di Silvia Motta

Nella riunione del 20 gennaio sono emerse due proposte differenti, ma interconnesse/non separabili.

La prima proposta, già operativa:

Rintracciare quelli che a ognuna di noi sono sembrati nodi/contenuti centrali/parole-chiave degli incontri dell’Agorà con lo scopo di:

– mettere in comune i contenuti/nodi/riflessioni che ognuna di noi ritiene interessanti o più importanti

– discuterne insieme e ragionarci sopra per arrivare a un testo possibilmente divulgativo   e efficace sul piano della comunicazione (da pensare con maggior cognizione di causa dopo aver fatto la prima parte del lavoro).

Operativamente: ci siamo date il compito di rileggere individualmente i resoconti che sono sul blog (tutti quelli che erano stati fatti) e segnarci/sottolineare e/o trascrivere i contenuti che desideriamo valorizzare.

Poi ci troviamo a mettere in comune questo lavoro in un ‘incontro lungo’ da tenere sempre alla Libreria delle donne, che sarà:

domenica 22 febbraio dalle h. 10.00

La seconda proposta

Mettere in campo un’iniziativa pubblica cittadina sul tema del lavoro professionale gratuito, a partire dagli scambi interessanti che si erano già avviati nell’incontro di prima di Natale. Per il momento non abbiamo messo in campo un lavoro specifico su questo punto anche per questioni di tempo/disponibilità. Ne riparleremo quando ci vediamo.

Silvia Motta

Report: la discussione con Ina Praetorius
Agorà del Lavoro di Milano, 27 gennaio 2014
a cura di Giordana Masotto

Questa è la discussione che è seguita all’introduzione di Silvia Motta e all’intervento di Ina Praetorius, a cui è già stata data circolazione. Nel testo che segue in carattere corsivo sono riportate le domande/osservazioni, in tondo tutte le risposte di Ina. Una osservazione preliminare: parlando in tedesco Ina usa il termine inglese care. Questa scelta inizialmente sfugge alle presenti ma diventa significativa e spiegata nel corso della discussione.

La parola cura è da riferire esclusivamente alla realtà femminile, alla nascita e all’essere umano nei primi anni di vita, oppure è un filtro attraverso cui giudicare qualsiasi tipo di realtà terrestre, nel bene e nel male?
Il concetto di cura si è sviluppato sempre di più in questi ultimi anni. Prima si parlava di etica della cura e da vent’anni anche di economia della cura. È ovvio che quello dei bambini piccoli è il paradigma del concetto di cura perché chi lo riceve è veramente dipendente. Ci sono due idee di cura. Uno è il nocciolo, quella indispensabile che non si basa sulla reciprocità, per esempio verso bambini, vecchi, malati con demenza senile. Poi c’è la cura che ha dentro la reciprocità, essere responsabile nei confronti di adulti, genitori, conviventi, ma sempre c’è un bisogno di cura. Un concetto ancora più ampio di cura è una postura nei confronti del mondo, il senso di responsabilità, e qui entriamo nell’ecologia, responsabilità nei confronti del mondo e dell’ambiente.

La tua idea di cura legata alla nascita implica una restituzione dovuta al fatto che si è cresciuti, quindi una cura che fa crescere. Anche nell’economia si parla di crescita, sempre con la paura che non ci sia. Tu hai un’idea diversa di crescita, perché se è restituzione di ciò che si è ricevuto non dovrebbe essere pagata. Ne deriva una impostazione diversa anche della politica. (Laura Minguzzi)
È giusto, ci sono due concetti di crescita. La crescita economica non è la stessa cosa della crescita umana e anche della natura, piante e animali. La crescita economica deve andare sempre in salita mentre nella crescita umana e in natura prima si cresce poi ci si ferma e non si cresce più. È chiaro che non sono la stessa cosa. Potremmo dire che la crescita economica, come è concepita oggi, è una crescita tumorale, non è naturale. Potrei dire tante altre cose su questa punto.

Mi affascina l’idea di una battaglia politica che possa portare il femminismo postpatriarcale nella battaglia del reddito di base. L’impostazione che ne dai mi convince molto. Ma c’è un punto che mi sta veramente sullo stomaco: negli ultimi anni il divario tra ricchi è poveri è cresciuto a dismisura, come mai nel passato. Questa battaglia può incidere su questa punto? Il concetto di “incondizionato” che conseguenze ha? (Vita Cosentino)
Per quanto riguarda il divario tra ricchi e poveri, a Davos è venuta fuori una cosa terribile: 85 individui possiedono la stessa cifra della metà più povera della popolazione mondiale. La questione della redistribuzione è motivo di conflitto anche nello stesso comitato svizzero per il reddito di base (che è formato da 8 persone, 5 uomini e tre donne). Ci sono due posizioni: alcuni dicono che la redistribuzione è proprio lo scopo del reddito di cittadinanza; invece altri, i neoliberisti, dicono che dovrebbe servire a distribuire più soldi tra i più poveri, ma quello che fanno i ricchi non li interessa. Per me anche questo è stato un motivo per lasciare il comitato.

Nel 2013 c’è stata in Svizzera un’altra iniziativa che voleva mettere un limite al divario tra stipendio dei manager e salari più bassi. Che cosa ne pensa?
Non è passata purtroppo. L’obiettivo era: all’interno della stessa azienda il salario di base non può essere inferiore a 1/12 di quello che guadagna un top manager. Oggi ci sono aziende in cui quel rapporto è 1/180. In Svizzera, dove abbiamo la democrazia diretta, ci sono molte iniziative, alcune populiste, altre radicali. Recentemente ne è passata una che non è male: gli azionisti possono determinare lo stipendio dei manager. Tutte queste iniziative sono molto interessanti, adesso per esempio ce ne sarà un’altra per il salario minimo. Ma il mio impegno personale per un reddito di base incondizionato è determinato dal fatto che a me interessa ridefinire il lavoro, che venga preso in considerazione quel 50% di lavoro non pagato.

A me piace la definizione di cura come postura/paradigma di responsabilità nei confronti del mondo. Aggiungerei solo, “responsabilità collettiva di donne e di uomini” anche perché le donne sono sempre state considerate una risorsa di salvezza per il mondo. Mi piace meno il paradigma domestico, la figura di Penelope e il legare la cura alla nascita, non perché non sia indicativo del bisogno degli umani ma perché evoca immediatamente la figura del materno. La cura porta il peso di una storia che l’ha considerata attitudine naturale delle donne, destino, ruolo. Io penso che non si possa spostare la cura dal privato al pubblico senza metterla in discussione profondamente. Il rischio altrimenti è di portare nella sfera pubblica una logica del materno, un tratto femminile che non va a mettere in discussione radicalmente l’organizzazione del lavoro. Importante mettere in discussione entrambi i paradigmi quello femminile e quello maschile. Altrimenti sembra che si possa semplicemete dare un segno diverso alle doti femminili tradizionali. Anche Penelope, per quanto ripensata, resta una figura molto pesante nella storia delle donne: figura dell’attesa, della fedeltà, della ripetizione del domestico. (Lea Melandri)
Quello che mi sta a cuore è il paradigma del nutrimento: il lavoro deve nutrire ciò che nutre. Abbiamo ricevuto tante cose in dono: dunque per me il criterio per un buon lavoro è che ogni lavoro deve essere un lavoro di cura. Non importa se produco una macchina o se coltivo un giardino o curo un bambino, tutto deve essere un lavoro di cura. Voglio aggiungere una cosa. Adesso abbiamo questo papa nuovo, papa Francesco che si esprime in modo sempre molto critico verso il capitalismo per cui è molto applaudito da molti uomini e anche da molte donne. Ma se guardiamo come lui vede le donne c’è da stare attente. Se leggiamo bene quello che dice il papa vediamo che esiste sempre questo sdoppiamento: una sfera alta dove ci sono gli uomini e i cattivi capitalisti e una sfera inferiore in cui ci sono le donne che stanno in casa e si occupano di cura. Però in Germania, non in Svizzera, nella chiesa protestante, l’anno scorso in luglio è stata pubblicata una enciclica che riprende le idee che avevo formulato io: che ogni lavoro deve essere un lavoro di cura. Il comitato che ha scritto l’enciclica è composto prevalentemente da donne. A proposito di questa argomento è nata una controversia. In un recente convegno femminista a cui ho partecipato, una intervenuta diceva: è imbarazzante, ma le cose più buone oggi su questi argomenti vengono dette nella chiesa protestante tedesca. Attualmente c’è una specie di scissione nella chiesa protestante tedesca a causa dello scritto che ho appena citato. I conservatori dicono che questo non è più un testo cristiano. Ciò è significativo: è da interpretare come fine del patriarcato.

