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trascrizione a cura di Clara Jourdan

Incontro al CIRCOLO DELLA ROSA di Milano, sabato 16 febbraio 2008 ore 18

Luisa Muraro:
Andremo a una discussione di tipo libero. Io faccio una introduzione che non è di senso compiuto, sono appunti che possono aiutare l’impostazione: si tratta della presa di parola in questo momento, in questo contesto su questo tema. La primissima cosa che voglio dire è segnalare alcuni numeri della rivista Via Dogana che hanno esplorato temi che possono essere associati al dibattito di oggi (naturalmente il contesto non è identico). I titoli parlano da soli: Sopra la legge (n. 5, 1992), Quello che le parole possono fare (n. 6, 1992), La questione maschile (n. 21/22, 1995), Partorisce in una stalla (n. 24, 1995), Culle semivuote. Che cosa ci sta capitando (n. 34/35, 1997), Generare non generare (n. 49, 2000), Un passo indietro (n. 71, 2004), Il mondo è un campo di battaglia (n. 76, 2006). Infine, l’ultimo, Preti e femministe (n. 83, 2007).
Comincio proprio con i preti. Sono appunti schematici e li leggo:
– I preti fanno politica. Perché no? Ma si pretenda anche da loro che sia buona politica, con una sua impostazione originale e appropriata.
– Quello che la legge 194 regolamenta è una materia umanamente delicata. Dal punto di vista del diritto è una materia di confine, che vuol dire più fuori che dentro dalle cose di cui il diritto può parlare. Come legge dicono che la 194 ha dato buona prova di sé, ma nella 194 non troviamo scritte le conquiste politiche, le conquiste della libertà femminile. Certo, va difesa. Però: perché?, come? Farci sopra una campagna elettorale? Come si fa?
– L’inflazione del linguaggio dei diritti non aiuta a tenere la misura giusta.
– L’opinione pubblica come tale ha peso, piaccia o non piaccia. Teniamo conto che è cambiata, può cambiare: quanto e come? L’aborto oggi è un problema meno diffuso, o meglio che riguarda di più le donne della immigrazione povera: è così che viene sentito. Inoltre oggi si fa politica “all’americana”, cioè campagne, predicazioni, televisione, cose così, un po’ teatrali, con le emozioni… E questo naturalmente ha la sua importanza: non ci sono le mediazioni ponderate di grandi formazioni politiche, come quando il problema è stato affrontato e risolto con la legge e il referendum è stato respinto. È un’altra situazione quella di oggi, bisogna tenerne conto.
– Fino all’altro ieri (fino a prima che ci fosse la legge), l’aborto era un affare di donne, ignorato e semi tollerato dagli uomini, che non volevano saperne. Gli uomini assolvevano tacitamente le donne. Forse ora invece tendono a colpevolizzarle. Anche gli uomini hanno un inconscio, e questo fa sì che c’entrano con l’aborto: non si può dire che l’aborto sia solo un affare di donne. Gli uomini sono nati da donne e quindi l’aborto è una cosa che almeno a livello dell’inconscio li tocca.
– Chiamare in causa i padri? Lo dico perché in un bellissimo articolo Natalia Aspesi lo ha detto. Ma chi sono i padri? Finché una donna non ha detto “sì”, chi sono i padri? Ci sono?
– C’era e resta, esiste, anche in altri campi, per esempio quello delle adozioni, il problema di tenere la relazione, e soprattutto la relazione materna, al centro. C’è la tentazione di voler pensare il bene dei/delle bambini/bambine indipendentemente e perfino contro la madre. È una tendenza generale. Non c’entrano naturalmente i nascituri, i feti ecc. Dico che la tendenza a fare il bene delle creature indipendentemente e anche contro la madre si è già affermata, anche in un paese come l’Italia.
– Ultimo punto, è una questione: vale la pena di moltiplicare le prese di posizione? Al sito della Libreria delle donne riceviamo tante prese di posizione, in cui c’è di tutto, scritte con entusiasmo, con convinzione… Non riceviamo mai notizie, racconti di donne che stando a contatto con altre donne dicano qualcosa di quello che dicono le donne. Sono gruppetti che pieni di fervore mandano prese di posizione, spesso piuttosto ripetitive, a volte con argomenti che non sono contestuali di oggi. Non conviene invece di moltiplicare le prese di posizione, far circolare pochi testi di buona qualità? Quest’ultima è la scelta del sito della Libreria delle donne.
Questi sono i punti, come vedete scuciti, vari, differenti. Io non intendo trattare la questione, voglio solo ricordare che qui siamo per ragionare: non è un vecchio problema, è un problema che si pone oggi, nel contesto di oggi, e quindi va trattato secondo il senso politico, secondo la intelligenza di questo momento storico. Quello che mi sento di dire vivamente è che si eviti la contrapposizione. Non si forma una posizione solo per dire la cosa contraria di un supposto avversario. Vi faccio subito un esempio. Veltroni e Berlusconi, cioè i capi delle due più forti formazioni politiche che vanno in campagna elettorale, si sono trovati e si sono detti “perché non teniamo fuori l’aborto dalla campagna elettorale?” Sappiamo che l’hanno detto per una furbata: perché, come ci hanno spiegato, uno ha paura di andare contro i cattolici e l’altro ha paura di andare contro le donne, e quindi vorrebbero non essere obbligati a parlare di questa cosa, lasciare la libertà di coscienza ecc., trovare un escamotage per non affrontare questa discussione. Ma questa non è una sufficiente ragione per dire: “Ah no, tutta la campagna elettorale la faremo su questo!”, semplicemente per contrapporsi alla posizione dei due furbi. La questione: che cosa si fa di questo tema in una campagna elettorale, va trattata per se stessa. Ci sono problemi – qualcuno l’ho accennato – proprio perché siamo in presenza di una materia che ha questo carattere di limite.

Antonella Nappi: Siccome non va sottovalutato l’avversario, purtroppo bisogna capire bene sia Ferrara sia la Regione Lombardia… cioè quali sono le misure che si sono presentate. Credo che dobbiamo dircele per capire meglio.

Luisa Muraro: Il generale Giap, quando gli hanno chiesto “come hai fatto a sconfiggere…”, ha detto: “Io non sono così bravo, io approfitto degli errori dell’avversario. Il più grande errore che si può fare è sottovalutare l’avversario. Mi hanno sottovalutato e io ho vinto”. Sono d’accordo con Antonella che non bisogna sottovalutare l’avversario. Vorrei però capire chi sarebbe l’avversario. Questa è una discussione libera, non è che abbiamo individuato un avversario. Secondo alcune l’avversario è semplicemente l’uomo che mette incinte le donne, e basta, anche quando queste non hanno desiderio.

Mariangela Mianiti: Io vorrei raccontare la mia esperienza personale. Sono giornalista, un mese fa propongo a Vanity Fair – una rivista a cui collaboro – un pezzo sull’aborto. Questo è nato dalla mia insofferenza per come se ne stava parlando e per il fatto che soprattutto ne stavano parlando solo uomini. Proponevo un punto di vista particolare: spogliare tutto dalla polemica e raccontare che cosa è e che cosa significa per le donne abortire, e riportare la questione al centro. Scrivo il pezzo, che mi è venuto con un inizio che era un’invettiva e un dire “ci avete stancato, adesso vogliamo dire la nostra”, e poi entrava nel merito dell’attività dei consultori, ho parlato con donne che hanno abortito, con infermiere, con medici obiettori. Un pezzo pieno di dati. Quando è arrivato in redazione, l’hanno tenuto lì quindici giorni, poi l’hanno letto e mi hanno telefonato dicendomi: “Non possiamo pubblicarlo, perché è un pezzo a favore dell’aborto”. Allora potevo fare due cose: o arrabbiarmi e dire “o così o niente”, oppure scendere a compromessi e cercare di salvare capra e cavoli, e anche rimangiarmi un po’ della mia invettiva. Mi sono calmata, ho riletto il pezzo, ho cambiato l’inizio, cercando di fare una cosa più bipartisan, come si dice, quindi con toni più smorzati, senza prendermela direttamente contro la moratoria, ma citandone l’incongruenza, cercando quindi di fare un percorso che tenesse conto di tutti e due i punti di vista, e questa volta la cosa è passata. Questo per dirvi però che la redazione di Vanity, che è composta quasi solo da donne, le cui lettrici sono in maggioranza donne, ai vertici ha dei maschi; maschi che si definiscono laici, libertari, amici delle donne, e che però su questo punto non riescono assolutamente a mettersi da parte e a lasciare che le donne dicano liberamente quello che pensano. Questo secondo me oggi è il problema più grosso. Riuscire a dire quello che si pensa, ma farsi ascoltare, farsi capire. Non si riesce. In questo momento c’è un atteggiamento violentissimo che è un muro di gomma nel confronti del sentire femminile rispetto a questo argomento. Non si vuole sentire parlare di una donna che abortisce, di che cosa prova e del perché abortisce. Non si vuole andare a fondo di tutti gli elementi. Le straniere che abortiscono, e che sono aumentate del 226% in dieci anni, non si va a vedere perché. Non si vuole veramente parlare dei problemi, che sono quelli dei consultori, e dell’obiezione di coscienza che in Lombardia raggiunge il 70%. Ecco, io trovo che – se Antonella vuole trovare un nemico – i più difficili con cui parlare non sono Ferrara, sono gli altri uomini che si considerano laici, amici delle donne, che ci trattano come compagne, amiche con le quali si può parlare di tutto e liberamente, ma che in realtà quando si tratta di lasciare la parola alle donne hanno paura: paura di scatenare polemiche che poi scatenano la reazione dei lettori, che poi scatenano le reazioni dei benpensanti ecc. ecc.

