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di Alessia Dulbecco*


Una ragazza cammina, da sola, per le strade di New York. È pieno giorno e indossa una t-shirt e un paio di leggings neri, delle scarpe da ginnastica, sulle spalle uno zainetto. Le immagini, che proietto quando entro in classe per fare formazione, sono tratte da un filmato che dura circa un paio di minuti. Quando chiedo all’aula cosa potrebbe accadere dopo i primi fotogrammi, le persone di genere femminile indovinano al primo colpo. La clip contiene la sintesi di dieci ore di cat-calling, cioè continue molestie, abusi e commenti non richiesti, subiti dalla protagonista, Shoshana B. Roberts, per il solo fatto di camminare da sola in città, e fanno parte di una campagna lanciata nel 2014 dall’organizzazione Hollaback per portare attenzione nei confronti di questa particolare forma di violenza. Anche se non ha mai visto il video, la stragrande maggioranza delle persone di genere femminile che incontro sa rispondere alla mia domanda.

Una donna che cammina da sola sembra costituire un’anomalia del sistema. I recenti, tragici, fatti di cronaca, lo confermano: nei trenta giorni che sono trascorsi dall’omicidio di Sharon Verzeni – la barista di Terno d’Isola uccisa a coltellate mentre passeggiava, di notte, vicino alla propria abitazione – al fermo dell’assassino Moussa Sangare, abbiamo ascoltato vicini di casa e giornalisti commentare l’abitudine della giovane di uscire di casa a tarda sera. Secondo i dati sul rapporto Istat sul “Benessere Equo e Sostenibile” (Bes) del 2022, in Italia una donna su due ha paura a uscire da sola di sera. Al contrario, gli uomini che percepiscono la strada come un luogo tutto sommato sicuro sono circa il 70% (percentuale che supera il 78% se si prende in considerazione la popolazione maschile tra i 20 e i 24 anni).

Il fatto che la sensazione di pericolo aumenti dopo il tramonto non significa che durante le altre ore del giorno scompaia: ogni donna sa che, a prescindere da ciò che indossa, dall’accurata scelta del tragitto e dei mezzi di locomozione per evitare strade o individui poco raccomandabili, il rischio di incorrere in commenti, sguardi e tentativi di approccio non richiesti è sempre presente, così come il timore che queste affermazioni si trasformino in veri e proprio agiti. In seguito al video del 2014 si sono moltiplicate le iniziative volte a portare attenzione sul fenomeno. Sempre a New York, nel 2017, Sophie Sandberg ha raccolto centinaia di molestie subite dalle sue follower di Instagram, le ha trascritte con gessetti colorati proprio in quelle strade in cui sono avvenute per poi fotografarle e postarle sul social, dando vita al profilo “Catcalls of New York”. Molte altre ragazze l’hanno seguita facendo lo stesso nella propria città e mostrando così come nessun luogo – non importa quanto ricco, quando rispettabile, quanto turistico o centrale – sia sicuro per una donna.

Secondo Leslie Kern, autrice de La città femminista, «i luoghi fisici come le città contano quando vogliamo pensare al cambiamento sociale». Ogni spazio, infatti, è plasmato dalle relazioni di potere che si manifestano nei rapporti sociali, nelle diseguaglianze, nelle discriminazioni che si reiterano nelle strade, nei locali, tra le panchine di un parco o dentro i vagoni di una tramvia. I contorni assunti da qualsiasi spazio urbano fanno sì che «alcune cose continuino a sembrare normali e giuste, mentre altre “fuori luogo” e sbagliate». Utilizzare le lenti proprie della geografia femminista, allora, consente, da una parte, di vedere «il modo in cui la discriminazione di genere si collega ad altre diseguaglianze sociali e il ruolo che lo spazio ha svolto nei sistemi di oppressione» e, dall’altra, di tentare nuove soluzioni urbanistiche per dare vita al cambiamento.