Vorrei che chiarissi meglio il concetto di cura, dal momento che lo applichi non solo all’oikos ma anche alla produzione delle macchine. Lavoro di cura o lavoro accurato?
È una domanda importante, una questione aperta, di cui mi piacerebbe discutere. A me piacerebbe che il concetto di cura si potesse applicare a qualsiasi settore della produzione, un grattacielo, una macchina… vorrei discutere su che tipo di produzione ci sarebbe se si potesse applicare il concetto di cura. Non “in modo accurato” ma secondo il concetto di care, che è una postura nei confronti del mondo.

L’aspetto più radicale del tuo concetto di cura credo sia l’atteggiamento responsabile verso l’ambiente e verso il mondo. Se è questa il fuoco, è abbastanza facile cogliere la portata rivoluzionaria di questa concetto e come lo si possa portare fuori dall’ambiente domestico. Noi in un circolo femminista avevamo detto che noi donne abbiamo imparato una razionalità molteplice crescendo i figli. (Sandra Bonfiglioli)
Voglio tornare all’inizio del mio discorso. Abbiamo ricevuto tanti doni da piccoli e poi in continuazione: infatti tutto, anche un cellulare, viene prodotto con materie prime che sono doni, anche se tutto oggi viene commercializzato. La base di tutto sono le materie prime che la terra ci dona. Io sono nutrita e sono grata per tutto quello che ricevo. La domanda è: cosa comporta questa idea di gratitudine se la rapportiamo anche alla produzione industriale?

Questi discorsi circolano anche nei movimenti di economia alternativa/solidale che dicono: è necessaria una riconversione ecologica della produzione. Quello che a me fa problema è riuscire a valorizzare le donne come soggetto politico. Come le donne ri-significano le battaglie politiche, i contesti in cui si trovano ad agire. Quello che mi piace e mi interessa della posizione di Ina è che lei si è messa nel comitato per il reddito di base per ribaltarne il senso politico. Questa è la priorità: quale senso dai al tuo agire là dove ti trovi a muoverti. Non basta avere una perfetta costruzione teorica. Le donne spesso vengono cancellate come soggetti. Per esempio è il caso delle donne che in Italia lottano per il reddito di base: vogliono connotare quel discorso, ma si trovano cancellate, riassorbite nel discorso che dice il reddito è necessario e giusto perché tutta la nostra vita è mercificata, (la famosa sussunzione). Ina ribalta quella battaglia e le dà un altro senso, mettendo al centro le donne.
Ma da questa punto di vista bisogna riuscire a dare la stessa visibilità a donne che si trovano a fare le loro battaglie sul posto di lavoro. Lotte per il tempo, per il senso, più libertà, esperienze della cura dentro il lavoro. Bisogna dare visibilità alle donne là dove sono e significare diversamente molte battaglie, non solo quella del reddito. (Giordana Masotto)
Per me è stato in questi ultimi due anni di attività che ho potuto far agire la teoria accumulata negli ultimi 30 anni: anche grazie alle cose capite qui in Italia, ho scoperto che la teoria è abbastanza solida da poter essere portata dappertutto, nei sindacati, nella chiesa, dappertutto. Quando porto questa politica, anche nel comitato, ci sono sempre delle reazioni sorprendenti: quando ho detto siamo tutti dipendenti dalla cura, gli uomini del comitato sono rimasti lì abbastanza esterefatti. Trovo molto interessante vedere le reazioni degli uomini e delle donne a questa impostazione politica.

C’è qualcosa che non mi torna nella cura come dono incondizionato legato alla nascita. Non ho figli ma sono figlia e so bene che la cura non è incondizionata, per natura, ma molto condizionata da una presenza che è di desiderio attivo, una relazione che mi nutre e mi dà senso della vita. Dono incondizionato mi pare che sia un po’ cancellare la presenza forte delle donne e del loro desiderio. Si perde il soggetto politico. (Loretta Borrelli)
C’è un aspetto di incondizionato perché il bambino se non riceve la cura muore. Così come tutti abbiamo bisogno dell’ossigeno per vivere.

Io non sono per niente sicura che il nutrito provi gratitudine, anzi al contrario. Anche nei bambini porta a dare queste cose per scontate e comunque non li porta a rifarle a loro volta. Comunque quello che mi interessa capire è che cosa muove il piacere di curare, di essere responsabili. Io credo che la strada sia un’altra: sono l’esercizio di rispetto dell’uguaglianza, le pratiche di reciprocità e di condivisione che aiutano a riconoscere il bello, gli altri, quello che si riceve. (Antonella Nappi)
Sono d’accordo con te che l’atteggiamento di gratitudine non viene spontaneo dopo duemila anni che il patriarcato ci ha così indottrinati. Tanto è vero che Antje Schrupp dice che dobbiamo imparare a percepire noi stessi come un dono. Non mi sono fatta da sola, ho ricevuto un dono.

Da tutte le cose dette mi pare che venga fuori un’idea di debito: abbiamo ricevuto quindi siamo in debito, dobbiamo restituire. Mentre nelle lotte che si fanno classicamente pensiamo di avere un credito: nel lavoro, ma anche nell’essere nati perché abbiamo ricevuto un dono ma non l’abbiamo chiesto. È l’idea di credito che c’è nelle lotte sul lavoro. Nella richiesta di reddito incondizionato io non sento misura. Qual è la misura del debito? Ci deve essere una misura. (Rosaria Guacci)
Sono d’accordo con Ina sulla critica al mercato e a questa economia monetaria, ma ci vuole comunque una misura femminile. Questo dono incondizionato e questa incondizionata restituzione non sono comunque una misura. C’è una visione, ma manca una misura a cui dobbiamo arrivare. Al posto dei soldi che cosa ci si mette in questa economia così ribaltata? Credo che nella relazione, come diceva Loretta, nello scambio tra le persone si possa trovare una misura. (Lia Cigarini)
C’è da dire che il reddito di base incondizionato non abolisce lo stipendio. Vivendo in una economia monetaria, nessuno può vivere senza soldi. Il reddito di base incondizionato dice che tutti devono avere una certa quantità minima di soldi (1000 euro, 2500 franchi). Oltre a questa, continua a esserci lo stipendio. Non stiamo parlando di un salto qualitativo enorme come passare a un’economia non monetaria. In Svizzera abbiamo già il salario minimo garantito, un sussidio statale per tutti coloro che non hanno mezzi. Questo sussidio è condizionato perché tu devi provare in continuazione che sei bisognoso. E vieni controllato. Il passaggio quindi sarebbe dal condizionato all’incondizionato. Quindi la misura, in una società basata sui soldi, è la sopravvivenza. Tutto quello che va oltre, entra nel mercato dello stipendio.

Ringrazio Ina, sono contenta che sia qui e sono d’accordo al 99% con le sue idee Ma, come dicevano anche Giordana e Lea, come portare dentro le aziende questa idea della cura e della compatibilità della cura? Mi chiedevo se non bisognerebbe trovare una iniziativa legislativa anche sulla riduzione di orario. (Maria Benvenuti)
La riduzione dell’orario di lavoro è un modello interessante ma non implica un cambiamento culturale profondo che è quello che io vorrei. Perché con la riduzione dell’orario, il lavoro di cura può restare alle donne, non c’è nessuna garanzia che cambi qualcosa. Noi abbiamo bisogno di un cambio culturale profondo. E sottolineo che non si tratta di una questione morale. Se parlo di gratitudine, potrebbe sembrare una questione morale. È questione ontologica: chi sono io come essere umano, come essere relazionale? Questo mi interessa.