Luisa Muraro: Volevo precisare, Mariangela, che Antonella ha detto “avversario”, non “nemico”. È una sfumatura ma ha la sua importanza.

Marina Terragni: Quando si mette il feto contro la madre, o il bambino contro la madre, a me pare che sia l’uomo che si metta contro la madre – cioè proprio lui, a proposito di inconscio – come se si volesse sfondare quest’ultima linea di resistenza di un potere femminile (chiamiamolo così) non facilmente omologabile. E quando penso all’avversario, in generale lo penso come quell’uomo che accende un enorme riflettore su questa relazione madre-feto e madre-figlio e comincia a smembrare, cioè a smontare il giocattolo, il meccanismo, in tantissimi pezzi. Voi sapete che il challenge è quello dell’utero artificiale, dove proprio si compie questo percorso fino in fondo. Quindi per me l’avversario è questo atteggiamento maschile, tanto per dare una prima definizione. Una prima risposta che a me viene da dare è: se si vogliono questi figli, si devono volere le madri, e se si vogliono le madri si devono volere le donne, e se si vogliono le donne bisogna lasciare loro spazio di manovra per ciò che sono, per quello che significa essere donna. Vedo questa catena e la domanda che mi faccio rispetto a questa catena è: il diritto che cosa c’entra qui? Luisa ha ragione. Se noi la mettiamo in termini di diritti, alcune sostengono il diritto d’aborto, io non sostengo questo diritto, caso mai sostengo il diritto a non morire d’aborto, altre sostengono altri diritti, altre si chiamano fuori da questa logica dei diritti. Io mi chiedo: se ci si chiama fuori, che cosa si può, non solo dire, ma fare di politicamente efficace? Perché mi sembra anche un buon banco di prova per una politica che non passa attraverso i diritti. E se uno si mettesse nell’ottica, appunto, in questa campagna elettorale, di lavorare, parlare su questo, potrebbe essere proprio un banco di prova di proporre qualcosa che non sta dentro la logica dei diritti.

Una donna (1): Mettere il feto contro la madre è il linguaggio che si usa, un linguaggio ripugnante. Comunque questa è una cosa scontata da dire qui. Ma io credo che una riflessione sul rapporto stretto che vi è fra il corpo della donna e il bambino che c’è dentro, su questo rapporto che appunto non è dicibile mediante il linguaggio del diritto, dovrebbe essere fatta. Proprio le parole delle donne dovrebbero essere dette, e credo che ogni sforzo si dovrebbe fare in questa direzione, perché questo rimanda alla storia delle donne, rimanda a un background di vissuto, culturale, che a mio parere salta pochissimo fuori adesso, e appunto è messo a tacere da questa crociata che vi è contro la donna, contro il punto di vista della donna e contro il suo – ecco, qui sì dico diritto – il suo diritto a decidere. Il diritto della parola della donna a essere prima è qualche cosa che affonda le sue radici in una realtà: lo si era tentato in passato, bisognerebbe riprendere questo tema e il tentativo di dare la parola a questa che è una realtà, non è un sofisma filosofico.

Un’altra donna (2): Se ho capito bene, si auspica il superamento della logica dei diritti e dell’ambito dei diritti per affrontare questo tipo di problema. Io credo che possa essere affrontato, svolto, e comportare la presa di parola sulla base di diversi piani, e credo però che sia ineludibile anche quello del diritto. Se ci sono leggi, per fare solo un esempio, come la legge 40 che oggettivamente infierisce sul corpo delle donne, io credo che sia ineludibile far intervenire la propria azione e parola anche sul piano del diritto.

Luisa Muraro: Volevo suggerire a Marina e all’intervento che è venuto dopo, che il punto che bisogna tenere, perché alcune lo hanno già stabilito, e alcune lo intravedono, è che bisogna chiedere a quelle che sanno di diritto o che usano questo linguaggio e che hanno sensibilità per ascoltare, in quali forme si possa esprimere quella sorta di necessità che supera ogni forma di diritti, doveri ecc., e cioè che non si può obbligare una donna a diventare madre se non lo vuole. Non si può, non ha importanza il perché e il percome. Non si può obbligarla. La legge lo aveva già riconosciuto, nel nostro ordinamento, con il fatto che le donne dovunque partoriscano possono non dichiararsi madri; dopodiché la creatura viene data in adozione. È un principio che esiste da molto tempo, non abbastanza valorizzato dalla cultura per capirne il senso. Naturalmente è diverso quando si tratta di una donna che resta incinta e che dovrebbe portare avanti una gestazione, si tratta di tradurre questo dire del legislatore: “Io non posso farci niente, o lei dice di sì o non c’è niente da fare”. Le donne stesse da secoli sono ricorse all’aborto, la medicina può aiutare le donne che vogliono ricorrere all’aborto, la società provi a vedere se ci sono altre strade, ma comunque il diritto faccia proprio un passo indietro, e si lavori su questo passo indietro. Perché non c’è nessuno, nessuno, che se la sente di sostenere che si possa obbligare una donna a portare avanti una gestazione, a diventare madre se non lo vuole. È una cosa che ripugna. Io suggerisco questa strada. È importante non sostenere il diritto di aborto. È un qualcosa davanti a cui il diritto si arresta, non so che forme ci siano perché questo venga significato.

Antonella Nappi: Mi è difficile pensare a una comunità senza diritto. Non voglio essere polemica, ma dopo tanti anni di sostegno dell’idea che non è punibile la donna, mi è difficile restare a questo punto. E siccome attacchi se ne subiscono, io invece sono stata coinvolta a pensare che o il diritto diventa molto interpretabile o un diritto migliore che capisce di più l’umanità vada però detto, scritto.

