di Luciana Talozzi

relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Portata avanti dall’associazione Insieme ArTe – Amare Chioggia per orientare alla gratitudine verso le relazioni che ci sostengono e i beni che ereditiamo con la nascita e che riceviamo vivendo, da dodici anni si tiene nella nostra città, Chioggia, la Festa della Riconoscenza.

La ricorrenza è una celebrazione in forma creativa, durante la quale, all’incrocio di arte e politica, viene realizzato un grande mandala circolare che copre circa settantacinque metri quadrati della più bella piazza della città, toccata su due lati dall’acqua della laguna. L’appuntamento, occasione di incontro tra chi segue con interesse l’evento, tra amiche e amici che vengono anche da fuori, è fissato per la seconda domenica di maggio e con esso si conclude il ciclo di iniziative promosse dall’associazione prima dell’estate.

Ogni anno l’allestimento riguarda temi diversi. Nel 2010, per esempio, abbiamo dedicato il mandala dal titolo L’amore apparecchia la tavola, al nutrimento: realizzato con verdure del territorio, che ha un’economia orticola ancora significativa, abbiamo così reso omaggio a chi lavora nei campi e a chi si prende cura della preparazione del cibo in casa, prevalentemente le donne. Nel 2012, con il materiale raccolto sulle spiagge (conchiglie, legname, corde…) abbiamo realizzato il mandala dedicato a quel mare Adriatico che disegna i contorni del nostro territorio. Nel 2013, con Abitare e creare, abbiamo intrecciato fili, nastri e strisce di tessuti colorati su reti da pesca per ricordare la tradizione del merletto, che qui a Chioggia era realizzato sulla base del redin, rete quadrettata in formato ridotto rispetto a quella dei pescatori. Nel 2014, la raffigurazione di donne, uomini, bambine e bambini danzanti ha illustrato La danza delle relazioni. Da anni ci impegniamo per il verde dentro il cuore della città, in particolare per la realizzazione di un giardino del cui progetto iniziale siamo state protagoniste. Da qui Omaggio al verde del 2017. Quest’anno il tema L’infinito tra noi (ho preso l’idea da Katia Ricci curatrice della mostra di mail art intitolata “Concepire l’infinito”) è stato occasione di un allestimento simbolico: tra le dodici porte, che si aprivano sulle spirali-vortice convergenti verso il centro, abbiamo scritto le seguenti parole, espressione del “di più” cui aspiriamo: nascita, amore, relazione, cura, sapienza, desiderio, libertà, passione, fiducia, attenzione, universo, armonia, pace, riconoscenza.

La nostra associazione è nata diciotto anni fa. Volevamo conoscere meglio le manifestazioni creative delle donne ed esprimerci noi stesse in forma visiva per il bisogno di integrare la politica della parola con i linguaggi artistici e creativi, centrati sulla sensibilità. Allo stesso tempo, volevamo dare il nostro contributo alla vita del territorio e, per indicare che l’ispirazione creativa era per noi anche opera di cura nei confronti del luogo che ci ospita, l’associazione ha preso il nome di Insieme ArTe – Amare Chioggia. Il desiderio di tenere insieme arte e amore per la città è all’origine della Festa. La mia proposta di dedicarla alla riconoscenza dapprima suscitò sorpresa e qualche perplessità tra le amiche dell’associazione, ma poi prevalse la fiducia e l’interesse per la nuova impresa. Così il progetto partì. In occasione dell’installazione sul tema L’amore apparecchia ogni giorno la tavola, quando con verdure del territorio realizzammo una grande mensa rotonda apparecchiata, la conduttrice del laboratorio di allora, Mirella Tonellotto, suggerì di tenere la forma simbolica del mandala in ogni successiva edizione. E così fu. La comunità abitante accoglie con favore questa creazione e la sua sollecitazione a pensare con gratitudine ai beni che riceviamo dal territorio, anche quando i temi proposti vanno ben oltre l’ambito locale.

Quest’anno i riscontri dimostrano apprezzamento anche per la capacità di dare all’iniziativa continuità nel tempo. In effetti, la festa è diventata una ricorrenza da conservare, ricca di un significato profondo. Nella tradizione orientale, il mandala parla dell’impermanenza, qualcosa di caduco. Anche noi, dopo averlo costruito al mattino, la sera lo dissolviamo, nonostante il lavoro di mesi che ha richiesto la sua preparazione. Ma soltanto proponendo la sua costante riedizione, come ciclo, cerimonia, rito, l’evento può affermarsi quale visione di un nuovo patto tra noi, donne e uomini, e il mondo in cui abitiamo.

Nel gruppo Festa, ognuna e ognuno, senza essere professionista dell’arte, sa dare un contributo inventivo davvero originale all’installazione e questo impegno collettivo è importante per rendere esteticamente equilibrato il mandala; ma il bello ha bisogno di rispondenze sul piano dei significati: l’orizzonte simbolico resta centrale per la riuscita dell’opera e la nostra umana ricerca di senso. Altre e altri prenderanno in mano la continuazione della Festa se sarà occasione per trascorrere un piacevole tempo creativo e impulso a trasformare la propria e altrui forma mentis. La ricorrenza si affermerà come tradizione, se il riconoscimento del valore delle politiche di cura, inventate soprattutto dalle donne, faranno sentire la necessità di dar loro una forte testimonianza simbolica.

(www.donnealtri.it, 2 giugno 2018)

 

Giuseppe Rizzo

 

Chioma fulva mezza rasata, occhialino professorale e sorriso con fossette laterali, la Draghessa di internet è lei. Ama farsi fotografare con rettili o volpi sulla spalla e farsi chiamare «Lizard wrangling», titolo del suo blog, cioè «lucertola dispettosa». Winifred Mitchell Baker, californiana, a fine anni Settanta studentessa a Berkeley, oggi a 55 anni è una delle donne più in vista della Silicon Valley, per la rivista “Time” tra i 100 personaggi più influenti del mondo. Meglio, come donna tecnologica è la più in vista, dopo che Carol Bartz è stata rimossa dalla carica di amministratore delegato di Yahoo.

Mitchell «Lizard» Baker è ancora solidamente in sella della «corporation» del draghetto, o meglio a capo della Mozilla Foundation, proprietaria del browser Firefox, impegnata attualmente nella promozione di un nuovo sistema operativo – Firefox Os – che si prefigge di far dialogare le App tanto su prodotti Apple quanto su smartphone e tablet che utilizzano Android. Questo obiettivo per lei è quasi una crociata, si tinge di riflessi utopici da open source, da rottura di steccati, pur sempre nel recinto più vasto dei sistemi proprietari. «Noi siamo una struttura non-profit», chiarisce sempre, anche se una non-profit da 50 miliardi di dollari. «E vogliamo aumentare la libertà, non il controllo sul web». Insomma si comporta da guru, da Draghessa, appunto.

Lei è una delle donne più importanti della Rete. Sente questa responsabilità? In che cosa essere donna in una posizione chiave della Silicon Valley può fare la differenza?
«Le diversità sono importanti anche a livello di leadership. Se tutte le persone che creano la tecnologia di base di internet fossero uguali o anche molto simili, il risultato del loro lavoro rispecchierebbe questa prospettiva condivisa e quindi non potrebbe rappresentare tutti noi. Credo che il mio ruolo nel settore sia importante proprio perché penso alla tecnologia, alla società o al guadagno personale in modo diverso da molti miei coetanei. E questo, almeno in parte, è perché sono donna. Ciò che per altri è ovvio per me può essere solo convenzionale e non particolarmente buono. Cerco questo senso delle diverse possibilità nel nostro lavoro a Mozilla. D’altra parte questa è la filosofia prevalente dentro Mozilla, nel cui nucleo guida ci sono molte persone eccezionali. Non ho mai avuto grandi difficoltà a guidare Mozilla come donna. Il mio partner iniziale è stato Brendan Eich – creatore del linguaggio che va sotto il nome di Java script che gestisce molta parte del web – e con lui non ho mai avuto problemi di genere. Lo stesso vale per molti altri collaboratori, che sono contenti di avere una donna come presidente».

Non so quanti anni abbia suo figlio ma non le pare che i cosiddetti nativi digitali rischino di diventare una nuova specie di centauri, metà adolescenti e metà divano, visto come tendono a mediare qualsiasi relazione tramite il web? Non la spaventa questo?
«La vita virtuale e quella reale, fisica, sono sempre più interrelate. A volte le attività online mediano altre relazioni. Ciò è qualcosa di nuovo per molti di noi. D’altra parte ricordo che anche quando ero adolescente i miei genitori, della generazione precedente, erano preoccupati dall’uso che facevamo della tecnologia. Quanto tempo hai passato al telefono? Quanto tempo stai sprecando davanti alla tv?
Rapporti complessi con la tecnologia, che in parte amiamo e in parte ci mettono a disagio, non sono una novità. A mio parere però i veri nativi digitali saranno la generazione che crescerà facendo internet e sapendolo utilizzare nel modo migliore. Internet non è come la tv o come ascoltare un programma radio. È profondamente personalizzabile e può essere perciò vissuto in modo differente da ognuno. Capire come farne una esperienza che si adatta al proprio ambiente, a livello locale, è giusto il segno di riconoscimento di un nativo digitale. A Mozilla abbiamo un progetto che si chiama Webmaker (http://www.mozilla.org/en-US/webmaker/) che nasce dall’idea di far capire come creare cose online sia ormai diventato una competenza essenziale, come imparare a leggere, scrivere e fare di conto».

Ci aiuti a fare uno sforzo di immaginazione, lei che ha avuto un ruolo tanto importante nel passaggio al web 2.0. Come sarà il mondo di internet tra dieci o vent’anni?
«Dieci o vent’anni sono un tempo troppo lungo nella vita di internet. Ma nei prossimi cinque anni ci troveremo di fronte certamente a una ulteriore esplosione di dati. Vivremo in un mondo di informazioni. E vivere immersi in questi dati solleva questioni alle quali abbiamo bisogno di dare una risposta, come chi ha il controllo di questi dati, come ordinarli e filtrarli, e se ciò ci fa sentire più liberi o più manipolati. La mia paura più grande per il futuro della Rete è che si rischia un sistema fortemente centralizzato in cui poche imprese e governi controllano gran parte di ciò che accade online. Mozilla lavora per costruire un internet aperto, in cui ogni individuo abbia il massimo del controllo sulla sua vita. Gli ambienti informatici attuali, specialmente di telefonia mobile, non sono il mondo che vorrebbe Mozilla. Possono essere eleganti ma non sono aperti, distribuiti, ambienti in grado di utilizzare le potenzialità che il web ci ha mostrato. Così noi stiamo cercando di nuovo di cambiare il futuro di internet, ad esempio attraverso Firefox Os, il sistema operativo mobile che stiamo costruendo, e spero che guardando indietro tra cinque anni potrò dire che ci siamo riusciti».

Come coniugare l’esigenza di non essere più tracciabili sul web, non parlo solo di privacy, con le esigenze di sicurezza che i governi hanno o quelle degli investigatori di contrastare la criminalità?
«Dobbiamo affrontare questo problema come facciamo nella vita. Le nostre società per secoli si sono confrontate con il problema di come bilanciare la libertà personale con l’interesse pubblico. Ogni stato-nazione prende decisioni per tutelare la libertà e prevenire il crimine. Io però temo che le democrazie occidentali stiano cambiando, involontariamente, questo equilibrio».

Esistono già tutta una serie di App che autolimitano la nostra connessione, con una sorta di disconnessione a tempo. Perché non riusciamo più a staccarci da soli?
«Ogni nuova tecnologia dirompente porta con sé timori che possa cambiare il nostro comportamento o disumanizzarci, basta pensare a “Tempi moderni” di Chaplin. Stiamo capendo meglio come funziona il cervello umano e presto ne sapremo di più anche sul comportamento. Nel frattempo possiamo sviluppare strumenti che aiutino la gente a capire il proprio comportamento. A Mozilla abbiamo degli esperimenti in corso. Quando riusciremo a capire meglio l’uso individuale della tecnologia e perché potrebbe rivelarsi difficile disconnettersi avremo maggiori possibilità per cambiare le nostre abitudini».

Lo strapotere di Google viene da più parti criticato perché di fatto orienta l’accesso alle informazioni. I risultati della ricerca tengono conto di filtri su cui l’utente non ha alcun controllo e che molti contestano. Come superare questi paletti?
«Noi crediamo che un internet aperto che permette alternative per gli sviluppatori e per gli utenti sia il modo migliore per prevenire gli abusi».

La Apple non vi permette di accedere al suo sistema mobile e non siete gli unici con questo problema. Come giudica questa chiusura e non può rivelarsi un boomerang?
«Le tecnologie che si possono usare sulla piattaforma iOs sono limitate da Apple. Per questo motivo non siamo in grado di offrire tutto Firefox su iOs, ma solo parti di esso attraverso le tecnologie controllate da Apple. Al momento non abbiamo intenzione di farlo perché pensiamo che questa miscela tecnologica non farebbe né la nostra né la felicità degli utenti. Tuttavia continuiamo a sorvegliare le possibili interrelazioni tra Firefox e gli utenti iOs. La tendenza di oggi, capitanata da Apple, dei singoli produttori è di controllare sempre di più le decisioni sulla tecnologia da utilizzare, le pratiche commerciali, i prezzi e la capacità dei programmatori di dialogare con i propri clienti. È molto inquietante. Se dovesse diventare il modello prevalente perderemmo molto di ciò che di buono ci ha portato il mondo del web».