Se non ci fossero i soldi, quello che bisognerebbe garantire sono i servizi, le attività che garantiscono la sopravvivenza. Il presupposto è che esiste una comunità umana di cui facciamo parte e che è obbligo/dovere/responsabilità di questa comunità garantire la vita di tutti. Questo diritto alla vita è riconosciuto in tutte le Costituzioni. Tutta la comunità deve essere orientata a questo diritto. Ma questo obiettivo dovrebbe essere garantito anche da un’economia di mercato, che si basa sui soldi. (Alfonso)
È un fatto che l’umanità ha funzionato per tanto tempo senza soldi, ma non ha mai funzionato senza aria e senza acqua. Questo è un fatto. Ma il capitalismo e il patriarcato hanno fatto sì che i soldi, che all’inizio erano un mezzo di base per garantire la sopravvivenza, oggi non la garantiscano più, lo vediamo dalle cifre che indicano la distribuzione della ricchezza. La sinistra propone la ridistribuzione della ricchezza attraverso la piena occupazione: tutti devono lavorare per avere i soldi. Poi c’è la posizione di chi dice che anche il lavoro di cura va pagato, cioè propone la professionalizzazione del lavoro di cura. Io sono assolutamente contraria perché il lavoro di cura per un neonato che altrimenti morirebbe non è traducibile in un lavoro pagato. Chi fa il lavoro di cura è molto più ricattabile di chi fa il lavoro industriale: quest’ultimo può smettere di lavorare, fare sciopero, ma se interrompi il lavoro di cura l’altro muore. Le donne fanno questo lavoro da migliaia di anni senza incentivi economici: questo ci dice che, se il lavoro ha senso, non ci vuole un incentivo economico per farlo. (applausi)

Io vorrei spostare l’attenzione su un punto che mi ha particolarmente interessato: la possibilità di avere una scelta. Il mercato ci dice: non c’è scelta. Invece (con un reddito di base) io posso scegliere, ho i mezzi di sopravvivenza e quindi posso avere un diverso orientamento rispetto a quello che per esempio mi imporrebbe un lavoro non necessario o un lavoro nocivo. Mi è tornato in mette un lavoro che ho fatto con la camera del lavoro di Brescia. Lì ci sono molte fabbriche di armi. Quando si discuteva con i delegati sindacali del problema di immettere forza lavoro in fabbriche che producono strumenti di distruzione, l’obiezione era che tuttavia quel lavoro era necessario alla sopravvivenza. Io penso che il reddito incondizionato possa spostare dalla necessità alla scelta. Possa metterci nella posizione di mettere in scacco un capitalismo che ci dice: non c’è alternativa. Mettere cura nel lavoro vuol dire questo: fare un lavoro che ha senso per noi e per la collettività perché non implica distruzione e coercizione. (Maria Grazia Campari)
Sulla questione della scelta, nel comitato siamo tutti d’accordo. Il reddito di base incondizionato ci mette nella posizione di non avere più nessuna scusa per appoggiare il capitalismo, per produrre cose insensate, ma possiamo fare solo lavori che ci sembrano sensati. Questa è una posizione rivoluzionaria.

Io mi riconosco molto nella posizione enunciata da Ina, infatti insieme ad altre avevamo fatto un testo che iniziava: Primum vivere anche nella crisi. Mi riconosco in questo sguardo, postura. Sono anche d’accordo che le donne hanno maggiormente questa capacità di passare dalla necessità alla libertà, cioè di non puntare a una libertà slegata dalla necessità, perché sanno che si nasce e si muore dipendenti. Il punto che a me fa problema è il nome cura, lavoro di cura, dato a pratiche di relazione che le donne hanno inventato. Nominerei tutto questo relazione, proprio perché la relazione, anche quella della pratica politica, dà una misura: è in gioco nutrimento, restituzione, ma tutto ciò viene misurato nella relazione. Il nome cura, ha ragione Lea, ha una storia pesante. Mentre la relazione le donne l’hanno trasportata nella pratica politica. Se ci deve essere un apporto simbolico, un cambiamento culturale, diciamo relazione. (Lia Cigarini)
Anche la parola tedesca cura ha questo peso che voi sentite per la parola italiana. Infatti noi usiamo il termine inglese care, un anglicismo che è privo di connotazioni. Sono interessata a un dibattito sulle parole, ma il termine relazione non copre tutto quello che io voglio dire. Nel libretto che abbiamo scritto ABC des gutes Lebens, ABC della buona vita, abbiamo usato due diverse parole dipendenza e relazione, abbiamo voluto usarle entrambe. È importante parlare di libertà nella dipendenza, senza separare.

A me è sembrato molto interessante il rapporto tra lavoro di cura o di relazione o di dipendenza e il reddito di base. Perché possiamo significare politicamente con una misura economica il peso storico del femminile. Mi sembra interessante l’effetto trascinante che può avere sugli uomini. È interessante questa forzatura o questa mediazione da portare all’interno di un istituto maschile economicamente connotato, all’interno della sinistra. Gli uomini possono più facilmente portare la cura nel loro lavoro. (Lola Santos)
In effetti è molto importante: questa cosa può trascinare gli uomini. Nei dibattiti, nelle discussioni durante la raccolta di firme, erano molto sorpresi, alcuni esprimevano forti resistenze. Io dicevo: “ma tu saresti sopravvissuto se tua madre non ti avesse dato da mangiare?” “ma tu sai quanti doni hai ricevuto?” “sai quante mani invisibili reggono l’economia?”. C’è molto sconcerto e resistenze. Ma poi ci pensano su e credo che ci sarà un processo di cambiamento.

Volevo ripartire da un concetto che diceva Ina: quando il lavoro ha un senso l’incentivo monetario non serve. Nel mio lavoro che cosa fa ordine quando non è la misura del denaro che ti muove? Ho verificato più volte (racconta alcuni esempi della sua situazione di lavoro) che è il riconoscimento che fa mettere energia e passione nel lavoro. (Sara Gandini)
Questo risulta anche da ricerche: non è vero che la motivazione economica è sempre quella prevalente. Le persone prendono anche meno soldi se il loro lavoro ha senso.

Voglio tornare sulla questione delle parole: perché usare la parola inglese care, quindi non una parola della propria lingua madre? Qui mi pare che ci sia un nodo irrisolto. (Vera Spirolazzi)
Sono molto interessata alla questione di trovare una dimensione di cura nell’ambito del proprio lavoro. Il poter scegliere a cui faceva riferimento Maria Grazia potrebbe in effetti dare un senso al reddito incondizionato. Quanto all’uso delle parole, nell’ambito in cui lavoravo io, si diceva “attenzione” per esprimere questa qualità nel lavoro con le persone. (Elena Medi)
Noi siamo in una società capitalistica in cui il tempo di lavoro è stato ridotto a orario, l’orario è misurabile e quella misura può essere una ragione di scambio. Questo è il lavoro in cui viviamo ancora, benché in declino. La tua teoria si basa su un criterio universale che noi donne riconosciamo subito: il dono. Ci riconosco molto del mio percorso. Ma rimane aperta la questione della misura. Senza misura siamo in mano a rapporti di forza che non riusciremo a controllare. Forse è quello che cercava anche Maria parlando di riduzione di orario di lavoro. Dobbiamo osservare le pratiche e approfondire a partire dalla tua teoria. (Sandra Bonfiglioli)
La questione della misura: io penso che la misura stia nella contrattazione. Che mette insieme due soggetti che hanno bisogno l’uno dell’altro, ma irriducibili l’uno all’altro. C’è contrattazione nei luoghi di lavoro, nelle relazioni personali, politiche. (Giordana Masotto)
La contrattazione è un aspetto fondamentale e il reddito di base ci mette in condizione di contrattare. La misura la troviamo man mano che cominciamo a contrattare e contrattando troviamo che cos’è un lavoro utile, sensato, importante. Ma vi ringrazio molto di aver posto questa questione della misura e la porterò a casa.

(Dalla registrazione dell’incontro con la traduzione simultanea di Traudel Sattler)

Il reddito di base incondizionato come progetto postpatriarcale, di Ina Praetorius

Intervento all’Agorà del lavoro di Milano, 27 gennaio 2014

Per quanto ne sappiamo, finora tutti gli esseri umani sono venuti al mondo come poppanti: dal corpo di un essere umano di sesso femminile della generazione precedente. I “nuovi arrivati” possono sopravvivere solo se qualcuno/a dà loro ciò di cui hanno bisogno. Di che cosa hanno bisogno? Di protezione, di cibo, vestiti, calore, amore, stimoli, sonno, tranquillità, regole, lingua, morale e di molte altre cose. Tutto questo i nuovi nati lo ricevono come dono, perché non sono in grado di pagarlo.

Se cominciamo a ripensare l’economia a partire da questo fondamento – difficilmente contestabile – della conditio humana, allora molte cose cambiano. Perché oggi, nel tempo del fine patriarcato, viviamo ancora con un ordine simbolico che mette al centro il maschio adulto oppure uno pseudo-neutro da lui derivato: il soggetto economico “libero”, colui che partecipa al mercato, il cittadino ecc. Nella stessa logica l’economia viene sì definita come azione collettiva, basata sulla divisione del lavoro per soddisfare i bisogni umani, ma di fatto si comincia a parlare di economia a partire dai soldi, dal mercato, dallo stato e dall’età adulta, tacendo così almeno la metà delle misure atte a soddisfare i bisogni: infatti il lavoro di cura indispensabile, finora in larga misura gratuito, è il settore maggiore dell’economia, come è stato dimostrato. In Svizzera è entrato da qualche anno nella statistica ufficiale; solo che i media e la ricerca mainstream finora non ne hanno davvero preso atto. Anche se una grande parte della società continua a rifiutarsi di guardare tutta l’economia, è giusto dire che solo chi ha una visione d’insieme – che comprende cura di base, lavoro volontario, mercato e forse altro ancora – e solo chi vede il nostro agire economico inserito nel cosmo vulnerabile che continua ad elargire doni, può affrontare le varie crisi del nostro tempo in modo adeguato e sviluppare delle soluzioni durevoli.