Lia Cigarini: Volevo dire a Antonella che c’è ampiamente il diritto. C’è una legge che legalizza e regola l’aborto, e questo devi ricordartelo. C’è stata una posizione che è anche la mia, molto presente nel femminismo, che dice che il diritto si doveva limitare a depenalizzare l’aborto. Tu sai che nella legge 194 l’aborto fatto al di fuori delle strutture e delle procedure previste dalla legge rimane reato. La posizione sostenuta ormai trent’anni fa è della depenalizzazione: la legge si doveva limitare a dire che l’aborto non era più reato e poi che questa cosa fosse inserita nella mutua, che fosse possibile abortire negli ospedali, per chi voleva andare negli ospedali a farlo quindi gratuitamente; e fosse possibile anche nelle strutture private, ovunque si volesse. Quindi l’aborto è straregolato, con precise procedure. In questo momento, al di là delle richieste, manifestazioni di piazza – se no c’è il silenzio delle donne, anche se le donne hanno continuato a riflettere, a dire, sono anche intervenute molto pacatamente nel dibattito anche a livello dei media, ci sono stati articoli di spiegazione sul Corriere, Repubblica, e quindi il silenzio sarebbe non andare in piazza – Luisa diceva: che cosa politicamente si può fare, a partire dalla politica delle donne? Io penso che sia necessario, come d’altra parte ha proposto Luisa, discutere. Perché mi sono resa conto di una posizione unicamente reattiva. C’è chi attacca, naturalmente mai direttamente la 194, che rimane, tutti la vogliono difendere nessuno la vuole cambiare, quasi neppure i vescovi… Riprendere una riflessione, tra le donne e anche con gli uomini. Tra le donne, per ricostruire un percorso politico ricchissimo, una riflessione molto ricca che ha prodotto secondo me una posizione chiara: che non c’è nascita se non c’è un sì della madre e che le donne hanno – come è stato detto anni fa – la prima e l’ultima parola su questa questione. Secondo me da risollevare è la questione che è stata al centro della discussione, cioè quella della sessualità: sessualità femminile e maschile. Sono gli uomini che hanno una sessualità di un unico organo, che è quello del piacere e quello della riproduzione. E quindi richiamarli a una riflessione sulla loro sessualità, che non vogliono fare: esce sempre di scena la sessualità maschile, che invece è quella fondamentale su questa questione. Quindi interloquire non solo dicendo ovviamente “difendo la 194” – anzi “rilancio con la depenalizzazione”, perché la 194 è stato un compromesso, accettato come compromesso – ma dicendo di riportare al centro la sessualità femminile e maschile. Le donne hanno una sessualità che non riguarda direttamente la riproduzione – qui siamo tra donne e lo sappiamo -, ci sarebbe la possibilità di avere una sessualità senza implicare la riproduzione della specie. Gli uomini no. Allora, Antonella: il diritto esiste, esiste il diritto commerciale, il diritto penale, ecc. ma ci sono degli ambiti dove prima del diritto parla altro, e non credo che l’ambito della sessualità sia da regolamentare.

Donna 1: In parte hai detto quello che volevo dire prima, che ci si trova di fronte alla necessità di dover reimpostare il problema donna, vita, uomo, fin dall’inizio. Perché quando si parla di aborto, di leggi, siamo già alla fine del problema, che va reimpostato dall’inizio, va riconosciuta una situazione di forza della donna, perché la vita viene dalla donna. Quindi questo va riconosciuto da un punto di vista culturale prima che giuridico. Come possiamo reimpostarlo in modo intelligente, da farlo circolare e che sia accettabile anche agli uomini? È una nuova forza culturale che dobbiamo prendere, non so come ma bisogna farlo. Qui siamo costrette a ripensarci. Sì, ci ritroviamo di fronte al problema sessualità, corpo, piacere, maschi e femmine. E i maschi devono giocare molto, questa volta tocca a loro cambiare.

Marina Terragni: Intanto c’è la questione di intercettare il pensiero delle giovani: io non è che lo veda molto espresso dalle manifestazioni di piazza. Ho la sensazione di un mutamento. Avevo anche letto un libro di Ritanna Armeni che conteneva una umile e molto dettagliata inchiesta sull’aborto, uscito due-tre anni fa, dove lei registrava un vero mutamento di sensibilità, sia tra le giovani donne che tra i giovani uomini, sulla questione dell’aborto. A me manca di avere nozione di questo mutamento. Bisognerebbe fare due orecchie così e sentire bene, perché è inutile sentire quelle che gridano che Ferrara è grasso, a quello ci arriviamo tutti. La 194, è vero, nessuno più ne chiede l’abolizione: viene svuotata dall’interno. Tra l’altro, uno degli indizi di questo mutamento di sensibilità è che i giovani medici, e per ragioni di carriera e per ragioni di effettivo cambiamento, di aborti non ne vogliono sentir parlare più, soprattutto dei terapeutici. Qui vorrei introdurre due questioni, su cui c’è confusione come sulle giovani. Gli uomini i figli non li vogliono, i giovani uomini non vogliono fare figli. Le donne per fare i figli devono combatterseli in un modo pazzesco: prima con loro, poi con il datore di lavoro. C’è una cultura antimaterna. Questa cultura antimaterna viene raffigurata all’inverso come tutti questi uomini che vogliono feti, figli, embrioni, qualunque cosa sia, e scompare questa realtà, di uomini che non vogliono fare i figli e costringono spesso le ragazze ad abortire quando i figli vengono. È una falsa coscienza, che è molto interessante. L’ultima questione che è spinosa per noi ma va considerata – ne parlavamo con Luciana Percovich che ha scritto il libro La coscienza del corpo e ha ricostruito un po’ anche il percorso – è la questione della sofferenza del feto. La sofferenza del feto è un rimosso, lei dice che è stato necessario, in quel momento, di fronte a un’emergenza vera, però bisogna pensare qualcosa: non so come, perché lì sì scendi sul terreno dell’avversario, inevitabilmente, però forse non solo sul terreno dell’avversario.

Manuela Ulivi: Nella mia esperienza il diritto è l’esercizio di un potere: io vedo quotidianamente come esercizio di questo potere quello che fanno i tribunali per i minorenni. È una cosa che mi trascino già da molti anni come un’esperienza difficile per me, perché vedo costantemente messa in discussione la figura della madre. Il tribunale per i minorenni interviene sempre in situazioni un po’ limite, ma neanche più di tanto, quindi non sono le madri che picchiano, che mettono i bambini sul balcone a meno dieci gradi, ma sono donne assolutamente normali magari in situazione di particolare difficoltà, disagio temporaneo, che vengono messe in discussione rispetto alla loro idoneità a essere madri. Quindi questa messa in discussione io la vivo molto male. La decidono degli psicologi, uomini e donne, poi la decidono sostanzialmente delle donne, perché il tribunale per i minorenni come composizione è femminile. Non è che la campagna che oggi stiamo vedendo, il pro-life ecc., sia una volontà di continuare a esercitare questo potere ancora prima? Allora, la madre si domina attraverso il metterla in discussione nella sua relazione con il figlio nato, la donna si domina attraverso il metterla in discussione rispetto alla gravidanza e alla sua scelta nella gravidanza. Io ho visto giovani uomini volerli i figli, non non volerli: giovani uomini che mettono incinte delle donne per voler gestire un potere su queste, e quindi poi dire “io voglio riconoscere il bambino”. Ragazzi giovanissimi, 18-19-20 anni, che non gestiscono la sessualità come la gestivamo noi: quando ero studentessa l’idea di rimanere incinta a 18-19-20 anni era una cosa assurda. Invece oggi viene quasi accettata. E adesso mi ritrovo questa campagna, che mi indigna, rispetto alla quale non ho risposte sul da farsi, però ho l’impressione che si voglia portare la gestione di questo potere sulla donna; come la legge sull’affido condiviso, di cui abbiamo parlato negli anni precedenti, che vuole, rispetto a un potere delle donne, che è quello di gestire i loro figli, la gravidanza prima e la maternità dopo e poi tutto quello che vivono nella loro relazione con i figli, controllarle.

Pasqua Teora: Quello che sta succedendo in parte mi indigna, come indigna altre persone qui dentro, in parte mi confonde, e in questa confusione ho ritrovato delle considerazioni che ho fatto con giovani donne che hanno deciso di interrompere la gravidanza. Donne che avrebbero amato avere dei figli. Anch’io ho incontrato alcune donne che hanno deciso di interrompere la gravidanza perché non c’erano le condizioni per scegliere qualcos’altro. La filiera di sostegno al nascituro, come già si diceva prima, richiede che ci sia un sostegno alla vita, alla donna, alla madre, alla famiglia. E questo non c’è, per cui l’aborto, che non è un diritto ma è una scelta sempre dolorosa, non ha come contraltare – per le riflessioni che sto facendo – la libertà di mettere al mondo un figlio laddove ci sia il desiderio.

