di Adriana Sbrogiò – Spinea
– Ricordo quando di giorno e di notte suonava l’allarme e dopo un po’ di tempo si sentiva il rombo degli aerei che arrivavano carichi di bombe (hhuu hhuu hhuu hhuu); un rumore sordo, lento, inesorabile con il suo carico di distruzione e di morte.
Scappiamo, scappiamo, non c’è tempo, gli aerei sono vicini, troppo vicini, fra poco sganciano le bombe; andiamo tutti sotto il pagliaio dei contadini vicini. Lì hanno scavato una buca lunga e larga sotto il pagliaio grandissimo e tanti vanno là sotto per ripararsi perché, se proprio non cade una bomba sull’imboccatura del rifugio, siamo tutti riparati dalle schegge. Non ricordo quanti fossimo, tutti vicini appiccicati, donne e uomini anziani, alcuni sempre in piedi, altri seduti. Di là sotto ricordo i pianti, i lamenti e le imprecazioni e l’odore, l’odore rivoltante di chi se la faceva addosso per la paura. E sentivo attutiti dalla paglia gli scoppi delle bombe e tremare la terra. La mia mamma mi teneva stretta stretta e con l’orecchio appoggiato al suo petto sentivo battere forte il suo cuore che mi sembrava una specie di musica e mi distoglieva da tutti gli altri rumori fino a farmi pendere il sonno. E quando suonava il cessato allarme piano piano si usciva, ci si guardava in giro per veder se la nostra casa fosse ancora là. Era là, era ancora là. Risparmiata dai tanti bombardamenti l’abbiamo trovata ancora in piedi.
Un mattino, però, l’abbiamo vista ridotta ad un ammasso di macerie.
E siano andate profughe dall’altra parte del paese. Tre kilometri più in là dal punto nevralgico dei bombardamenti (Marghera-Chirignago-Stazione ferroviaria Mestre-Padova).
– E ancora, quando suonava l’allarme di giorno e di notte, ci si alzava in fretta e furia e si scappava di corsa a piedi, si attraversavano campi e fossati, oppure con una bici con i cerchioni delle ruote coperti da gomma piena, si correva verso la campagna di Spinea. Ci si riparava sotto le cataste di fascine fatte di rami molto lunghi appoggiati a terra che si incrociavano verso la cima. Un ramo sopra l’altro, anche quelli proteggevano dalle eventuali schegge di bombe. Ricordo un uomo terrorizzato che continuava a gridare: arrivano, arrivano, adesso bombardano, moriamo tutti, moriamo tutti. E alcune donne che gli intimavano di stare zitto perché spaventava tutti.
Eravamo tutte/i tanto impauriti. Di notte, sotto il “fascinaro” però, ad un certo momento il suono del cuore di mia mamma mi faceva addormentare. Avevo quattro, cinque, sei anni.
Per un periodo di tempo, quando si arrivava di notte nella casa dei contadini di Spinea, che erano anche parenti di mia nonna, non andavamo sotto il “fascinaro”, ma ci ospitavano su delle brande vicino al granaio. Ricordo il tormento di tutte quelle notti piene di pulci, cimici puzzolenti e anche pidocchi. Mi grattavo sempre e mi lamentavo e non dormivo più. Ad un certo momento mia mamma preferì restare seduta con me in braccio al riparo sotto le fascine. C’era sempre l’uomo che ci spaventava, ma per lui mia mamma provava anche gratitudine perché una volta mi aveva portata via dai binari del treno dove ero caduta.
– Mia mamma lavorava e fino ai quattro o cinque anni, mi hanno portata all’asilo delle suore a Chirignago perché, dicevano, era il posto più sicuro in quanto non avrebbero bombardato dove si sapeva che c’erano dei bambini. Infatti, la casa delle suore era molto grande e metà era stata occupata dal Comando Tedesco, l’altra metà lasciata alle suore che accoglievano bambine/i.
Ma un brutto giorno suonò l’allarme e le suore ci fecero entrare tutti in una grande aula e ci strinsero tutte e tutti, insieme a loro, vicini vicini ai muri più interni che facevano angolo. Sull’asilo caddero alcune bombe e ricordo che vedemmo crollare la parete più esterna dell’aula, ma tutti noi restammo incolumi e anche le suore, ma tutti spaventati a morte.
Ricordo i cavalli e gli asini che, impazziti dalla paura, correvano qua e là nel piccolo parco delle suore e altri erano morti dentro gli orti. Erano animali che i tedeschi si portavano dietro per cibarsi, mi dissero.
Un mio zio, fratello di mio padre, che comprava e vendeva il latte passò, con il suo carrettino con sopra i bidoni del latte, davanti all’asilo e mi ha cercata per portarmi a casa. Si sapeva, dicevano, che dopo un bombardamento, molte volte, passavano gli aerei che mitragliavano anche la gente che fuggiva. Lo zio mi prese e mi mise dentro un bidone del latte e mi fece tenere una mano sull’orlo dell’imboccatura per tenere alzato il coperchio e non soffocare. Lui si accucciò sotto il carretto dei bidoni e fummo salvi entrambi. Quando si misero a mitragliare io sentivo tanti tic tic tic sull’esterno del vaso. Quel rumore deve essermi entrato nel cervello perché tanti, ma tanti anni dopo, quando avrebbero dovuto farmi un esame con la risonanza magnetica, appena entrata nel cilindro e sono iniziati tutti quei tic tic tic, mi sono messa ad urlare, mi sono sfilata dal tubo e sono scappata. Sono uscita di corsa dall’ambulatorio mentre il medico mi correva dietro cercando di calmarmi.
Quella volta gli americani distrussero tante case a Chirignago e uccisero uomini e donne. E io molto più tardi capii che l’asilo non era il luogo più sicuro, ma che eravamo gli scudi umani dei tedeschi e che in guerra tedeschi e americani, amici e nemici si uccidono e uccidono tutti, civili e innocenti.
– Ricordo mia mamma che in quel tempo, mentre faceva la lavandaia in casa di benestanti, le si piantò un ago dimenticato in un panno da una signora e finì all’ospedale perché non riuscivano a toglierlo e camminava lungo il braccio. Quando l’ago arrivò alla spalla, fecero l’operazione e la liberarono. Nel frattempo, però, mia mamma si ammalò di paratifo e rimase all’ospedale molto tempo. Intanto i miei parenti mi mandarono ospite da una zia sul Montello perché là, dicevano non bombardavano. Non ricordo quali truppe ci fossero di stanza in quei posti, ma ricordo che tanta gente soffriva di scabbia ed io me la presi. Tornai a Chirignago dai nonni materni e nessuno della famiglia si infettò. Ma io, con poche difese, poco cibo e niente sale, rimasi “la scabbiosa” per quasi un anno e sono stata vicina a morire.