2400 anni di Self Made Man (l’uomo che si è fatto da sé)

Dal 21 aprile 2012 fino ai primi di marzo 2013 ero impegnata a raccogliere firme per l’“iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato”. In quell’occasione, nelle strade e piazze svizzere, ho sentito dire tante volte: “La mia vita me la sono guadagnata da solo!”

Che cosa vogliono dire i numerosi ex poppanti con questa frase?

Loro pensano che, dopo aver ricevuto gratuitamente per anni da qualcun altro tutto il necessario, alla fine hanno fatto degli sforzi per guadagnare soldi: per esempio hanno fatto la scuola, si sono dati una formazione, hanno trovato un posto di lavoro oppure hanno “fatto carriera” . Queste fatiche pluriennali meritano, senza dubbio, un certo riconoscimento. Posso persino capire che alcune persone che sentono di “mantenere con le loro fatiche” se stessi e forse anche una famiglia, non se la sentano spontaneamente di dare una parte del loro denaro a coloro che si impegnano meno.

Questa affermazione “guadagnarsi la vita con le proprie forze” è abbastanza corrente e stranamente poco messa in dubbio. È il riflesso fedele della visione semplicistica dell’economia, con la quale conviviamo dalla fine del ‘700 circa. Il liberalismo economico moderno, a sua volta – così come molte parti della teoria socialista – si basa su una visione sdoppiata del mondo che troviamo già nel quarto sec. A. C., ad esempio nell’autorevole Politica di Aristotele: Il filosofo sostiene che l’uomo che secondo la sua natura non appartiene a se stesso ma ad un altro è per natura uno schiavo, e anche il rapporto tra maschile e femminile sarebbe per natura così: uno è meglio, l’altra inferiore, uno governa, l’altra viene governata. Sempre secondo il filosofo, la gestione della casa è una monarchia – perché ogni casa viene governata da un’unica persona – la politica al contrario consiste nel governare uomini liberi e uguali tra loro.

Esiste quindi una continuità strutturale tra la società schiavista dell’antichità, che molti ancora oggi chiamano affettuosamente “la culla della civiltà occidentale” – e la nostra vita collettiva di oggi. Ma si comincia a vedere che “la mano invisibile del mercato”, buona erede del “Dio padre” patriarcale, in realtà sono innumerevoli mani, soprattutto femminili, che lavorano. Ora quelle mani cominciano a diventare visibili, e ciò crea degli spostamenti, delle crisi – ed enormi spazi d’azione.

Si potrebbe ricominciare a riflettere …

Il dibattito sul reddito di base incondizionato sarebbe, ad esempio, una possibilità straordinaria per pensare noi stessi come esseri umani in modo del tutto nuovo – o forse antico: liberi nella dipendenza. Esseri umani che hanno ricevuto molti doni, in continuazione, all’inizio della vita e anche in età adulta, e che “si sono guadagnati da soli” solo una piccola parte della loro vita. La politologa Antje Schrupp spiega il necessario cambio di paradigma dicendo:

“La realizzazione dell’idea del reddito di base richiede un profondo ripensamento culturale, con due aspetti che non si possono guardare separatamente: da una parte l’idea che è normale ricevere qualcosa senza prestazione in cambio, dall’altra parte l’idea che le persone si sentono responsabili del loro ambiente e che fanno il necessario, anche senza essere costrette o remunerate.”

Se si affrontasse il dibattito alla luce dell’intera economia, invece di quella basata esclusivamente sul denaro, allora si vedrebbe che il reddito di base non è solo una questione di più libertà, come continuano a sottolineare molti dei protagonisti maschili di questo movimento, ma che si tratta piuttosto di organizzare le attività necessarie in modo nuovo. Finora si è parlato molto di libertà e poco di dipendenza e necessità – e solo raramente si dice che le donne già da molto tempo si stanno facendo carico della maggior parte della attività necessarie, senza quegli “incentivi economici”, da molti ritenuti indispensabili.

… e spesso si lascia perdere

A questo proposito vorrei citare l’esempio della polemica nata attorno alla trasmissione-dibattito “Arena” alla televisione svizzera del 27 aprile 2012, dedicata alla discussione sul reddito di base. In quella trasmissione si confrontavano quattro uomini, due favorevoli e due contrari. La trasmissione durava 75 minuti. Gli uomini presenti ne hanno occupato 72 per i loro interventi, le donne tre. Dopo 10 minuti viene inserito un grafico per illustrare il progetto reddito di base: una sagoma maschile, accompagnata dal commento

“Uno che guadagna 10.000 franchi, nel nuovo sistema riceve un reddito di base di 2.500 franchi e uno stipendio di 7.500.”

Poi appare una sagoma femminile, accompagnata dal testo:

“Chi non lavora riceve, senza fare niente, 2.500 franchi.”

L’affermazione ripetuta più volte dai contrari all’iniziativa, cioè “chi non guadagna denaro non rende, e quindi bisogna stimolare queste persone con incentivi monetari” non incontra quasi alcuna obiezione.

Fortunatamente la massima istanza per il controllo dei media ha accolto all’unanimità il ricorso di una telespettatrice, Martha Beéry-Artho, che aveva formalmente protestato per mancanza di informazione adeguata in questa trasmissione. Il giudizio che le dà ragione dice che il maggiore settore economico, non pagato o sottopagato, cioè la cura, non deve essere un “aspetto secondario” in una trasmissione dedicata al futuro della convivenza umana.

Ma la storia non finisce qui: nelle settimane successive al giudizio dell’autorità di ricorso, io in quanto membro del comitato d’iniziativa ho cercato di far capire alle e agli altri promotori e anche ai media che questo fatto era da mettere in grande rilievo.Ma giornalisti di grido, redattrici e attivisti per il reddito di base si sentivano infastiditi dalla mia richiesta e mi spiegavano che non spettava a loro “portare più donne in televisione”. Erano sordi alla mia obiezione che una rappresentazione adeguata della dipendenza dalla cura non si ottiene grazie a “più donne”, ma solo attraverso precise analisi economiche. Il comitato d’iniziativa ha deciso a maggioranza di non pubblicare un commento positivo sul giudizio dell’autorità di ricorso. Il giudizio è poi stato pubblicato in Internet e io ho smesso di raccogliere firme per l’iniziativa popolare, cosa piuttosto inusuale per una che l’ha promossa. In seguito la potente società televisiva ha trascinato il caso davanti alla corte suprema. Quest’ultima ha revocato il giudizio dell’autorità di ricorso l’11 ottobre 2013.

Ancora da capo

L’ “iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato” ha consegnato a Berna il 4 ottobre 2013 più di 120.000 firme valide. Il dibattito continua, e ciò significa che avremo ancora molte occasioni per dare un’impronta postpatriarcale al reddito di base incondizionato, contro una resistenza massiccia, ma con molto divertimento e molto lavoro sulle relazioni e sul linguaggio.

Insomma, la questione fondamentale di questo dibattito è di capire chi siamo in realtà, noi esseri umani: riconosciamo il fatto di essere dipendenti dalla cura, e che riceviamo tanti doni, anche da adulti? Capiamo che per questo motivo ogni forma di attività nel mondo è un atto di restituzione per qualcosa ricevuto in precedenza? In futuro, tutti, non solo le casalinghe e le madri, saranno disposti a fare le cose sensate e necessarie, senza incentivi monetari?

La politica postpatriarcale è un’arte. È un processo di contrattazione che non finisce mai. Mi capita di disperarmi per l’ottusità di tante persone. Mi capita di essere talmente arrabbiata da voler prendere d’assalto il grattacielo della società televisiva, e anche il tribunale federale. Ma quasi sempre è una festa continuare il lavoro, imperterrita, insieme alle mie amiche politiche.

Traduzione dal tedesco: Traudel Sattler

 

27 gennaio: UNA ROMPISCATOLE POSTPATRIARCALE
INCONTRO CON INA PRAETORIUS

Agorà del lavoro di Milano
 &
 Primum vivere anche nella crisi:
la sfida femminista nel cuore della politica

Era a Davos nel 2005/6/7 al Forum economico mondiale. Lì ha avuto una visione: ha immaginato Penelopi con i loro telai che tessevano e disfavano sotto gli occhi di banchieri e miliardari.

Nel 2013 ha fatto campagna, in Svizzera, per un reddito di base incondizionato con l’intento di interpretarlo in chiave postpatriarcale.

Ina sceglie azioni ad alto contenuto simbolico per ribaltare i paradigmi dell’economia e del lavoro.