(
L’Unità,  5 novembre 2012)

aprile

Fuma troppo, parla poco e non perde mai tempo. Rosita Ciotti, insegnante in pensione, è la signora No Tav. Per difendere Venaus, non ha perso un presidio. Pensare che per due anni non era uscita di casa.
Andrea Rottini

Rosita Ciotti è una donna minuta, gracile solo all’apparenza. La sua forza traspare dagli occhi che sbucano sotto i capelli corti e bianchi come la sua vecchia 500, che si inerpica fiera sui tornanti della val Susa. “La natura di questa zona è molto particolare -spiega-: accanto alla flora alpina crescono fiori della steppa e dell’arenile mediterraneo. Ci sono anche specie particolari di farfalle e cavallette, che qui riescono a sopravvivere”. Creature ostinate, un po’ come gli abitanti di questo fazzoletto di montagna appeso tra i 2100 metri del Moncenisio e gli oltre 3500 del Rocciamelone. “Qui la resistenza continua, ora e sempre”, grida la scritta sul muretto di una curva. “Vedi? Questo è il punto dove i poliziotti hanno tentato di forzare il blocco dell’8 dicembre 2005”, dice Rosita. Quel giorno i No Tav erano arrivati in 30mila per entrare a Venaus, presidiata dalle forze dell’ordine, e cercare di impedire il carotaggio della montagna, il prelievo cioè di campioni di roccia, dove è in progetto la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità (vedi servizio a lato, ndr).
La macchina si ferma in un punto panoramico da cui si domina la Val Cenischia, breve corridoio che unisce Susa a Venaus: il nastro dell’autostrada è in primo piano, cinquanta metri più sotto è stato progettato lo scavo per la Tav. Un’opera di cui si parla dagli anni ’90: indispensabile per Roma e Bruxelles, dannosa per la montagna e i suoi abitanti secondo la combattiva comunità valsusina, preoccupata dalla prospettiva di vent’anni di lavori con quotidiani cortei di camion a intasare la strada della valle. “Senti che vento? -chiede Rosita, 62 anni, insegnante di Lettere in pensione. Da queste parti è così due giorni alla settimana: e loro con una teleferica vorrebbero trasportare i detriti della montagna, fatti di roccia, amianto e uranio”. Valsusina doc, autrice di libri di poesia ed esperta di erbe alpine, Rosita sa di cosa parla: “Dai tempi degli scavi per l’autostrada, l’incidenza di morti per mesotelioma (cancro favorito dall’esposizione all’amianto, ndr) è molto alta in questi paesini”. Un’eventualità che potrebbe ripetersi con gli scavi per realizzare il tunnel della Tav, insieme alla perdita di numerose sorgenti d’acqua, che costringerebbero sette frazioni della valle a ricorrere alle autocisterne. Come forma di protesta, la scorsa estate Rosita si è messa in cammino con altri 23 valligiani, direzione Roma. Un viaggio che in auto richiederebbe più di sette ore, realizzato “a bassa velocità”: ogni giorno 20 km a piedi sotto il sole, il resto in treno, per portare in giro l’entusiasmo e le istanze dei No Tav.
“L’idea è nata quell’8 dicembre, quando è arrivata gente da mezza Italia ad aiutarci a tornare a Venaus -racconta Rosita, mentre accende una sigaretta nel salotto di casa-. Non conoscevamo né questa gente né i loro problemi, molto simili al nostro: il terzo valico dei Giovi, il Mose, il ponte sullo Stretto, il progetto di discarica nucleare a Scanzano Jonico, la variante di Valico. Così abbiamo voluto metterci in viaggio per conoscere da vicino alcune di queste situazioni”. Una carovana di pensionati, giovani e famiglie non passa certo inosservata. “Ci fermavano ovunque per sapere cosa stavamo facendo: alle Cinque Terre un muratore ci ha chiesto come fare per bloccare l’ampliamento di una costruzione sulla spiaggia, autorizzato dal suo Comune”. Marcia di giorno, incontri pubblici di sera: non proprio una vacanza, con l’aggravante di una fastidiosa raucedine. “Dorme sempre all’aperto e fuma troppo -ricordano i compagni di viaggio di Rosita-: non perde mai tempo e parla poco, ma è un sicuro punto di riferimento per tutti”. Una dimostrazione di carattere e dedizione per lei, che dopo aver perso il marito si era barricata in casa per due anni. Un letargo interrotto il 31 ottobre di due anni fa, per la gioia dei suoi figli: “Quando le imprese salirono fin qui per trivellare la montagna, decisi di impegnarmi anch’io -dice-. Per tutta la vita io e Paolo avevamo fatto certe battaglie e lui sarebbe stato d’accordo con me: dobbiamo impedire che il mondo venga continuamente aggredito, lo stiamo utilizzando come una risorsa di denaro e non come un posto dove vivere”.

 

Piccola cronaca di una valle ribelle
“Si mettano il cuore in pace, l’opera si farà”. Così parlava l’ex ministro dei Trasporti, Pietro Lunardi, ai manifestanti No Tav durante i “giorni della resistenza” a Venaus e dintorni. Giorni caldi quelli dell’autunno 2005. 16 novembre, sciopero generale della Val Susa. Secondo gli organizzatori, 80mila persone sfilano lungo gli 8,5 km che dividono Bussoleno da Susa.
6 dicembre, l’intervento delle Forze dell’ordine. La polizia sgombera il presidio del movimento No Tav che impediva l’ingresso a Venaus delle ditte incaricate di effettuare i carotaggi della montagna in vista della realizzazione del tunnel. Gli scontri provocano una ventina di feriti tra i manifestanti. Per due giorni tutta la Val Susa è bloccata: ponti, strade e ferrovia sono invase dalla protesta dei valligiani. Intanto la protesta arriva a Torino, dove nel corso di una manifestazione un gruppo di anarchici ferisce con una bottigliata alla testa un agente della polizia e compie atti vandalici nel centro città, come forma di protesta contro l’intervento notturno degli agenti.
8 dicembre, la giornata della “liberazione” di Venaus. Cinquantamila persone salgono al cantiere dell’Alta velocità. Le Forze dell’ordine si ritirano.
Da gennaio 2006, in concomitanza delle Olimpiadi di Torino, militari e manifestanti osservano una sorta di tregua che continua fino ad oggi. Un armistizio che non ha fermato gli incontri di sensibilizzazione e i cortei di protesta (l’ultimo in ordine di tempo, sabato 31 marzo, da Trana ad Avigliana), che potrebbero intensificarsi all’avvicinarsi delle scadenze che riguardano il futuro della Tav. A giugno 2007 si chiuderanno i lavori dell’Osservatorio regionale per monitorare l’avanzamento dell’opera e gli effetti sulla salute, per settembre è invece attesa la decisione definitiva sulla costruzione del tunnel o, in alternativa, del raddoppio della linea Bardonecchia-Lione. Solo allora si saprà se Lunardi aveva ragione. Info: www.spintadalbass.org

Ugo Mattei

A un anno dalla occupazione del Teatro Valle di Roma vale la pena di riflettere sul senso costituzionale di una strategia politica, quella della riconquista dei beni comuni artistici, che sta articolandosi in tutto il paese e che mi pare costituisca lo specifico italiano della lotta globale di liberazione dei popoli contro la follia neoliberale. Il recente sgombero della Torre Galfa di Milano riapre in modo prepotente la discussione sul rapporto fra legalità e legittimità, nonché quello fra il potere formalmente costituito, la forza costituente dei beni comuni e la sua compatibilità con la democrazia rappresentativa e con la struttura proprietaria oggi dominante. Alcune questioni giuridiche di diretta rilevanza politica sono sul tappeto e vanno affrontate anche in vista delle prossime occupazioni che, adeguatamente puntellate sul piano giuridico e politico, anche tramite la trasformazione della soggettività (e si legga qui in chiave sovversiva il manifesto di Alba), devono necessariamente intensificarsi. Le occupazioni sono oggi il solo strumento idoneo a mettere all’ordine del giorno il grido d’allarme per una democrazia messa in crisi dal governo tecnico e dalla sospensione emergenziale della sovranità politica. Infatti, il dispositivo biopolitico totalizzante rende inutili le armi della critica, se rimangono incapaci di azione politica concreta, cioè fisica. L’occupazione, configurandosi appunto come azione di conquista fisica di uno spazio, è nozione prima di tutto intimamente giuridica, perché il possesso come “situazione di fatto corrispondente alla proprietà” è il principale elemento giustificativo della stessa, anche nell’ottica liberale (da John Locke in avanti). L’occupazione ha cioè nel suo seno la potenza sovversiva dell’ordine costituito e, se capace di asserire sovranità fisica, è forza costituente. Giuridicamente, in un mondo che si presume come tutto occupato dalla proprietà privata o dall’autorità pubblica (a modello demaniale) l’occupazione è relegata a casi di scuola, come le conchiglie sulla spiaggia. La res nullius, giuridicamente occupabile, è nozione culturale (dunque politica) non ontologica, come ben ci dimostra l’esempio della conquista delle Americhe, considerate giuridicamente vuote e dunque occupabili, che fu coeva alle enclosures nella madre patria e parimenti parte dell’accumulazione originaria del capitalismo nascente. Alla res nullius ha sempre fatto compagnia la res derelicta , la cosa abbandonata, la cui proprietà può pure acquisirsi per occupazione (il giornale lasciato sul treno, il televisore vicino al cassonetto della monnezza). Nel nostro sistema costituzionale la proprietà privata è riconosciuta e garantita solo nella misura in cui essa risponda a una “funzione sociale”, idea che i giuristi hanno da sempre visto come legata alle “utilità” prodotte dal bene e non certo alla cosa “in sé” oggetto di proprietà (il grattacielo, il giornale o il televisore), perché una funzione dipende dal contesto e non dall’oggetto. Chi occupa in “funzione costituente” ancorché limitata alla realizzazione concreta di uno o più testi costituzionali, come l’art. 42, restati gravemente lettera morta, critica così la “meritevolezza di tutela” da parte dell’ordinamento giuridico dell’accumulo proprietario al puro scopo di accaparramento privato della rendita fondiaria. Noi sosteniamo che l’indecenza delle pratiche di accumulo antisociale della ricchezza vada considerata costituzionalmente una derelictio delle utilità comuni del bene, che le rende occupabili da chi le restituisca, rendendole aperte, alla loro natura di beni comuni. Questo vale tanto per la proprietà privata quanto per quella pubblica, perché esse condividono un modello di governo di tipo autoritario ed escludente. Per questo, esperienze come Macao si oppongono a istituzioni comunali, ancorché “amiche” che, invece di lavorare alla giusta distribuzione di quanto prodotto dall’intera collettività (rendita fondiaria appunto, che dà valore a un grattacielo fatiscente) tacciono conniventi rispetto agli abusi di un ministro della Repubblica che manda la forza pubblica per tutelare una rendita fondiaria privata del tutto parassitaria. Questa è la vera questione di legalità che Macao ha voluto mettere all’ordine del giorno, collocandosi in perfetta continuità con l’esperienza di critica alla proprietà privata antisociale condotta al Cinema Palazzo, recentemente premiata da un’importantissima sentenza del Tribunale di Roma (VII sez., 8 febbraio 2012). Che “funzione sociale” può mai avere la proprietà privata della Torre Galfa, chiusa e abbandonata da 15 anni, rispetto alla sua apertura come “bene comune” a disposizione della collettività grazie all’impegno civile e politico di Macao? Che funzione sociale potrebbe avere il Cinema Palazzo, ridotto ad un bingo, ed invece restituito al quartiere di San Lorenzo grazie all’impegno sociale e politico della moltitudine, tramite un’azione di natura politica, non finalizzata al conseguimento di un profitto personale o di un interesse di natura patrimoniale? Le utilità di questi beni immobili, come di altri che invece sono in proprietà pubblica come il Teatro Valle o il Palazzo Citterio di Brera presso il quale Macao continua la sua battaglia, sono rivendicate come “beni comuni” in funzione costituente materiale. Si vuole così dare piena e diretta applicazione popolare del fraseggio della Costituzione del ’48, contro il suo continuo tradimento causato della connivenza fra istituzioni private (grandi concentrati di proprietà, per lo più azionaria) e pubbliche anche al più alto livello. Se per legittimare l’occupazione di una proprietà privata parassitaria occorre fondarsi sull’art. 42 (funzione sociale), nel caso di una proprietà pubblica la norma chiave è l’art. 43 (inserito in Costituzione riconoscendo il contributo dei consigli di fabbrica alla liberazione antifascista), e diviene cruciale la proposta di un governo partecipato e autenticamente democratico delle utilità prodotte dai beni comuni creativi (di qui l’importanza costituente della natura aperta dell’istituenda Fondazione Teatro Valle Bene Comune). È dunque ben evidente come la lotta per i beni comuni creativi ponga al centro dell’attuale fase politica la questione proprietaria, smascherando la finta opposizione fra pubblico e privato. L’esempio di Torre Galfa, e la sua traslazione a Palazzo Citterio, è esplicativo. Un manager (privato) telefona a un ministro (pubblico) affinché questi usi la forza (pubblica, ossia pagata da tutti noi) per tutelare una proprietà (privata) in stato di abbandono terminale da oltre 15 anni, il cui solo valore è l’assorbimento (privato) della rendita prodotta dalla pressione urbanistica (con relativa necessità di infrastrutture pubbliche, ecc.). Si noti che se un cittadino normale, dopo esser stato assente per molto meno tempo, trova in casa propria un altro cittadino normale ivi intruso (a maggior ragione o un inquilino moroso) egli non potrà che far ricorso alle regole del diritto privato per sgomberarlo. In altri termini, la proprietà privata ordinaria deve contentarsi delle regole civilistiche (ossia del diritto privato), mentre la grande proprietà azionaria, che accumula rendita fondiaria in modo parassitario (senza far uso del bene ma anzi lasciandolo deperire), può contare sull’uso immediato degli apparati repressivi dello Stato. Ciò dimostra che i rapporti di potere fra pubblico e privato sono oggi invertiti ed il potere pubblico semplicemente non ha la forza o il coraggio di resistere ad un ordine proveniente dai poteri privati (finanziari o quant’altro) anche se quest’ordine è completamente contrario all’interesse della cittadinanza. Non c’è dubbio che la Torre Galfa, una volta aperta dagli occupanti, avrebbe restituito alla cittadinanza in senso ampio almeno una parte di quella ricchezza collettiva (quel bene comune) che è la rendita fondiaria, assorbita senza giustificazione alcuna dal gruppo Ligresti. Lo stesso quotidiano La Repubblica , che nella sua edizione milanese accusa Macao sgomberata e in transizione democraticamente decisa verso Brera dell’infamia mediatica di condividere un avvocato col movimento No Tav, in quella romana, lo stesso giorno, elogia gli occupanti di una proprietà pubblica, il Teatro Valle, sostenendo giustamente che il Comune di Roma deve almeno continuare a pagare le bollette, perché una stagione così bella mai l’avrebbe organizzata! Come noto ai giuristi, sul piano del diritto positivo vigente, una proprietà pubblica è tutelata rispetto all’occupazione in modo più intenso di una proprietà privata (per esempio gli occupanti del Teatro Valle non potrebbero mai acquistarlo per uso capione) mentre nella pratica le cose, per il suddetto mutamento dei rapporti di forza, vanno esattamente al contrario. Per la verità, nel sistema dell’art. 42 Cost., proprietà privata e pubblica sono poste sullo stesso piano. La “funzione sociale della proprietà” si garantisce rendendo un bene “accessibile a tutti”, denunciando chi esclude al solo scopo di accumulare la rendita, sia essa direttamente economica o indirettamente politica. La prassi dell’occupazione artistica costituente abbatte la falsa coscienza della distinzione fra privato e pubblico, mettendo al centro beni comuni le cui utilità sociali vanno funzionalizzate alla soddisfazione dei diritti fondamentali (anche di partecipazione politica effettiva e x art.3 Cost.) garantiti alla collettività. In questo senso Macao, spostandosi dalla Torre Galfa a Brera, offre un contributo definitivo a chiarimento dell’ irrilevanza del titolo formale per le vertenze sui beni comuni. Al sindaco di Milano si continua a chiedere di schierarsi apertamente a favore dei beni comuni, chiarendo l’intreccio dei legami con Ligresti (Torre Galfa) e condividendo con la cittadinanza attiva le scelte sul futuro di Palazzo Citterio. Un’occupazione condotta in nome della cultura come bene comune può mettere in campo il potere della creatività artistica per abbattere il principale scudo ideologico e mediatico dietro il quale si nascondono gli abusi del grande accumulo proprietario parassitario: la paura piccolo-borghese per la critica alla proprietà privata personale. Chi critica l’accumulo proprietario di Ligresti non discute la proprietà del signor Rossi, proprio come chi critica un potere autoritario (anche se esercitato da un sindaco amico), non discute la democrazia e la legalità, ma si batte per una loro realizzazione coerente con una Costituzione rispettosa dell’uguaglianza sostanziale. Questo è il messaggio politico con cui l’arte può sconfiggere la ricostruzione mediatica dominante.