Quante sofferenze fisiche e morali, mi pare di averle scritte da un’altra parte.
Ho scritto questi ricordi perché guardando e ascoltando la tragedia della guerra in Ucraina, pensando alle sofferenze, ai dolori, alle morti di tante creature umane e alle distruzioni mi viene un forte tremore fisico che mi passa soltanto se mi addormento.
So che è il mio modo per fuggire dalla realtà. Sono vecchia e la guerra fa troppo male.
E quanti ricordi ancora mi tornano in mente:
La fame e la paura – I bagliori dei bombardamenti verso Padova – Pippo di notte che mitragliava le luci anche piccolissime e qualsiasi cosa vedeva muoversi – le sirene e i razzi – le uccisioni – i disertori nascosti nei fienili – i soldati tedeschi che costruivano le trincee nei campi prima e poi l’invasione dei soldati liberatori americani, inglesi, indiani… e poi le vendette su qualche uomo capo fascista…
NO NO alla guerra –
(www.libreriadelledonne.it, 15 marzo 2022)
di UdiPalermo
Quarant’anni fa, l’8 settembre 1981, a Ulassai, una cittadina della provincia di Nuoro in Sardegna, un nastro celeste lungo ventisei chilometri passò “di mano in mano, lanciato da una casa all’altra, annodato e addobbato”, finché dopo un’ora tutte le case apparvero l’una all’altra legate. Con questa azione collettiva, Legarsi ad una montagna, l’artista sarda Maria Lai rese il suo paese natale “autore di un’opera d’arte che, da quel momento, si sarebbe definita comunitaria” (Alessandra Pioselli) – non un monumento ai caduti come da richiesta dell’amministrazione comunale, ma un monumento per i vivi realizzato assieme a donne, uomini e bambini secondo regole condivise e volto a svigorire le reciproche diffidenze e a rafforzare i legami all’interno della comunità.
L’UDIPalermo riconosce da anni il valore politico delle scelte dell’artista sarda. Nel catalogo della mostra Maria Lai, il filo l’ordito la trama (realizzata insieme all’Assessorato regionale dei Beni Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione nel capoluogo siciliano, 22 dicembre 2008-10 gennaio 2009), Mariella Pasinati ne sottolinea infatti l’idea di arte come pratica viva e ne coglie negli interventi e nelle installazioni nei territori, a partire dalla performance di Ulassai, non solo il superamento dei “limiti della dimensione solitaria e individuale dell’operare artistico” ma anche la rivoluzione innescata dall’immissione dei corpi, compreso il corpo dell’artista, nei contesti. L’opera d’arte diviene così “luogo dello scambio, strumento di mediazione culturale, sociale e perciò autenticamente ‘politico’, se la politica è lo spazio della relazione”.
Le realizzazioni artistiche di Maria Lai continuano ancora oggi a orientarci verso il ritrovamento di un senso comunitario nella memoria storica e collettiva, continuano a interrogarci sul futuro del vivere insieme da sperimentare nel presente. Le sue pratiche e visioni dell’arte mostrano presupposti affini all’agire comune delle donne e degli uomini che ripensano i territori come luoghi della politica di relazione, ne salvaguardano i paesaggi e li tutelano per le nuove generazioni. Come le/gli abitanti di Ulassai, le donne di UDIPalermo, sensibili alle rivendicazioni delle e dei NoTav, hanno lanciato lo scorso anno un lungo nastro alle Mamme in piazza per la libertà di dissenso, da Palermo a Torino, dalla Sicilia alla Val di Susa, intercettando altre madri reali e simboliche che chiedono la non criminalizzazione di chi lotta contestando lo sfruttamento delle risorse materiali e immateriali nelle comunità che ancora resistono.
Oggi UDIPalermo conferma quella scelta, ribadisce la richiesta di liberazione di donne e uomini colpiti da misure repressive per essersi opposti a una trasformazione che stravolge e cancella i legami comunitari in Val di Susa e altrove, e rilancia alle autorità italiane l’appello a riconsiderare la condizione detentiva di Fabiola De Costanzo, così come è avvenuto per Dana Lauriola, comminando misure alternative alla carcerazione. In un contesto socioeconomico pesante e durissimo a causa della pandemia e di mali endemici, nel corso di una crisi che attanaglia molte istituzioni a diversi livelli e distanzia sempre più gli/le esponenti politici dalla gente comune, nonostante le difficili condizioni in cui versano le comunità piccole e grandi all’interno delle quali i legami risultano sempre più sfilacciati, le donne di UDIPalermo continuano a nutrire fiducia e speranza nelle ragazze e nei ragazzi dei movimenti radicati nei territori e colgono nelle loro lotte una ricerca volta a dare un senso nuovo alla politica, a immaginare una visione politica alternativa per il futuro, a sperimentare pratiche politiche fondate su relazioni vive.
(www.pressenza.com, 8 settembre 2021)
di Franca Fortunato
La tempesta giudiziaria e politica, che come uno tsunami si è abbattuta su Riace e il suo sindaco, Domenico Lucano, ha distrutto quel modello di accoglienza e di convivenza tra cittadine/i e immigrate/i divenuto famoso in tutto il mondo. Una distruzione iniziata molto prima dell’arresto e della rimozione del sindaco, con il blocco dei finanziamenti del ministero degli Interni e della Prefettura di Reggio Calabria, e che si è completata con la chiusura del progetto di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), riattivato solo nel maggio 2019 in seguito a una sentenza del Tar Calabria che ha accolto il ricorso del vicesindaco. Con la chiusura dello Sprar la maggioranza delle/i migranti è stata trasferita in altri centri e altre/i hanno tentato la fortuna altrove. Alcune/i sono poi ritornate/i a Riace perché lì hanno una casa e una vita dignitosa. Oggi nel paese vivono una trentina di migranti. Le operatrici e gli operatori delle associazioni hanno perso il lavoro, i laboratori dove per 20 anni hanno lavorato insieme riacesi e migranti, perlopiù donne, sono stati chiusi, gli asini della fattoria didattica, utilizzati per la raccolta differenziata, sono stati messi sotto sequestro, perché le stalle sono state dichiarate non agibili, la taverna “Donna Rosa” è stata chiusa, il poliambulatorio pure e così pure l’asilo. Private del loro sindaco – messo prima ai domiciliari, mandato poi in esilio e rientrato a settembre 2019 -, le famiglie si sono spaventate per un’inchiesta giudiziaria che ha visto coinvolte direttamente o indirettamente molte di loro. Alle ultime elezioni il candidato della Lega, Antonio Trifoli, ha potuto soffiare in modo strumentale su malumori, paure, false percezioni della cittadinanza in particolare di Riace Marina, secondo cui Lucano era stato solo il sindaco delle/degli immigrate/i, dove ha raccolto la maggioranza dei voti. Trifoli è diventato sindaco. Lucano, a cui è stato negato il permesso di rientrare a Riace per fare campagna elettorale, nonostante la maggioranza dei voti del borgo, non è stato eletto consigliere comunale.
