulle spalle.

Non è che non ci siano ancora donne potenti nel mondo di Big Tech. Ma è interessante che tendano a mantenere un profilo pubblico più basso. Safra Catz, ad di Oracle, raramente dà interviste. Susan Li, promossa direttrice finanziaria di Meta a novembre, non ne ha fatta ancora nessuna. Lisa Jackson è una delle cinque donne nella leadership di Apple (gli uomini sono 13). Lisa Su, ad di Advanced Micro Devices, è l’eccezione: parla spesso con i media.


Le (ex) regine della Silicon Valley

Facebook: L’anno scorso a 52 anni Sheryl Sandberg si è dimessa da capo delle operazioni di Meta, la società che controlla Facebook e Instagram.

Hewlett-Packard: Meg Whitman lasciò la multinazionale dell’informatica nel 2018, dopo 7 anni.

Ora è l’ambasciatrice americana in Kenya.

Yahoo: Su Marissa Mayer, nel 2012, c’erano grandi speranze di risollevare il provider di servizi web. Andò male e lei dovette dimettersi cinque anni dopo.


(Corriere della Sera, La ventisettesima ora, 19 febbraio 2023

di Riccarda Zezza


Ci aspettavamo che succedesse già con i Millennial, ma la spallata finale sembra essere arrivata con la generazione Zeta: i giovani stanno mettendo in discussione il “senso” del lavoro. E, mentre in Francia il dibattito avviene nelle piazze, coinvolgendo anche generazioni più anziane che non ne vogliono sapere di lavorare due anni in più (fino a 64 anni), in Italia il tema appartiene ancora ai corridoi.

L’ansia cresce quando vi si associa il crollo delle nascite, meno di 400mila nati nel 2022 equivalgono a sempre meno energia immessa nel mondo del lavoro: chi sosterrà il peso dell’ottava economia mondiale?

Se lo sono domandato gli amministratori delegati di alcune tra le principali aziende italiane durante un incontro del Consorzio Elis dal titolo “I giovani e il lavoro”, e la campanella di allarme era chiara: i giovani stanno scegliendo di andare a fare altro, lasciando promesse di carriera che un tempo avrebbero inorgoglito mamma e papà, e lo fanno perché, semplicemente, sembrano avere valori – e quindi desideri – diversi. Vanno via perché non si riconoscono nell’identità lavorativa che viene loro proposta: se da remoto manca l’immersione emotiva che nutre il senso di appartenenza, in presenza non convincono le logiche di senso, l’accelerazione, le dinamiche relazionali, la sensazione, insomma, di dover scegliere tra il proprio lavoro e “il resto”, un resto in cui i giovani hanno chiara la percezione che vi sia molto di loro.

«Il lavoro è un solo tassello delle molte cose che ognuno è: famiglia, hobby, interessi…» dice in apertura dell’incontro Nicola Lanzetta, Direttore Italia del Gruppo Enel, ed è evidente che non sta parlando solo “dei giovani”, ma che questo concetto riguarda tutti, portandosi dietro una diversa aspirazione ad essere e a dimostrarlo (anche) col proprio lavoro.

Lavorare per avere (anche) senso

Il paradosso è che, proprio mentre diventa finalmente possibile il sogno del ragionier Fantozzi – lavorare senza dover andare ogni giorno in ufficio – la possibilità di lavorare da remoto lancia la sfida definitiva alla capacità che il lavoro ha di arricchire il senso di una vita composita. 
Se questo fosse solo economico, nessuno si lamenterebbe sentendosi un criceto nella ruota (in qualche modo bisogna pur mangiare), ma sappiamo fin troppo bene che, sia che si parli di lavoro e preghiera, secondo la regola benedettina, o di lavoro e amore, come insegnava Freud, il lavoro è per l’essere umano molto di più di un mero “fare”. Questa dimensione ideale di un lavoro che dà un senso all’essere è tanto più possibile oggi, che la parte bassa della Piramide dei bisogni di Maslow viene presidiata in modo sempre più automatizzato e quindi le professioni “umane” possono permettersi di spostarsi verso la parte alta. Ancora più della specializzazione, sono l’intelligenza, l’energia, la proattività delle persone a fare la differenza, soprattutto in settori come quello Informatico e Digitale (che ha registrato il 32% delle dimissioni di giovani nel Nord Italia nel 2021, secondo AIDP – Associazione Italiana Direzione Personale) o del Marketing e Commerciale (27%).