 

Emma Dante lancia un appello per i lavoratori dello spettacolo
Forte il gesto dell’artista palermitana dove “immagina una nuova era della cultura vista come bene comune”

 


Sulla scena tre grandi ancore sospese. Un sistema complesso di corde e di carrucole. E c’è un uomo: un mozzo, sulla piccola prua di una “nave immaginaria”. Il suo corpo è parte del sistema: imbracato preso, agganciato per la schiena … sembra legato a un’ancora soltanto, eppure, a ben guardare è lui a muovere ogni cosa, l’artefice è il suo stesso movimento, quanto più ampio libero e cosciente.. A Linea d’Ombra, il Festival delle Culture Giovani, guidato da Peppe D’Antonio con la codirezione artistica di Diego Da Silva, Luca Granato e Agostino Riitano – (a Salerno dal 16 al 22 aprile) – un tracciato sempre più focalizzato sul confronto fra arti e linguaggi differenti, nella sezione performing art è andato in scena Acqua santa , il primo capitolo della Trilogia degli occhiali di Emma Dante. Sull’autrice e sull’impronta unica e deflagrante del suo teatro tanto si è riflettuto e detto, così come sulla Trilogia, ultimo esito di una ricerca fiammeggiante e stratificata, dunque altro non dirò se non che la scelta di Acqua santa, per lingua e per matrice affine alla tradizione napoletana classica, è divenuta in questo caso prezioso ponte di interazione con il territorio, da cui, con coinvolgente abilità, sono stati poi accesi i fuochi estremi dell’indagine esistenziale di Dante e dei suoi fantastici attori della Sud Costa Occidentale. Ma accanto alla vicenda stralunata e struggente dello Specchiato, si è agita una pagina della storia, fino a qualche tempo fa misconosciuta, delle lavoratrici e dei lavoratori della cultura. Nitido forte e pieno di cura il gesto che ha condotto Emma Dante all’invio di un appello rivolto al pubblico della pièce, che è stato letto dalla redazione del festival, già nel foyer del teatro Augusteo, uno dei luoghi di Linea d’Ombra. L’appello si intitola “Tempo scaduto. Il contagio continua” a perorare le vie germinate a seguito di due recenti fondamentali venerdì. Venerdì 2 marzo, grazie al collettivo dei lavoratori dell’immateriale e dello spettacolo La Balena, è cominciata l’occupazione dell’ex asilo Filangieri di Napoli, sede del Forum Universale delle Culture. Sempre di venerdì lo scorso 13 aprile all’ormai quasi annuale esperienza del Teatro Valle di Roma e a quella del Teatro Coppola di Catania, anche Palermo ha risposto al contagio con l’occupazione del Teatro Garibaldi (per firmare www.teatrogaribaldiaperto.wordpress.com e www.labalena.wordpress.com). Tre ancore dicevamo all’inizio. Tra queste allora una potrebbe essere quella della “ricompattazione della forza-lavoro immateriale e cognitiva”: una grande categoria a comprendere ricercatori e artisti, lavoratori dello spettacolo e della conoscenza, autrici e autori, lavoratori autonomi e intermittenti, fino a qualche tempo fa cancellati dalla scena sociale, resi, e resisi, invisibili e muti, nonché deprivati di diritti e tutele. Una seconda ancora può invece essere quella del contagio della pratica dell’occupazione che, come il Valle continua a dimostrare, può farsi propulsivo strumento di riappropriazione di luoghi della cultura stravolti nel loro ruolo e nella loro funzione da incancrenite dinamiche di gestione istituzionale. Infine una terza ancora è per “un nuovo sistema di regole” da cui “immaginare una nuova istituzionalità della cultura intesa come Bene Comune” e “una nuova gestione condivisa e partecipata che, in totale autonomia, ridefinisca tempi e priorità del proprio lavoro e sperimenti un nuovo linguaggio creativo comune”. Se è vero che l’essenziale è invisibile agli occhi, bisogna avere il coraggio di dire che la cultura è sangue, corpo, cuore e cervello di chi l’agisce veramente con la propria vita e con il proprio lavoro. Sui bug e gli orrori del lavoro culturale non riconosciuto e non tutelato Bianciardi aveva detto molto, tanto, ma è necessario che ciascuno di noi aggiunga il proprio insostituibile tassello. Gettata con un gesto crudelmente teatrale alla Artaud la maschera competitivo-individualistica che tanto fa il gioco perverso del sistema, che si pasce di una concezione hobbesianamente distruttiva dei rapporti tra i lavoratori, è il tempo della consapevolezza di sé e del corpo artefice. Come i corpi distesi dei lavoratori intermittenti nel 2003 riuscirono a fermare il più grande festival di teatro del mondo, quello di Avignone, è il corpo libero e unito a fare il movimento.

 

di Duccio Facchini

 

Sofía Gatica, argentina, ha vinto il Goldman Prize, il premio Nobel alternativo per l’ambiente. Un riconoscimento alla lotta per la salute e alla campagna “Stop Spraying”, promossa da Sofía insieme al gruppo delle Madri di Ituzaingò. Una mobilitazione contro l’uso dei pesticidi nelle piantagioni di soia, iniziata per Gatica dopo l’inspiegabile morte della figlia, avvenuta 13 anni fa a tre giorni dalla nasciata

 

“Tredici anni fa, Sofía Gatica partorì una bambina. Tre giorni dopo, la piccola morì. Decisa a scoprire cosa avesse ucciso sua figlia, Sofía iniziò a parlare con i proprio vicini, a Ituzaingó, comunità di 6mila abitanti nell’Argentina centrale, in una zona agricola circondata di campi di soia. Scoprì così che erano molto diffusi e problemi di salute ritenuti ‘inspiegabili’”. Nel 2012, con queste motivazioni, Sofía Gatica ha vinto il Goldman Environmental Prize 2012 per il Centro e il Sud America.

 

Il “premio Nobel alternativo per l’ambiente” è un riconoscimento della battaglia che questa “madre coraggio” ha condotto contro le grandi compagnie agrochimiche (tra cui Monsanto). La disegnazione di Sofía riconosce un grande problema dell’Argentina, che è il terzo Paese esportatore di semi di soia al mondo. La produzione comporta l’impiego di milioni di litri di Glifosato, agrotossina chiave nell’irrorazione dei campi per mano di Monsanto, e di Endosulfan, un pesticida altamente tossico che è bandito in 80 Paesi.

 

“Senza alcuna esperienza e nessuna formazione accademica -si legge nelle motivazioni del Goldman Prize- “Sofìa ha contribuito a fondare il gruppo delle sedici Madri di Ituzaingò, impegnato a chiedere l’interruzione dell’uso indiscriminato di prodotti agrochimici, responsabile dell’avvelenamento delle comunità”.

 

Attraverso una ricerca condotta casa per casa, incrociando i dati forniti dai residenti, le Madri guidate da Gatica sono riuscite nel corso degli anni a ricostruire la mappa delle ricadute drammatiche dei pesticidi spruzzati. E il dato finale è impressionante: la percentuale di tumori nell’area è pari a 41 volte la media nazionale, così come le difficoltà respiratorie, le malformazioni alla nascita e la mortalità infantile.

 

Alla luce dei risultati, le Madri di Ituzaingò hanno lanciato la campagna “Stop Spraying”, rivolta alle due grandi multinazionali Monsanto e DuPont. Il prezzo da pagare è stato elevato: nel 2007, Sofía Gatica si è vista puntare in faccia una pistola, con l’invito perentorio di lasciar perdere. Nonostante le minacce, gli insulti e le intimidazioni, Gatica e le Madri ottengono uno straordinario risultato: nel 2008 la presidentessa argentina Cristina Kirchner ordinò al ministero della Salute di condurre un’indagine sull’impatto dei pesticidi utilizzati nella zona di Ituzaingò. L’esito confermò il risultato della ricerca delle Madri. Una conferma che anticipò la più importante vittoria del gruppo guidato da Sofía Gatica: nel 2010 la Corte Suprema ha messo al bando lo spargimento di pesticidi nei pressi di aree popolate, e decise la fondamentale “inversione dell’onere della prova” in merito alla salubrità delle sostanze chimice, che oggi non più a carico dei residenti bensì del Governo e dei produttori.

 

Grazie all’impegno di Sofía Gatica anche altri località argentine interessate da fenomeni analoghi si sono mobilitate. Motivo per cui la madre di Ituzaingò -insieme alla campagna “Stop Spraying”- si sta battendo per la messa al bando dell’irrorazione aerea dei pesticidi e per la creazione di zone cuscinetto protette dai fitofarmaci.