Il nuovo sindaco ha da subito tentato di cancellare ogni simbolo che potesse ricordare quell’esperienza di accoglienza, come se la memoria non andasse al di là dei simboli e non continuasse a vivere nella coscienza e nel ricordo di quante/i quell’esperienza l’hanno conosciuta, vissuta, raccontata o semplicemente letta.
Poco prima della festa patronale il nuovo sindaco ha sostituito il cartello all’entrata del borgo “Riace, paese dell’accoglienza” con l’immagine dei Santi protettori del paese, Cosma e Damiano, evento benedetto da due preti, che hanno però dimenticato di ricordare a sé stessi e al sindaco che i due fratelli gemelli erano stranieri, originari dell’Arabia, e che da medici prediligevano nella cura i più poveri e gli emarginati. Poi è stata la volta della rimozione del cartello con una citazione di Peppino Impastato, il giornalista ucciso da Cosa Nostra nel 1978. «Mi sembra che sia l’ennesimo tentativo di rimuovere tutto ciò che di positivo aveva il paese di Riace, come l’accoglienza e la lotta alla mafia» ha scritto la sorella di Peppino, Luisa Impastato.
Trifoli non avrebbe dovuto essere eletto, secondo il Ministero degli Interni e la Prefettura di Reggio Calabria, in quanto come dipendente del Comune non poteva candidarsi, e in quando titolare di contratto a tempo determinato non poteva usufruire del congedo per fare campagna elettorale. Dichiarato ineleggibile, ha presentato ricorso, e intanto continua ad amministrare. Inoltre, un assessore della sua Giunta, consigliere di Fratelli d’Italia, subito dopo le elezioni è stato arrestato, perché legato a una potente cosca di ’ndrangheta.
Di fronte alla desolazione e desertificazione di Riace, Lucano non si è arreso e con lui tante/i che non hanno mai smesso di credere in lui e nel suo progetto. Il 12 gennaio 2019, a Caulonia dove viveva per il divieto di dimora, è nata la Fondazione “È stato il vento”, per iniziativa della coordinatrice della Rete dei Comuni Solidali (Recolsol) Chiara Sasso, di Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), del missionario comboniano Alex Zanotelli, dei magistrati Livio Pepino ed Emilio Sirianni, della pediatra e laica comboniana Felicetta Parisi e di Barbara Vecchio della rete delle cooperative Longo Mai. «È stato il vento… a trasportare una nave carica di curdi sulle coste ioniche nei pressi di Riace e da lì è partito un po’ tutto», sono le parole con cui Lucano ha sempre raccontato come ha avuto inizio l’esperienza di Riace nel lontano 1998, quando sulle coste della Locride approdò un veliero, carico di curdi (66 uomini, 46 donne e 72 bambini/e) in fuga dall’Iraq, dalla Siria e dalla Turchia e diretti in Europa.
C’è un augurio tipico che passa di bocca in bocca tra gli uomini che tentano le imprese in mare: “Buon vento”, si dicono, offrendosi l’un l’altro l’auspicio che le correnti sappiano guidare il bastimento verso la meta prefissata. È lo stesso augurio che accompagna la Fondazione nel suo progetto di rinascita, di resilienza. Resilienza da “resalio” che – come scrive Elly Irukandji, giovane scrittrice calabrese, nel suo romanzo Resalio – è un iterativo del verbo latino “salio” che significa “saltare, balzare”. “Resalio” è stato associato all’atto di risalire e l’associazione più poetica e ricorrente è quella del risalire sulla barca rovesciata dalle intemperie del mare. In metallurgia, infatti, sta a significare la capacità dei metalli di resistere alla pressione dei colpi cui vengono sottoposti. Queste caratteristiche rilevate in natura hanno fatto sì che “resalio” desse i natali alla parola “resilienza”.
Una resilienza, una rinascita, iniziata con la pulizia dei laboratori, che oggi sono stati riaperti. È stato riaperto un asilo parentale e sta andando avanti la ristrutturazione di Palazzo Pinnarò, storica sede dell’associazione Città Futura con cui Lucano ha gestito sin dall’inizio il progetto di accoglienza, qui verrà istituito un Centro documentazione, in collaborazione con alcune Università, con lo scopo di raccogliere tesi di laurea su Riace. È stato riaperto il frantoio di comunità con l’aiuto della popolazione e quando sarà tutto pronto i proprietari degli ulivi porteranno il raccolto. È stata riaperta la taverna “Donna Rosa”, dal nome di una venditrice di stracci di Riace. Il progetto della Fondazione – come ha scritto la sua presidente, Chiara Sasso – guarda a un’accoglienza “spontanea”, ai cosiddetti “lunghi permanenti”, cioè a coloro che pur non avendo più i requisiti per poter continuare ad essere accolti, hanno deciso di restare a Riace. In questa prima fase è sostenuto dai fondi raccolti dalla Fondazione, poi dovrà sostenersi autonomamente con le botteghe, collegate con le tante associazioni che hanno dato la disponibilità per veicolare i prodotti, e col turismo diffuso. Le case vuote dei riacesi emigrati entrano nel progetto. L’associazione Città Futura si sta organizzando per affittare per brevi periodi le case a costi sostenibili, per vacanze o altro.
Segno di una Riace resiliente è stata la manifestazione a sostegno di Domenico Lucano, organizzata da Jasmine Cristallo, responsabile delle sardine calabresi e ideatrice del movimento dei balconi contro Matteo Salvini, del 6 gennaio scorso davanti alla taverna “Donna Rosa”, nel giorno in cui Salvini era a Riace marina per le elezioni europee. Il paese resta spaccato in due, la marina e il borgo antico con la sua resilienza e rinascita, nonostante l’ostilità dell’amministrazione comunale e del suo sindaco.