Quale l’efficacia di queste azioni?

Come si inseriscono nell’orizzonte teorico del suo pensiero?

Riprendendo il filo di questi due anni di “piazza pensante” discutiamo tutte e tutti insieme come si intrecciano i desideri delle donne su vita/lavoro con un’azione politica che incida sull’economia e sul lavoro.

SIETE TUTTE E TUTTI INVITATE/I

L’Agorà del lavoro
per incontrarsi ribellarsi progettare
accade a Milano

lunedì 27 gennaio 2014 dalle 18,30 alle 21

Viale D’Annunzio, 15;
tram 2 e 14 P.za General Cantore;
3 e 9 P.za 24 Maggio;
metro 2 Sant’Agostino

Le due agorà previste per il 25 novembre e per il 16 dicembre confluiscono in un unico incontro speciale che si terrà mercoledì 18 dicembre: da Roma arriveranno Federica Giardini, Teresa Di Martino, Eleonora Forenza per approfondire nella nostra piazza pensante i temi legati al lavoro e al reddito, anche a partire dal loro ultimo libro Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro. Arriverà anche l’economista Antonella Picchio e donne e gruppi di altre città per continuare lo scambio sul primum vivere gìà avviato nel laboratorio di Paestum. A breve seguirà l’invito.

Agorà del lavoro di Milano &
P
rimum vivere anche nella crisi:
la sfida femminista nel cuore della politica

Più forza ad ognuna/o, più forza collettiva

Molte le iniziative che vogliamo lanciare quest’anno:

– confronti aperti con economiste/i su temi di attualità che ci premono

– incontri mobili in città (sindacato, università, giornalismo, expo)

– laboratori di approfondimento (codici di autodeterminazione, reddito/welfare)

– creazione di una mappa on line di esperienze e contesti di lavoro “in relazione”

Questo è un programma aperto:
vieni a portare le tue competenze, i tuoi desideri, i tuoi bisogni

SIETE TUTTE E TUTTI INVITATE/I

L’Agorà del lavoro
per incontrarsi ribellarsi progettare
accade a Milano
 lunedì 21 ottobre 2013 dalle 18,30 alle 21

Viale D’Annunzio, 15;
tram 2 e 14 P.za General Cantore;
3 e 9 P.za 24 Maggio;
metro 2 Sant’Agostino

Riprende l’Agorà del lavoro.
Il luogo è quello che già conoscete di Viale d’Annunzio.
Il calendario: i primi tre incontri sono fissati per il 21 ottobre, il 25 novembre e il 16 dicembre.
Dopo i molti progetti e desideri lanciati alla chiusura di giugno (vedi agoradellavoro.wordpress.com) preferiamo definire l’invito del primo appuntamento dopo l’incontro nazionale di Paestum del 4-6 ottobre, nel quale i temi economia/lavoro avranno certamente uno spazio importante.

A prestissimo! Intanto mettete le date in agenda!

Giordana Masotto

Report Agorà 27 maggio 2013

In apertura si dà lettura dell’invito
Maggio 2011 – maggio 2013: due anni di Agorà. Facciamo il bilancio

(…) In particolare vorremmo dirci con chiarezza:
Quali critiche rivolgi al progetto e alla pratica dell’A.?
La partecipazione all’A. ci dà/ha dato più forza e consapevolezza?
Come sono cambiati a Milano il lavoro e la politica in questi due anni?
Oggi il primum vivere femminista quanto e come è entrato nelle analisi e nelle pratiche politiche sul lavoro?

I primi tre interventi sono critici, anche se chi parla ha continuato a venire traendone informazioni, idee e spunti di riflessione. Maria Carla Baroni critica il taglio parziale con cui si è parlato di lavoro precario: benché per alcune poche sia una occasione di libertà, per la maggior parte delle donne è un danno grave. Lamenta poi l’abbandono di molte sindacaliste avvocate magistrate, inizialmente più presenti. Infine denuncia che “ci siamo limitate allo scambio di esperienze e pensieri e non si passa mai al che fare: proposte al comune di milano, ai programmi delle regionali, proposte di legge di iniziativa popolare”.

Antonella Nappi: “Mi aspettavo che si cercasse linea di azione e riferimento teorico, raccontare un altro modo di vivere come nel Sottosopra. Speravo ne uscisse di più e speravo anche che ci fosse più dibattito e attenzione ai pareri discostanti. L’elaborazione teorica, se pure c’è stata da parte di alcune, non è stata condivisa e fatta circolare.”

Maria Benvenuti riconosce che “dovevamo fare un miracolo: una saldatura tra politica prima e politica seconda. Inventare un percorso nuovo a partire dal taglio del Sottosopra. Dal partire da sé bisognava passare alla condivisione di obiettivi comuni. Trovare forme di lotta diverse anche fuori della politica della rappresentanza. È per questo che tante/i hanno abbandonato. Non si è dato risposta a quella esigenza. È questo che dobbiamo fare per rilanciare.”

A comporre un bilancio sono venute di persona anche donne che seguono l’A. da lontano. Per loro è una grande ricchezza e sono grate a chi dà vita e continuità all’iniziativa. Elena Schnabel, a Trento, da anni non frequenta il gruppo donne “perché mi dà un senso di già visto, non mi aspetto granché. Invece avere notizie dell’A. mi dà forza e speranza che dal femminismo possa ancora venire qualcosa di buono. Ho sempre ammirato da lontano il metodo di lavoro, la ricchezza unica del partire da sé. Confrontarsi senza obiettivi prefissati. Le critiche stesse sono una conferma della ricchezza del metodo.” Anche Maria, che fa l’avvocata lavorista a Livorno, è fedele a distanza: “Mi dà forza e nutrimento. Non sottovalutate l’importanza di dare voce a un punto di vista prezioso contro l’imperante dispositivo della flessibilità. Accentuato dal disfacimento anche politico di questo ultimo periodo.” Sottolinea che per uscire dall’impotenza, per non consegnarti inerme a una misura che non è la tua è importante la pratica politica diversa: ripartire dalla forza dei propri desideri uscendo dal racconto dei propri limiti e dal dispositivo dell’inadeguatezza imposta dall’esterno.

Tornando a Milano, un terzo grazie viene da Serena Fuart: “mi ha aiutato personalmente a girare a mio vantaggio la difficile condizione di lavoro in cui ero caduta, che era molto svalutante. Frequentando l’A. mi sono data la capacità di avviare nuovi progetti.”

Nella contrapposizione tra autocoscienza e concretezza, cerca di fare il punto Lia Cigarini: “L’A. era stata pensata come racconto e confronto di esperienze con la modalità dell’autocoscienza in cui il racconto in presenza acquista senso politico. Questa modalità ha dato libertà alle donne sulla sessualità, ma sul lavoro non basta, non soddisfa. Molte già dopo il primo incontro, l’hanno detto: ‘non ho capito che cosa volete fare’. E allora si tira fuori la concretezza, che è una parola assai ambigua in politica. Tende a bloccare l’autocoscienza e l’approfondimento, a comprimere l’irriducibilità della soggettività negata nel lavoro/economia/politica. Il primum vivere non ha grandi possibilità se noi stesse togliamo valore alla soggettività di chi lavora. Ma è vero che questa modalità stenta a diffondersi. Il problema è che non c’è intorno quel movimento di ribellione su cui all’inizio avevamo scommesso, non c’è invenzione di forme di connessione adeguate alla frammentazione presente. Le precarie non possono trovare senso nel lavoro. Così si mette in discussione il partire da sé come efficace, e si vuole arrivare rapidamente a un obiettivo o a un movimento che non si vede. Io modestamente in queste condizioni considero un relativo successo dell’A. avere tenuto il rapporto con alcune sindacaliste, ma la battaglia si deve radicalizzare perché questo sindacato è quasi morto. Forse bisogna entrare in attrito, in conflitto con questo sindacato. Sinergia o conflitto? Mi interessa trovare le forme politiche.”

Sulla pratica del partire da sé Lidia Cirillo obietta che non è l’unica del femminismo, ma nell’A. è molto difficle immettere elementi diversi. “Specifico del femminismo è di entrare in qualsiasi pratica e sovvertirla. In A. possiamo adottare pratiche molteplici che siano in sintonia con le intenzioni. Per esempio in una discussione molto ampia sento il bisogno di qualcuna che relazioni, che abbia competenze; oppure si potrebbe creare un luogo aperto che diventi punto di riferimento, in cui le donne possano venire.” Lia ribatte che non c’è un’unica pratica. Acta, sindacaliste della Cgil hanno portato qui il proprio modo di pensare e agire. Su queste diversità avviene la riflessione non l’individuazione di obiettivi.