Fulvia Bandoli

Il progetto TAV ( alta velocità ferroviaria) comincia ad essere pensato e progettato dentro FF.SS. oltre venti anni fa e su quell’ipotesi si apre subito un dibattito serio e ampio in Italia. Lo animarono soprattutto alcuni trasportisti famosi ( Zambrini in primis ma non solo lui..), urbanisti celebri, alcuni economisti, le associazioni ambientaliste tutte, gli ambientalisti Pci poi Ds che io dirigevo,i verdi, rifondazione quando nacque, e i sindacati.
Due erano le proposte che in quegli anni oramai lontani si confrontavano: da una parte il progetto TAV che prevedeva una direttrice verticale napoli- milano e una orizzontale venezia -torino fino a Lione. Treni super veloci, su binari diversi da quelli normali, con pendenze diverse, molte gallerie e dunque tanti scavi, costi alti e tempi molto lunghi di realizzazione. A sostegno di questo progetto non solo le ff.ss. ma i governi dell’epoca, i poter forti, l’Impregilo e la Fiat in primis ma anche alcune cooperative, diverse banche, e anche i sindacati che pensavano ne potesse venire lavoro e occupazione.
Dall’altra parte invece mettemmo a punto un progetto alternativo e diverso che prevedeva detto in breve il raddoppio di tutta la rete esistente , l utilizzo della vecchia rete per le merci in modo da arrivare in dieci anni anche noi a standard europei nel trasporto di merci su ferro ( standard che non abbiamo mai raggiunto), e l’utilizzo della nuova rete che doveva viaggiare in parallelo un po più veloce per le persone, ma per tutti, pendolari in primis e cittadini tutti . Questo progetto sarebbe stato fattibile in 6/8 anni e avrebbe comportato costi che erano la metà e forse anche meno di quelli che si sono spesi per la Tav. La prima proposta metteva al centro la velocità, la competitività con l’aereo, e per questo veniva spacciata come la piu’ moderna, noi mettevamo al centro lo spostamento delle merci dalla gomma al ferro ( come la Germania stava già facendo da un decennio e non solo lei..) e l esigenza di dare a tutti i cittadini un servizio efficiente, anche più rapido ma non super veloce.E io penso ancora oggi che il più moderno fosse il secondo progetto, che avrebbe diminuito sostanzialmente le emissioni in atmosfera perchè avrebbe diminuito di circa il 30/40 per cento i mezzi pesanti, che sarebbe stato alla portata di tutti, sarebbe costato meno e sarebbe stato fatto in tempi più brevi e con impatti ambientali minimi.
Queste due ipotesi diverse si confrontarono per alcuni anni e alla fine ebbe la meglio il progetto TAV che era sostenuto non solo dai sindacati ma anche da tutti i partiti più grandi compresi i Ds.  Nei ds Solo gli ambientalisti si schierarono a favore del secondo progetto. E il parlamento adottò quel progetto. E con la lentezza e l approssimazione che sappiamo quel progetto partì e ci mise oltre dieci anni per realizzare le prime tratte con costi enormi. Persa quella battaglia gli  ambientalisti tutti ( ma anche molti sindaci,amministratori, cittadini e associazioni) si dedicarono a migliorare l impatto ambientale dell’opera oramai decisa, proponendo correzioni, pendenze diverse, meno gallerie e tutto perchè l assetto idrogeologico del nostro paese secondo noi non avrebbe ben sopportato un opera di tal genere. Se qualcuno avesse la pazienza di andare a vedere come erano i primi progetti di tav tra firenze e bologna e tra roma e napoli vedrebbe bene come sono cambiati, pur restando dentro una logica che non abbiamo mai condiviso. Cercammo sostanzialmente di minimizzare i danni. Nel frattempo i costi della tav lievitavano di giorno in giorno e i tempi diventavano biblici,le merci continuavano a girare in gran parte su gomma, come avviene tuttora, e cresceva il disagio dei viaggiatori normali, di quelli che non hanno 120 euro per fare roma bologna andata e ritorno, e dei pendolari che usano il treno tutti i giorni per andare al lavoro. Furono chiuse diverse linee piccole e diverse stazioni diventarono spettrali e abbandonate. Ci aspettavamo, noi che avevamo proposto un’ altra strada, che partisse una riflessione seria sui limiti di quel progetto ma nulla accadde, siccome il progetto aveva preso il via bisognava portarlo a termine. Naturalmente ogni tratta aveva i suoi problemi e quella della Valle Susa ne proponeva di enormi, per la fragilità del territorio, per l’attraversamento della valle che già veniva fatto da una grande arteria che faceva passare migliaia di mezzi pesanti su gomma ogni giorno, per l opposizione di quasi tutti i sindaci e le comunità locali, i cittadini intendo. Anche su quella tratta si sono apportati cambiamenti per attutire l’impatto ma resta un opera ambientalmente molto impattante e di dubbia utilità per diminuire il traffico pesante da quella valle.
Questa è la storia per sommi capi e resta scritta nelle scelte trasportistiche di questo nostro paese. Gli anni ci diranno chi aveva ragione ma io penso e temo che alla fine, come per il nucleare, la ragione stia dalla nostra parte.
Ecco perchè continuare a porre dubbi su quella scelta è legittimo, non è eversivo di nulla e soprattutto non è una scelta irresponsabile, come qualcuno dice. Anche sul nucleare eravamo degli irresponsabili noi che non lo volevamo dall’inizio, e invece adesso tutti hanno capito che una tecnologia che non sa chiudere il suo ciclo è essa si irresponsabile e pericolosa. E diversi paesi che vi erano entrati ne stanno uscendo pur se gradualmente. Quante discussioni ho fatto con Bersani quando eravamo ancora nello stesso partito sia sulla Tav sia sul Nucleare. Sul nucleare ho avuto ragione io non lui che era favorevole, sulla Tav lo diranno gli anni. Ma anche sul Ponte sullo stretto abbiamo avuto ragione noi ambientalisti e anche su quell’opera il Pci prima e anche i ds poi erano in gran parte favorevoli. mentre  ora il Pd ha cambiato idea. E anche sull’acqua bene comune ho visto con piacere che la posizione del Pd e di Bersani è cambiata. Discutere allora serve. E serve la partecipazione dei cittadini. Noi non abbiamo mai discusso solo per dire dei No. Abbiamo sempre controproposto altre strade perchè il nostro ambientalismo è serio e propositivo.
Da ultimo alcuni sostengono ad ogni piè sospinto che noi di Sel non saremmo alleati affidabili perchè non abbiamo una cultura di governo e perché solleviamo dubbi sulla tav…trasecolo… è proprio perchè abbiamo una cultura di governo che solleviamo questi dubbi. Noi vogliamo ferrovie efficienti, popolari e dunque accessibili ai più, vogliamo treni umani e non carri bestiame per i pendolari, e lavoriamo perchè il sistema trasportistico italiano diventi europeo e dunque porti una buona metà delle sue merci su ferro. Questi obiettivi la tav non li ha garantiti finora dove è stata fatta e non li garantirà neppure in futuro.Ci vuole coraggio nelle scelte, anche quello di cambiare strada se quella intrapresa non risponde alle esigenze di un paese e dei suoi cittadini. Convinceteci del contrario, noi siamo disponibili ad ascoltare. E la violenza come vedete non c’entra nulla, anzi se in Val di Susa ci saranno violenze, il merito, questo merito andrà un’altra volte a farsi benedire. E questo i violenti lo sanno .

Fulvia Bandoli Presidenza nazionale SEL

Fikasicula

Torino. Ieri. Manifestazione No Tav. Arrivo in treno, mattino presto, dopo due giorni di iniziative e chiacchiere tra donne e persone meravigliose. Dormo niente. Mi aspetta un amico, cornetto e caffè. Si passa a prendere altri amici e poi si parte per Susa. Zaino in spalla, qualche maglione in più che non fa male. Non fa poi così freddo dopotutto e in ogni caso ne vale la pena.Lungo il percorso in macchina seguiamo Radio Blackout che racconta delle perquisizioni e dei fermi preventivi. Il piano del Ministro alle premonizioni è quello di fermarti per punirti già solo per la tua esistenza. Vediamo lungo il tragitto posti di blocco e tanti compagni e compagne sottoposti a perquisizioni. Poi sono costretti a lasciarli proseguire perché stiamo andando a manifestare, a sostenere una lotta importante realizzata da un movimento di persone che esigono di poter decidere su tutto ciò che deve essere realizzato sul loro territorio.

Case con tetti di pietra, camini, borghi da favola, ruscelli, boschi, montagne e campanili altissimi come quelli che ci facevano disegnare a scuola da bambin*. Nelle scuole siciliane disegnavamo paesaggi che appartenevano alla geografia piemontese. Mi vengono in mente i Savoia e quella brutta faccenda dell’unità d’Italia. Ora mi sento unita a questa gente. Unita per davvero. Per scelta.

Parcheggio, lontano, inizia la salita, ripida, per arrivare al punto di incontro a Giaglione. Si vedono a distanza le bandiere No Tav, i berretti, le facce di tanta gente di montagna che sono diverse da quelle di città. Le donne abituate a inerpicarsi su per la montagna con le gonne e le scarpette comode. Siamo tutti black bloc, è uno dei loro slogan, e li vedi i black bloc, quelli evocati dalla stampa e dal ministro, i quali per giorni e giorni hanno chiamato la sciagura, la tragedia, gli incidenti, creando tensione su tensione per giustificare atteggiamenti repressivi. Uomini, donne, ragazzi, ragazze, giovani, anziani. Sguardi vivaci, gente forte, intera, senza fronzoli e sbavature. Gente vera.

L’obiettivo è la rete da tagliare. Una rete abusiva, come abusivo è lo spazio che hanno occupato per il cantiere della Tav. Tante simboliche cesoie attraversano il sentiero lungo il quale marciamo, tutti e tutte, compatti. C’è la Samba Band che batte i tamburi e balla e fa rumore allegro e ribelle. Si respira aria buona e tutti camminano senza fermarsi. Siamo tantissimi, non so dire quanti, migliaia sicuramente perché la fila di gente occupa sentieri, terreni, boschi, su, giù. Siamo dappertutto.

Il primo tratto è superato e siamo vicini alla rete da tagliare. Arrivano le cesoie, quelle vere. In prima fila ci sono tante donne che tagliano la rete. C’è il legal team. Accanto anche tanti giornalisti, decine di telecamere e fotografi e cronisti che aspettavano incidenti, possibilmente il morto, perché senza morto i giornali necrofili non sanno cosa dire, non vendono, non sanno attrarre click sui loro siti, non sanno fare informazione. Fanno solo sensazione, inventano la violenza dove non c’è violenza, la evocano per tenere alta la tensione e inventano notizie dove non c’è notizia. Cialtroni. Operatori di meretricio a mezzo stampa.

Qualcuno con la telecamera urla “taglia più in alto” e uno del movimento No Tav risponde che questa è una lotta seria “non siamo mica a fare show”. Vaglielo a spiegare ai “giornalisti” che esistono perfino lotte che non possono essere mercificate. Lotte reali, non invenzioni mediatiche o gare d’indignazione indotta sul nulla. Lotte che infatti vengono osteggiate da destra e da sinistra, sempre che il pd possa essere definito di “sinistra”. Lotte che vengono criminalizzate da testate di destra e da testate giornalistiche che oramai hanno assunto una specie di forma/partito per cui tutto ciò che non riescono a controllare lo distruggono (vedi Repubblica).

Per fare foto e riprese del taglio della rete gli operatori tv, i fotografi, i giornalisti si arrampicano in alto mentre la gente di montagna urla che non è il punto adatto, ché vengono giù sassi e terra ed è così che i giornalisti sollevano tanta inutile polvere che riempie gli occhi e le narici, quasi a rappresentare una metafora della loro funzione.

Di fatto, vedendo che via via che si andava avanti non accadeva nulla di “violento”, di quei giornalisti non è rimasta neanche l’ombra. Immagino già le telefonate di richiesta ritiro delle truppe dalla redazione “non succede niente? neanche un pedardo? uno scazzo con la polizia? niente di niente? allora non c’è notizia, tornate indietro…“. Dei veri professionisti, senza dubbio.

Arriviamo alla seconda rete e non si può tagliare perché è di metallo pesante. L’elicottero della polizia che ci ha monitorato tutto il tempo continua a infliggerci il suo rumore. Bisogna aggirare l’ostacolo e cominciamo a percorrere sentieri che ci portano in alto, sempre di più, ed è dal punto più alto che vediamo l’intera disposizione della polizia, schierata in tenuta da guerra, con cellulari e blindati, mezzi a perdita d’occhio, gruppi ovunque, tra i boschi, sui sentieri, sopra e sotto i ponti, prima e attorno al cantiere, nascosti e palesi, stanno tutti lì e sono tantissimi, un intero esercito a spese dei contribuenti per fermare un movimento di gente disarmata che compie un atto d’amore infinito nei confronti della montagna, della terra, di quel paesaggio meraviglioso, del diritto alla sovranità territoriale.

Un atto d’amore che lo vedi dalle piccole cose, a partire dal compagno che mi porge il cestino di mandorle e cioccolata “prendi, tieni, ti dà energia!” e poi un altro che marcia per chilometri e chilometri in salita senza fermarsi e sa già che alla sera dovrà andare a lavorare in pizzeria e poi quella gente di montagna che ride, riposa un attimo, si diverte, trova il tempo di soccorrerti per farti attraversare il ruscello, e poi gli amici che ti afferrano per farti fare salti di due metri perché è importante arrivare alla meta e arrivarci insieme, uniti, senza che nessuno si faccia male.

Un atto d’amore fatto di fatica e solidarietà e responsabilità collettiva, che la vedi ogni minuto la preoccupazione che chi ti sta vicino non scivoli mai, che non metta un piede in fallo, non si perda. Nessuno deve restare indietro, ché è una regola della montagna. Così arriviamo dopo ore e ore di cammino alla baita dove tutto è festa perché siamo lì e siamo tantissim* e nessun@ è tornato indietro, si è fermat@ o si è lasciato intimidire dai vari blocchi e da quelle divise nere nascoste dietro gli alberi.

Il movimento si riunisce ed è Alberto Perino che dice che gli obiettivi sono stati raggiunti e che la manifestazione è stata un grande successo, ed è verissimo, tant’è che i giornali non ne hanno parlato. Sono le 15.30 del pomeriggio, bisogna tornare indietro prima che faccia buio, sono tutti d’accordo perché è un movimento maturo in cui c’è rispetto reciproco tra le varie componenti e in cui non si demonizza o non si esalta nessuno. “Siamo tutti black bloc“, appunto. Così si ottiene che non ci siano realtà sovradeterminanti e sovradeterminate.

Vedo le compagne di Torino, le abbraccio e parliamo. Tra poco c’è il Fem Blog Camp e Torino diventa in questo tempo la mia città. Riposiamo un po’. Siamo content*, soddisfatt*. E’ andata benissimo e respiro aria pura. Il movimento No Tav è ossigeno rispetto alla litigiosità e all’incapacità di altre realtà nazionali di ragionare per obiettivi e non per ombelichi. Mi raccontano della Libera Repubblica della Maddalena, il presidio attivo che era stato realizzato attorno al cantiere. Mi raccontano del momento in cui fu violata, sgomberata, offesa, sottratta. “Guarda, lì ci lanciavano le pietre e là ancora, vedi? Lì ci sparavano i lacrimogeni ad altezza d’uomo…“. Vedo, si. Vedo che tra i boschi hanno segnato un itinerario della repressione e della sottrazione di libertà individuali e collettive e guardo la faccia di Perino e di altre persone che stanno ancora lì e che non hanno intenzione di rinunciare. “Sarà dura“, la lotta, urlano e “via dalla Val Susa“, e la “Val Susa non si tocca“, e “siamo tutti black bloc” e applaudiamo e un pezzetto di Val Susa ora mi appartiene perché l’ho calpestata anch’io per difenderla e non per offenderla.

La Samba Band si dispone davanti uno dei blocchi della polizia e comincia a rullare tamburi. Suoni ribelli di gente che ha vinto e che vince ogni minuto, fiera, orgogliosa, di tanto percorso fatto per sancire un diritto a fronte di una tristissima barriera di corvi neri armati fino ai denti che stanno lì solo per farci male, per incutere terrore, per intimidire, per reprimere. Tristi nella loro posa stanca, con il fuoco acceso perché perfino il loro culo si raffredda e poi sbracati nel bosco, casco in mano e a fumare in branco perché restano comunque distanti da noi anche quando fanno cose che sembrerebbero evocare un pizzico di umanità.

Patetici mentre restano in fila ai due lati della strada che avevano sottratto al transito e che aprono per permetterci di passare. Ridicoli mentre insistono in quella posa autoritaria ché noi stiamo a schiena dritta dopo aver fatto chilometri per ore e loro sembrano spezzati con una espressione paralizzata in volto. Una specie di dead men walking rovesciata dove noi siamo i vivi e loro sembrano abbastanza morti, cadaveri di una istituzione che non riesce a rappresentare se stessa se non imponendo la violenza, finanche quella psicologica.

Qui si impara il significato vero della parola “dignità” e qui ancora si apprende il senso della condivisione di beni comuni, beni pubblici, collettivi che non possono e non devono essere privatizzati da speculatori che non sanno fare altro che rubare alla gente. Rubare e rubare per realizzare opere inutili e ad oppormi a questo furto sono arrivata anch’io.

La Val Susa non si tocca! la Val Susa ora è anche un po’ mia e mi interessa che ne abbiano rispetto.

Mi interessa. Tanto. L’amo anch’io.