(A&P – Autogestione & Politica Prima, N. 2/3, aprile/settembre 2020, “Questo è il tempo della resilienza”)
Nel nuovo numero della rivista online di Diotima Per amore del mondo n° 16 (2019) dal titolo Passaggio in altro segnaliamo alla rubrica “Ho letto” (n°18 dell’indice) la recensione che è più di una recensione di Caterina Diotto del libro La Spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (Moretti&Vitali 2018), dal titolo Una nuova pratica della Storia. Riflessioni su La Spirale del tempo della Comunità di storia vivente di Milano. Vai a http://www.diotimafilosofe.it/larivista/una-nuova-pratica-della-storia-riflessioni-su-la-spirale-del-tempo-storia-vivente-dentro-di-noi-della-comunita-della-storia-vivente-di-milano/
(Diotimafilosofe.it, 13 dicembre 2019)
di Natalia Milan
Appunti da Palermo per una lettura sessuata della riforma e del movimento.
Mi sarebbe piaciuto oggi titolare con un “Signore e signori, la scuola s’è desta!” una riflessione sull’ampio movimento di protesta che un anno fa si è opposto alla riforma della buona scuola voluta dal governo. Invece, in questi mesi si è registrata una diffusa afasia del mondo della scuola, pesantemente sconfitto, dopo essersi mosso unitariamente contro la riforma, e intorpidito in un anno scolastico in cui la maggior parte delle novità della legge non sono ancora in atto e, su quelle da attuare, ci si muove in scenari di grande confusione.
Eppure quel movimento ha avuto, almeno da aprile 2015 all’inizio del luglio successivo – nonostante il quasi completo silenzio dei media sulle proteste e sulle ragioni della protesta – caratteri straordinari, ulteriori rispetto alla partecipazione molto diffusa, con incontri e assemblee, e molto ampia, come ha dimostrato il più grande sciopero della scuola degli ultimi decenni.
Sono convinta che la riforma della scuola e il movimento che l’ha contestata mettano in scena questioni che richiedono una lettura con le chiavi della differenza sessuale, del simbolico(1), del genere.
Quanto è accaduto ci riguarda e ci tocca da vicino non solo perché questa riforma della scuola, a mio avviso, danneggia le bambine e le ragazze che frequentano le scuole, come argomenterò più avanti, non solo perché colpisce un settore occupazionale composto in maggioranza da donne, ma anche e soprattutto perché molte, moltissime donne sono state protagoniste di questa protesta/proposta in difesa della scuola pubblica, costituzionale, laica, plurale, oltre che della propria professionalità e dei propri diritti di lavoratrici. È stata la difesa di un modello di scuola non perché la scuola fosse perfetta così com’era, ma perché questo modello ha consentito una pluralità e libertà nelle esperienze di insegnamento e apprendimento che, invece, la riforma comprime.
Ho partecipato al movimento nella scuola a Palermo e avendo contatti diffusi per l’Italia anche tramite i social network(2). Osservando, ecco quello che mi è saltato agli occhi: donne protagoniste nei dibattiti, nell’elaborazione dei documenti, nella convocazione di assemblee pubbliche esterne e interne alle scuole, Rsu donne che hanno convocato assemblee dei lavoratori e delle lavoratrici che sono esitate negli scioperi, Rsu e sindacaliste che hanno spiegato, illustrato le questioni in ballo nella riforma, docenti donne che hanno parlato pubblicamente sulla riforma e spesso sui suoi rischi, che hanno speso la loro autorità per sostenere una protesta cui i media hanno dato poco spazio e che ha subito spesso un trattamento criminalizzante (vedi il blocco degli scrutini, che blocco non era ma un semplice sciopero con uno slittamento di qualche giorno).
Una lettura femminista e sessuata di quanto è avvenuto non può non mettere in luce il danno subito anche dai lavoratori uomini della scuola in quanto forza lavoro di un settore di impiego femminilizzato e che è stato, in conseguenza di ciò, fortemente penalizzato sul piano contrattuale e del prestigio sociale.
Una riforma sessista
Il disegno della buona scuola sin dalla prima versione mostrava un carattere sessista perché in essa non veniva neanche nominato il pensiero femminista, il suo contributo al sapere, né le ragazze o le bambine:
Ancora una volta non è una scuola per bambine, ragazze e donne la buona scuola del documento governativo. Rigorosamente maschile è, infatti, tutto il suo impianto: dalla lingua utilizzata, all’assenza di qualsiasi idea di formazione che preveda l’esistenza di due soggetti, alla logica di un modello fondato sulla competizione e differenziazione in senso gerarchico fra docenti e fra scuole(3).
Così scriveva la Biblioteca delle donne Udipalermo in Alcune considerazioni sulla “buona scuola”, uno dei primi documenti pubblicati sulla riforma e che già sintetizzava le ragioni di una completa e strenua opposizione a un disegno di legge scellerato che avrebbe dato la mazzata finale alla scuola pubblica, laica, fonte di libero pensiero ed educazione alla pluralità democratica. La legge è stata poi approvata con alcuni cambiamenti rispetto alla proposta iniziale, ma mantenendo un’impostazione che ha visto contraria la quasi totalità del mondo della scuola.
C’è da chiedersi quale sarà l’impatto di genere della riforma della buona scuola nel suo insieme, a fronte della novità dell’articolo 1, comma 16, in cui la legge richiama le scuole all’attuazione, nella loro azione, dei principi di pari opportunità:
Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all’articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013.
Al di là del richiamo ai principi di pari opportunità, all’educazione alla parità tra i sessi, alla prevenzione della violenza di genere e delle discriminazioni, nella legge approvata continua a mancare un riferimento al contributo di sapere del movimento delle donne e del pensiero femminista.
Parecchie e più ampie preoccupazioni erano e sono legate al fatto che, se si cumula questa “riforma” a ciò che la scuola è diventata in questi anni, si aprono scenari di miseria simbolica e materiale.
C’è da chiedersi quale sarà l’effetto della riforma sulla libertà dei bambini, delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze che la scuola frequentano e degli uomini e delle donne che nella scuola lavorano. Proprio riguardo a chi nella scuola lavora, evidenzio di seguito due questioni.