Dentro la città, i corpi delle donne sono concepiti come elementi da monitorare. Fin dai tempi antichi, strade e piazze sono i luoghi dove gli uomini intessono scambi commerciali ed economici, stipulano alleanze e definiscono rapporti di potere. Alle donne è consentito attraversarli per svolgere le mansioni quotidiane, ma non sostarvi liberamente. Non è un caso che i centri commerciali nascano, sul finire del XIX secolo, proprio come un vero e proprio spazio “di genere”, in cui le donne potevano essere accompagnate per trascorrere qualche ora dedicandosi ad acquistare oggetti per se stesse o per abbellire la casa. Oggi come un tempo, i grandi magazzini sono luoghi vasti ma recintati, a cui si accede in assoluta sicurezza perché sorvegliati da personale in divisa. Il filosofo francese Michel Focault li descriverebbe come “eterotopie”, cioè luoghi altri, soggetti a dispositivi di controllo e precise regole che ne determinano le relazioni che si svolgono all’interno.

È sempre Kern a ricordarci come oggi, complice il capitalismo, stiano sorgendo sempre più “luoghi terzi”, spazi informali pensati per le donne e le loro esigenze, luoghi che si dichiarano “friendly” e ben disposti ad accogliere altre soggettività marginali, anche loro a rischio di incorrere in soprusi e violenze fuori da ambienti considerati protetti. La geografa sottolinea però come queste novità non siano di per sé delle soluzioni. Da una parte perché la riorganizzazione degli spazi non garantisce a prescindere l’opportunità, per chiunque, di accedervi. I luoghi conquistati dalle donne e dalle persone LGBTQIA+ rischiano comunque di lasciare indietro minoranze etniche e poveri, schiacciati e spinti ancora più lontano dalla gentrificazione che muta il volto di ogni città medio-grande, facendoli sentire presenze indesiderate. Per trovare una soluzione, allora, e lasciare per un attimo l’ambiente chiuso – case, grandi magazzini, bar a misura di mamme con bambini e coworking in salsa diversity&inclusion – e tornare alla strada, cercando di capire cosa possiamo fare per riprendercela.

Nel suo Storia del camminare, Rebecca Solnit sottolinea come «la stessa parola strada (street) ha in sé una magicità sordida, perché assomma il basso, il banale, l’erotico, il pericoloso, il sovversivo». Sovversiva è, in effetti, non solo la presenza delle donne lungo le strade ma anche l’azione del camminare.

A lungo si è creduto che le donne non fossero portate a stare in movimento. Tra i sostenitori di questa ipotesi vi era l’anatomista Owen Lovejoy che, nel 1981, ha firmato un articolo scientifico intitolato The origin of men in cui tentava di dimostrare come il bipedismo rientrasse in un nuovo schema riproduttivo che consentiva al maschio ottenere maggiore successo nell’accoppiamento. Sollevandosi sulle zampe posteriori, i nostri antenati avrebbero non solo cambiato andatura ma cominciato a impostare l’ideale della famiglia patriarcale, in cui il maschio procaccia il cibo e lo porta alla femmina (grazie alla possibilità di trattenerlo tra gli arti superiori, non più impegnati nello spostamento) che può quindi stare in uno spazio protetto, portare avanti le gravidanze in sicurezza o sorvegliare la prole garantendone la sopravvivenza. Nonostante la teoria di Lovejoy sia stata ampiamente criticata e superata, qualcosa del suo ragionamento permane ogni volta che qualcuno ci ricorda che il posto più sicuro, per noi donne, è la cucina. I presunti benefici che ottenevano le nostre antenate – sfamarsi senza rischiare la pelle – erano funzionali a garantirne altrettanti alla controparte, in particolare il controllo sessuale, la garanzia che gli unici geni trasmessi attraverso la riproduzione fossero i loro.

Il controllo sulla sessualità è, ancora oggi, quello che impedisce alle donne di attraversare liberamente le strade. Tornando al femminicidio di Sharon Verzeni, non è un caso che i primi articoli si siano concentrati sul fatto che la giovane uscisse non per fare sport ma per incontrare qualcuno. Se il flâneur – il libertino che si perde volontariamente nella sua stessa città, resa irriconoscibile dai mutamenti del XIX secolo – è un uomo che cammina per pensare ed elaborare teorie su ciò che vede, spostandosi da un angolo all’altro della metropoli, la flâneuse è una donna pubblica, sulla cui sessualità bisogna agire un controllo coatto.

E il controllo è proprio ciò che subisce Caroline Wyburgh, colpevole, nel 1870, di essere uscita per una passeggiata con un marinaio inglese. Qualche ora dopo il suo rientro a casa, fu trascinata fuori dal letto, fatta arrestare dall’ispettore della polizia e obbligata a un’ispezione corporale con cui accertarne la verginità. Raccontandone la storia, Solnit sottolinea come «il solo fatto di passeggiare all’ora o nel posto sbagliato poteva rendere una donna equivoca e la legge permetteva di arrestarla sulla base di un’accusa specifica o di un semplice sospetto».