Loro invece no…

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By fikasicula – ottobre 24, 2011

John Sulston ha ricevuto nel 2002 il Nobel per la medicina per i suoi studi sulle “strutture genetiche” preposte al controllo nella divisione cellulare, ma è conosciuto al di fuori dlla comunità scientifica per le sue prese di posizione contro la privatizzazione della ricerca scientica. Ha preso più volte la parola contro la tendenza a brevettare i risultati della mappatura del genoma umano e contro la limitazione dell’accesso alle informazioni scientifiche. Nei giorni scorsi, durante la riunione dell'”Institute for
Science, Ethics and Innovation”, è tornato su questi temi, con un j’accuse contro la tendenza delle industrie farmaceutiche e dei servizi sanitari nazionali a privilegiare la ricerca del profitto invece che la salute dei pazienti. E sempre in quell’occasione, il premio Nobel ha lanciato una campagna mondiale per tenere fuori dalle norme sulla proprietà intellettuale molti
settori della ricerca di base.

Donne in nero, Napoli

Noi Donne in Nero contro la Guerra, da anni impegnate per la risoluzione
pacifica dei conflitti, quando abbiamo visto la nostra terra, le nostre città,
periferie e campagne invase da cumuli di immondizia, le strade impraticabili, l´
aria irrespirabile, abbiamo avvertito che anche questa è una guerra contro la
terra che ci alimenta, contro le persone che qui vivono. Abbiamo, così, deciso
di unirci a gruppi di cittadine/i, a comitati civici e associazioni che
lavorano, a porre delle premesse, per una soluzione concreta del problema, nel
breve e nel lungo periodo.

 

Per decenni da varie regioni d´Italia e di Europa sono stati riversati in
Campania rifiuti tossici che hanno avvelenato le nostre campagne, sono state
aperte centinaia di discariche abusive, dove sono stati scaricati materiali
diversi non selezionati;: tutti conosciamo lo scandalo delle “ecoballe”, balle
di rifiuti che ci si appresta ad incenerire, pur sapendo che il loro contenuto,
non essendo differenziato, inquina l´aria e la stessa terra con i fanghi di
risulta.

 

Il traffico dei rifiuti è stato ed è un grande affare per la camorra ed a
queste attività criminali i nostri amministratori, a livello locale e
nazionale, non hanno saputo e voluto tener fronte. Non è possibile che nessuno
sapesse, che nessuno vedesse i carichi di rifiuti tossici che per anni hanno
attraversato l´Italia da nord a sud. Anche I cittadini di questa regione hanno
la loro parte di responsabilità con il loro lasciar correre, o addirittura, per
alcuni è stato il partecipare agli affari loschi.

 

Il problema “rifiuti” è una questione globale e in tutta Italia non è
affrontato adeguatamente.
È stata proposta come soluzione, una non soluzione, gli inceneritori che
bruciando rifiuti 24 ore su 24, emettono sostanze nocive e ben un 30% residuo
di ceneri tossiche e scorie da avviare a discariche speciali. Inoltre, gli
stesi termovalorizzatori dalla Comunità Europea sono stati dichiarati non
impianti generativi di energia alternativa.

 

NOI NON DESIDERIAMO VIVERE NELLE DISCARICHE D´EUROPA, NON VOGLIAMO ASSISTERE ALLA IMPOVERIMENTO DELLA TERRA. RIPENSIAMO ALLA VITA STESSA SOSTENENDO UN’ALTRA MODALITA´ DI APPROCCIO AI CONSUMI E CREDIAMO NEL COINVOLGIMENTO DI OGNI SINGOLA PERSONA NEL CICLO DI PRODUZIONE DEI RIFIUTI CHE,
SE REINVESTITI, POSSONO DIVENTARE UN BENE COMUNE.

 

Ridurre i consumi
Ridurre l´uso di merci con grandi quantità di imballaggi
Riciclare quanto più è possibile (quello che non ci serve più può ancora
servire ad altri)
Trasparenza dell´intero ciclo dei rifiuti (dove vanno,come vengono trattati,
ecc…)
Raccolta differenziata controllata (come il porta a porta)

 

Già nella nostra Regione ci sono esempi virtuosi sulle esperienze del
corretto riciclaggio e sono ben 170 i comuni che arrivano a riciclare il 70%
dei rifiuti, Nocera Superiore (SA), che potrebbe essere il primo comune sul
territorio nazionale a raggiungere RIFIUTI ZERO, oggi già si attesta alla
percentuale dell´85%. Un esempio di cittadinanza responsabile, che oltre a
lottare contro l´apertura dell´inceneritore, ha iniziato in maniera autogestita
– in collaborazione con l´istituzione comunale – la raccolta differenziata
nelle piazze del paese è il Comitato civico di Acerra; questo ha contribuito ad
una partecipazione attiva di cittadini con una forte presenza di donne.
Nelle municipalità cittadine e in tanti comuni della Regione continuano a
nascere comitati per affrontare dalla base il problema “rifiuti”, tanto da
organizzarsi attraverso un coordinamento.

 

RENDERSI RESPONSABILI DEI PROPRI CONSUMI E DEI PROPRI COMPORTAMENTI OFFRE UN RINNOVO VIRTUOSO DEI BENI DELLA TERRA E UNA DIFFERENTE RELAZIONE TRA OGNI ESSERE UMANO.

Ugo Mattei

I brevetti legittimano le “enclosures” del sapere operate dalle multinazionali. Allo stesso tempo favoriscono la biopirateria delle virtù nutrizionali e terapeutiche di alcune piante L’appropriazione della conoscenza è giustificata attraverso le opere di John Locke, laddove il filosofo britannico parla del beneficio generale derivato dall’occupazione della “terra nullius”. Oggi come allora il privato è si

Una delle idee più radicate nella cultura occidentale è quella per cui la proprietà privata sia un “diritto naturale”, qualcosa di tanto spontaneo da motivare perfino un bambino: “Questo gioco è mio!”. Se da molto tempo ormai abbiamo smesso di interrogarci sulle ragioni per cui certi individui “hanno” mentre altri “non hanno”, ciò è dovuto principalmente al fatto che abbiamo interiorizzato l’ideologia sui caratteri “naturali” e virtuosi del diritto di proprietà private indipente dalla sua distribuzione. In questo siamo oggi tutti un po’ lockiani, perchè abbiamo “risolto” il problema di una società divisa fra possidenti e non possidenti voltandoci all’indietro, con una semplice teoria fondata sulle origini remote della proprietà privata e sulla catena dei trasferimenti fondata su una nozione di “giusto titolo” originario, che prescinde quindi dall’analisi della distribuzione odierna.
Come noto, il filosofo britannico John Locke fondava la propria giustificazione della proprietà privata individuale sulla naturale attività di occupazione di risorse comuni non ancora privatizzate e legittimava il fatto che il governo civile tutelasse (con risorse di tutti, quali la polizia o le corti di giustizia) tale occupazione individuale per due ordini di ragioni: da un lato, sostenendo che l’occupante immette il proprio lavoro, e quindi in parte se stesso, nella cosa bruta, rendendola così fruttifera e quindi benefica per tutti. D’altra parte, il filosofo considerava la naturale occupazione individuale legittima soltanto nella misura in cui rimanessero comuni (e quindi libere per l’occupazione altrui) altre risorse di simile natura e qualità. Con il tempo e l’affollarsi della società, questa seconda specificazione è stata dimenticata e fa oggi quasi sorridere se applicata agli immobili. Essa tuttavia mantieneun immutato potere legittimante criptico. Certo, non esiste (quasi) più terra nullius da occupare, almeno in Occidente, e gli esempi di scuola sull’acquisto della proprietà privata per occupazione sono ormai limitati alle conchiglie sul lido del mare.
Economia dell’innovazione
Nondimeno, gran parte dell'”economia dell’innovazione” ci ha quasi ipnotizzati convincendoci che grazie al progresso tecnologico, la “crescita” possa continuare in eterno sicchè le dimensioni della torta (Pil, il prodotto interno lordo) siano la sola cosa di cui valga la pena di preoccuparsi: “Finirà il petrolio? Inventeremo la fusione fredda!”. La presente generazione continui felice a bruciarlo alla guida dei suoi Suv perchè continuando a crescere l’economia, le prossime generazioni inventeranno nuove “risorse comuni” da privatizzare. Della distribuzione non vale la pena di preoccuparsi. Il benessere di tutti seguirà, automatico, alla diffusione geografica dello sviluppo e della tecnologia occidentale.
La teoria “naturalistica” dell’occupazione che lega la proprietà private al lavoro, all’ innovazione e alla stessa identità dell’individuo, non giustifica quindi oggi soltanto attività bucoliche e economicamente marginali quali la raccolta delle conchiglie, dei funghi, o magari la caccia e la pesca. Essa continua a offrire una potente legittimazione ideologica a favore del privato rispetto al pubblico, descrivendo soltanto il primo come luogo virtuoso in cui l’individuo mette in gioco se stesso, lavora, rischia, investe, crea, innova. In questa luce, il pubblico è il luogo della pigrizia, della scarsa o nulla produzione di valore aggiunto, delle risorse abbandonate a se stesse e non “messe in valore” perchè nessun individuo, se la privatizzazione non è consentita, vi introduce lavoro ed investimento identitario. L’imagine è suggestiva e profondamente legata all’idea forte, protoilluminista, per cui sia un bene che l’uomo domi la natura, in particolare la terra. La virtù della terra privatizzata è simboleggiata dalle campagne inglesi, successive alle enclosures ben arate e con confini perfettamente tracciati. La terra non domata dalla proprietà private sarà invece selvatica, boscosa, piena di sterpaglia, “inutile”.
Tale ideologia, oltre ad essere primitiva ed etnocentrica, risulta infantile nel suo individualismo di fondo, perchè si basa su irreealistiche premesse filosofiche, quale quelle del Robinson Crosue discusso dal teorico libertario Robert Nozick (la verità è invece che un uomo solo, in natura, lungi dall’occupare, muore perchè soltanto la cooperazione di specie ha consentito la sopravvivenza originaria e quindi la proprietàin origine non poteva che essere del gruppo).
Lo spettacolo della ricchezza
L’ideologia della proprietà privata si basa su una concezione riduttiva e semplificata del rapporto fra individuo proprietario (il soggetto) e l’oggetto del suo possesso. Essa, già poco adatta a cogliere la complessità del rapporto fra un individuo ed un bene materiale e tangibile (la terra, un libro, un piatto di spaghetti) mostra i suoi limiti teorici di fondo, ma al contempo la sua potenza suggestive ed ideologica nel momento in cui viene utilizzata per descrivere e gestire rapporti sociali del mondo che stiamo vivendo. Oggi infatti la forma della ricchezza appropriabile è sempre meno quella di beni tangibili e sempre più quella delle immagini, dell’informazione, degli strumenti finanziari complessi, delle idee innovative, in una parola della “ricchezza spettacolo” piuttosto che di quella tangibile. Ma la retorica e gli strumenti intellettuali che ne giustificano il controllo esclusivo in capo ad alcuni privati piuttosto che il loro godimento in commune non sono mutati affatto.
A chi appartiene la mitica foto scattata il 16 ottobre del 1968 a Città del Messico e ritraente Tommie Smith e John Carlos con il pugno guantato delle black panthers dopo il trionfo nei 200 piani? al fotografo? agli atleti? al nostro immaginario collettivo? Chi ha “inventato” l’uso igienico della pianta di neem considerate da generazioni di indiani la “farmacia del villaggio”? I ricchi proventi che le multinazionali del dentifricio derivano dal suo brevetto in Florida a chi dovrebbero appartenere? Alla comunità che utilizzava la pianta per igiene orale e che oggi non può più permettersela perchè i prezzi sono saliti alle stelle? O ai ricercatori che hanno “scoperto” questo antico uso? E che dire della pianta di Maca, da secoli utilizzata delle popolazioni andine e che oggi contende (appositamente brevettato) una fetta del ricco mercato dei prodotti erettili maschili vantando la propria naturalezza? Chi ha inventato la tradizione di ricerca matematica di base, indispensabile radice di tanti miracoli dell’informatica moderna che, brevettati, riempiono le tasche di Bill Gates? E che dire delle nuove frontiere di Internet, quei domain names che si possono “naturalmente” occupare pagando “appena” venti dollari (lo stipendio mensile di qualche miliardo di persone) e connettendosi in rete (un privilegio di un’infima minoranza degli umani)?
Aborigeni e Wto
Sono, queste, domande ormai assai semplici per il mainstream giuridico economico e politico del mondo globale che, grazie alla vecchia ideologia individualistica, fondata su una nozione apparentemente naturale, minima e virtuosa di proprietà privata, come fonte della creatività e laboriosità individuale, trova nelle regole della “proprietà intellettuale” codificate negli accordi Trips (“Trade Related Aspects of Intellectual Property”) collegati all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) la risposta ad ogni dubbio su chi sia o debba essere il “proprietario” dotato del potere di escludere tutti gli altri. Colpisce l’uso della medesima retorica del progresso, che legittimò giuridicamente il saccheggio delle terre nullius, che gli Amerindiani sfruttavano collettivamente ed in modo ecologicamente compatibile, non conoscendo l’idea che la terra possa appartenere all’uomo. Gli Amerindiani, infatti, credevano infatti che, insieme a tutte le altre specie animali e vegetali, appartenevano alla terra, così come ad essa ancor oggi appartengono i vari lignaggi africani in cui i viventi ricevono dagli avi il mandato a mantenere la terra nell’interesse delle generazioni future. Il rapporto fra soggetto ed oggetto può presentarsi capovolto e non è affatto detto che capovolto non debba essere anche il rapporto fra privato e publico, se soltanto si sposasse una logica un po’ più attenta al lungo periodo e non una dettata dalle scadenze elettorali o dal rendiconto trimestrale con cui le corporations comunicano con gli azionisti.
Proprio come allora i conquistadores consideravano prova della natura selvaggia delle popolazioni aborigine il non conoscere la proprietà privata, oggi la comunità internazionale esercita pressioni poderose a favore dell’appropriabilità privata della terra in Africa e delle idee in Cina. La retorica utilizzata dagli apparati politici ed ideologici dell’Occidente dominante è anche oggi, come allora, quella dell’innovazione, del progresso e dello sviluppo. Molti africani tradizionali resistono o cercano di resistere alla vendita dei loro campi alla Monsanto, che corrompe il sistema per acquistarli e sperimentare l’innovazione “creativa” degli Ogm, che le consentirà di escludere pratiche collettive antichissime quali la selezione e lo scambio delle sementi. Similmente, molti cinesi sembrano ancora credere nella massima confuciana per cui “rubare un libro è una violazione elegante”, non concependo l’idea che la cultura, prodotta da tutti, possa essere racchiusa in uno strumento accessibile soltanto a chi possa pagare per possederlo.
Saccheggio oligopolistico
Tali concezioni culturali, diverse dal “naturale” e virtuoso appetito acquisitivo lockiano che fonda l’intera scienza economica dominante, (inclusa la sua teoria della proprietà intellettuale come “monopolio virtuoso”) secondo cui nessun individuo creerebbe se non incentivato dalla speranza di una compensazione materiale per il proprio sforzo di creatività, sono ben documente dalla letteratura antropologica. Etnie recessive ma assai sagge quali i Kayapo dell’Amazzonia, non credono che la conoscenza sia il prodotto dell’uomo ma della natura. Inoltre, secondo loro, la conoscenza è sempre intergenerazionale non potendo mai appartenere soltanto alla generazione presente. Essa è sempre ricevuta liberamente e va liberamente tramandata di generazione in generazione. Certo non può esser proprietà privata di un individuo che, anche qualora intelligentissimo ed intuitivo, deve al gruppo la sua intelligenza e a beneficio di questo devono ricaderne i frutti che del resto non sarebbe esistiti se qualcuno non gli avesse insegnato le basi.
Ma il rozzo semplicismo delle teoriche dominanti sulla proprietà intellettuale viene smascherato anche dalle frontiere della conoscenza tecnologica, dove prodotti come l’enciclopedia Wikipedia o il software Linux confutano senza appello le basi motivazionali della teoria lockiana della proprietà.
Una domanda sorge spontanea: se è stato così facile trasferire la retorica della proprietà privata dal mondo materiale a quello delle idee, non dovrebbe essere altrettanto facile tornare indietro, facendo tesoro delle contraddizioni teoriche che l’individualismo proprietario mostra quando esteso al mondo delle idee al fine di travolgerne la funzione di legittimazione della proprietà privata mal distribuita in tutte le sue forme?
Forse allora si capirebbe che la privatizzazione, lungi dal garantire creatività, virtù ed ordine giuridico altro non è che una forma, assai poco sofisticata di saccheggio oligopolistico degli spazi pubblici, per la semplice ragione che un mercato competitivo fra pari non esiste, nè potrà mai esistere, se non nella retorica incolta di qualche promessa elettorale