Michela Spera, Fiom nazionale, non ha dubbi: l’ha sempre lasciata perplessa l’idea emersa agli inizi di poter influire sulla amministrazione comunale. “Era una scommessa impossibile. Se volessi incidere in quella direzione mi appoggerei a quella che Lia chiama una organizzazione un po’ vecchia (il sindacato). Di certo non è con questo proposito che vengo qui.” In A. invece incontra mondi che nel suo mondo non vede: e ricorda in particolare il lavoro autonomo e le manager. Quanto al partire da sé, lo ritiene assai utile “perché la perdita di senso ce l’hai sia quando fai le cose concrete sia quando fai le discussioni”. Partire da sé vuol dire dare senso a quello che sei e fai. Circa la crisi democrazia/rappresentanza, concorda che non c’è movimento.

L’A. come piazza in cui si confronta una molteplicità di pratiche: così la sintetizza Vita Cosentino. “È un fantasma paralizzante che si debba tutte fare la stessa cosa, come vuole la concretezza. Qui invece le diverse pratiche (diversi femminismi, sindacato, ecc) si parlano e questa conoscenza allargata modifica il mio modo di vedere il mondo, mi modifica. È una ricchezza.”

Nella mancanza di movimento, l’A. è anche un luogo di resistenza, che dà spazio e voce a pratiche che altrove non hanno spazio perché tutto è dominato dalla parità: così la vede Marianna Bruno che lavora in Cgil. “Io non riesco a condividere la critica che nasce dal bisogno di concretezza: io concreta lo sono già nel mio lavoro sindacale, ogni giorno. Qui mi aspetto scambio e riflessione che mi sono molto utili e mi danno forza. Qui mi interrogo e non mi sento negata nella mia esperienza sindacale. Qui mi sento legittimata a portare nel sindacato la soggettività delle donne al lavoro. Fare rete con le relazioni. Non è semplice contrastare il discorso paritario dominante anche in Cgil. Per tutto questo sono debitrice all’A.”

È Chiara Martucci a riportare il discorso su quello che ancora non c’è nell’A., nonostante l’interesse per i confronti che avvengono e per l’alto livello rispetto ai discorsi correnti. “Non trovo l’invenzione di nuove pratiche condivise (azioni e orizzonti simbolici) spendibili altrove. Non sento che si instaurano nuove relazioni di fiducia che vanno oltre questo luogo. E non è stata superata la distanza intergenerazionale.”

Di fronte alla drammatica instabilità lavorativa e di vita che riguarda tutti, Anna Maria non vede possibilità di azioni collettive. “La solitudine è devastante: ben vengano mille A., mille luoghi in cui il lavoro è pensabile e io posso pensarmi al lavoro. Il sindacato rappresentava situazioni omogenee e non è in grado di rappresentare questa disomogeneità.”

Ma anche esportare l’A. non è semplice. Lo ricorda Clelia Mori: “Abbiamo tentato di fare A. a Reggio Emilia dentro la Cgil e sulla spinta di Paestum chiamando al confronto le donne di Femminileplurale ma è fallito perché mancava il metodo dell’ascolto, del partire da sé. Così siamo ricadute in una metodologia vecchia da sindacato/partito. Questa non è una pratica semplice perché raccogliere esperienze e dargli parole è spostare la lettura delle cose. Se abbiamo fallito è proprio perché non c’era sufficiente chiarezza sul metodo e sulla sua importanza.”

Lea Melandri ritorna sull’A. come luogo di confronto, non omogeneo, ma che ha al centro l’autocoscienza, che è agire politico: “Sono venuta all’A. proprio perché il Gruppo lavoro della libreria ha deciso di aprire un luogo pubblico in cui si poteva riprendere il confronto di opinioni. La rivoluzione del femminismo è stata riportare al politico ciò che era considerato non politico, in particolare la centralità del corpo, attraverso cui passa gran parte dell’espropriazione subita dalle donne. Per questo bisogna continuare a raccontarsi. Adesso qui si ripropone la dualità storica tra pensare e fare. Autocoscienza è fare perché modifica. È pratica. Usciamo da questa contrapposizione sterile, non siamo un gruppo di intervento politico tradizionale. Questo è il lavoro che continuiamo a fare qui: cercare i nessi corpi/lavoro, soggetti/leggi. Come si intreccia la vita personale e il corpo nel lavoro e come si può modificare, con quali pratiche e quali strumenti. Quando parla una sindacalista io sento subito se usa un linguaggio tradizionale. Purtroppo sentiamo poche politiche e poche sindacaliste che parlano questa altra lingua che ha dentro il corpo e i saperi della modificazione di sé. Più spesso parlano un linguaggio neutro con qualche contenuto da politiche di genere. Questo è un luogo insostituibile. Siamo qui a cercare i passaggi, non gli obiettivi.”

Luisa Pogliana dà un’altra testimonianza del vantaggio personale della pratica dell’A.: “So che cosa perderei se non ci fosse più. Venire qui è stato alimentarmi dei pensieri di altre, vedere cose che non vedevo, prendere forza per andare più armata nei luoghi in cui sono. Agire in modo diverso. Costruire insieme la consapevolezza Oggi è preziosissimo un luogo in cui alimenti la speranza e il senso di quello che continui a fare.” Come Marisa Guarneri: “Qui ho preso strumenti importanti per analizzare diversamente il lavoro sociale che mi impegna da tanti anni.”

Sandra Bonfiglioli invece invita ad allargare gli orizzonti: “Certamente l’A. ci ha legittimate a guardare le cose in modo diverso e ad agire ciascuna nel proprio campo. Ma la responsabilità che sento di più è nei confronti del paese: un’opera di civilizzazione, quella che le donne hanno sempre fatto. Come ci giochiamo la fertilità che sentiamo e che ci dà forza? Possiamo rilanciare l’A. ma dandoci un orizzonte di progetto. Lia nel suo libro parla di fase costituente. Io preferisco parlare di nuovo patto sociale. Ho pensato all’immagine del gong che trasmette con le sue onde un suono forte e suggestivo. Il prossimo anno possiamo essere questo. Abbiamo la forza per farlo. Perché le persone che sono qui sono intrecci di relazioni vaste.”

Giovanna Pezzuoli ha modificato nel tempo le sue aspettative, passando da una visione quantitativa (“mi aspettavo di allargare a dismisura, intercettando altre soggettività, chi vive con difficoltà nel lavoro”) alla ricchezza e intensità di alcuni momenti specifici: maternità, lavoro dipendente/autonomo, precarietà. “Momenti intensi, ma in cui non riesco a far entrare la mia soggettività, eppure per me il lavoro è stato ed è importantissimo. Per questo partecipo con meno intensità. E mi scopro afasica. Forse dovremmo parlare di relazioni di lavoro che sono quelle che mi danno problema (con le colleghe). Parlarne come nesso non come specificità.”

“Quando all’inizio dicevamo piazza pensante per ribellarsi, io intendevo una cosa precisa – dice Maria Grazia Campari – essere radicati in questa città. Poi però mi sono resa conto che questa idea è infondatissima. Come verifichiamo anche ai tavoli: niente riesce a perforare questa cortina di estraneità del comune di Milano. Forse dobbiamo cercare pratiche spendibili altrove come dice Chiara Martucci. Spendibilità esterna per me vuol dire capacità di fare rete allo scopo di ribellarsi. Continuare a interrogarci su che pratica fare insieme. Le riflessioni qui sono sempre estremamente interessanti, ma non voglio arricchirmi da sola, voglio condividere, entrare in contatto con altre persone fuori di qui. Attivare quel gong per cercare rispondenze nelle persone intorno a me.”

In conclusione Giordana Masotto sottolinea una differenza che è emersa dagli interventi: l’A. risulta essenziale, fortificante e nutriente per chi ha al di fuori di qui un suo luogo di presenza e azione politica. “Ma allora vorrei avere dentro l’A. più ritorni di ciò che avviene in altri contesti. Se l’A. elabora pensiero che poi viene speso altrove io vorrei che questo altrove fosse restituito all’A. riconoscendole la funzione di punto di riferimento. Quindi un ritorno non casuale, ma puntuale e consapevole. Oggi ci sono stati molti gesti di restituzione. È una dinamica importante che può costituire una indicazione anche per il futuro. I nessi con la realtà di Milano ci sono, ma vanno esplicitati.” Chi invece per condizioni di lavoro si sente in un vuoto, sente che l’A. non fa quello che dovrebbe fare. È dall’A. che vorrebbe una pratica da spendere. “Questo mondo di relazioni liquide non consente di portare altrove una soggettività resa più consapevole qua dentro. Quell’altrove è solitudine e isolamento.”