Luisa Muraro: Sentendo le parole di Pasqua Teora e leggendo anche testi su questo tema, io qui volevo porre una questione: è il caso di entrare oppure no nel merito del perché una donna abortisce? Non so se entrare nel merito sia rilevante, significativo e appropriato, perché secondo me la cosa resta sempre e solo una, cioè: se si vuole evitare gli aborti, bisogna aiutare, favorire la maternità. Ma, lo dicevano per la natalità: non ci sono i servizi sociali, non c’è questo non c’è quello, per forza che non c’è natalità; e poi sono andati a vedere nelle regioni cosiddette rosse (di una volta), c’erano tutti i servizi ma la natalità era ancora più bassa. Allora hanno capito che non è così che la faccenda va. Allora la questione va posta, di capire se si deve entrare nel merito delle motivazioni di lei oppure se si deve semplicemente dire: siamo davanti a un qualcosa che non possiamo programmare, gestire, giustificare, incoraggiare ecc. Perciò i comportamenti da tenere da parte di chi vuole favorire le nascite sono comportamenti che devono rispecchiare non l’entrare nella testa dell’altra, ma essere coerenti con un desiderio proprio di vedere più bambini, di stare di più con i bambini, un desiderio di uomini o di donne pro-life che ha da esprimersi positivamente.

Marisa Guarneri: In questa discussione ritrovo molte cose antiche ma anche cose diverse. Una cosa che mi fa riflettere, negli scritti che ho letto, nelle situazioni in cui sono stata, è che ritorna la questione che la legge va applicata in tutte le sue parti, che è un po’ la stessa cosa che diceva Luisa adesso. Questa posizione dà per scontato che si possa sempre prevenire, che la prevenzione sia sufficiente per evitare questi fatti. Sappiamo benissimo che non è così, che principalmente il ragionamento è sulla sessualità, nella relazione fra uomini e donne, fra quella donna e quell’uomo, e quale equivoco, quale errore, quale cortocircuito c’è stato, per cui a un certo punto questa nascita non può esserci, o non vuole esserci, o comunque resta solo patrimonio della donna. Molte volte si arriva all’aborto anche solo per sapere se si può essere madri. Il discorso sull’aborto terapeutico poi si trasferisce inevitabilmente sull’aborto nelle prime settimane, come se noi avessimo a che fare con bambini già nati, da salvare, da rivitalizzare… Quello che io ci vedo sotto – e lo vediamo allo stesso modo, con Manuela Ulivi – è un radicamento del controllo. Lo vedo nella mia esperienza alla Casa delle donne, che il controllo e il possesso sono il primo passo che porta a situazioni di violenza. Il controllo è proprio il brodo di coltura della violenza. Il controllo e il possesso progressivo, continuo e sempre più profondo, fino ad arrivare al controllo definitivo che è l’omicidio. Mi sembra che questa logica del controllo e del possesso stia anche nella discussione che sta venendo avanti. D’altro canto la 194 ha dentro paletti di controllo molto precisi, perché c’è il medico, c’è il giudice per le minorenni… Però quello che sta proprio sotto sotto, secondo me, è l’essere tagliato fuori degli uomini, essere lasciato, essere abbandonato, che produce comportamenti non equilibrati, anche violenti. E qui è un po’ la stessa questione: io mi allontano dalle braccia dello stato e vengo fermata, così come mi allontano dalle braccia della mia famiglia, del mio uomo e vengo fermata brutalmente. Dopo di che io sono perplessa non tanto sul come rispondere, perché che non si possa prescindere dalla volontà della donna non c’è da discutere, però mi piacerebbe approfondire anche sul cambiare le strategie di risposta, che non siano sempre e soltanto difensive.

Emanuela Mariotto: Sono d’accordo che lo scenario sia molto cambiato rispetto a quando è stata fatta la 194 e la cosa fondamentale nuova è che si è affermata la libertà femminile. Nel ’78 si parlava ancora di liberazione delle donne, forse qualcuna era già più… ma a livello pubblico e a livello simbolico soprattutto, il fatto della libertà femminile non si era ancora manifestato in maniera così chiara. Quello che voglio dire è che anch’io mi sento in un tema complicato. Non mi piace quando leggo sui giornali “il diritto di aborto”, ma perché ritengo che il discorso sull’aborto, proprio perché si è affermata la libertà delle donne, sia a livello simbolico qualche cosa che ci depotenzia. E quindi se è vero che abbiamo affermato la libertà femminile, è su questo terreno che va ripreso il discorso, anche dell’aborto, e in tutte le sue implicazioni, che secondo me non vanno viste sul piano della legge positiva, cioè del diritto, perché è un terreno che proprio non può applicarsi, ma sul piano della legge morale, io dico. Mi fa molta paura che noi donne lasciamo questo discorso dell’aborto in una insignificanza morale. Io non sono cattolica però sento questo problema morale. Non sono cattolica, però penso che la vita inizi con il concepimento, nel corpo materno; che questa definizione di vita che inizia in quel momento la si debba e si possa fare solo a livello filosofico e simbolico, non altro. Anche se poi le conoscenze scientifiche e quello che ci viene messo sotto gli occhi vanno in questa direzione. Non ho nessuna certezza, però sento che noi donne siamo soggetti liberi – l’ho scritto anche in una lettera che ho mandato a Via Dogana – nella consapevolezza che possiamo scegliere tra bene e male. Questo è un grande tema morale, non so se sia anche politico, penso di sì, però in un senso un po’ diverso forse dalla politica reattiva e anche di difesa della 194. Che non si può prescindere dal sì della donna sono assolutamente d’accordo, non ho dubbi. Mi rimane un problema, questa zona grigia, oscura, di ciò che avviene tra la donna e il suo aborto: lasciarlo nell’insignificanza morale e simbolica penso sia molto rischioso per la nostra libertà.

Letizia Paolozzi: Il discorso è girato, io volevo provare a rispondere a Marina, perché non sono d’accordo su quello che diceva. Intanto, “le giovani”: io a Roma alle manifestazioni le ho viste, le ho viste all’assemblea al Buon Pastore, le vedo, può darsi che qui non sono tante le giovani, ma non è quello il punto. Ho come l’impressione che quando non sappiamo bene che cosa dire tiriamo in ballo una categoria anagrafica che chissà come la pensa. Diciamo noi come la pensiamo e poi proviamo a vedere se riusciamo a metterci d’accordo. Il secondo punto, la sofferenza del feto, a me sembra un discorso – già c’è stato da parte di una storica – di una colpevolizzazione di me donna, terribile. Quindi io non posso accettarlo, sarà perché ho attraversato un lungo periodo di malattie, di cose mostruose, ma per me quel discorso non dev’essere chiamato in ballo. Detto questo, a me convince invece quello che diceva Lia, perché per ragioni anche elettorali o perché ci sono personalità che non sono soltanto “un uomo grasso”, sono personalità molto intelligenti che usano il parossismo, così come ce ne sono state nella storia d’Italia (da Marinetti a Prezzolini hanno fatto questo tipo di operazioni), quello che si sta determinando è che da una parte ci sono le femministe che vanno con i cartelli in piazza, anche con quelli “diritto di aborto” e dall’altra parte c’è questo schieramento più o meno modulato. Questa cosa sarebbe un grave errore, c’è una libertà femminile che deve trovare il modo assennato per rispondere, per non farsi mettere in difesa. Come possiamo noi far sì che torni il discorso che il bene del bambino, di quello che verrà o di quello che non viene, è assolutamente legato alla madre. Perciò la riflessione che proponeva Lia sulla sessualità maschile e femminile è indispensabile. Guardate che però quella maschile non la vogliono fare. Oggi si stanno riunendo gli uomini a Viareggio e speriamo che ne venga fuori qualcosa, ma è un gruppetto di quaranta uomini. In generale gli uomini quando si esprimono si esprimono a prescindere. Cioè è molto complicato in questo periodo quello che gli uomini hanno da dire sulla propria sessualità, perché non l’hanno mai affrontato, lo vogliono evitare. Allora, è vero che ci troviamo di fronte a un oggi che non è quello della discussione sull’aborto di molti anni fa, ma è anche vero che c’è una questione maschile, della quale Lia e altre parlano, che fa sì che da un lato non c’è riflessione e dall’altro c’è questo tentativo di tornare ad avere un dominio: perché gli uomini si sentono esclusi, perché non hanno più la prima ma soprattutto l’ultima parola, tant’è che si divide il mondo femminile, il mondo delle donne vittime da quello delle donne che invece – compresa la signora Silvana dell’ospedale di Napoli che non sarebbe tanto vittima se non quando si è scoperto che non aveva un uomo, un padre, un marito che l’accompagnasse – questa gestione del loro corpo l’hanno conquistata.