lettera aperta

Alex Zanotelli

Caro Walter, pace e bene!
Oggi (22 marzo, ndr, Giornata mondiale dell’acqua) mi sono sentito ancora più spinto a scriverti questa lettera aperta.
Ho esitato molto a farlo proprio perché siamo in piena campagna elettorale, ma alla fine ho deciso di scriverla mosso dall’enorme grido degli impoveriti che mi ruggisce dentro.
Tu sei venuto a trovarmi a Korogocho, una spaventosa baraccopoli di Nairobi (Kenya ), e hai toccato con mano come «vivono» i baraccati d’Africa.
Davanti a quell’inferno umano,tu hai pianto. Mi avevi promesso, in quella densa conversazione nella mia baracca, che avresti portato quell’immenso grido di sofferenza umana nell’arena politica. Ora che sei il segretario del Partito democratico, sembra che ti sia dimenticato di quel «grido dei poveri». Non ne sento proprio parlare. Non chiedo carità (non serve !), chiedo giustizia, quella distributiva che è il campo specifico della politica. E non parlo solo della fame nel mondo (fa già parte degli 8 obiettivi del Millennio, su cui si è fatto quasi nulla !), ma soprattutto della sete del mondo. (Infatti non è più il petrolio il bene supremo, ma l’acqua che, con i cambiamenti climatici, andrà scarseggiando). Se questo è vero, perché nel tuo programma elettorale appoggi la privatizzazione dell’acqua?
Lo sai che questo significa la morte di milioni di persone per sete? Con questa logica di privatizzazione, se oggi abbiamo cinquanta milioni di morti per fame , domani avremo cento milioni di morti di sete. Sono scelte politiche che si pagano con milioni di morti.
Caro Walter, perché quelle tue lacrime su Korogocho non le puoi trasformare in gocce d’acqua per i poveri? L’acqua è sacra, l’acqua è vita.
Caro Walter, perché non puoi proclamare che l’acqua non è una merce, ma è un diritto fondamentale umano, che deve essere gestita dalle comunità locali con totale capitale pubblico, al minimo costo possibile per l’utente, senza essere Società per azioni?
Solo così potrai asciugare le tue lacrime e quelle degli impoveriti del pianeta, ma anche dei poveri del Nord del mondo come le classi deboli di questa mia Napoli.
Chi dei nostri poveri potrà mai bere l’acqua del rubinetto, con bollette aumentate del 300 per cento, come è avvenuto a Aprilia?
Caro Walter, sull’acqua ci giochiamo tutto, ci giochiamo la nostra stessa democrazia, ci giochiamo il futuro del pianeta.
Caro Walter , non dimenticarti di quelle lacrime di Korogocho!

Nonostante la campagna per la moratoria e 400 mila firme raccolte per la legge sulla ripubblicizzazione, il tema non è entrato in nessun programma elettorale. E nessun esponente dei movimenti sarà in parlamento Amministratori di piccoli comuni riuniti a Bassiano (Latina) per organizzare la resistenza alle privatizzazioni

Andrea Palladino

Bassiano (Latina)
Parlare di acqua è parlare, prima di tutto, di democrazia. Se ne stanno accorgendo i sindaci in Italia, gli amministratori di piccoli paesi che si sono visti sottrarre il controllo della risorsa primaria da aziende con sedi lontane, lontanissime. Oggi Vincenzo Avvisati, sindaco di Bassiano, paese di 1000 abitanti arroccato sulle montagne che circondano la pianura pontina, non sa più a chi rivolgersi se l’acquedotto non funziona. E allora ha aperto le porte del Comune agli altri sindaci che come lui hanno deciso di resistere, di indossare la fascia tricolore e di sfilare in prima fila per la battaglia per l’acqua pubblica. Proprio a Bassiano, divenuto simbolo della resistenza alla gestione della società Acqualatina, controllata dalla francese Veolia, si è così aperta la tre giorni voluta dai comitati di Latina e dal Forum nazionale per l’acqua pubblica. Domenica si concluderà con una manifestazione nazionale ad Aprilia, dove i cittadini riuniti in un comitato spontaneo da tre anni contestano la privatizzazione voluta nel 2003 dall’amministrazione di centrodestra.
Vincenzo Avvisati è forse divenuto un simbolo anche per i suoi modi pacati, sornioni. “La vera Europa nasce da noi piccoli comuni, dalla nostra voglia di democrazia, di rappresentare i bisogni quotidiani dei nostri cittadini”, dice con decisione. Bisogni come l’acqua, che un mese fa è stata sottratta d’impero alla gestione comunale. Beni comuni, che riportano l’ago della bilancia politica nel vivere quotidiano, nella difesa dell’essenziale della vita.
La privatizzazione non è solo una questione di tariffe. Il movimento per l’acqua pubblica rilancia la sfida, dopo la moratoria ottenuta dal governo Prodi, fortemente a rischio con l’aria di nuove privatizzazioni che gira. “Se facciamo due conti – racconta Roberto Lessio, di Legambiente Latina – moltiplicando il fatturato di un gestore dell’acqua per i 90 Ato costituiti in Italia, ci rendiamo conto che la cifra in ballo è enorme”. Miliardi di euro quelli dell’acqua che, per la logica del mercato, qualcuno ha voluto togliere ai cittadini e ai municipi per affidare alle multinazionali, ai fondi d’investimento, alle banche d’affari. Proprio il sindaco Avvisati mostra una lettera della Banca d’Italia, arrivata al Comune ieri. Acqualatina ha chiesto un mutuo alla banca irlandese Depfa, senza dire nulla ai Comuni, titolari degli impianti idrici. E loro, i sindaci in rivolta, hanno preso carta e penna ed hanno chiesto spiegazioni. La Banca d’Italia avvierà una procedura per “chiedere chiarimenti all’intermediario”, ricordando al sindaco di Bassiano che “potrà rivolgersi, se del caso, all’autorità giudiziaria per la tutela degli interessi che ritenga lesi”. Una piccola vittoria, ma non basta. Proprio nel giorno del convegno su “Acqua e democrazia” di Bassiano, l’ufficio stampa manda ai giornalisti il documento tecnico di presa in consegna degli impianti. “Rendiamo noto lo stato di completo deterioramento in cui si trovano gli impianti di Bassiano”, scrive l’amministratore delegato Morandi, ritornato al suo posto dopo gli arresti domiciliari e accuse pesanti fatte dalla Procura di Latina. Come a dire che ora con i manager francesi l’acqua del Sindaco sarà più buona.
A colpi di project financing, di mutui, di consigli d’amministrazione lontani migliaia di chilometri dai bisogni della gente, l’Italia rischia di fare un outsorcing della democrazia.
La battaglia per ridare dignità al quotidiano dei cittadini, la battaglia dei sindaci sta però lentamente crescendo. Prima Bassiano, poi il Comune di Formia, che a fine 2007 ha deciso di richiedere indietro le chiavi dell’acquedotto ad Acqualatina, poi Pontinia, poi in Campania la città di Nola, che ha deliberato l’uscita dalla Gori Spa gestita dalla multinazionale romana Acea. Tanti altri sindaci che stanno resistendo alla consegna degli impianti alle società per azioni. Un movimento forse inedito nel panorama politico italiano, che parte dalle piccole città, dove il rapporto tra primo cittadino e abitanti è ancora diretto, e quindi politico nel senso più nobile. Fatto di discussioni nelle piazze, di fiducia che non può essere tradita, lontano dai consigli di amministrazione e dai gettoni di presenza.

Mai come oggi ciò che mangiamo assume una valenza politica. in tutto il mondo c’è una rivoluzione in corso che riguarda la biodiversità.
Vandana Shiva

Un tempo credevo che cucinare fosse soltanto l’anello di una catena. Adesso mi rendo conto che questo è un atto che induce la meditazione, che nutre lo spirito ed è pacifico nei confronti del mondo. Perché diventi davvero un’azione liberatoria, però, occorre che tutti – uomini e donne – cucinino. Anche i padri devono potersi dedicare a questa pratica con amore. L’industria ha fatto del cibo una gabbia, in grado di nuocere alla salute del mondo e dei corpi. La vera libertà, ormai, è poter decidere cosa piantare, innaffiare, mangiare, vendere. C’è una guerra in atto. Dichiarata contro il pianeta terra. E riguarda proprio il cibo. L’industria, le multinazionali vogliono controllare il modo in cui si alleva il bestiame e si coltivano i campi. La chimica dei diserbanti è nata dagli studi sugli esplosivi. Sostanze create per uccidere le persone, che ci fanno ammalare e continuano a uccidere in altri modi. La questione riguarda soprattutto le donne. Perché gli additivi che assorbiamo abbassano la fertilità, sono legati all’insorgere del cancro, provocano disturbi neurologici. Come se non bastassero queste consequenze, esistono anche gravi risvolti economici: le donne, nelle culture agricole, preparano composti per nutrire in modo naturale il terreno. Gli additivi chimici li eliminano e vanificano il ruolo femminile nell’agricoltura tradizionale, rendendo le donne inutili e mettendole ai margini. La guerra al cibo diventa anche una guerra diretta ai nostri corpi. L’obesità è in aumento in tutto il mondo. Utilizziamo prodotti che non sono nati per essere mangiati, come lo sciroppo di mais o l’olio di soia. Non dobbiamo credere che la globalizzazione sia un percorso naturale, che ci rende tutti fratelli. Al contrario è un progetto pianificato di esclusione, che risucchia risorse ed economie dei più poveri, distruggendo vite e culture dietro il paravento della crescita dell’economia planetaria. Produrre cibo è dunque un’assunzione di responsabilità etica. Si tratta di fabbricare nutrimento. Per tutti. In questa ottica il profitto diventa una voce non necessaria e la rivendicazione del diritto ad avere campi senza organismi geneticamente modificati, produzioni alimentari tradizionali, condizioni ambientali senza la presenza costante dell’inquinamento, risorse rinnovabili e compatibili, potranno diventare realtà. Solo allora la rivoluzione del cibo sarà completata. *fisica, economista e ambientalista, oltre che scrittrice. Tra i leader del Forum Internazionale sulla Globalizzazione, è consulente della Regione Toscana.

Carlotta Mismetti Capua

Stop alle multinazionali, sì alla biodiversità dell’agricoltura. L’indiana Vandana Shiva e l’africana Aminata Traoré combattono le stesse battaglie

Vandana Shiva
Vandana Shiva con il sari arrotolato intorno al corpo e il bindi rosso sulla fronte. Aminata Traoré con il copricapo in testa e il boubou colorato fino ai piedi. Vestiti tradizionali e un carisma fuori dall’ordinario: così queste due donne girano il mondo per difendere la loro terra, raccontando altre verità.

 

L’una, Vandana Shiva, voce autorevole dell’India dei contadini. L’altra, Aminata Traoré, leader radicale dell’Africa di chi non ha voce. Sono due combattenti, volano da un continente all’altro come ambasciatrici contro la globalizzazione. Parlano forte e chiaro, e lo fanno in Paesi dove le donne non parlano affatto. Le loro sono battaglie diverse ma in fondo simili perché combattute con strumenti identici. Il nemico è lo stesso: i governi corrotti, le multinazionali, il Wto, l’Occidente dei monopoli e del capitalismo col turbo. Vandana Shiva è una fisica e una delle scienziate più note del suo Paese: attivista lo è diventata dopo. Si batte per la biodiversità in agricoltura, contro i semi geneticamente modificati che vengono venduti agli agricoltori indiani e che li mandano in rovina. Coordina una comunità che fa il possibile per aiutare i coltivatori dei villaggi a liberarsi dalla schiavitù della multinazionale Monsanto.
Ma lavora con i governi di tanti Paesi, in Italia con la Regione Toscana (al progetto di San Rossore, luogo di elaborazione del pensiero new global). “Il suicidio dei contadini indiani, che hanno seminato i loro campi con gli Ogm venduti dagli americani”, racconta, “è il mio dolore, il mio pensiero quotidiano. Nell’ultimo decennio, in India, più di 40mila agricoltori si sono suicidati – anche se sarebbe più esatto parlare di omicidio, o addirittura di genocidio”, racconta Shiva, che con la sua organizzazione ha salvato cinque villaggi, convincendo i loro abitanti a riconvertirsi ai semi biologici. “La vita dei contadini è diventata molto difficile. Perché le politiche economiche del governo non li aiutano. Vedo le donne che non sanno come sopravvivere, che vedono il proprio lavoro distrutto”.

