Avanti, sorelle
Donatella Borghesi
17 Agosto 2024
di Donatella Borghesi
La sororité celebrata alle Olimpiadi ma mortificata dalla pretesa inclusività del gender. Dieci femministe firmano “Vietato a sinistra”
Sororité. Sorellanza è stata una delle parole, accanto a liberté égalité fraternité, del mega evento che la Francia ha messo in scena per l’apertura a Parigi delle Olimpiadi 2024. Da Olympe de Gouges a Simone Veil, le statue dorate delle pioniere del femminismo sono spuntate dalle acque della Senna, a testimoniare l’eredità della cultura e delle lotte delle donne. Nello stesso giorno i media hanno dato notizia della dichiarazione di Elon Musk contro uno dei suoi undici figli, il ventenne Xavier, diventato transgender con il nome di Vivian. «Mio figlio per me è morto». Ecco, proprio questa questione del gender, che sembra ossessionare tutto l’occidente, pro e contro – e l’ultimo caso è stato quello dell’impari incontro di boxe femminile, con la vexata quaestio dell’identità di genere della boxeuse algerina – è uno dei temi che sta dividendo il mondo femminista, con un contraccolpo negativo proprio sulla sorellanza (che presuppone non solo la relazione ma anche la capacità di vivere le diversità per ottenere i propri obiettivi). Da noi, dove Elly Schlein ha ballato sul carro del Gay Pride romano insieme all’onorevole Zan, sì, quello della legge sull’omofobia mai approvata perché conteneva un articolo controverso, dieci femministe hanno pubblicato un libro-manifesto sul conformismo ideologico dei progressisti: Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (Castelvecchi). Tutte con le carte in regola, ricercatrici, attiviste, docenti, anche ex militanti di partito, hanno deciso di mettere in fila i cosiddetti temi “divisivi”, uno per ognuna di loro, e di sottoporli alla discussione con franchezza, senza reticenze e timori. La cosa ha una certa rilevanza, perché il femminismo, soprattutto quello italiano, ha sempre avuto uno stretto legame con il mondo della sinistra. Il libro arriva giusto giusto in un momento in cui il femminismo, o meglio i tanti femminismi sembrano essere diventati afoni, chiusi in piccoli gruppi diffidenti e riottosi, non più in grado di fare rete e soprattutto rimasti senza obiettivi, se non difendere i princìpi della società dei diritti individuali, l’adesione al “correttismo” dei nostri tempi, diventato ormai morale pubblica. Il linguaggio inclusivo rivendica infatti la fluidità e stigmatizza chi si riconosce nell’affermazione che i sessi sono due, maschile e femminile. Così identità di genere, gravidanza per altri, sex work, farmaci per bloccare la pubertà, trans che occupano gli spazi delle donne, ecc. sono diventati oggetti contundenti da lanciarsi l’una contro l’altra. Sembrano diventatati la questione dirimente, identitaria, anche rispetto ad altri temi decisivi come quello dell’aborto, che è ancora un nervo scoperto, e sui cui l’offensiva delle destre è potente e visibile. «Chi osa manifestare un pensiero diverso, esprimere una critica, un dissenso viene bollato come di destra, reazionario, bigotto, conservatore, perfino fascista, e si tenta in vari modi di metterlo a tacere», scrive la curatrice del libro Daniela Dioguardi.
Ma cosa sta succedendo al femminismo? Si sta suicidando ritornando al neutro universale? Siamo davanti a una mutazione antropologica che di fronte alla società neoliberista basata sui diritti ha come contrappeso etico il caos cognitivo e valoriale? Se lo chiede la filosofa Annarosa Buttarelli recensendo il libro su Doppiozero: «Si dà il caso che, oggi, il femminismo come soggetto politico si sia diviso in correnti, in pratiche differenti, in prese di posizione molto distanti tra loro. Tutto grazie al mercato neoliberista dei diritti. Così sinistra istituzionale e femminismi difensori della libertà individualistica si trovano d’accordo nel dare addosso al femminismo delle origini che non crede di avere (solo) dei diritti». Secondo la filosofa, in libreria con la “sua” Carla Lonzi (Feltrinelli), si è creata nel pensiero una forbice dicotomica, che produce concetti come l’affido condiviso che “cancella la madre”, la prostituzione come “lavoro” parificato agli altri neoliberisti, la maternità surrogata come diritto ad avere figli a prescindere dall’unità psicofisica materna, l’identità di genere che nega l’unità psicofisica di ogni corpo. Gender per tutti, quindi, a prescindere se c’è una donna di sesso femminile o una donna di gender femminile, e via così di dicotomia in dicotomia, di identità spacciate per fluidità. «Ogni dicotomia che si presenti nella storia», dice ancora Buttarelli, «tende a cancellare le donne di sesso femminile dalla cittadinanza e dall’autorità guadagnata dal pensare radicalmente. Forse abbiamo davanti una nuova èra che tende all’insignificanza del soggetto sessuato? Forse un revanchismo misogino di maschi che intendono riprendersi di nuovo l’autorità assoluta?».