Non sembra strano quindi anche quel desiderio di “attivismo” – collegato all’autorealizzazione – da parte delle nuove leve, che vorrebbero poter mettere il cuore in ciò che fanno; come hanno sempre detto di voler fare anche le donne, per cui il “purpose” (bisogno di senso) è sempre stato in cima alla lista delle motivazioni per la scelta di un posto di lavoro.

E infatti, mentre dalle parole dei relatori i giovani emergono come “sentimentali”, appassionati e idealisti, a chi come me studia da un decennio le dinamiche del lavoro femminile scappa un sorriso: dove le abbiamo già sentite queste cose?

Dai “sentimenti” al desiderio di un maggiore equilibrio vita-lavoro, dal bisogno di senso a scelte che mettono il ritorno economico al secondo o terzo posto, dopo l’aspirazione ad avere un impatto: i giovani che arrivano oggi ingrossano e rianimano le fila, ormai esauste, delle donne che da decenni presentano istanze molto simili.

Dissonanze necessarie per migliorare il sistema

È una buona notizia – non solo per le donne: per tutti, perché una massa critica maggiore (giovani più donne) ha più chance di trasformare un sistema che si è rivelato estremamente rigido – ma è una notizia che contiene anche un elemento di allarme: negli anni, per le donne e sulle donne, sulla loro diversità e bisogni, sulla loro fuga silenziosa (che sembrava più che altro una “cacciata”) si sono tenuti convegni e fatte ricerche, in molti casi evidenziando con dati incontrovertibili la perdita che la loro rinuncia comportava per l’economia. Ma questo non ha cambiato molto, o almeno non in modo visibile, a giudicare dai dati sull’occupazione femminile – per esempio, nel 2022 l’occupazione femminile è cresciuta di 152mila unità contro le 230mila di quella maschile, e a dicembre si è registrato un record negativo: zero “attivazioni nette” femminili.

Si sa da tempo “perché” l’occupazione femminile non cresce, si sa perché le donne lasciano il lavoro e si sa che tipo di perdita questo comporta per tutto il sistema (i famosi 7 punti di PIL in più che secondo la Banca d’Italia avremmo se l’occupazione femminile arrivasse al 60%), ma tutta questa sapienza ha avuto un impatto molto limitato. È importante evitare di ripetere con i giovani lo stesso errore: riempirsi di informazioni, tesi, dibattiti e dati il cui scopo ultimo è una situazione di sostenibilità che cambi il meno possibile.

Come le donne, anche i giovani (Millennials, Zeta e, in riscaldamento sui banchi di scuola, Alpha) sono necessari al sistema perché la diversità può e deve metterlo in discussione e così renderlo migliore, riattivare al suo interno uno scorrere del tempo che logiche efficientistiche tendono a considerare una minaccia. È proprio dove “duole” che il sistema può individuare quel che non funziona: nelle ragioni per cui donne e giovani lasciano c’è la chiave per un nuovo modo di disegnare il lavoro, migliore per tutti.


(Alley Oop – Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2023)

di Filippo Ortona


«Io sono in collera sempre, ma questa volta tutto in questo progetto di legge mi fa imbestialire», dice Marion al manifesto, in mezzo al corteo parigino contro la riforma delle pensioni voluta da Macron. Marion, 37 anni, lavora alla Fnac dentro alla stazione Saint Lazare a Parigi, «e uno non direbbe, ma è un lavoro molto faticoso, spostare cartoni pieni di libri tutta la giornata». L’anno scorso, assieme alle colleghe, hanno scioperato per tre mesi, chiedendo aumenti di salario e riduzione dei ritmi. Ora, dice, si ricomincia: perché «questa riforma penalizza le donne come mai prima. Le donne che hanno i part-time, che hanno i lavori precari, che sono già meno pagate degli uomini, sono loro le prime a perderci».