In chiusura invita a continuare questo confronto il 24 giugno guardando avanti, al prossimo anno. L’A. potrebbe articolarsi in momenti diversi con diversi metodi di lavoro, pensando anche a incontri fuori di qui che creino legami con realtà diverse.

(a cura di Giordana Masotto)


PROSSIMO APPUNTAMENTO lunedì 27 maggio 2013

L’Agorà del lavoro

per incontrarsi ribellarsi progettare

accade a Milano

lunedì 27 maggio 2013 dalle 18,30 alle 21

Viale D’Annunzio, 15;

tram 2 e 14 P.za General Cantore;
3 e 9 P.za 24 Maggio;
metro 2 Sant’Agostino

siete tutte e tutti invitati


Quali gli obiettivi dell’Agorà?

Mettere al centro dello spazio pubblico il lavoro e l’economia, illuminandoli con il punto di vista che nasce dall’esperienza e dal pensiero delle donne.


E cioè: ripensare tutto il lavoro a partire da quell’intreccio imprescindibile di vita e lavoro, produzione e riproduzione, denaro e riconoscimento, autonomia e dipendenza, individualità e relazioni in cui siamo immerse/i.


Quell’intreccio, se condiviso, può diventare per tutti forza su cui fare leva per il cambiamento.

Cerchiamo insieme come. Scommettiamo insieme su quella forza.

Vogliamo far crescere a Milano un luogo autorevole, una piazza pensante che esprima e vada oltre l’indignazione, che dia più forza e visibilità a ognuna/o nei suoi contesti di vita e lavoro, nei suoi desideri ma anche nelle contrattazioni e nei conflitti.


I principali contenuti emersi in ogni incontro verranno via via raccolti e fatti circolare nel blog: un sapere nato insieme, a disposizione di tutte e tutti.

agoradellavoro.wordpress.com


Che cos’è l’Agorà:

Da maggio 2011 l’Agorà del lavoro è un luogo di incontro e discussione aperto a uomini e donne. E’ un luogo autorevole che vogliamo far crescere a Milano, una piazza pensante che esprima e vada oltre l’indignazione, che dia più forza e visibilità a ognuna/o nei suoi contesti di vita e lavoro, nei suoi desideri ma anche nelle contrattazioni e nei conflitti.

Quali sono gli obiettivi dell’Agorà?

Mettere al centro dello spazio pubblico il lavoro e l’economia, illuminandoli con il punto di vista che nasce dall’esperienza e dal pensiero delle donne.

E cioè: ripensare tutto il lavoro a partire da quell’intreccio imprescindibile di vita e lavoro, produzione e riproduzione, denaro e riconoscimento, autonomia e dipendenza, individualità e relazioni in cui siamo immerse/i.

Quell’intreccio, se condiviso, può diventare per tutti forza su cui fare leva per il cambiamento.

Cerchiamo insieme come. Scommettiamo insieme su quella forza.

I principali contenuti emersi in ogni incontro verranno via via raccolti e fatti circolare nel blog: un sapere nato insieme, a disposizione di tutte e tutti.

agoradellavoro.wordpress.com

AGORÀ 
1 
lunedì 23 maggio 2011

è UN DESIDERIO, UNA FESTA, UN INIZIo

 

L’AGORÀ DEL LAVORO

per incontrarsi ribellarsi progettare

accade a Milano

il 23 maggio 2011

dalle 18,30 in poi

Società Umanitaria

Sala Facchinetti

ingresso in via San Barnaba 48

dietro al Palazzo di Giustizia

SIETE TUTTE E TUTTI INVITATI

AGORÀ

2 
lunedì 20 giugno 2011

per incontrarsi ribellarsi progettare

L’AGORÀ DEL LAVORO

accade ogni mese a Milano

il prossimo incontro è

il 20 giugno 2011 dalle 19 alle 21

Ambrosianeum

Sala Falk

via delle Ore, 3

(accanto a piazza del Duomo)

SIETE TUTTE E TUTTI INVITATi

AGORÀ 3 
lunedì 19 settembre 2011

AGORÀ 4 
lunedì 24 ottobre 2011

AGORÀ

5 
lunedì 28 novembre 2011

“il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta”

Oggi non si può parlare di lavoro senza parlare di crisi.

E non si può parlare di crisi senza parlare della ribellione, dal movimento di Zuccotti Park, agli indignati sotto le torri di Bologna. Siamo tutte/i dentro questo nuovo contesto

 

E allora ci chiediamo

Cosa vorremmo dal nostro lavoro (quello che c’è
e quello che forse ci sarà, quello che ci dà da vivere e quello nascosto che serve per l’esistenza)?

Quali cambiamenti immaginiamo possibili/progettabili oggi… a Milano?

Fino a che punto e su che cosa vogliamo metterci in gioco?

 

AGORÀ 6 
lunedì 19 dicembre 2011

Un anno vissuto pericolosamente

Le piazze di Snoq e quelle indignate. Donne in politica e politiche delle donne.
Partecipazione, contaminazione, rete. La nascita della nostra piazza pensante su vita/lavoro/politica.

E poi: la crisi dell’euro, la retorica del baratro, delle colpe e delle pene.
E un cambio di governo (nazionale e in città).

Ti invitiamo all’agorà: prepara il tuo brindisi per salutare l’anno e comporre tutte insieme un bilancio e un augurio

AGORÀ

7 
lunedì 30 gennaio 2012

il DESIDERIO DI LAVORARE E AVERE FIGLI:
perchE’ resta unA QUESTIONE PRIVATA ?

Da tempo si parla di conciliazione, tanto che la parola è diventata vecchia ancora prima che l’argomento sia stato davvero affrontato.

Alcune di noi hanno preferito parlare del doppio desiderio di esserci con i figli e sul lavoro, secondo la propria misura, che può variare nel corso della vita. Ma questa scelta di libertà contrasta con i modelli dominanti dell’economia e della società.

 

allora CI CHIEDIAMO

Perché l’esperienza delle madri (e dei padri) non è (ancora) diventata parola pubblica preziosa per contribuire a rendere economia e organizzazione del lavoro più sensate?

Perché il desiderio di nuove modalità di lavoro e di un nuovo modo di vivere la maternità (e la paternità), che circola nei blog e negli scambi tra mamme in internet, faticano a tradursi in pensiero e azioni collettive?

 

Proponiamo un confronto non-virtuale, nella piazza dell’Agorà del lavoro che metta al centro il duplice desiderio di lavorare ed avere figli. Siamo convinte che l’esperienza e il sapere di chi sperimenta sulla sua pelle cura e lavoro retribuito, se condivisi, possano portare nuova consapevolezza e nuovo sapere per tutti e quindi forza, idee e coraggio per modificare l’esistente.

 

INVITIAMO QUINDI CALOROSAMENTE

Madri (e padri) che abbiano voglia di partecipare e intervenire liberamente, portando la propria esperienza.

AGORÀ 8 
lunedì 27 febbraio 2012

Negoziando si impara (e si può vincere)

Nell’ultima Agorà abbiamo sentito i racconti di giovani donne capaci e intelligenti, che lavorano, fanno (o non fanno) figli, che vogliono tempo per sé. Donne che vogliono negoziare una diversa organizzazione, valutazione, riconoscimento del loro lavoro.

Sia le dipendenti sia le “contrattiste” cercano tempi e modi di lavorare diversi da quelli che incontrano in un mondo del lavoro sempre più dissennato.

Cercano nuovi modi di rapportarsi con capi e cape, colleghi, dipendenti, sindacalisti e responsabili delle risorse umane di entrambi i sessi. Vogliono pensare a nuovi codici di comportamento che migliorino le relazioni e le pratiche quotidiane di lavoro.

Lavorare e vivere, lavorare bene e vivere bene. Di certo non hanno alcuna intenzione di “tornare a casa” per far fronte a un welfare al lumicino. Al contrario, vogliono imparare ad affermare i loro desideri e a negoziare in modo più efficace.

 

Come far tesoro delle esperienze e individuare i nodi giusti per incrinare il muro di gomma?

Come fare per trasformare la forza e la determinazione di tante (e tanti) in una forza visibile e collettiva?

 

Invitiamo tutte e tutti a riprendere il discorso avviato nell’ultima Agorà per andare avanti e incominciare a trovare insieme strumenti concreti di cambiamento.

AGORÀ

9 
lunedì 26 marzo 2012

TEMPO/ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

*

REDDITO

*

TUTELE

*

RICATTI

*

GERARCHIA

*

COMPETIZIONE

*

NEGOZIAZIONE/RAPPRESENTANZA

Facciamo emergere

differenze, punti di contatto, possibili contaminazioni

fra lavoroautonomo (professionale)

lavoro dipendente e lavoro intermittente

INVITIAMO QUINDI CALOROSAMENTE

Lavoratrici autonome, dipendenti e parasubordinate che abbiano voglia di intervenire liberamente, portando la propria esperienza.