 

Aminata Traoré
Per cercare soluzioni a questi problemi macroeconomici Shiva parte dalle piccole cose. Per esempio si preoccupa del compost, il fertilizzante che viene preparato partendo dagli escrementi delle mucche. “Le donne indiane hanno sempre avuto il compito di preparare il compost per nutrire i terreni. Oggi invece le multinazionali vendono veleni: fertilizzanti che promettono miracoli. Ma che come primo risultato di fatto estromettono le donne dal lavoro nei campi. Il loro ruolo viene cancellato dalla chimica. Una chimica guerrafondaia per origine e vocazione: i fertilizzanti furono inventati in campo militare, e usati in Vietnam contro la popolazione. Fanno male alla terra, fanno male alla salute, fanno male alle donne”.

 

Vandana è convinta che la biodiversità dell’agricoltura, i semi, i sistemi di lavorazione, gli aratri, i trattori, i campi, i vigneti, il granoturco potranno cambiare il mondo. “Certo, non è un risultato al quale si arriva senza lottare”, dice. “Credo che oggi sia in corso una nuova Guerra mondiale: quella del cibo”. Aminata Traoré è un’intellettuale, una scrittrice. Ha la bellezza imponente di molte donne africane: la voce è potente, rotta dalla rabbia spesso, qualche volta dall’emozione. Quando parla è come se stesse arringando le folle, come fosse sempre su un palcoscenico. È stata ministro della Cultura del Mali, il suo Paese natale, poi consulente economica di tantissime organizzazioni internazionali. Ha studiato psicologia a Parigi, ha scritto molti libri denuncia, tutti tradotti nelle varie lingue europee, italiano compreso. Ha anche inventato e creato il Forum sociale africano, ed è stato un successo: si è tenuto, nella prima edizione, a Bamako, prima di sbarcare quest’anno a Nairobi.

 

Mai come oggi ciò che mangiamo assume una valenza politica. in tutto il mondo c’è una rivoluzione in corso che riguarda la biodiversità.
di Vandana Shiva

 

Un tempo credevo che cucinare fosse soltanto l’anello di una catena. Adesso mi rendo conto che questo è un atto che induce la meditazione, che nutre lo spirito ed è pacifico nei confronti del mondo. Perché diventi davvero un’azione liberatoria, però, occorre che tutti – uomini e donne – cucinino. Anche i padri devono potersi dedicare a questa pratica con amore. L’industria ha fatto del cibo una gabbia, in grado di nuocere alla salute del mondo e dei corpi. La vera libertà, ormai, è poter decidere cosa piantare, innaffiare, mangiare, vendere. C’è una guerra in atto. Dichiarata contro il pianeta terra. E riguarda proprio il cibo. L’industria, le multinazionali vogliono controllare il modo in cui si alleva il bestiame e si coltivano i campi. La chimica dei diserbanti è nata dagli studi sugli esplosivi. Sostanze create per uccidere le persone, che ci fanno ammalare e continuano a uccidere in altri modi. La questione riguarda soprattutto le donne. Perché gli additivi che assorbiamo abbassano la fertilità, sono legati all’insorgere del cancro, provocano disturbi neurologici. Come se non bastassero queste consequenze, esistono anche gravi risvolti economici: le donne, nelle culture agricole, preparano composti per nutrire in modo naturale il terreno. Gli additivi chimici li eliminano e vanificano il ruolo femminile nell’agricoltura tradizionale, rendendo le donne inutili e mettendole ai margini. La guerra al cibo diventa anche una guerra diretta ai nostri corpi. L’obesità è in aumento in tutto il mondo. Utilizziamo prodotti che non sono nati per essere mangiati, come lo sciroppo di mais o l’olio di soia. Non dobbiamo credere che la globalizzazione sia un percorso naturale, che ci rende tutti fratelli. Al contrario è un progetto pianificato di esclusione, che risucchia risorse ed economie dei più poveri, distruggendo vite e culture dietro il paravento della crescita dell’economia planetaria. Produrre cibo è dunque un’assunzione di responsabilità etica. Si tratta di fabbricare nutrimento. Per tutti. In questa ottica il profitto diventa una voce non necessaria e la rivendicazione del diritto ad avere campi senza organismi geneticamente modificati, produzioni alimentari tradizionali, condizioni ambientali senza la presenza costante dell’inquinamento, risorse rinnovabili e compatibili, potranno diventare realtà. Solo allora la rivoluzione del cibo sarà completata. *fisica, economista e ambientalista, oltre che scrittrice. Tra i leader del Forum Internazionale sulla Globalizzazione, è consulente della Regione Toscana.

Fuma troppo, parla poco e non perde mai tempo. Rosita Ciotti, insegnante in pensione, è la signora No Tav. Per difendere Venaus, non ha perso un presidio. Pensare che per due anni non era uscita di casa.
Andrea Rottini

Rosita Ciotti è una donna minuta, gracile solo all’apparenza. La sua forza traspare dagli occhi che sbucano sotto i capelli corti e bianchi come la sua vecchia 500, che si inerpica fiera sui tornanti della val Susa. “La natura di questa zona è molto particolare -spiega-: accanto alla flora alpina crescono fiori della steppa e dell’arenile mediterraneo. Ci sono anche specie particolari di farfalle e cavallette, che qui riescono a sopravvivere”. Creature ostinate, un po’ come gli abitanti di questo fazzoletto di montagna appeso tra i 2100 metri del Moncenisio e gli oltre 3500 del Rocciamelone. “Qui la resistenza continua, ora e sempre”, grida la scritta sul muretto di una curva. “Vedi? Questo è il punto dove i poliziotti hanno tentato di forzare il blocco dell’8 dicembre 2005”, dice Rosita. Quel giorno i No Tav erano arrivati in 30mila per entrare a Venaus, presidiata dalle forze dell’ordine, e cercare di impedire il carotaggio della montagna, il prelievo cioè di campioni di roccia, dove è in progetto la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità (vedi servizio a lato, ndr).
La macchina si ferma in un punto panoramico da cui si domina la Val Cenischia, breve corridoio che unisce Susa a Venaus: il nastro dell’autostrada è in primo piano, cinquanta metri più sotto è stato progettato lo scavo per la Tav. Un’opera di cui si parla dagli anni ’90: indispensabile per Roma e Bruxelles, dannosa per la montagna e i suoi abitanti secondo la combattiva comunità valsusina, preoccupata dalla prospettiva di vent’anni di lavori con quotidiani cortei di camion a intasare la strada della valle. “Senti che vento? -chiede Rosita, 62 anni, insegnante di Lettere in pensione. Da queste parti è così due giorni alla settimana: e loro con una teleferica vorrebbero trasportare i detriti della montagna, fatti di roccia, amianto e uranio”. Valsusina doc, autrice di libri di poesia ed esperta di erbe alpine, Rosita sa di cosa parla: “Dai tempi degli scavi per l’autostrada, l’incidenza di morti per mesotelioma (cancro favorito dall’esposizione all’amianto, ndr) è molto alta in questi paesini”. Un’eventualità che potrebbe ripetersi con gli scavi per realizzare il tunnel della Tav, insieme alla perdita di numerose sorgenti d’acqua, che costringerebbero sette frazioni della valle a ricorrere alle autocisterne. Come forma di protesta, la scorsa estate Rosita si è messa in cammino con altri 23 valligiani, direzione Roma. Un viaggio che in auto richiederebbe più di sette ore, realizzato “a bassa velocità”: ogni giorno 20 km a piedi sotto il sole, il resto in treno, per portare in giro l’entusiasmo e le istanze dei No Tav.
“L’idea è nata quell’8 dicembre, quando è arrivata gente da mezza Italia ad aiutarci a tornare a Venaus -racconta Rosita, mentre accende una sigaretta nel salotto di casa-. Non conoscevamo né questa gente né i loro problemi, molto simili al nostro: il terzo valico dei Giovi, il Mose, il ponte sullo Stretto, il progetto di discarica nucleare a Scanzano Jonico, la variante di Valico. Così abbiamo voluto metterci in viaggio per conoscere da vicino alcune di queste situazioni”. Una carovana di pensionati, giovani e famiglie non passa certo inosservata. “Ci fermavano ovunque per sapere cosa stavamo facendo: alle Cinque Terre un muratore ci ha chiesto come fare per bloccare l’ampliamento di una costruzione sulla spiaggia, autorizzato dal suo Comune”. Marcia di giorno, incontri pubblici di sera: non proprio una vacanza, con l’aggravante di una fastidiosa raucedine. “Dorme sempre all’aperto e fuma troppo -ricordano i compagni di viaggio di Rosita-: non perde mai tempo e parla poco, ma è un sicuro punto di riferimento per tutti”. Una dimostrazione di carattere e dedizione per lei, che dopo aver perso il marito si era barricata in casa per due anni. Un letargo interrotto il 31 ottobre di due anni fa, per la gioia dei suoi figli: “Quando le imprese salirono fin qui per trivellare la montagna, decisi di impegnarmi anch’io -dice-. Per tutta la vita io e Paolo avevamo fatto certe battaglie e lui sarebbe stato d’accordo con me: dobbiamo impedire che il mondo venga continuamente aggredito, lo stiamo utilizzando come una risorsa di denaro e non come un posto dove vivere”.

 

Piccola cronaca di una valle ribelle
“Si mettano il cuore in pace, l’opera si farà”. Così parlava l’ex ministro dei Trasporti, Pietro Lunardi, ai manifestanti No Tav durante i “giorni della resistenza” a Venaus e dintorni. Giorni caldi quelli dell’autunno 2005. 16 novembre, sciopero generale della Val Susa. Secondo gli organizzatori, 80mila persone sfilano lungo gli 8,5 km che dividono Bussoleno da Susa.
6 dicembre, l’intervento delle Forze dell’ordine. La polizia sgombera il presidio del movimento No Tav che impediva l’ingresso a Venaus delle ditte incaricate di effettuare i carotaggi della montagna in vista della realizzazione del tunnel. Gli scontri provocano una ventina di feriti tra i manifestanti. Per due giorni tutta la Val Susa è bloccata: ponti, strade e ferrovia sono invase dalla protesta dei valligiani. Intanto la protesta arriva a Torino, dove nel corso di una manifestazione un gruppo di anarchici ferisce con una bottigliata alla testa un agente della polizia e compie atti vandalici nel centro città, come forma di protesta contro l’intervento notturno degli agenti.
8 dicembre, la giornata della “liberazione” di Venaus. Cinquantamila persone salgono al cantiere dell’Alta velocità. Le Forze dell’ordine si ritirano.
Da gennaio 2006, in concomitanza delle Olimpiadi di Torino, militari e manifestanti osservano una sorta di tregua che continua fino ad oggi. Un armistizio che non ha fermato gli incontri di sensibilizzazione e i cortei di protesta (l’ultimo in ordine di tempo, sabato 31 marzo, da Trana ad Avigliana), che potrebbero intensificarsi all’avvicinarsi delle scadenze che riguardano il futuro della Tav. A giugno 2007 si chiuderanno i lavori dell’Osservatorio regionale per monitorare l’avanzamento dell’opera e gli effetti sulla salute, per settembre è invece attesa la decisione definitiva sulla costruzione del tunnel o, in alternativa, del raddoppio della linea Bardonecchia-Lione. Solo allora si saprà se Lunardi aveva ragione.

 

Info: www.spintadalbass.org

Marco d’Eramo

Alla fine ce l’hanno fatta George W. Bush e Dick Cheney a rimettere le lancette indietro di 80 anni e riportare la geografia sociale dell’America a prima della Grande Depressione. È quanto emerge dai redditi statunitensi nel 2005 (l’ultimo disponibile): in quell’anno i 300.000 americani più ricchi hanno dichiarato un reddito pari a quello cumulato dai 150 milioni di statunitensi più poveri: e cioè lo 0,1% (l’un per mille) in cima alla scala dei redditi ha incassato quanto il 50% che sta in basso; detto in altri termini: in media ogni persona del gruppo di testa ha incassato 440 volte in più di ogni membro del gruppo di coda: una disparità che non si vedeva dal 1928, da prima appunto della Grande Depressione. Una tale concentrazione della ricchezza non la si vedeva forse dai tempi dell’antico Egitto. Almeno dal punto dei vista dei redditi, i repubblicani sono così riusciti a cancellare il New Deal di Franklin D. Roosevelt. Altro che Iraq! Eccola la reale «Missione compiuta» di Bush. Vero Robin Hood al contrario, ha scippato i disagiati e arricchito i miliardari. Questa razzia da parte dei più ricchi è partita nel 1970, ma si è accelerata con Ronald Reagan negli anni ’80 ed è precipitata negli ultimi sei anni: dal 1998 al 2005 lo 0,1% più ricco ha aumentato del 50% la propria fetta del totale. Le bastonate le hanno prese non solo i poveracci, ma anche la mitica «middle class»: nel 2005 il reddito globale degli statunitensi è cresciuto di un fantastico 9%, ma quello del 90% (cioè la quasi totalità) degli americani è sceso dello 0,9%: e questo in un anno di vacche straordinariamente grasse, anzi di mucche obese! Vuol dire che tutta la crescita (e la compensazione del reddito perso dalla maggioranza) è andata al restante 10% che da solo si pappa quasi la metà della torta (il 48,5%). È un vero cannibalismo sociale: nel 1970 il decimo più ricco degli americani si appropriava solo (sic!) di un terzo del reddito totale, non della metà. La perversione più raffinata di questo meccanismo è che non solo scava un baratro tra ricchi e poveri, ma apre una voragine tra ricchi e super-ricchi: l’aumento del reddito dell’1% più ricco è stato dieci volte maggiore di quello del 10% più agiato. Oggi l’1% più ricco si mette in tasca più di un quinto di tutto il reddito americano (21,8%), il 2% in più dell’anno prima e più del doppio del 1980. E ancora meglio fa l’un per mille più ricco: nel 2005 il reddito medio annuo dell’1% più ricco è stato di 5,6 milioni di dollari (+908.000), mentre quello dell’un per mille è stato di 25,7 milioni di dollari (+ 4,4 milioni). Queste cifre sono così astronomiche che è difficile coglierne il significato. Allora mettiamola in questi termini: i 30.000 americani più ricchi dispongono di un reddito annuo che è superiore al Prodotto nazionale lordo di Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Perù messi insieme (che contano più di 270 milioni di persone). E 30.000 persone sono contenute in una cittadina come Oristano. L’ironia non è finita qui: l’ufficio delle entrate ammette che i redditi delle classi più agiate sono sottostimati, perché mentre il 98% dei redditi da lavoro dipendente passa al vaglio del fisco, si stima che sia dichiarato solo il 70% dei redditi di affari e commercio. In queste nude cifre sta tutta la portata della «rivoluzione reazionaria» compiuta dai repubblicani Usa (assai flebilmente contrastati dai democratici). Se fosse vivo, il Marchese di Sade correggerebbe la sua celebre incitazione in «George, ancora uno sforzo!»

