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Dalla più celebre e contestata enciclopedia in rete nasce il progetto di una libera università globale, che non rilascia diplomi, ma propone un insegnamento aperto e collettivo
Maria Teresa Carbone

Forte del successo planetario di Wikipedia, l’enciclopedia online a contenuto libero che, nata nel gennaio 2001 su iniziativa dello statunitense Jimmy Wales, conta adesso quasi due milioni di voci redatte in oltre cento lingue da migliaia di volontari sparpagliati in ogni angolo del globo, la Wikimedia Foundation ha sottoposto in questi giorni al giudizio della vasta e tumultuosa comunità dei «wikipediani» una nuova impresa, per certi versi ancora più audace della precedente: l’organizzazione a livello mondiale di una libera «wikiversità», ovviamente online, ovviamente gratuita, ovviamente aperta a tutti. Che il progetto sia ambizioso, è confermato dalla pagina di presentazione (leggibile in inglese all’indirizzo en.wikibooks.org/wiki/Wikiversity:Vision), dove – sotto il titolo «Benvenuti alla wikiversità, il futuro dell’apprendimento e dell’insegnamento» – si propone come modello del nuovo ateneo addirittura la scuola di Pitagora, descritta con toni quasi fiabeschi: in un ampio spazio circondato da un colonnato e punteggiato da ulivi e da aranci, «gli studenti, giovani e vecchi, uomini e donne, aspettavano il maestro, raccolti in piccoli gruppi o seduti da soli in meditazione, e i loro sussurri, mescolandosi al cinguettio degli uccelli, creavano una sorta di sinfonia».

 

Quale differenza rispetto alla situazione attuale, commenta l’anonimo estensore del testo (soggetto peraltro, come tutte le «wikipagine», alle correzioni di qualsiasi utente del sito): «Da allora abbiamo compiuto enormi progressi quantitativi nelle diverse discipline, ma lungo il percorso abbiamo perso la qualità, e oggi ci manca la sensazione che la conoscenza e lo sviluppo costituiscono una parte integrante della nostra vita e che in quanto tali dovrebbero agire al servizio nostro e della nostra umanità». Ma ecco che, «come la fenice dalle sue ceneri», il progetto della «wikiversità» mira a «coniugare la scienza moderna e gli antichi ideali». Con la differenza, rispetto alla Grecia di Pitagora, che «oggi il privilegio non consiste più nell’accesso alla conoscenza, ma nella decisione di prendere parte attiva al futuro dell’apprendimento».

 

Nel concreto, la «wikiversità» – se il progetto sarà approvato – intende rivolgersi al suo potenziale pubblico di studenti non come un classico ateneo (non si rilasciano lauree, o altri titoli di studio, dato che «non sarebbe possibile accertare l’effettivo svolgimento del lavoro», e anche l’attività di ricerca, per quanto ammessa, rappresenta solo un aspetto marginale dell’iniziativa), ma come un luogo virtuale dove si insegnano «altrettanto bene, e forse meglio» le stesse materie che compongono i corsi di studio di una università tradizionale. Obiettivo centrale della «wikiversità», però, è soprattutto quello di creare «una modalità radicalmente nuova nell’ambiente e nelle risorse di apprendimento», la cui identità e le cui caratteristiche «saranno di continuo riformulate dagli studenti e dai docenti»: un obiettivo a cui in realtà l’ormai gigantesca Wikimedia Foundation già mira da un paio d’anni, da quando cioè è stato avviato il progetto dei «wikibooks», manuali scolastici in rete gratuiti e «aperti», consultabili (ed eventualmente emendabili) da chiunque. Nato nel luglio 2003 su iniziativa di un membro particolarmente attivo della comunità «wikipediana», Karl Wick, lo scaffale dei «wikibooks» conta oggi circa dodicimila testi in lingua inglese (e alcune centinaia in italiano), «moduli» che affrontano argomenti diversi come l’algebra applicata o lo studio della lingua norvegese e che variano da semplici abbozzi (stubs) a veri e propri libri di testo di decine o centinaia di pagine.

 

Sebbene di fatto siano molto pochi, anche negli Usa, gli insegnanti che hanno abbandonato i classici manuali in favore dei «wikibooks», il progetto ha suscitato critiche sferzanti, soprattutto da parte di quei numerosi utenti della rete che considerano con grande diffidenza anche l’operato (e il successo) di Wikipedia: attaccando la mancanza di un processo formale di revisione e di controllo dei testi introdotti nell’enciclopedia – e a maggior ragione in questi «manuali scolastici» liberi – l’editore esecutivo dell’Enciclopedia Britannica, Ted Pappas, ha dichiarato in una intervista al Guardian che «non è assolutamente dimostrato il presupposto di Wikipedia, secondo cui il continuo miglioramento porterà alla perfezione». Più sfumata l’opinione di Danah Boyd, ricercatrice presso la School of Information Management and Systems dell’Università della California a Berkeley, secondo cui Wikipedia «non sarà mai una vera enciclopedia», consultabile per scopi accademici, anche se «può contenere un ampio bagaglio di conoscenze valide».

 

Alla luce di queste polemiche, l’idea di lanciare la «wikiversità» globale rappresenta insomma una sfida, che all’interno della stessa comunità dei «wikipediani», chiamati in questi giorni a esprimere il loro voto circa la validità e la fattibilità del progetto, ha suscitato reazioni molto diverse, dall’entusiasmo incondizionato («una idea eccitante», «un sogno che si avvera») a posizioni caute, o anche decisamente negative.

 

Ma il vero nodo della questione – quello da cui dipenderà il futuro della «wikiversità», e forse della stessa Wikipedia – è stato sollevato da un giovane poeta americano, Amish Trivedi, autore fra l’altro di alcuni «wikibooks» nell’ambito della storia della letteratura: «Odio perfino avanzare un simile suggerimento – scrive Trivedi in una pagina di commento – ma mi chiedo se non sia arrivato il momento di pensare a una qualche forma di governo (governing body) della “wikiversità”. Mi rendo conto che questa idea si distacca dalla formula tradizionale, ma ho la sensazione che non esista attualmente una direzione precisa, e penso che forse ipotizzare una leadership, per lo meno temporanea, della “wikiversità”, potrebbe non essere una cattiva idea».