Nel tempo sospeso della guerra, lo sguardo delle donne
Cristina Piccino
3 Settembre 2024
di Cristina Piccino
Seconda guerra mondiale. Il rumore delle armi risuona nel rombo dell’aereo che i bambini chiamano Pippo, nel vuoto degli uomini partiti al fronte, fra le lettere che non arrivano e nel ritorno di chi è scappato per non farsi ammazzare dai tedeschi come quei due soldati, uno del paese e l’altro suo amico siciliano che lo ha salvato, che vivono nascosti. Gli uomini più anziani li criticano e gli danno dei vigliacchi ma la guerra la vivono da lontano. Si sa tutto di tutti a Vermiglio, paesino di contadini al confine dell’Italia, sulle Alpi retiche dove il dialetto è più parlato dell’italiano, la lingua che si studia a scuola, e che il maestro insegna in una classe unica ai ragazzi e ai bambini e la sera agli adulti che non sanno né leggere né scrivere. Vermiglio è anche il titolo dell’opera seconda di Maura Delpero, bolzanina, che racconta di essersi ispirata ai luoghi della sua infanzia e alla figura del padre che non c’è più per il personaggio di questo maestro ma anche patriarca – Tommaso Ragno – per il quale la cultura, l’amore per i libri, e per Chopin al punto da comprare dischi quando la moglie fa fatica a trovare il cibo, non si traduce in altrettanta vicinanza umana alla sua famiglia, a quei figli che ha messo al mondo numerosi. Sono dieci, due morti piccoli ma mentre morivano la moglie che sembra una donna anziana ne aveva in pancia un altro e di ciascuno è sempre lui a decidere il destino: se rimanere contadini al paese, sposarsi, lavorare o studiare, quest’ultimo un lusso permesso a una sola, perché si deve eccellere e i sogni non bastano.
A partire da qui Delpero costruisce la sua narrazione modulata su quattro stagioni, dalla festa di Santa Lucia all’estate, con un riferimento abbastanza esplicito all’Albero degli zoccoli di Olmi, “citato” nell’ambientazione, nella texture dei dettagli, nelle luci, in quel dialetto parlato dai personaggi, nel lavoro con interpreti non professionisti. Per il regista bergamasco però i contadini e il loro universo erano il mondo da esplorare mentre qui rimangono sullo sfondo. Non è la loro voce e storia in un momento di passaggio e sofferenza che la regista cerca, al centro c’è piuttosto la donna in diverse età nel confronto con un patriarcato che la soffoca con le sue leggi, e in una idea di maternità salvifica che era già nel precedente Maternal, di cui riprende anche la figura della suora che bada ai bambini.
Così Lucia, la maggiore, si innamora di quel soldato che parla una lingua diversa dalla sua – e non sa leggere e scrivere ma le disegna cuori e nella sua inconsapevolezza diventa l’eroe. Si sposano, lei è già incinta, la figlia nasce insieme all’ultimo fratello della ragazza ma lui non c’è già più, a “salvarla” rimane la bambina, e da lei Lucia troverà la forza di andare in città a servizio – come un personaggio di Pietrangeli nell’Italia non ancora in pieno boom (Il sole negli occhi). Ada che si tormenta perché ha scoperto la sessualità vuole studiare ma il padre la lascia a casa, mentre Flavia stupefatta dal sangue nelle mutande – perché alle povere donne appunto nulla è detto del loro corpo in quel mondo – continuerà gli studi in collegio a Trento e magari si salverà in un’altra Italia a venire. Chissà.
Parliamo di donne: basta davvero l’intenzione di una “storia”? O forse è invece soprattutto una questione di sguardo che nella programmaticità di questo film non apre spiragli né entra in profondità, che non ama i bordi per porsi invece in una posizione netta. Ogni passaggio sta lì come sappiamo lo vedremo, il cappio del peccato, la negazione del desiderio, masturbarsi e pentimento e il padre severo che nel cassetto segreto conserva donne nude, e viene chiedersi se nonostante tutti quei figli abbiano mai davvero avuto un istante di piacere con la madre. E quell’Italia divisa come è ancora, il nord estremo e il sud che sembra in quel paese quasi l’Africa, la Sicilia di mandarini e donne vestite tutte di nero che i ragazzini guardano sulla carta geografica del sussidiario paterno. Ma anche queste rimangono piste interrotte che la regista mette in ordine e deposita per rispondere alle intenzioni di una scrittura, di un progetto, di una dimensione “maternale” (sui titoli di coda c’è il pianto di un neonato) che diviene una resistenza fra gesti segretissimi di ribellione e sguardi di bambine – la cosa migliore del film – capaci di mettere sottosopra la visione del mondo. Peccato trascurarli.