 

L’isola che c’è – rete comasca di economia solidale

Sperimentiamo insieme – da marzo a dicembre 2007 – nuovi stili di vita e di consumo più sostenibili.
VIVI sostenibile è un’opportunità che L’isola che c’è, con la sua rete, offre a tutti i cittadini della provincia di Como per conoscere e sperimentare assieme – da marzo a dicembre 2007 – nuovi stili di vita e di consumo più sostenibili.
VIVI sostenibile ci porta alla scoperta di modalità concrete, piacevoli e convenienti – oltre che etiche ed ecologiche – di vivere la quotidianità pensando anche al futuro e al ben-essere delle persone, delle comunità, dei territori.
VIVI sostenibile è un’occasione per mettersi in gioco a partire dalle cose di tutti i giorni – abitare, mangiare, muoversi – per incontrare e conoscere le esperienze e le possibilità di cambiamento che il nostro territorio ci offre, e per scegliere ognuno il proprio stile di vita sostenibile.
A te piace FARLO?

 

Le regole del gioco
Dove si fa
VIVI sostenibile si svolgerà in 14 comuni della provincia di Como, raccolti in 6 aree territoriali:
* Albavilla, Orsenigo
* Cantù, Capiago Intimiano, Figino Serenza
* Canzo, Erba, Eupilio
* Como, Grandate
* Guanzate, Lomazzo
* Lurate Caccivio,Villa Guardia

 

Cosa si fa
VIVI sostenibile inizia a marzo e termina a dicembre 2007, proponendo un ricco ventaglio di incontri, strumenti ed esperienze concrete.
Ecco una lista delle principali attività:
tra marzo e maggio
incontri di ecologia quotidiana sui temi del vivere quotidiano: abitare, mangiare, muoversi – un percorso in ogni area territoriale
tra maggio e giugno
incontri di condivisione nei gruppi locali – un gruppo in ogni comune
tra settembre e ottobre
incontri di approfondimento a partire dagli interessi di ogni gruppo
tra ottobre e dicembre
incontri finali dei gruppi locali, per passare all’azione
tutto l’anno
eventi – visite, escursioni, seminari, laboratori, degustazioni, feste – per conoscere le pratiche ed i soggetti di economia solidale del territorio
inoltre sono previsti informazioni e consulenze tramite lo sportello informativo, il sito, i materiali di supporto, l’autovalutazione del proprio stile di vita, incentivi e strumenti per l’accesso ai beni e servizi solidali del territorio

 

Chi può giocare
Giovani e adulti, famiglie e singoli … tutti coloro a cui piacerebbe farlo!
E’ richiesta l’iscrizione al percorso, compilando e consegnando il coupon (disponibile sul depliant): a mano presso i punti informativi locali o al primo incontro a cui si partecipa o per posta o fax o mail allo Sportello Informativo.
L’adesione al percorso è gratuita, e non occorre essere residenti in uno dei 14 comuni aderenti. Ci si può inserire nel percorso quando si vuole, scegliendo in libertà il grado di partecipazione. Chiaramente auspichiamo la miglior partecipazione possibile, ed infatti sono previsti incentivi per premiare chi parteciperà maggiormente.

 

Quando si inizia
In ogni area si inizia con degli incontri di presentazione (tutti nel mese di marzo alle ore 21):
* Area Canzo, Erba, Eupilio: venerdì 16 marzo a Erba (Sala Civica, Crevenna)
* Area Lurate Caccivio,Villa Guardia: lunedì 19 marzo a Villa Guardia (Sala Consiliare, via Varesina 72)
* Area Cantù, Capiago Intimiano, Figino Serenza: giovedì 22 marzo a Cantù (Aula Magna Scuola media Tibaldi, via Manzoni)
* Area Guanzate, Lomazzo: venerdì 23 marzo a Lomazzo (Sala Colmegna, p.za Volta 2)
* Area Como, Grandate: martedì 27 marzo a Como (Circoscrizione 3, via Varesina 1/a)
* Area Albavilla, Orsenigo: giovedì 29 marzo a Albavilla (Sala Civica, via Ballabio 27)

 

Nelle serate iniziali sono previste esperienze legate agli stili di vita e degustazioni di prodotti.
Sarà inoltre comunicato il calendario dei successivi incontri tematici: abitare, mangiare, muoversi (indicativamente a seguire ogni 15 giorni).
Partecipa all’incontro di presentazione nell’area a te più comoda: è il modo migliore per aderire al percorso!
Sportello Informativo VIVI sostenibile presso il CSV di Como – Via Col di Lana 5, 22100 Como Apertura martedì ore 10-13, giovedì ore 15-18 Telefonicamente mercoledì e giovedì ore 10-13. sito: www.lisolachece.org email: vivisostenibile@lisolachece.org tel: 331.6336995 fax: 031.302335

 

Punti informativi locali
Albavilla: Biblioteca comunale (Via Ballabio 27)
Cantù: Municipio, Aspem (via Dalmazia 2), Il Ponte (Via Carcano 10)
Canzo: Municipio
Capiago Intimiano: Biblioteca comunale (Via Serenza 7), Equovendolo (Via Cadorna)
Como: Municipio URP, Garabombo (Via Bianchi Giovini 35)
Erba: Municipio, Shongoti (Via Mazzini 40)
Eupilio: Municipio
Figino Serenza: Biblioteca comunale (P.za Umberto I)
Guanzate: Municipio, Mondo Equo (Via Garibaldi 12)
Grandate: Municipio
Lomazzo: Municipio, CSV (P.za IV Novembre 2), Roba dell’Altro Mondo (Via Milano 24)
Lurate Caccivio: Biblioteca comunale, Municipio, Encuentro (Via XX Settembre 129)
Orsenigo: Municipio URP
Villa Guardia: Municipio
Presso i punti informativi locali è possibile reperire il materiale informativo del progetto, e consegnare la propria adesione nell’apposito raccoglitore.

 

Chi lo promuove
L’isola che c’è – rete comasca di economia solidale – con il CSV Centro Servizi Volontariato di Como e l’associazione Famiglie in Cammino delle ACLI, nell’ambito del progetto “Quotidiano sostenibile” co-finanziato dalla Fondazione Cariplo.

 

Collaborano al progetto
– Le numerose realtà della rete comasca di economia solidale: commercio equo e solidale, finanza etica, consumo critico e consapevole, gruppi di acquisto solidale, cooperazione sociale, riciclo e riuso, energie rinnovabili, risparmio energetico, bioedilizia, agricoltura e produzione biologica, artigianato locale, ambiente, pace, informazione, turismo responsabile, solidarietà internazionale, volontariato.
– I 14 comuni che lo ospitano: Albavilla, Cantù, Canzo, Capiago Intimiano, Como, Erba, Eupilio, Figino Serenza, Guanzate, Grandate, Lomazzo, Lurate Caccivio, Orsenigo, Villa Guardia
– Con il patrocinio della Provincia di Como, assessorati Agricoltura e Turismo, Ecologia e Ambiente

 

Passaparola …
Non vedrai la pubblicità di questa proposta su giornali e TV: il nostro canale di promozione principale è il passaparola. Puoi girare questa mail ad amici, recuperare e diffondere il depliant informativo che trovi nei punti locali, o la versione presente sul sito.
Aiutaci a coinvolgere nuove persone.

 

Perchè si fa
VIVI sostenibile – a qualcuno piace FARLO è il titolo con cui L’isola che c’è promuove ai cittadini comaschi il progetto QUOTIDIANO SOSTENIBILE .
Il progetto QUOTIDIANO SOSTENIBILE ha l’obiettivo di promuovere nella provincia di Como comportamenti individuali e collettivi ambientalmente e socialmente sostenibili, attraverso un processo partecipativo che coinvolga direttamente i cittadini, per:
* Favorire l’informazione e la conoscenza sui temi della sostenibilità sviluppando e offrendo dei punti di riferimento (sito, materiali, sportello informativo ) attraverso i quali sia possibile
orientare un ampio numero di cittadini a scelte di sostenibilità quotidiana.
* Promuovere nuovi stili di vita ambientalmente e socialmente sostenibili coinvolgendo un significativo campione di cittadini (adulti, giovani, famiglie) in un percorso partecipativo che accresca la consapevolezza e stimoli e rafforzi l’adozione di comportamenti virtuosi dal punto di vista ambientale e sociale, orientati al consumo critico e consapevole delle risorse. Per fare ciò si attiveranno dei gruppi locali in 12/14 comuni della provincia – su 6 aree – con i quali sperimentare una formazione partecipativa ed esperienziale che evidenzi la praticabilità e la piacevolezza del cambiamento.
* Sostenere l’accesso ai beni e servizi solidali supportando il contatto diretto tra produttori e consumatori e le modalità sostenibili di produrre beni e servizi, con il supporto di strumenti (carta e mappa dei beni e dei servizi, carta di fidelizzazione) che permettano di verificare la fattibilità di un circuito economico locale ad alto valore relazionale, ambientale e sociale.
* Accrescere la rete comasca di economia solidale mettendo in relazione ed inserendo singoli e gruppi nella rete di economia solidale già presente nel territorio, per scambiare informazioni, conoscere il territorio, diffondere temi e pratiche.

 

Nel realizzare questo progetto abbiamo messo in rete le esperienze e le competenze che il nostro territorio ci offre, ed abbiamo colto, riadattato e messo insieme approcci e pratiche diverse, che hanno due riferimenti in particolare:
* il progetto Cambieresti? realizzato a Venezia nel 2005/6 in ambito di Agenda21, e progetti
simili, quale il Vispo a Piacenza
* la pratica delle reti di economia solidale, che portiamo avanti da alcuni anni sul nostro territorio

 

Ci auguriamo che il connubio tra questi ingredienti ci faccia camminare verso il Distretto Comasco di Economia Solidale, e verso un quotidiano veramente sostenibile.

Cecilia Zecchinelli

Fisica quantistica, economista, ecofemminista, ecologa sociale, guru del movimento no global, fondatrice dell’ attivissima Research Foundation for Science, Technology and Ecology e di altre organizzazioni. Vandana Shiva, nata nella regione himalayana 54 anni fa, studi nelle università inglesi e americane, è la figura più nota dell’ «altra India», anche se nel suo lunghissimo curriculum non mancano consulenze per il governo di New Delhi e riconoscimenti istituzionali. Da 25 anni si batte per la difesa della natura e dell’ agricoltura del suo Paese, ovviamente per mettere fine all’ ondata di suicidi dei contadini. L’ abbiamo incontrata nel primo «caffè slow food» dell’ India che tra le altre mille cose è riuscita a fondare, l’ anno scorso, in una casa della capitale. Parliamo dei suicidi: il governo li imputa a disastri naturali. È così? «Assolutamente no: per 5 mila anni la terra è stata il datore di lavoro più generoso dell’ India, mentre oggi i contadini sono “a rischio di estinzione”. I suicidi sono tutti dovuti ai debiti, causati dall’ imposizione dei semi delle multinazioali americane. Non a caso esiste una “fascia dei suicidi” che corrisponde alla maggior presenza della Monsanto e della Cargill. È soprattutto lì che i contadini s’ indebitano per comprare ogni anno i semi di cotone modificati geneticamente e poi non riescono nemmeno a recuperare quei soldi al momento del raccolto, perché i prezzi internazionali crollano. È tutto documentato: nel rapporto Seeds of suicides che abbiamo appena aggiornato c’ è tutto». Con il governo di sinistra di Singh le cose non sono migliorate? «No, anzi. I rapporti con gli Stati Uniti oggi sono ancora più stretti, e insieme all’ anti-terrorismo l’ agricoltura è il cardine delle relazioni bilaterali. Un esempio: siamo diventati importatori di grano dagli Usa, mentre non ne avremmo bisogno. Washington vuole dominare il nostro mercato, mentre continua a sovvenzionare le sue esportazioni agricole». Cosa si può fare? «Tante cose. Ad esempio abbiamo creato una banca per i semi. Chiediamo ai contadini, e ormai 300 mila sono legati a noi, di conservare parte del raccolto per poi riseminarla, come si faceva una volta. Così si resiste all’ invasione delle multinazionali, si riducono le spese, si usano meno pesticidi, si salvano varietà importanti. Dopo lo tsunami, nello stato dell’ Orissa abbiamo seminato un riso tradizionale in grado di resistere alla salsedine. Una varietà che sarebbe scomparsa senza la nostra banca». E a livello internazionale? «Il nostro modello è proprio l’ Italia: voi proteggete la diversità culturale dei prodotti agricoli tradizionali, difendete le piccole aziende. Per questo caffè slow food abbiamo creato un’ alleanza con Carlo Petrini. Ora vorrei che l’ India lanciasse un’ iniziativa ufficiale comune con l’ Italia».