La constatazione di Marion non è sfuggita ai sindacati, che sin dalla presentazione del progetto di riforma l’hanno definito «una riforma anti-donne». Secondo la Cgt, «già oggi le donne vanno in pensione più tardi e con delle pensioni inferiori agli uomini; con la riforma, dovranno lavorare più a lungo degli uomini». L’accusa dei sindacati ha trovato un’insperata conferma per voce del ministro per le relazioni col parlamento Franck Riester, che il 24 gennaio ha dichiarato in diretta tv che le donne «sono un po’ penalizzate dall’aumento dell’età pensionabile, giacché i trimestri considerati per i figli non saranno presi in conto». Risultato, come ammesso dal deputato macronista Stanislas Guérini: «Le donne dovranno versare contributi un po’ più a lungo degli uomini».

«Tutte le riforme che aumentano l’età pensionabile danneggiano le donne», ha scritto dal canto suo la Cgt. «Già oggi, il 40% delle donne va in pensione con una carriera incompleta». Effettivamente, le donne sono più vulnerabili alle «carriere spezzatino», dice Titiane, 24 anni, studentessa in apprendistato in una ditta d’informatica. «Siamo già penalizzate sui salari, ma soprattutto, tendiamo a essere più precarie per tutta una serie di ragioni. Con questa riforma, ovviamente, subiamo più che gli uomini», dice, mentre distribuisce dei volantini del Nouveau Parti Anticapitaliste. 
Secondo le simulazioni del governo, con l’aumento dell’età pensionabile a 64 anni e il nuovo sistema di contributi, le donne nate nel 1966 lavoreranno in media 7 mesi in più rispetto allo status quo, a fronte di cinque mesi supplementari per gli uomini. Quelle nate nel 1972 andranno in pensione 9 mesi più tardi, contro 5 per gli uomini, e quelle del 1980 partiranno 8 mesi più tardi, mentre i colleghi maschi solo 4.

Uno scenario da incubo per Catherine, infermiera in un ospedale parigino. A 56 anni, dopo trent’anni di corsia, dice che la sola idea di dover lavorare ancora quasi un decennio la fa infuriare. «Lavoro in psichiatria, è un lavoro pesantissimo, tanto sul piano fisico che mentale. Siamo meno pagate dei nostri colleghi maschi, ma facciamo un lavoro pesante come il loro» ed ecco che il governo non solo vuole che lavoriamo di più «ma che lavoriamo più degli uomini. È uno scandalo», dice, mentre segue le colleghe col camice bianco.


(Il Manifesto, 1° febbraio 2023)

di #Senzagiridiboa


Era la fresca sera del 4 maggio 2022, alle 20. Tutto nasce da un messaggio su una chat WhatsApp: «Avete sentito le parole della Franchi? Dobbiamo reagire, fare qualcosa!».

Elisabetta Franchi è una stella del mondo della moda. Nasce in una famiglia poverissima poi fa la commessa in una bancarella di intimo fino a realizzare il suo sogno dominando le passerelle più ambite con abiti indossati anche da Angelina Jolie e Jennifer Lopez. Durante un incontro pubblico parlando del suo modello di business rispetto al tema dell’occupazione femminile dice: «Faccio una premessa. Io le donne le ho messe ma sono -anta, ancora ragazze ma ragazze cresciute. Se dovevano sposarsi si sono già sposate, se dovevano far figli li hanno fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello. Diciamo che io le prendo dopo i quattro giri di boa. Sono tranquille e lavorano h24». Eccole le donne che hanno già fatto i quattro giri di boa.

Over 40 (quindi affidabili e formate ma ancora giovani per lo standard italiano), matrimonio fatto, figli già cresciuti (quindi secondo lei già fuori dalle balle), divorzio (eh sì perché se fai la manager non hai tempo per investire sulla tua relazione quindi per forza finisce male). A questo punto sola come un cane senza più nessuno di cui occuparti non ti resta che lavorare h24 (perché no, se sei una donna in carriera – con o senza figli – non c’è spazio per il tempo libero, per leggere un libro, passeggiare o godersi la vita. Puoi solo sgobbare).

Queste parole ci hanno fatto arrabbiare. All’inizio in chat eravamo in cinque. Alle 21.30 nel gruppo WhatsApp superavamo le trenta. Alle 22 di quella sera di maggio ognuna di noi ha lanciato sui propri social network l’hashtag #senzagiridiboa accompagnato da una fotografia di sé stessa (con o senza pancione, con o senza figli, sul lavoro, in vacanza) e un pensiero, una riflessione personale sulle parole pronunciate dall’imprenditrice della moda.