Della legge approvata va sottolineato che i docenti e le docenti verranno assunti e assunte con contratti che hanno alcune caratteristiche del settore privato, quindi precarizzati e precarizzate contrattualmente e all’interno di un orizzonte lavoristico di estrazione aziendalistica. Il sistema selettivo finora in uso per l’accesso e l’esercizio della professione di insegnante, basato sui concorsi, sul valore dei titoli di studio, sui punteggi in graduatoria, criticabile ma imparziale, sarà integrato in modo significativo da una scelta operata dal dirigente scolastico, che sarà così chiamato a compiere, pur con le migliori intenzioni e personali qualità, delle scelte nell’ambito della didattica, configurando una limitazione della costituzionale libertà d’insegnamento.
Se, dal punto di vista del lavoro, questa riforma della scuola ha molto a che fare con la precarizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici e con l’aziendalizzazione dei rapporti di lavoro, è noto come tutto questo colpisca particolarmente le donne e come la scuola sia un settore in cui la presenza delle lavoratrici sia altissima. Questo aspetto della riforma allora danneggia tutti e tutte, ma soprattutto le lavoratrici perché il sistema in uso finora ha consentito che le donne potessero guadagnare, al pari dei colleghi, il loro spazio, mentre quell’altro, di tipo privatistico, aperto al familismo e al clientelismo, le penalizza fortissimamente.
Temo che di questa riforma si piangeranno le conseguenze per gli anni a venire in termini di calo e peggioramento delle condizioni di occupazione delle donne ma anche di impoverimento generale del Paese. Pur criticando da un punto di vista femminista i criteri utilizzati in molti studi economici – per esempio, il Prodotto interno lordo come unico indicatore di ricchezza, la definizione di “attivi/e economicamente” esclusivamente riferita a chi ha un lavoro retribuito – c’è da notare che, anche all’interno di questi studi, si rileva il peso attuale del sessismo: recentemente Christine Lagarde, direttrice operativa del Fondo monetario internazionale, ha evidenziato come sia proprio sul piano della legislazione che si pongono le condizioni per impedire alle donne di essere “economicamente attive”; ha parlato a questo proposito di “cospirazione contro le donne”. L’occasione per questa osservazione è stata la pubblicazione della ricerca del Fmi sui danni del sessismo che afferma che “in più di 40 nazioni, tra cui molte ricche e avanzate, si perde più del 15% della ricchezza potenziale, per effetto delle discriminazioni contro le donne”(4); l’Italia perde il 15% del Pil potenziale. In questa prospettiva, i paesi che privano le donne di opportunità rinunciano a dinamismo e benessere.
Seconda questione: è materia per una valutazione dell’impatto di genere anche il piano assunzionale previsto nella legge; esso ha posto i docenti e le docenti dinanzi alla scelta tra produrre una domanda per l’assunzione a tempo indeterminato alla condizione di un trasferimento al buio in un’altra città d’Italia da un lato e, dall’altro, non produrla con il rischio di uscire dal mondo del lavoro vedendo svanire la possibilità dell’assunzione e assottigliarsi le possibilità di incarichi annuali. Sarebbe importante conoscere i numeri distinti per genere di chi ha prodotto quella domanda: capire se le donne abbiano rinunciato in proporzione maggiore degli uomini, innanzitutto. E sarebbe importante capire in un orizzonte di libertà se le donne, dinanzi all’alternativa tra radicamento, affetti e relazioni da un lato e lavoro dall’altro, si siano tirate indietro; e in che misura lo abbiano fatto tornando al “ruolo” tradizionale femminile; e sarebbe importante capire quanto il ruolo tradizionale maschile abbia pesato per gli uomini che hanno prodotto questa domanda, un ruolo latore di vantaggi formalizzati ma anche di sofferenze e costrizioni spesso ancora non dicibili.
Una protesta nuova
Non solo danneggiate le donne, però: molta dell’animazione di questa protesta è venuta da protagoniste del dibattito italiano, storiche e nuove; citando solo ciò che è capitato a tiro della mia lettura, segnalo i contributi della Biblioteca UdiPalermo, di Lea Melandri, Rosangela Pesenti, Lidia Menapace, del blog Narrazioni Differenti(5), oltre alla costante e preziosa attività pubblicistica di Marina Boscaino su Il fatto quotidiano e Micromega e alle attività di tantissime docenti in giro per l’Italia.
Al netto della questione dell’approvazione della legge che tristemente è dipesa dalla questione, più numerica che politica, dell’avere i voti in Parlamento, vediamo alcuni degli aspetti per cui questa protesta, osservata da Palermo, mi è sembrata nuova e inaspettata anche per chi l’ha fatta.
In questa protesta/proposta la scuola si è raccontata. Ha raccontato com’è, quello che fa; per questo non è mai stata solo protesta: ha raccontato problemi e vita, ben oltre la pur importante presenza di un disegno di legge d’iniziativa popolare precedente e alternativo alla riforma(6).
Pur nella scarsissima copertura mediatica, la protesta/proposta ha compiuto in modo capillare un lavoro che si può riassumere nel riconnettere i nomi alle cose: ha svelato molte semplificazioni e mistificazioni a partire dalla definizione di squadristi rivolta ai docenti e alle docenti che contestavano la ministra; ha dovuto rivoltare la versione governativa dell’ascolto del mondo della scuola mostrando come in tante situazioni vi fosse un monologo della ministra o di altri esponenti del governo, a volte perfino condito da manganellate o più semplicemente “blindature” dei dibattiti pubblici con l’esclusione delle posizioni critiche(7). Ancora ha dovuto svelare che la soluzione del problema dei precari proposta non era quella attesa, cioè l’assunzione, ma, in una prima fase, la più fantasiosa chiusura delle Graduatorie ad esaurimento.
La novità è stato un così ampio movimento che ha costruito consapevolezza e mobilitazione argomentando e raccontando come è la scuola. Grande novità perché la scuola – giustamente – non fa marketing di sé, però, di contro, poco si rappresenta e si racconta. E infatti molto del lavoro di sensibilizzazione è stato il contrasto di falsi miti e luoghi comuni sulla scuola parecchio invecchiati ma duri a morire: i docenti hanno tre mesi di vacanza, nessuno li può valutare, la scuola italiana è peggiore delle altre etc.
In questa opera di informazione e sensibilizzazione si sono impegnate e impegnati moltissime e moltissimi docenti: quest’opera capillare è stata una novità per la partecipazione politica che ha visto e anche come anticorpo a difesa della democrazia. E lo è stata perché il movimento è stato un antidoto alle verità preimpacchettate, a quell’erba che è sempre verde in certi racconti, come scriveva Luisa Muraro in Maglia o uncinetto(8). Così si sono coinvolti attivamente nel movimento di protesta donne e uomini, docenti e non, genitori, famiglie, studenti, cittadine e cittadini.