Di fatto è guerra guerreggiata tra transfemminismo e femminismo intersezionale – che vedono entrambi le lotte delle donne accanto a quelle delle minoranze e in generale degli oppressi, fino quasi ad esserne il motore propulsore – e il femminismo della differenza, che oggi viene chiamato anche femminismo radicale. Il femminismo delle origini tiene saldamente al centro la parola Donna, contro tutte le tentazioni neolinguistiche della cultura gender, come “persona con utero” per la definizione in relazione al sesso biologico, e “persona non binaria” per l’orientamento sessuale. Vietato dire donna è infatti il titolo del capitolo di Laura Minguzzi, della Libreria delle donne di Milano: «Nell’epoca del transpatriarcato/fratriarcato, in cui identità fittizie sfidano la libertà femminile e il senso della differenza, mi sono domandata: quando è accaduto che il fatto di generare cominciasse a erodere la differenza dei sessi, la disparità/asimmetria della donna nella procreazione? Ci siamo accorte, a nostre spese, che con la proclamazione dell’inclusione universale qualcosa resta escluso: noi, per l’appunto, quelle che non vogliono rinunciare alla potenzialità del corpo sessuato. L’origine, la nascita come evento fondante, è cancellata in nome di un neutro performante di un’identità di genere, costruzione artificiale dell’origine del mondo».
«Donne e uomini devono essere uguali». «Uguali agli uomini o alle donne?». Messa in esergo al libro, è la storica battuta della disegnatrice satirica Pat Carra, come a dire che tra chi è differente non esiste una misura comune. L’attuale presenza nelle professioni e soprattutto la visibilità, l’assertività e la reputazione delle donne veicolata dalla comunicazione mainstream sembrerebbe dimostrare che almeno l’obiettivo della parità sia stato in gran parte raggiunto. Non è vero, sostiene Silvia Baratella, e nel primo capitolo smonta l’equazione passo per passo, dopo aver ricordato le grandi conquiste iniziate dagli anni Settanta, frutto di una sinergia particolarmente felice tra movimento delle donne e istituzioni, al tempo della Carta delle donne voluta da Livia Turco. Non solo divorzio e aborto, ma anche divieto di licenziamento per gravidanza, riforma del diritto di famiglia, patria potestà condivisa, parità di retribuzione… «Ma le nuove norme», scrive Baratella, «si inquadravano in un sistema che era perfettamente compatibile con l’esclusione femminile senza rimetterlo in discussione alla radice». E così il reddito delle donne resta inferiore a quello degli uomini, le carriere non vengono incoraggiate, la parità può rivoltarsi contro… «Il soggetto legittimante è sempre lui, l’uomo, perché è preso a modello e misura», sostiene Baratella. E l’esempio più evidente è quello della politica e delle alte cariche nelle aziende, dove si conta quante donne sono state elette o nominate, ma non in quale ruolo. C’è differenza tra parità ed equità, una differenza che penalizza ancora le donne. La mancanza di equità più clamorosa e più recente è quella che riguarda la bigenitorialità, riformata nel 2006 con la legge 54. Mentre prima nelle separazioni si attribuiva l’affido prevalentemente alle madri, con anche l’assegno di mantenimento, adesso, per renderla veramente “paritaria”, la madre è costretta ai traslochi bisettimanali. Se si oppone, rischia che servizi sociali e tribunale dei minori le tolgano i figli, perché colpevole di ledere l’immagine paterna. Le madri, intimidite, perdono potere pur di non perdere i figli. Non è questa una restaurazione della patria potestà? Se lo chiede Marcella De Carli Ferrari, autrice del capitolo La cancellazione della madre. Dalla maternità al corpo il passo è breve. Il corpo con la sua fisicità, le sue percezioni, le sue trasformazioni. Fare del nostro corpo ciò che vogliamo, dicono le autrici, sembra la nuova frontiera del neoliberismo, il corpo vissuto da un mercato in cerca di nuovi spazi e di nuova merce. «Attenzione, femminismo sta diventando una parola svuotata, bisogna risignificarla. Viene utilizzata per finalità contrarie agli interessi delle donne, e con i prefissi trans, post, o con gli asterischi e schwa viene espropriata». Lo scrive la giovane performer di Arcilesbica Stella Zaltieri Pirola, che firma l’ultimo capitolo. Lo slogan storico il corpo è mio e lo gestisco io è diventato il corpo è mio e lo vendo io. «Le transfemministe credono davvero che prostituirsi o partorire figli che non si desiderano siano forme di libertà? E che la mancanza di prospettive economiche per le giovani donne legittimi la minimizzazione dei rischi dell’esporsi alla pornografia a fronte della prospettiva di guadagni? Invece per me è necessario schierarsi ancora e ancora dalla parte delle bambine».