Luisa Muraro: Riprendo l’intervento di chi ha parlato di legge morale. In effetti è proprio la parola legge che non è affatto innocente. Primo, io non credo che ci sia un deserto né morale né simbolico, e Grazia Zuffa e altre hanno insistito: guardate che le creature piccole vengono al mondo, anche in condizioni difficili, e sopravvivono, basta che abbiamo in mente tutti i teatri di guerra e le periferie povere. Allora, il rifiuto di diventare madre ha come contesto il fatto che c’è un comportamento di donne che è di grande accoglienza e generosità. E le donne che con grande accoglienza e generosità favoriscono la vita non hanno mai condannato quelle che abortiscono, mai. Questo è il punto che bisogna sottolineare. Anche dalle donne che hanno deciso, nei casi di bambini di cui si sapeva che erano malformati, di accettarlo, non viene condanne. Adesso può darsi che cercheranno di ottenere condanne di fonte femminile, ma per quello che noi sappiamo comunemente questo comportamento femminile ha una sorta di accettazione, di comprensione, se vuoi possiamo anche chiamarlo di scusare e di perdonare quelle che non si sono sentite. Semmai, per la cosa che interessa a te, che interessa anche me, io direi: cominciamo a fare, con degli elementi che ci sono, perché ci sono, un discorso di moralità diverso, che non ha a che fare con la legge. Mentre sarei disposta, in questo discorso di moralità e di simbolico che tu chiedi – l’ho già detto a Maria Luisa Boccia che mi pareva abbastanza d’accordo -, a riconsiderare l’idea della natura, che per una certa cultura è stata estromessa: io credo che non si riesca a entrare in queste materie finemente senza riammettere un discorso in cui è anche questione di natura. L’altro punto difficile che io trovo è sì che la vita umana comincia con il concepimento, ma non possiamo ragionare secondo la logica dei protocolli medici, che sono necessari – 21 settimane, 22… – per i loro comportamenti, dato com’è organizzata la sanità, ma non possiamo pensare che la cosa è risolta così. La vita è qualcosa che avanza, progredisce. Abbiamo dato come criterio – e mi pare un criterio valido – l’accettazione da parte della donna che resta incinta. Nel momento in cui lei dice “accetto”, ecco che siamo in presenza di una vita umana, è l’elemento relazionale. Prima è sospesa, secondo quel poco di discorso che pure abbiamo articolato. Cioè la cosa sta sospesa all’accettazione. E del resto quello che è appunto il fatto naturale sta abbastanza a dimostrarlo: sono due organismi che crescono uno dentro l’altro e uno nella totale dipendenza dall’altro, e c’è il bisogno che l’organismo che cresce nella totale dipendenza entri in un universo simbolico, e noi abbiamo detto che ci entra con l’accettazione da parte della donna che così diventa madre. A me interessa molto quel discorso, ma non è che non ci sia niente.

Laura Lepetit: La depenalizzazione dell’aborto non so cosa comporti legalmente, però mi sembra una richiesta molto forte da fare, e rispetto alle provocazioni che ci fanno e che sono molto forti – sia la moratoria sia quelli che vanno in ospedale a piantonare la povera donna appena operata mi sembrano provocazioni fortissime – chiedere questa cosa che è certamente estrema mi sembrerebbe una risposta all’altezza. E poi volevo fare un collegamento con quello che diceva anche Letizia, cioè la riflessione sulla sessualità maschile e femminile, come avevano già fatto Carla Lonzi, Pasolini e altri, cioè di definire la sessualità maschile soltanto e unicamente procreativa: finché la donna è costretta a entrare in questo schema di sessualità procreativa mi sembra giusto dire che l’aborto non è reato. Proverei a collegare queste riflessioni alla depenalizzazione. Forse è una trovata, un gesto che può essere altrettanto estremo.

Marina Terragni: Che cosa ti dà la fiducia che oggi coagulerebbe più consenso che in passato? Perché è stato poco il consenso coagulato allora.

Lia Cigarini: Non è vero. Quando Clara Jourdan è andata in televisione da Santoro a sostenerla, la depenalizzazione è stata maggioritaria (sai che facevano i sondaggi). Era anni fa [1993, n. d. r.]. La depenalizzazione ha pagato la poca presenza della nostra parola nei mass media. Quella volta lei è andata a sostenere la depenalizzazione, gli ascoltatori erano d’accordo.

Luisa Muraro: Teniamo comunque conto che sull’abortire le donne hanno sempre sofferto, ma goduto di notevole autonomia. Io ho abortito quando era illegale, ci si arrangiava. Non è che ci interessa in maniera decisiva quello che il diritto dice – puoi, non puoi – lo facciamo lo stesso, e non ci piove, le donne sono determinate su questo punto. Quindi non abbiamo bisogno di quelle logiche per cui se il diritto dice “sì” allora si può: non è così, e proprio fisicamente. Bisogna tener conto di questa forza, la determinazione delle donne su questo punto. Capisco che è terribile – penso alle immigrate povere – capisco che è una strada in salita, ma facciamola giocare questa determinazione delle donne, legge non legge, permesso non permesso, marito non marito, fidanzato non fidanzato. Io questa cosa non sto a predicarla, dico che è un elemento da far giocare nel confronto politico.

Antonella Nappi: Ho sentito cose molto interessanti. Anch’io trovo che ci sia un vuoto tra il rimanere incinta e l’abortire e vorrei che le donne potessero riempirlo, che una donna potesse contattare delle donne. Vorrei che almeno ad avere un figlio, chi lo vuole, fossero aiutate, aiutate proprio con stipendi, come un lavoro; che il figlio diventasse un lavoro riconosciuto socialmente. Naturalmente anche che di sessualità non procreativa si parlasse. E anche vorrei che di fronte a questi attacchi maschili noi donne avessimo delle grandi risposte, delle lunghe risposte che tirano in ballo l’assistenza alla vita degli anziani, dei soli… come assistita molto di più dalla società: si ribattesse su questo. E ancora volevo ricordare una cosa che trovo molto importante, il fatto che le donne parlino della società e dei problemi collettivi, non solo dei problemi della singola. Dunque, rispetto al volere tanti bambini, al volere nuova popolazione, al volere popolazione nazionale, come stiamo subendo da almeno vent’anni – l’economia vuole popolazione, non vuole e non permette il controllo della nascite, gli economisti, gli uomini di governo, gli imprenditori vogliono popolazione, la politica vuole popolazione nazionale da contrapporre, in un mondo che scoppia di bambini – credo che le donne debbano prendere atto di questi problemi, debbano volere un’attenzione a ridurre la popolazione, e anche a lottare contro questa richiesta di popolazione perché serve per i consumi, per mettere i lavoratori gli uni contro gli altri, per assoggettare le donne. Dobbiamo assolutamente avere una visione politica complessiva. Non ultimo, tutte queste esagerazioni tecniche sugli embrioni, per la sostituzione degli organi, per il tentativo di farsi procreatori senza le donne: io penso che non si deve accettare che la scienza faccia quello che vuole. No: le donne devono mettere becco in quello che fa la scienza.

Susanna Camusso: Ci sono due parole che sono passate nella discussione su cui volevo provare a fare, su una una domanda, sull’altra un’affermazione. La domanda è su “natura”. Luisa diceva rispetto all’affermare l’insignificanza morale, più che assumere quello che non c’è ragioniamo di natura. La domanda che a me viene immediatamente (ho delle obiezioni all’idea della natura) è: come si fa a reintrodurre un ragionamento di natura nel momento in cui tutta questa discussione – le operazioni come numero di settimane, Formigoni e le linee guida, rianimazione dei feti e così via – è il trionfo della medicalizzazione. Fino a che punto si può tornare all’idea che la natura è quella che regola in un mondo che invece sta cambiando le regole in ragione del fatto che la medicalizzazione va. Che a me pone anche qualche contraddizione di altri, perché chi invoca spesso la natura è il pensiero religioso che poi è esattamente lo stesso che propone l’accanimento terapeutico come risposta rispetto a eventi che sarebbero altrimenti “naturali”. L’altra parola è “diritto”. Ormai la si usa con moltissimi significati, da quello teorico a quello dell’affermazione del fatto che è una scelta che sta al singolo e che nessuno gli può espropriare. Io proverei a ragionare se il termine “diritto” legato all’aborto è un termine corretto. A me non verrebbe, devo dire. Mi viene il fatto che è una sola persona che può scegliere, che è la donna, ma i diritti mi parrebbero altri. Però nel linguaggio comune io credo che spesso il diritto voglia indicare quella cosa lì, cioè che è in capo alla donna decidere se. Non è un’affermazione teorico-giuridica ma è l’affermare il partire da sé che sei tu che decidi e non ci sono altre che possono decidere al posto tuo. Qualcuno invocava le giovani. A me è capitato di fare un po’ di assemblee nei licei sulla 194: non è vero che il tema non c’è tra le giovani, è vero che c’è un silenzio dei giovani invece, dei giovani maschi, impressionante. Se io dovessi dire la cosa che mi ha colpito di più in queste assemblee, è una domanda insistita dei giovani maschi sul come si trova la pillola del giorno dopo, che credo dica tante cose su come esercitano la sessualità.