Altro inedito: dopo anni si è riusciti/e ad innescare un circolo virtuoso tra singoli lavoratori e lavoratrici della scuola, gruppi trasversali di docenti, sindacati di base e sindacati confederali. E questo circolo virtuoso ha sostenuto e alimentato la protesta/proposta.
La scuola ha attuato un ascolto e un riconoscimento produttivo di politica che da anni non c’erano. Per questo penso che questo movimento abbia riguardato l’Italia intera: per l’ampiezza dei numeri e dei temi vitali, per l’acquisizione diffusa di consapevolezza, la significativa organizzazione spontanea e in gruppi, il costante contrastare la sordità della politica e dei media. Per molte e molti docenti si è accresciuta la coscienza della propria professionalità, del proprio ruolo costituzionale riguardo alla libertà d’insegnamento e, insieme, della giustezza delle proprie rivendicazioni contrattuali, della propria forza e protagonismo.
Ci chiediamo come continuerà la vita nel mondo della scuola e che ne sarà dei lasciti di questo movimento: in che misura verranno ancora utilizzate le prerogative degli organi collegiali, la disobbedienza civile, i ricorsi, se si proverà a sollevare nuovamente un dibattito pubblico sulle deleghe in bianco previste nella legge(9). E adesso che è in corso la raccolta delle firme per i referendum – coi quesiti su chiamata diretta, bonus alle singole scuole, alternanza scuola-lavoro e valutazione del merito da parte del dirigente scolastico – ci chiediamo se la preparazione di questo referendum sarà un’occasione per riaprire un dibattito pubblico sulla scuola che vogliamo e se il movimento si ridesterà.
Palermo, 13 aprile 2016
1 Uso ordine simbolico nel senso che ci ha insegnato una lunga tradizione filosofica che considera il reale non come l’ambito dei fatti «nudi e crudi», ma come l’ordine simbolico che il pensiero (inteso come linguaggio, cultura e codice sociale) attribuisce al mondo (Cfr. Adriana Cavarero, Dire la nascita, in AA.VV., Diotima. Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, 1990, p. 93).
2 Da quattro anni, avendone titoli ed abilitazioni, svolgo delle supplenze nella scuola pubblica, oltre all’attività che svolgo da oltre dieci anni e che mi appassiona nel terzo settore, precisamente nel centro antiviolenza della mia città. Un intreccio di esperienze professionali interessante.
3 Biblioteca delle donne Udipalermo, Alcune considerazioni sulla “buona scuola”, novembre 2014, https://www.sites.google.com/site/bibliotecadelledonne/project-updates/alcuneconsiderazionisullabuonascuola.
4 Cfr. Federico Rampini, Allarme di Lagarde. Sessismo sul lavoro. C’è un complotto contro le donne, 25 febbraio 2015, La Repubblica, http://www.senonoraquando-torino.it/2015/02/25/allarme-di-lagarde-sessismo-sul-lavoro-ce-un-complotto-contro-le-donne/.
5 Oltre a quelli già citati, cito a titolo di puro esempio:
Lea Melandri, https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1640656562836932&id=100006778116561
Rosangela Pesenti, https://www.facebook.com/rosangela.pesenti.9/posts/846052302098982
Lidia Menapace, http://comune-info.net/2015/05/a-me-la-ministra-giannini-fa-paura/
Narrazioni Differenti, http://narrazionidifferenti.altervista.org/contro-la-riforma-della-scuola-ci-riguarda-tutt/.
6 La LIP – Legge di Iniziativa Popolare per la scuola della Repubblica, http://adotta.lipscuola.it/.
7 Si veda, p.es., Palermo, Giannini contestata: la polizia carica gli studenti. Tafferugli davanti all’Istituto Regina Margherita di Palermo dove era atteso il ministro, Corriere Tv, 18/10/2014, http://video.corriere.it/palermo-giannini-contestata-polizia-carica-studenti/c3106b04-56c1-11e4-ad9c-57a7e1c5a779 e Claudia Brunetto, Giannini in un liceo a Palermo. Tafferugli studenti-polizia. Il ministro: “Noi ascoltiamo tutti”, La Repubblica Palermo, 18/10/2014, http://palermo.repubblica.it/cronaca/2014/10/18/news/tafferugli_al_liceo_regina_margherita_contro_il_minsitro_giannini-98407597/.
8 Luisa Muraro, Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, Roma, manifestolibri, 1998.
9 Cfr. Marina Boscaino, “Manuale per una scuola ribelle”: per una formazione aperta e gratuita per tutti, 7 ottobre 2015, Il fatto quotidiano, http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10/07/manuale-per-una-scuola-ribelle-per-una-formazione-aperta-e-gratuita-per-tutti/2103572/; l’articolo mantiene il suo interesse, nonostante alcuni auspici lì espressi siano stati disattesi.
D Donna (supplemento di Repubblica) – 24 febbraio 2007
Pensieri a due
Lea Melandri discute con un uomo sull’origine dell’oppressione sulle donne. Come superare questa situazione? Riflettendo su se stessi. Molti hanno iniziato a farlo.
Nonostante la violenza contro le donne appartenga da sempre alla cronaca quotidiana, e sia da anni ampiamente documentata da rapporti di autorevoli organizzazioni internazionali, come l’Onu, il rapporto tra i sessi stenta in Italia a prendere la rilevanza che merita. Non mancano tuttavia uomini che, singolarmente, in gruppi o associazioni, hanno cominciato a chiedersi che cosa ha significato finora “essere virili”, dove nasce l’aggressività maschile che investe sia la sfera privata che pubblica, e quali costi comporta per l’uomo costruirsi quella maschera di forza, sicurezza e dominio che dovrebbe renderlo ben accetto alla comunità dei suoi simili. L’ho chiesto a Stefano Ciccone, coordinatore del Parco scientifico dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, autore, insieme ad altri, di un “Appello degli uomini contro la violenza”.
Lea
Tu sei uno dei promotori del gruppo MaschilePlurale, che esiste da vari anni e di cui fanno parte uomini di diversa età, cultura, orientamento sessuale. Lo scopo del gruppo è interrogare la maschilità a partire dalla propria esperienza, e vedere se si può cominciare a costruire un maschile diverso. Nel tuo caso, quali sono state le motivazioni più forti che ti hanno spinto a intraprendere questo tipo di riflessione critica?