AGORÀ

10 
lunedì 23 aprile 2012

La crisi economica e della politica è un tiro alla fune:
chi cede, chi si adatta, chi si automodera, perde

La RIBELLIONE politica è una medicina:
fa bene contro la solitudine, la depressione, l’angoscia

 

La politica che abbiamo in mente è:

 

– armarsi della propria soggettività: sapere chi siamo, che cosa vogliamo dal lavoro e dalla vita, saperlo proclamare insieme ad altre/i. Prima di vedere chi e come ti rappresenta, devi saperti autorappresentare: avere le parole e i pensieri che narrano che cosa vuoi, quali sono i tuoi progetti, le tue priorità, i tuoi desideri, i tuoi ostacoli.

Con il capitalismo finanziario è andata in pezzi l’oggettività del lavoro e dell’economia (su e giù delle borse e dello spread: qual è la razionalità?). Tiene solo la capacità soggettiva di resistere e di muoversi. Se c’è una cosa che il nostro tempo sta finalmente capendo, dopo che il femminismo ne parla da quarant’anni, è la necessità di mettere in gioco la soggettività per cambiare la politica.

 

-togliersi dalla solitudine e dalla illusione di una perfezione indipendente: approfittare della ricchezza e della forza che viene dalle relazioni, dagli scambi. Cercare insieme la direzione da prendere per cambiare le forme del lavoro e dell’economia.

 

-forzare i confini per non essere risucchiate/i in un quotidiano sempre più imperioso, ricattatorio, svilente, inquietante. C’è di mezzo la salute, i soldi, il tempo che sembra divorato, la voglia di vivere e dare un po’ di forza a chi non può rinunciare al futuro.

 

Ci sembra che questa sia la lezione delle ultime Agorà di fronte anche all’incalzare dell’attualità.

Se poi guardiamo più indietro, a questo primo anno di Agorà, vediamo crescere la sensazione che è possibile scommettere sulla forza delle donne e non sulla loro debolezza.

 

Dunque invitiamo tutte/i, frequentatrici/tori abituali, intermittenti, appassionate/i o infedeli, a partecipare alla prossima Agorà per raccontare:

 

– come affrontiamo il momento presente?

– che cosa ci dà l’Agorà e che cosa vorremmo?

– quali sono le poste in gioco su cui te la senti di puntare, quali le mosse giuste?

AGORÀ

11 
lunedì 28 maggio 2012

Se il reddito fosse di cittadinanza:
sguardi differenti sul tema del “bioreddito”

Il pensiero femminista ha messo in discussione il contratto sociale che si basa sul paradigma del maschio adulto indipendente. Che indipendente non è, perché dipende, come tutti, da una massa enorme di lavoro informale e invisibile garantito (prevalentemente) dalle donne. Questo punto di vista (siamo tutti/e interdipendenti) interroga in modo radicale gli scopi del lavoro per il mercato, i suoi tempi e i suoi modi, come emerge dall’esperienza delle donne al lavoro.

 

Da queste premesse guardiamo all’obiettivo del reddito di cittadinanza (nelle sue diverse formulazioni: reddito minimo garantito, di base, di esistenza).

 

> Alcune donne sono perplesse o contrarie perché temono che spostando l’attenzione politica dal lavoro al reddito, venga azzerato il pensiero e l’esperienza delle donne al lavoro.È già accaduto: arrivano le donne in massa – vedi la scuola – e quella posizione perde valore; è l’ottica della femminilizzazione come indebolimento.

 

> Alcune/i, tenendo conto della mancanza di servizi di base in Italia, valutano che il reddito minimo non sposti ma anzi aggravi la divisione sessuale del lavoro, segregando in casa le donne più deboli e ricattabili.

 

> Altre/i invece, come Ina Praetorius, vogliono indirizzare l’obiettivo in senso post-patriarcale: il reddito di base non è la soluzione fatta e finita, ma è un buon obiettivo se mette in grado le donne e gli uomini di rinegoziare i rispettivi desideri e compiti.

 

> C’è poi chi sente l’urgenza di trovare rimedio al peggioramento delle condizioni di vita, combattere l’impoverimento e la ricattabilità in particolare di ampie fasce di donne, e pensa che sia un utile obiettivo per la redistribuzione del reddito e un’opportunità in più per le giovani generazioni.

 

> La maggior parte infine è molto curiosa e interessata al tema e desidera dibatterlo e approfondirlo nei suoi vari aspetti per farsene un’opinione.

 

 

Dunque invitiamo tutte e tutti
a partecipare alla prossima Agorà per ragionare insieme, mettendo liberamente in relazione
desideri e timori, pensieri ed esperienze.

 

 

AGORÀ

12 
lunedì 25 giugno 2012

e adesso facciamo festa!

Molti sono i motivi per festeggiare…

 

A oltre un anno dal suo inizio l’Agorà è viva e vegeta e questo è il nostro 12° incontro.

 

È una pratica politica che non assomiglia a niente di già visto e altre la vogliono replicare nella loro città.

 

Ha dato voce pubblica a realtà del lavoro importanti, come il diverso modo di intendere la rappresentanza nel lavoro autonomo e dipendente, oppure la forza negoziale delle lavoratrici madri, oppure ancora la volontà delle più giovani di rifiutare sia la logica precaria che quella aziendalista e inventare nuovi modi di lavorare insieme. E molto altro.

 

È stata l’occasione per riconnettere le varie parti del femminismo milanese e metterne in gioco il ricchissimo patrimonio di pratiche e di pensiero.

 

Ci ha dato la misura di quanto questo tempo di crisi radicali sia per le donne un’occasione che unisce e dà forza, a fronte di un’evidente difficoltà maschile ad elaborare il nuovo.

 

La mossa dell’Agorà ha spianato la strada ad altre importanti iniziative come il convegno su Cura e lavoro di febbraio 2012, quello organizzato a Milano in marzo dall’Archivio delle donne in Piemonte sul lavoro visto dai femminismi torinesi e milanesi, e soprattutto la tre giorni nazionale che terremo a Paestum in autunno (5,6,7 ottobre).

 

invitiamo tutte e tutti

per brindare e festeggiare
scambiare valutazioni

lanciare idee per la ripresa di settembre

…e costruire passi comuni con cristina tajani,
assessora al lavoro, che sarà presente

 

Una piazza concreta e simbolica, un luogo fertile e radicato nella città di Milano, uno stabile terreno di incontro, a cadenza mensile, dove il lavoro che cambia diventa protagonista.

Qui si intrecceranno storie e soggettività di diverse generazioni, non per dar vita a un inutile confronto tra teorie e pratiche, ma per creare un tessuto effervescente da cui possano scaturire iniziative politiche nuove.

Non ci interessa creare un’improbabile comunità omogenea che appiattisca le differenze, bensì far nascere relazioni che diano valore alle esperienze personali e più forza per negoziare.

Vogliamo ribellarci alle iniquità e alle insensatezze di un mercato del lavoro oggi sempre più lontano dai nostri bisogni e desideri.

Agorà nasce dalla volontà di gruppi ma anche di persone singole, provenienti da background differenti, di ricomporre la frammentarietà dei movimenti e delle diverse realtà per diventare un punto di riferimento in un primo momento cittadino, in futuro nazionale, con un’imprescindibile attenzione al mondo del web.

E a tutte le possibili forme di comunicazione che possiamo inventare con il nostro potenziale creativo.

La scommessa è proprio quella di trovare nuove parole, più aderenti alla vita, e nuove risposte. L’Agorà sarà dunque un luogo dove tutte e tutti si sentiranno autorizzate/i a esprimersi e a dare il proprio contributo senza timore di critiche o censure. Se il progetto funzionerà, ognuna/o ritornerà nei contesti in cui si trova con più idee, più voglia di esserci, più capacità di contrattare.

 

Le promotrici e i promotori dell’Agorà

Luisa Abbà, Donatella Barberis, Pinuccia Barbieri, Maria Benvenuti, Sergio Bologna, Maria Grazia Campari, Pat Carra, Vanna Chiarabini, Lia Cigarini, Elena Corsi, Elena Dal Pra, Andrea Fumagalli, Giovanna Galletti, Marisa Guarneri, Alberto Leiss, Sveva Magaraggia, Chiara Martucci, Sofia Masiello, Giordana Masotto, Giorgia Morera, Cristina Morini, Silvia Motta, Adriana Nannicini, Daniela Pellegrini, Giovanna Pezzuoli, Marina Piazza, Luisa Pogliana, Anna Maria Ponzellini, Nadia Riva, Anna Soru, Lorenza Zanuso, Anna Zavaritt

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