Mariangela Mianiti: Le ragioni per cui le donne abortiscono. Se si va a parlare con chi nei consultori le ascolta e le accompagna in questo percorso, il 5% delle donne che si rivolgono ai consultori decide di tenere il figlio, perché vengono aiutate a capire le ragioni profonde. La ragione generale profonda è la solitudine: queste donne sono sole, o single non sposate oppure hanno già due figli e il marito non ne vuole un altro; e nelle straniere la situazione della solitudine è totale, è la maggioranza delle cause. È questo il punto centrale. Poi, certo, una può anche ricorrere alla contraccezione e capita l’incidente. Le minorenni sono pochissime. Però la cosa impressionante è che a parità di percentuali fra le trentenni e le quarantenni, le donne che scelgono di non tenere un figlio lo motivano in parte per ragioni economiche – se avessero i soldi alcune lo terrebbero anche da sole – ma le altre perché sono sole. Allora: dove sono i maschi, dove sono i padri di questi bambini? È questo il punto da rilanciare indietro, secondo me: parlate parlate, ma le novantamila donne italiane che abortiscono ogni anno, cosa fanno gli uomini, dove sono? La maggior parte di loro si disinteressa: è un incidente, non li riguarda, non ne parlano neanche, oppure si preoccupano soltanto di portare la donna all’intervento. L’altra cosa che volevo dire è quello che succede negli ospedali quando una donna decide di abortire. In molti ospedali c’è la colpevolizzazione sistematica. A Monza le donne che abortiscono vengono tenute nello stesso reparto accanto alle donne che hanno appena partorito. È una situazione delirante, secondo me, di violenza psicologica sulla quale non si pensa. Senza contare poi il carico che hanno i medici abortisti, perché sono sempre di meno e poveretti devono fare solo quello, a tempo pieno.

Luisa Muraro: Questi elementi che porti sembrano confermare quello che diceva Lia Cigarini implicitamente e Laura Lepetit esplicitamente: la depenalizzazione torna buona adesso. Perché la depenalizzazione ha un significato simbolico e perché significa anche che si può abortire con altre modalità. Poi ci sarà la rincorsa a farli, gli aborti, perché bisogna prevedere che con la depenalizzazione una parte lo faccia a pagamento.

Nerina Benuzzi: Ho riletto il documento del 1989 a firma di Lia Cigarini, Luisa Muraro e altre che proponeva di discutere la depenalizzazione. Mi interessava capire, al di là del fatto che si sostenesse, come anch’io ero d’accordo, che era più forte dire che non era un reato, le motivazioni per le quali una legge di regolamentazione poteva dare dei problemi per il futuro (così ho capito rileggendolo). Perché una mediazione giuridica ha dei problemi di gestione e si espone sempre a una verifica. Nella discussione se si abbia il diritto di abortire, quindi si possa dire l’aborto è un diritto, o invece stare un passo indietro, cerco di capire in quale dei due schieramenti – anche se è brutto ragionare in questi termini, però ne ragioniamo liberamente – io posso trovare, diciamo così, delle pillole avvelenate. Se condivido che la prima e l’ultima parola è della donna, che il potere di generare e di dare una vita mi riconoscerebbe implicitamente anche il potere di non darla, io ci metto a fianco la responsabilità e quindi l’amore, la relazione e tutte le cose di sostegno che metto in questo percorso. Uno degli elementi di debolezza della legge è il fatto che essendo un diritto ed essendo condizionato (si fa nelle strutture pubbliche ecc.), gli obiettori di coscienza diventano una mano lunga di un potere più grande della mia coscienza; non a caso alcune ginecologhe stanno tirando fuori una parola di vicinanza alle donne che loro aiutano facendo l’interruzione di gravidanza. Cioè, gli obiettori sembrano rifarsi a una morale più alta della nostra, mentre queste ginecologhe con cui abbiamo parlato di recente dicono che loro fanno da trent’anni affermazione di coscienza. Poi c’è la questione della medicina, nell’aborto terapeutico: la medicalizzazione adesso raggiunge livelli che fanno molto male, l’abbiamo visto con la legge 40. (Lo dico perché quando ho fatto l’amniocentesi sapevo perfettamente quali erano i tipi di malattia che avrei potuto evitare sapendolo e io ero sicura che non l’avrei voluto, ma in questo caso io ero una donna che aveva voluto restare incinta e voleva un figlio.) C’è una battuta che circola, quasi quasi questi feti sono dei piccoli omini, dei puffetti, completamente formati, solamente molto piccoli e noi molto cattive. E quindi bisognerebbe proprio riappropriarsi della medicina, non per combattere l’avversario; lo dico nei confronti di me stessa, mi ha fatto molto piacere leggere su un giornale parole chiarissime in cui si diceva che questi feti non sono bambini molto piccoli, fanno molta fatica a vivere, hanno tutta una serie di problemi che io non so, non avendo avuto il problema. Quindi questo è già un terreno di conoscenza sulla medicina secondo me molto forte, però tutte le cose vanno usate in questo senso. Quando Luisa diceva “noi lo faremo comunque”, è vero, magari male, morendo, soffrendo, di sicuro non si eliminerà l’aborto, quindi questo nostro potere di generare o di non generare va nominato in modo molto forte, perché questo consente di sentirci meno sole, visto che si parlava di solitudine e sono d’accordo. L’altra cosa che diceva Luisa era: gli uomini hanno tollerato, ci davano i soldi per farlo, oppure davano per scontato che è una cosa sulla quale una donna si poteva sperimentare senza essere assassina, adesso invece… Credo che attaccarci su questa questione della vita e della morte sia una delle cose più terribili che si potesse fare, perché appunto abbiamo delle debolezze. Però, per tornare all’inizio del mio ragionamento, io pur cercando di farmi meno male possibile, se sono nella condizione di scegliere preferisco dire che è un diritto. Mi rendo conto che questo suscita dei mal di pancia… L’altro dolore mi sembra inutile, quello di interrogarci su quando deve nascere una vita. Ieri in un’assemblea una lavoratrice molto semplice mi ha detto: “Bè, la vita è nata milioni di anni fa, poi tutto il resto è una convenzione”: Allora, in questa convenzione ci si può mettere dentro il potere delle donne almeno di un diritto di generare che credo sia quello sul quale noi costruiamo tutta la nostra genealogia, la relazione e l’amore.

Una donna (3): Certo che l’idea della solitudine sicuramente è presente nell’aborto. Ricordo – era il 1972 – che ho detto al mio compagno che io non me la sentivo di prendermi questa responsabilità, e non ho sentito nessuna obiezione, per cui ho abortito. Venti anni dopo, forse venticinque, mi sono accorta che questo avvenimento della mia vita mi procurava dolore, ma me ne sono accorta venticinque anni dopo. Allora mi viene in mente che questo discorso della depenalizzazione collegato al discorso economico forse libererebbe nuove energie. Se io devo pensare a quello che non è stato, penso a un’altra me stessa che non è stata. Se penso a una colpa, non penso a una colpa verso un altro essere umano, penso a una colpa verso me stessa, quella che io non sono stata. E perciò penso che sarebbe bellissimo se si riuscisse a pensarsi libere in quel momento – e qui si deve scegliere – libere da condizionamenti economici, da condizionamenti padronali, da condizionamenti religiosi… Non necessariamente mi riferisco alla religione cui faccio riferimento – perché sono nata in una società cattolica e mi reputo credente anche se eretica – preferisco molto di più pensare a una concezione spazio-temporale in cui non ci sia una sequenza nascita-vita-morte o punizione o comunque qualcosa di piatto come se fosse un fumetto, ma una concezione dello spazio e del tempo di tipo einsteiniano, cioè con questo tempo che va e viene, con questo presente che è sempre presente, con il futuro e il passato che si mischiano, con l’umanità che si affaccia in qualsiasi momento e si vede in qualsiasi momento. Allora, se fosse vero così, e non fosse questa sequenzialità numerica aritmetica della vita, anche quell’altro essere farebbe parte di questo discorso. E non sarebbe così semplice condannare un aborto.