Stefano
La molla iniziale è stata certamente una spinta etica: di fronte a forme evidenti di violenza, di oppressione, non si può fare a meno di chiedersi quale sia la propria idea di civiltà, di rapporti tra persone diverse e assumersene la responsabilità. Ma il valore, il senso della nostra esperienza è stato proprio nell’andare oltre e scoprire che dietro il “dovere” della denuncia c’era il mio desiderio di libertà nei confronti di un modello maschile imposto socialmente. Altre ragioni vengono dalla mia esperienza familiare: nel non riuscire a trovare negli altri uomini, nel loro modo di essere, di comportarsi, una fonte di senso per me. Ho visto in mia madre un modello di donna molto forte, autorevole, che negava però per questo la sua femminilità, e un uomo, mio padre, che viveva questo in parte come una frustrazione. Si interrompeva una genealogia maschile: veniva da una famiglia contadina abruzzese, lui, il primogenito di dieci figli. E la sua voce che si alzava durante la cena di Natale non era che una parvenza di autorità. D’altra parte, per il mio impegno politico mi sono trovato a rivestire comunque ruoli maschili molto forti: ero il leader della mia classe, quello che parlava in assemblea. Ciò nonostante, ho vissuto una condizione di solitudine fin dalle elementari, rispetto ai comportamenti competitivi tra maschi, e rispetto alle donne, che mi sembrava avessero tra loro una qualità di relazione più autentica.
Lea
In un tuo articolo, uscito sulla rivista Pedagogika (gennaio 2003), parlavi della “miseria” della sessualità maschile, di un disagio dell’uomo nel rapporto con il corpo, e li collegavi in particolare alla marginalità maschile nel processo riproduttivo. Il potere che gli uomini hanno riservato al proprio sesso nella vita pubblica andrebbe così a coprire un vuoto, un senso di precarietà e insicurezza, legati alla vicenda della nascita. Mi chiedo però se, insieme all’invidia per la potenza generativa femminile, a spingere l’uomo a differenziarsi, a esercitare un dominio sulla donna, non sia anche il tentativo di cancellare quella originaria appartenenza intima al corpo materno.
Stefano
Quando parlo della precarietà della virilità, intendo proprio questo: il fatto che mi venga detto che, rimanendo troppo attaccato alle gonne della madre, in un rapporto fusionale con lei, non diventerò mai un uomo, un maschio. Vuol dire che la virilità non è mai fondata sul tuo corpo, ma è qualcosa che devi costruire socialmente, anche negando il tuo corpo, e la corporeità in generale. Questo immiserisce l’esperienza che posso farne.
Lea
Non credi che questo rapporto dell’uomo col proprio corpo non sia legato anche al fatto che esso resta, nell’immaginario maschile, il corpo da cui si nasce e con cui si è stati tutt’uno? L’identificazione della donna con la natura, l’animalità, non può essere anche l’elemento che ha spinto l’uomo a differenziarsi, a pensare di essere “altro” dal corpo?
Stefano
Il corpo femminile non è solo corpo materno, luogo di cura e di accoglienza. Per me è importante scoprire che è anche corpo desiderante. Posso costruirmi come uomo proprio riconoscendo che esiste un altro desiderio. Se quella che ho davanti è una persona, con propri desideri, anch’io sono costretto a guardarmi, a vedere il mio corpo come un territorio che viene esplorato, a entrare in una relazione con l’altra. La paura della fusionalità è certamente uno degli elementi fondamentali del maschile, soprattutto perché è un’esperienza preclusa alla mia umanità. Io non sarò mai il corpo che accoglie, contiene: posso essere solo il corpo che si emancipa da quel legame. Una delle difficoltà che sta nell’esperienza di un uomo è tenere insieme tenerezza e desiderio, intimità e passione. Oltre tutto le due cose spesso si confondono. Ma tenere insieme amicizia, tenerezza, attenzione reciproca e passione erotica non è facile. Questa scissione che gli uomini vivono dentro di sé, che li porta a pensare la sessualità come sfogo lontano dalle relazioni o a non riuscire a vivere il desiderio in una relazione stabile, produce una miseria nella nostra esperienza sessuale, affettiva. Il mio percorso è per me un tentativo di uscire da questa miseria.
Lea
Non c’è dubbio che oggi la crisi del maschile sia in parte dovuta alla maggiore libertà, autonomia e autorevolezza delle donne: per esempio molti omicidi sono legati alla decisione della donna di separarsi. È come se, nel momento in cui la donna non è più a sua disposizione, obbediente e remissiva, l’uomo realizzasse la sua dipendenza, la sua fragilità e incompletezza. Ma mi chiedo se non sia ugualmente intollerabile la posizione di figlio, che si protrae nella vita amorosa adulta, nel momento in cui una moglie, un’amante, si trasforma in madre. Non è questa forse la causa della litigiosità, dell’insoddisfazione, dei tradimenti che attraversano la vita coniugale?
Stefano
Soprattutto favorisce la tendenza a dimenticarci di noi come uomini. La ricerca di una donna che diventa tua madre, che si prende cura di te, è legata al tuo modo di proiettarti nel mondo, far carriera, far politica, scrivere, e quindi dimenticare la cura di te stesso, dal momento che la deleghi a un altro, a qualcuno che ti laverà, stirerà le camicie. Gli uomini si pensano liberi, finché non scoprono questa dipendenza. Ma è vero che c’è anche l’insopportabilità per una donna che ti abbandona, che non significa solo perdere la persona che ti lava le camicie, e neanche solo una relazione. È un’esperienza che incrina la tua identità, la tua autorevolezza. Andare al bar del paese e dire che tua moglie ti ha lasciato, ti fa diventare un mezzo uomo, intacca la tua dimensione sociale. Io sono colpito dal fatto che tutti i fenomeni legati alla dipendenza siano molto maschili. Penso all’alcolismo, alla droga. Ho visto, in tanti casi anche a me vicini, la fragilità tramutarsi in arroganza verso la persona da cui dipendi e contro cui puoi far tutto: insultarla, trattarla male. Quella violenza, che ha una parvenza di forza, è paradossalmente la misura della tua dipendenza, come con la propria madre.