Che ci siano dei problemi lo riconosce anche una femminista che al campo progressista fa esplicito riferimento. È Giorgia Serughetti, filosofa della politica, in libreria con Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica (Donzelli). Serughetti fa un’ampia analisi dei femminismi contemporanei, attribuendo loro un forte valore mobilitante, pur ricordando che la contraddizione tra uguaglianza e differenza è stata la cifra del femminismo del secondo Novecento. «La presenza più numerosa di donne nei luoghi decisionali, e la capacità di alcune leader di rompere il soffitto di cristallo, obbliga a ripensare i rapporti tra femminismo, politica della presenza e politica delle idee. Perché – l’esperienza ormai insegna – la crescita di protagonismo femminile non porta necessariamente con sé, come effetto automatico, una migliore rappresentazione delle esperienze plurali né degli interessi comuni delle donne; in alcuni casi può, contraddittoriamente, coincidere con l’affermarsi di idee e politiche contrarie ai diritti conquistati dall’attivismo femminista, in particolare quelli sessuali e riproduttivi». Serughetti si chiede se l’antinomia uguaglianza/diseguaglianza è ancora adeguata a rappresentare gli obiettivi del femminismo. Il fatto è che quando le donne acquisiscono pieni diritti, anche se solo formali, è più evidente la contraddizione tra donna e cittadina, e si crea una sorta di doppia appartenenza, in cui è difficile districarsi. La conquista dell’uguaglianza non risolve quindi il problema della cittadinanza femminile, perché all’origine c’è proprio il modello egualitario neutro di matrice maschile.
«La piazza insorgente del 25 novembre contro la violenza sulle donne,» scrive Serughetti, «come quelle che in tutto il mondo sfidano l’ordine patriarcale, non cerca rappresentanza ma autorappresenta le proprie istanze». Fra queste istanze, c’è tutto un mondo che pensa che ci debbano rientrare anche gender, Gpa e sex work… In nome della libertà femminile, ovviamente, ma non solo: sono diritti e quindi riguardano tutti. «Per il progressismo contemporaneo ogni riferimento a valori e realtà superindividuali viene considerato oppressivo e lesivo della libertà e autonomia dell’individuo», conclude la storica Francesca Izzo nella sua introduzione a Vietato a sinistra. Il tono è rovente, ma ha il merito di rompere l’ipocrisia. A settembre uscirà un altro saggio, scritto da altre due filosofe – è a loro che saggiamente dobbiamo chiedere di districare l’ingarbugliata matassa: sono Adriana Cavarero, che già aveva iniziato il percorso con Donne che allattano cuccioli di lupo, e Olivia Guaraldo. Entrambe rivendicano la differenza delle donne, in primis di essere il sesso che genera, che mette al mondo, e la necessità per il femminismo di considerarlo non un ostacolo, ma una forza. Il dibattito su sesso e genere oggi, ci dicono, è opaco e strumentalizzato, privo di chiarezza e polarizzato tra le istanze Lgbtqia+ e le forze cattoliche tradizionaliste, e la liberazione femminile non può avvenire con la cancellazione della differenza sessuale. Titolo del libro, che uscirà da Mondadori, è Donne si nasce, in aperta e scandalosa opposizione con la famosissima frase di Simone De Beauvoir, Donne si diventa, che metteva in evidenza come l’identità femminile fosse un prodotto culturale della società patriarcale. Questo assioma ha nutrito la seconda ondata femminista del Novecento e formato tutte le generazioni che sono seguite. Ma forse è ora di ritornare all’essenziale.
(Il Foglio, 17 agosto 2024)