Alla campagna si sono unite molte altre lavoratrici. Non solo giornaliste ma anche scrittrici, artiste, sceneggiatrici, blogger, sportive, attrici.

Elisabetta Franchi ha poi precisato le sue parole così: «L’80% della mia azienda sono quote rosa di cui il 75% giovani donne impiegate, il 5% dirigenti e manager donne […] Lo Stato italiano è ancora abbastanza assente, mancando le strutture e gli aiuti, le donne si trovano a dover affrontare una scelta tra famiglia e carriera». Quindi, conclude la stilista emiliana, “chi riesce a conciliare famiglia e carriera è comunque sottoposta a enormi sacrifici, esattamente quello che ho dovuto fare io”. Effettivamente l’imprenditrice è madre di due figli, il primo avuto poco prima delle boe, mentre la seconda dopo i suoi giri di boa. Non ha senso prendersela con chi ha solo avuto la sincerità, impudente, di dire in un consesso pubblico quel che ogni giorno si dice e si fa dentro le segrete stanze delle aziende dove si decidono le carriere delle donne. Alla fine dobbiamo essere grate a Elisabetta Franchi. Da lì abbiamo deciso di uscire dal perimetro della campagna social e di fare ciò che ci viene meglio e cioè quello che facciamo per lavoro: esercitare il nostro diritto di cronaca e di critica. Raccontare, dopo aver raccontato le nostre storie, le storie degli altri. Così abbiamo chiesto a chi ci ha seguito sui social di mandarci le proprie storie. Non ci credevamo, dobbiamo dire, ma in un mese, grazie a chi c’ha dato fiducia, abbiamo raccolto oltre cento testimonianze di lavoro/vita/diritti. Questo libro* è il loro libro. È il frutto di questa raccolta di storie. Ma è anche il nostro libro. È un racconto corale. Uno sforzo collettivo che avevamo disimparato a compiere in questo mondo, il nostro mondo, in cui l’individualismo sfrenato ha spesso il sopravvento: noi ci siamo unite. Questo libro è quindi per noi molto più che un libro. È un metodo, un approccio solidale alla vita.

Ma attenzione: il nostro non è un movimento politico. Né tantomeno un coro composto solo da madri. È al contrario un grido trasversale che comprende donne con storie diverse e che non si ferma solo al difficile bilanciamento tra lavoro e figli. Questo libro parla anche alle -anta single e senza figli che si dà per scontato, non avendo prole, non abbiano una vita degna di essere vissuta al di fuori del loro impiego. In più non si considera che oggi il problema è semmai quello opposto: per fare figli si aspettano proprio gli -anta di cui parla la Franchi. Perché negli -enta si fa la gavetta. E poi ci sono gli uomini, che a stare con i figli ci tengono sul serio e magari si sentono discriminati per non poterlo fare perché alla fine se manca lo stipendio più consistente, quello maschile nella maggior parte dei casi, chi porta avanti la famiglia? Uomini che vorrebbero anche loro avere diritto ad un mondo del lavoro che non faccia solo della disponibilità il metro della propria prestazione e del proprio valore.

Questo libro vuole spiegare a tutte (e tutti) che non siamo davanti a un problema individuale con una soluzione individuale. Questo problema è il problema sociale più importante che abbiamo davanti nel mondo del lavoro e deve avere una risposta sociale. Fino a quando la perdita del lavoro di una donna in attesa sarà solo il problema di quella donna e non un’offesa a tutte le donne lavoratrici e un danno a tutta la società, non se ne uscirà.


(*) AA. VV., Senza giri di boa, PaperFirst.


Un’opera sociale e collettiva. La prefazione la firma Chiara Saraceno. Il libro è un’opera a più mani di giornaliste, scrittrici, blogger: Francesca Biagiotti, Valeria Brigida, Giulia Cerino, Gaia De Scalzi, Micaela Farrocco, Francesca Fornario, Silvia Franco, Chiara Maria Gargioli, Linda Giannattasio, Sara Giudice, Barbara Gubellini, Sofia Mattioli, Ambra Orengo, Valentina Petrini, Giulia Presutti, Chiara Proietti D’Ambra.


(Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2022)