Lea
La crisi del maschile ha avuto, nel corso della storia, per esempio all’inizio del ‘900, anche dei riflessi tragici sul piano della vita sociale: trionfo di una virilità guerriera, bisogno di appartenenza a una collettività maschile coesa, come la razza, la nazione, l’esercito, richiesta di ordine e dell’autorità di un capo, contrapposizione di una civiltà all’altra. Non ti sembra che oggi stia succedendo qualcosa di simile? Stefano
Assolutamente sì. Penso che questa sia una chiave per capire quanto i diversi nazionalismi e integralismi, anziché essere tra loro irriducibili, siano in realtà declinazioni diverse di una stessa matrice patriarcale, maschile. Tu prima parlavi della unione originaria col corpo materno. Nella mia esperienza, diversa da chi è andato in trincea durante la Prima guerra mondiale, ho comunque vissuto l’attrazione del potersi fondere col corpo degli altri maschi, un corpo collettivo di simili. Ricordo l’esperienza, che facevo alle elementari, di uscire da scuola e gettarmi nel mucchio dei compagni, dove si perdono i propri confini e ci si sente forti di qualcosa a cui hai affidato la tua identità. Se questo è vero, allora non ha senso dire che questi fenomeni non ci riguardano, che sono cascami del passato, retaggio di culture arcaiche.
Lea
Virginia Woolf, che pure ha criticato a fondo e con tanta lucidità il dominio di un sesso sull’altro, ha riconosciuto anche quanto sia fastidioso “pensare un sesso indipendentemente dall’altro”, quanto questa consapevolezza ormai inevitabile interrompa un bisogno di armonia, quello che io chiamo il “sogno d’amore”, o come dice la Woolf, il “matrimonio dei contrari”. Se l’attrazione reciproca, la seduzione, sono così legate alle figure complementari del maschile e del femminile, che fine fa l’amore quando lo si guarda con tale disincanto? Agli uomini che si interrogano sulla loro identità sessuale succede, come a molte donne che oggi hanno più coscienza di sé, più autonomia da modelli tradizionali, di essere sentimentalmente soli? Stefano
A me è successo spesso di non riuscire a costruire relazioni, o di vivere relazioni che entravano in crisi perché tendevo a fare confusione tra il linguaggio dell’intimità e quello dell’amore, dell’erotismo. Per me, come per molti uomini, è difficile tenere insieme l’immaginario su cui si costruisce il desiderio e i rapporti che vivo. Mi può capitare di vivere come contraddittorie le fantasie per cui mi piace una particolare donna, che può corrispondere allo stereotipo della donna bella, e che in quel modo di essere bella evoca l'”essere oggetto”, la mancanza di autorevolezza. La pressione degli stereotipi, maschili e femminili, è fortissima. L’omofobia è prima di tutto un avvertimento del baratro in cui come uomo puoi precipitare, se non ti attieni a certi canoni. Molti ci dicono: “Voi siete quelli che hanno scoperto la loro parte femminile”, come se esistesse un’essenza femminile, che è la cura, la sensibilità, e una maschile, che è la forza, la disciplina, il coraggio. Non condivido questa logica, ma ritengo altrettanto illusorio pensarsi come individui astratti, senza un corpo, una storia legata all’identità di generi precostituiti. Nel mio immaginario io sento ancora una forte subalternità a modelli acquisiti, e quindi il bisogno di uno scavo dentro di sé, nelle formazioni inconsce. Il percorso che faccio con gli altri uomini si basa proprio su questo scavo comune, su questo sguardo reciproco.
In scena a Ferrara la compagnia burkinabè Salia Nï Seydou
FRANCESCA PEDRONI
FERRARA
È un fenomeno in crescita la danza contemporanea africana. I suoi esponenti vengono dal Senegal, dal Magadascar, dal Burkina Faso, dalla Costa d’Avorio, dal Sudafrica. Coreografi e interpreti il cui corpo è memoria ancestrale di tradizioni che però si rinnovano nell’incontro con la scrittura coreografica occidentale e con problematiche attuali come la globalizzazione, il dialogo tra etnie, culture e religioni, il dolore, purtroppo inarrestabile, per le devastazioni della guerra. Sono gruppi portavoce di una danza combattiva, intimamente allergica all’enfasi della tecnica fine a se stessa. Non è un caso che siano stati fondati negli anni `90 concorsi come le Rencontres Chorégraphique de l’Afrique et de l’Ocean Indien, grazie ai quali esplorare questa nuova linfa creativa, né che rassegne come la Biennale di Lione, il festival di Montpellier, o in Italia, a Torino, il Festival Afro dei tenaci Katina e Bruno Genero, abbiano dedicato edizioni intere a questo tipo di danza.
Bene ha fatto perciò il teatro Comunale di Ferrara ad ospitare due repliche di Weeleni, l’appel, quarta creazione della Compagnia Salia Nï Seydou. Il gruppo è stato fondato nel 1995 da Salia Sanou e Seydou Boro, danzatori entrambi originari del Burkina Faso, con alle spalle alcuni anni nella compagnia francese di Mathilde Monnier. Curioso il percorso. Monnier nel `92 va in Burkina per «rinnovare» il proprio linguaggio coreografico. Sanou e Boro la seguono in Francia. Dopo tre anni fondano il loro gruppo in Burkina Faso, dove ora tentano di dare vita a un Centro Coreografico.
Weeleni, l’appel è uno spettacolo potente. Nasce da tre assoli, riuniti poi nella stessa creazione. È «appello» alla consapevolezza. La scena, vuota al centro e circondata da una semplice struttura di ferro con appesi grandi pannelli colorati, ospita oltre ai danzatori – Sanou, Boro e Ousséni Sako – i quattro musicisti: dal Burkina Faso Saïdou Khanzaï (chitarra), Ibrahim Boro (chitarra), Dramane Diabaté (percussioni, djembé), dal Marocco Youssef El Mejjad (tastiere e canto). Apre Sanou: il suo assolo, Gestes, è un canto sulla fatica, sul dolore antico della schiavitù, danzato con la schiena al pubblico. Un dorso dalla muscolatura parlante in ogni fibra, dolente nel graffio impulsivo di una danza che comincia a terra per poi possedere, nel lavoro, lo spazio. Waati, di Sako, è un assolo sul «tempo», sullo stare nel mondo, sulle scelte possibili e non, nel quale una danza piena di scatti e ralenti ci racconta il dialogo tra il corpo e l’avvolgente scorrere del tempo della natura. Masculin-feminin di Boro è l’incontro uomo-donna, il pianto delle madri, la sensualità, l’attesa e la preghiera. I tre danzano soli e insieme, in un momento anche con i musicisti (struggente la composizione), in una diversità nell’uguaglianza che appella alla salvaguardia dell’identità nell’incontro. Un appello «politico», capito e salutato con partecipazione dal pubblico.