La vicenda di Wyburgh è triste e violenta:

Al quinto giorno, accettò di essere esaminata, ma la sua disponibilità venne meno quando, dopo essere stata portata nell’ambulatorio in camicia di forza, venne gettata sul lettino con le gambe divaricate e legate, e tenuta distesa a forza da un assistente che le piantò un gomito sul petto. Lottò e, rotolando giù dal lettino con le caviglie ancora assicurate dalle cinghie, si ferì malamente. Ma l’ufficiale medico rise, perché gli strumenti di ispezione l’avevano deflorata e il sangue le scorreva tra le gambe. «Dicevi la verità» fu il suo commento. «Non sei una cattiva ragazza».

Le ispezioni corporali, oggi, hanno lasciato il campo ai processi e alle accuse che si ascoltano ogni volta che una donna denuncia (o viene ritrovata morta) per il semplice fatto di aver attraversato una strada o un parco per fare due passi o una sessione di jogging occupando cioè uno spazio che avrebbe, almeno sulla carta, diritto a vivere.

Cercando su internet articoli o post che dovrebbero convincermi a comprare un tapis roulant per replicare, dentro una stanza, quello che potrei fare, gratuitamente, tra le vie del mio quartiere, il tema della sicurezza è sempre al primo posto. Prima ancora della garanzia di potersi allenare sempre, a prescindere dalle condizioni atmosferiche, chi scrive sottolinea l’importanza di fare movimento senza rischi per la propria incolumità. Sarà un caso, ma le immagini a corredo dei contenuti in cui mi imbatto ritraggono giovani donne felici, sole, mentre corrono sul nastro e guardano dalla finestra di un set allestito per l’occasione.

Non è un caso che il treadmill nasca proprio con l’obiettivo di controllare il corpo e la mente di alcuni soggetti. A partire da metà Ottocento, faceva bella mostra di sé in molti istituti penitenziari d’America. Si trattava ovviamente di un apparecchio rudimentale, diverso da quello a cui siamo abituati oggi, costituito da una struttura cilindrica di ferro, cava, su cui erano posizionati dei pioli a intervalli regolari. Tenendosi ai corrimano laterali, i carcerati salivano sui pioli e il loro peso faceva ruotare il cilindro che li costringeva quindi a muoversi ininterrottamente. Si trattava al contempo di una punizione per espirare la condanna e di un modo per ricavare energia dal movimento coatto dei detenuti.

Oggi, per molte donne, i tapis roulant mantengono questa duplice funzione che è al contempo di controllo sui corpi e di liberazione da molestie, denigrazioni e tentativi di approccio subiti ogni volta che si attraversa uno spazio pubblico. La libertà che sembra concedere è, tuttavia, illusoria.

Occupare spazio significa mettere in discussione le attuali relazioni di potere tra i generi. Rafforzare la dicotomia tra luoghi domestici sicuri e luoghi esterni pericolosi è fuorviante, se pensiamo che la maggior parte delle violenze di genere avviene proprio dentro le mura di casa, per mano di chi ci conosce. Abbiamo bisogno di entrare dentro ogni luogo interrogandoci, afferma Kern, «su come si evitino le norme di genere»: un’azione impossibile se non portiamo il nostro corpo nel mondo. Negli anni Settanta, le attiviste femministe americane avevano coniato lo slogan “take back the night” che urlavano marciando insieme per le strade, cercando di portare attenzione intorno al fenomeno delle violenze subite dentro e fuori gli ambienti familiari. Camminare continua ad essere un atto sovversivo, mai come oggi necessario.


(*) Alessia Dulbecco, pedagogista, formatrice e counselor, lavora e scrive sui temi della violenza intrafamiliare e sugli stereotipi di genere, realizzando interventi formativi su queste tematiche per enti, associazioni e cooperative. Ha collaborato con numerosi Centri Antiviolenza. Nel 2023 ha pubblicato “Si è sempre fatto così: spunti di pedagogia di genere”, edizioni Tlon.


(indiscreto.org, 4 settembre 2024, pubblicato con il titolo “È difficile camminare, se sei una donna”)