Liliana Rampello: Non ho sentito tutto. Comunque a me interessava riprendere con forza il punto politico che risponde di più a quella che io vivo come una grandissima rabbia. È chiaro che quando si è arrabbiate si è meno lucide, io in questi giorni ho provato veramente momenti di rabbia profondissima e ho fatto molta fatica a riorientarmi rispetto a quello che sentivo. Invece oggi ho sentito che cosa mi serve e vorrei riprenderlo e ribadirlo. Io credo che se noi parliamo di libertà femminile, se diciamo che la prima e l’ultima parola sta alla donna, secondo me ne consegue in modo assolutamente immediato la depenalizzazione. Ne consegue proprio perché libertà significa a mio avviso responsabilità, relazione, amore, non significa irresponsabilità, idiozia o chissà che. Significa e ha significato nella nostra riflessione queste cose, e io queste cose vorrei ridire con chiarezza, per cui la libertà di scegliere, di fare o non fare un figlio non ha niente a che vedere, non dico con l’omicidio, ma nemmeno con quel senso di colpa che in questo momento ti viene violentemente ributtato addosso. Riprendere quella forza che le donne – come diceva Luisa – hanno sempre dimostrato. Quel sapere questa cosa che le donne hanno sempre saputo con responsabilità e non nell’irresponsabilità, è una cosa che in questo momento va detta, perché sono anche convinta che è vero, il tempo cambia, è cambiato anche il tempo rispetto a quando è stata detta la prima volta. Fare un discorso logico, chiaro, che forse metterà un freno a tutto quello che ci viene scaricato addosso e non ci costringa a rispondere sul campo delle cose assolutamente incredibili che stanno dicendo. Fare quello che un tempo abbiamo fatto: un Sottosopra, vale a dire qualcosa che stia lì a dichiarare qual è il punto per noi. Perché c’è un tempo lungo della riflessione, noi la continueremo sicuramente, dentro a questa riflessione ci staranno tutti gli altri problemi che la vita, la morte, l’inizio, la fine possono portare; le donne queste cose le hanno sempre discusse tra loro, anche in un’intimità non immediatamente politica, quindi non ho dubbi sul fatto che la riflessione continui, però secondo me capire in che momento politico siamo è molto importante e io vorrei una risposta politica in questo momento. La riflessione non è esclusa, è nella risposta politica.

Luisa Muraro: Ci sono dei problemi, però. Non che io non consenta con l’atteggiamento di Lilli, però sono venuti fuori qui i problemi, perciò li voglio segnalare. Uno è che dicendo “la prima e l’ultima parola è di lei” bisogna anche dire che di mezzo fra la prima e l’ultima parola forse bisogna vedere se non sia il caso di coinvolgere lui. Non per colpevolizzarlo ma perché non sia tagliato fuori. Perché qui alcune hanno segnalato che da quella parte ci può essere una minaccia e un risentimento, e ci può essere anche della buona volontà: nell’uno e nell’altro caso bisogna tenerne conto, per sapere che fare. L’altro problema emerso qui, è che i sensi di colpa non è che occorre che ce li diano da fuori, ci nascono dentro, e abbiamo avuto una testimonianza poco fa, di un dolore che si è risvegliato. Laddove non ci sono le condizioni per cui una dice “ero disperata, ero sola, non sapevo quello che facevo, non avevo una lira…” però non se la sente lo stesso, ecco che può capitare. Comunque, non ha importanza la situazione, i sensi di colpa possono venire. Su questo punto ho trovato interessante l’intervento che tu facevi, perché va in effetti verso un linguaggio di moralità, e non di legge morale. Il linguaggio della legge è veramente molto maschile, mentre si tratta di trovare una morale relazionale, di questo tenore. Una civiltà del linguaggio, della parola scambiata, del dirsi le cose può aiutare non dico a togliersi i sensi di colpa – Winnicott diceva “che ci siano almeno quelli”, perché se no secondo lui l’umanità s’imbarbarisce – ma che i sensi di colpa non vengano portati nella solitudine. Qui una donna l’ha voluto in qualche maniera condividere. Che lo si dica, non si ragioni con l’azzeramento dei sensi di colpa, perché vuol dire spesso togliersi di mezzo anche un po’ di umanità. Questi li vedo come problemi, non come obiezioni.

Una donna (4): In realtà l’aborto è vissuto non soltanto come un’esperienza dolorosa o di gravi sensi di colpa, ma in alcuni casi anche come una liberazione. Non enfatizziamo sul senso di colpa. Io volevo dire solo due cose. Mi sembra che i due filoni più interessanti, su cui il dibattito peraltro interessante ha forse insistito di più, sono da un lato il discorso sulla natura, la parola “natura”. Nei modi in cui ne hai parlato tu io lo trovo particolarmente interessante. È vero che si scontra invece dall’altra parte con l’esagerata scientifizzazione della maternità, del corpo della donna e di tutto quello è legato alla maternità. Faccio un esempio. L’altro giorno sono rimasta impressionata: leggevo – a proposito del diritto e della libertà della donna di scegliere o meno la propria maternità – di una donna che era stata in qualche modo convinta a partorire un feto che invece avrebbe dovuto essere sottoposto ad aborto terapeutico perché i medici l’hanno rassicurata sulla possibilità di sopravvivenza del feto stesso, grazie a tutta una serie di interventi medici; questo feto poi è morto, dopo (non so se ricordo bene) tre mesi di cure, in cui gli era stato fatto di tutto, compresi interventi chirurgici. Allora mi chiedo che libertà ci sia stata da parte della donna di decidere di non abortire ma di accettare come una gravidanza questo che doveva essere un aborto terapeutico, condizionata dall’eccesso di medicalizzazione a cui adesso la maternità è legata. L’altra cosa, non del tutto distante, è il discorso sulla sessualità. Io sono d’accordo: il problema base è il rapporto tra la sessualità maschile e la sessualità femminile. Però ovviamente è una relazione, un rapporto che apre immediatamente dei conflitti e ci pone, io credo, noi donne, in diretta conflittualità con quella maschile, perché in realtà il rapporto è un rapporto di dominio da parte maschile sul corpo femminile, ed è forse la forma iniziale di controllo sul corpo della donna da parte del potere maschile ma non solo del potere maschile; in senso traslato e se vogliamo poi sommare, del potere più generale. Non a caso per esempio la Chiesa ha sempre sostenuto che l’unico metodo di contraccezione accettabile moralmente era il metodo cosiddetto di Ogino-Knauss, cioè quello in cui è l’uomo ad avere il controllo sull’atto sessuale e sull’eventuale riproduzione, non la donna, quindi è l’uomo che decide in sostanza se la donna può restare incinta oppure no. Quindi è un discorso secondo me anche molto duro, è probabilmente anche per questo che gli uomini non intendono farlo, perché comunque sanno che è un terreno pericoloso.

