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di Franca Fortunato


L’iraniana Narges Mohammadi, Premio Nobel per la pace 2023, attivista per i diritti umani e contro la pena di morte e la tortura, in occasione della 79esima Assemblea generale dell’Onu in corso a New York, ha fatto pervenire al segretario generale Guterres e a tutti i membri dell’Assemblea un appello dal carcere di Evin (Teheran) dove sta scontando una condanna a dodici anni e undici mesi. «Sono trascorsi due anni dalla nascita del movimento “Donna Vita Libertà” – scrive – che ha attraversato tutto l’Iran […]. Il prezzo pagato per aver aderito a questa sollevazione collettiva e per aver mostrato solidarietà al popolo unito […] è stata una repressione che continua ancora oggi. Il mondo è testimone di uccisioni, esecuzioni, incarcerazioni e di una violenta e spietata repressione delle donne nelle strade, nei centri di detenzione e nelle prigioni. In questi giorni […] assistiamo alle sentenze di condanna a morte emessa dal regime contro donne attiviste come Pakhshan Aziz e Sharifeh Mohammadi», a tutti chiede di «agire con urgenza e determinazione […] per fermare le selvagge esecuzioni di massa dei prigionieri, liberare tutti i prigionieri politici e fermare la repressione delle donne e di tutte le istituzioni civili». I muri della prigione non hanno mai impedito a Narges Mohammadi di far sentire la sua voce. Oggi è in carcere anche per aver scritto un libro, Più ci chiudono più diventiamo forti. Voci di donne iraniane in lotta per la libertà, da poco tradotto in italiano e pubblicato da Mondadori. Il libro, per cui è stata accusata «di aver infangato il nome dell’Iran in tutto il mondo», raccoglie interviste a dodici detenute, sue “compagne” di prigione. Dodici detenute che raccontano, documentano, discutono con lei sulle condizioni disumane del carcere, e in particolare su una forma specifica di tortura, la “tortura bianca”, usata in tutte le carceri iraniane e anche contro di loro: la detenzione in isolamento con deprivazione sensoriale portata alle estreme conseguenze. Quello che viene fuori dai loro racconti sono storie dolorose di donne che solidarizzano tra loro, non si piegano al carnefice, alla repressione, alle botte, agli insulti, alle minacce e intimidazioni ma restano fedeli a se stesse e ai loro ideali politici e religiosi per cui sono in carcere. «A tenermi in piedi – scrive Narges in un appello consegnato in carcere alla madre Ozza Bazargan – in questa prigione, mentre il mio corpo è ferito e contuso, sono l’amore per il popolo onesto ma tormentato di questo paese e i miei ideali di giustizia e libertà». Donne che fanno scioperi della fame per protestare per le loro condizioni carcerarie o per “commemorare” i morti della repressione seguita alle manifestazioni per la morte di Mahsa Amini e «dimostrare vicinanza alle famiglie». Per punirla le viene negata la possibilità di parlare al telefono con la figlia Kiana e il figlio Ali, che vivono in Francia col padre Tahi Rahmani, giornalista progressista che ha lasciato l’Iran dopo essere stato arrestato e incarcerato per un totale di quattordici anni. Narges Mohammadi è una giovane donna, nata il 21 aprile 1972, laureata in fisica, e sin dall’università si batteva per i diritti umani e la giustizia sociale. Durante quegli anni – come racconta nel libro – ha subito i primi due arresti e da allora è stato un entrare e uscire dal carcere «per aver agito contro la sicurezza nazionale, per l’appartenenza al Centro dei difensori dei diritti umani, per propaganda contro il regime». Ma lei è una donna indomita. «Non smetterò mai di lottare affinché i diritti umani e la giustizia trionfino nel mio paese». Per quella lotta lei è in carcere e continuerà a fare sentire al mondo la sua voce.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io Donna”, 28 settembre 2024)