Lia Cigarini: Io non sono particolarmente amante del femminismo americano, ma credo che l’avere impostato questa questione con il nome di pro-choice, per la scelta, sia molto meglio che il diritto di aborto, perché ritengo che il fatto politico sia la scelta: se puoi scegliere sei in quel momento, in quell’esperienza, libera. Invece dire “diritto di aborto” ti inserisce immediatamente nella questione della legge: puoi abortire perché c’è la 194. Quindi, siccome abbiamo sempre lavorato sul linguaggio, cerchiamo di modificare questa cosa insopportabile che le donne, siccome c’è la 194, difendono il diritto d’aborto, e sono dipendenti da un’eventuale legislazione. E poi, la scelta: io ho avuto esperienze di libertà quando era chiaro che potevo scegliere tra una situazione e un’altra. Quindi chi scrive, le giornaliste, chi fa dei testi, devono cercare di spostare fortemente su questo. Io non sono tanto d’accordo, Lilli, sulla prima e l’ultima parola. Diceva l’Ulivi “tanti giovani maschi che vogliono diventare padri”, ho letto che invece non è così, sono più gli uomini che le donne che non vogliono avere figli. Credo che sia per la totale crisi del patriarcato: il patriarcato non c’è più e non c’è più trasmissione simbolica tra padri e figli. Questo è il punto. Mentre, pur abortendo qualche volta – sempre meno, le italiane – la trasmissione simbolica tra madre e figlia, madre e figlio, è rimasta in piedi, anzi. Io credo che la cosa da dire sia: capita alle donne di abortire per tantissime ragioni – mi ricordo in una riunione di autocoscienza per alcune era una tragedia, altre non ce la facevano economicamente, per alcune sembrava una cosa assolutamente superficiale, ne avevano fatti cinque sei e non avevano né sensi di colpa né dolore; quindi entrare nel merito delle scelte, come diceva Luisa, è difficilissimo, perché ti presentano un mucchio di modalità – ma, per il fatto di poter decidere o non decidere di procreare, per il legame che c’è tra il corpo della donna e il figlio durante la gravidanza e il fatto che le donne comunque curano i figli, e soprattutto con la presa di coscienza femminista, una trasmissione simbolica passa. Invece sottolineare che il patriarcato per fortuna è crollato e che quindi loro, gli uomini, devono cominciare a interrogarsi su cosa significa essere un uomo fuori dal patriarcato, perché fin che non passa questo punto ci saranno questi sbandamenti aggressivi nei confronti delle donne, questi tentativi di togliere alle donne la decisione. Cerchiamo con un impegno di testi, di scrittura, di continuare a fare un lavoro politico su questa cosa, non affidare solo alla reattività delle manifestazioni. A me sembra di avere le idee più chiare di trent’anni fa, allora era: basta aborti clandestini. Sono d’accordo con Laura Lepetit: la depenalizzazione è simbolicamente la cosa giusta che si possa chiedere, è quella che fa fuori l’obiezione di coscienza, perché se man mano aumenta cosa fai? Ma queste cose bisogna dirle, non stare lì fissate con questi uomini in crisi.

Marina Terragni: Completa l’argomento. Perché l’obiezione alla depenalizzazione è sempre quella: le donne povere…

Lia Cigarini: La depenalizzazione toglie il reato: negli ospedali, nella mutua, c’è l’aborto, e chi vuole andare nelle cliniche private, può farlo.

Liliana Rampello: Siccome sono d’accordo sulla depenalizzazione ma non ne faccio una questione di opportunità (per evitare l’obiezione di coscienza), se noi pensiamo che sia una libertà di scelta – pro choice quello significa – dunque che la prima e l’ultima parola sia in capo alla donna…

Lia Cigarini: Io sono contraria a “prima e ultima”: c’è la scelta delle donne ma c’è un’interlocuzione.

Liliana Rampello: Ma certo che c’è un’interlocuzione! Quando parliamo di libertà e a fianco a questo piccolo termine – sei stata tu che l’hai aggiunto – c’è “relazionale”, significa che questa libertà non è che la donna se la gioca in una sorta di autocratismo. La donna è sempre, anche nelle scelte drammatiche, in relazione con altri. Lo dimostra persino questo finto dilemma tra natura e medicalizzazione, perché tra questi due elementi, se guardate i percorsi che ognuna di noi probabilmente ha fatto, ci sono in mezzo tantissime altre relazioni. Allora diciamo: libertà di scelta. Libertà di scelta implica depenalizzazione. Sto dicendo che è un punto fortissimo e che le due cose vanno tenute insieme perché probabilmente quel compromesso politico che è stato la legge, allora non poteva essere sconfitto, oggi credo che invece spostare il terreno sia un punto di forza. Perché tutti gli altri ragionamenti imbrogliano anche la mente femminile.

Marina Terragni: Secondo me un’altra cosa importante che bisogna dire è che gli uomini devono mostrare desiderio di bambini, non solo di feti.

Antonio: La mia storia parte dalla presa di coscienza leggendo Carla Lonzi sulla sessualità clitoridea. Dopo di che in questi anni sono uscite tante riflessioni anche sulla sessualità maschile, che però sono rimaste molto minoritarie o non divulgate. Vorrei dirne due che mi hanno particolarmente colpito e trasformato. Una è la notizia uscita due o tre anni fa sui pigmei maschi: quando le donne vanno a lavorare nei campi o nei boschi gli lasciano il bambino e quando il bambino o la bambina è ansiosa, lo attaccano al capezzolo maschile. Quest’estate mi sono fatto male alla gamba, una tendinite, e ho ricevuto parecchi massaggi. Mi hanno suggerito il massaggio tailandese, che vi suggerirei, in cui tra le altre cose c’è l’accarezzamento della corona del capezzolo maschile con il polpastrello e l’unghia. Un po’ mi vergogno a dirlo, ebbene questo massaggio mi ha portato all’eiaculazione, cosa che non mi era mai capitata. I pigmei, che sono da Lucia Chiavola Birnbaum considerati i maschi più pacifici e tranquilli e sono in via di estinzione perché i nemici li mangiano materialmente, hanno la pratica di attaccare il bambino o la bambina al capezzolo, che ha come conseguenza che la donna non ha sensi di colpa di essere una cattiva madre, il bambino o la bambina crescono equilibrati e il maschio ha questa esperienza con il corpo gigantesca. L’altra cosa è che qualche anno fa sono usciti diversi libri della Leslie Leonelli in cui si dice che, con altre sessuologhe e le comunità gay, hanno scoperto nel corpo maschile, nell’ano maschile, il punto P: sopra la prostata, a contatto con il retto, c’è questo punto che provoca tantissimo piacere e che è quasi esclusivo del mondo gay. In realtà non dovrebbe essere prerogativa solo dei gay, questo punto ce l’hanno tutti i maschi, uno lo può stimolare o da solo o con la compagna. Questa è una rivoluzione mentale, perché si è sempre detto, con Freud, che lo sviluppo della sessualità maschile è orale, anale e poi genitale. In questo caso invece addirittura uno dei punti più di piacere è all’interno, tanto che si dice che il maschio che riceve il pene è “quello che fa la femmina”. Allora questo diventa una rivoluzione simbolica, perché invece che andare a penetrare – e la Zambrano diceva che tutta la cultura maschile è protesa verso la penetrazione, sia la scienza, la politica, sia la guerra ecc. – viene fuori una sessualità maschile ricettiva. Infine vorrei dire un’ultima cosa. Quando trent’anni fa iniziai a fare i corsi di shatzu, il mio primo insegnante disse: “Nel massaggio, attenti a non schiacciare il punto … che è a quattro dita sul malleolo, perché provoca l’aborto spontaneo”. “Ma come – domandai – c’è tutto questo dibattito sull’aborto, perché non lo dice in giro?” “No, assolutamente, la vita è sacra, guai a parlarne, voi state solo attenti a non fare pressione su questo punto”. Lo dissi alle amiche femministe, non la presero in considerazione. Allora, mi sono detto tra me e me: siccome c’è stata la globalizzazione anche dei saperi, questo rientra nell’autogestione del proprio corpo sia maschile che femminile, sia come conoscenza, in particolare tramite i massaggi, sia come la grande… non dico alternativa a una sessualità tradizionale, ma come pratica di benessere verso il proprio corpo. Non solo, tutte queste pratiche, considerate ancora delle vecchie streghe, ma molte ancora attuali, tra cui quello del punto di agopuntura, secondo me vanno discusse.

Luisa Muraro: Ci sono altri interventi? Credo che possiamo salutarci qui. Vi ringrazio, penso e spero che qualcosa seguirà di lavoro, di impegno, anche di orientamento mentale, di voglia di parlare e di comunicare qualche idea, in maniera che usciamo da cose reattive e andiamo verso un’elaborazione nei termini più attuali. Come ha detto Lilli, qui sono venute fuori parecchie cose interessanti e su cui vale la pena di continuare a riflettere. Grazie.